Biblioteca Multimediale Marxista
Ringraziamo il sito Archivio Internet dei Marxisti (MIA) per aver messo a disposizione dei nostri lettori il seguente testo:
    
  
Estratto dall'Anti-Dühring e preparato da Engels tra il gennaio e il marzo 1880. Pubblicato per la prima volta in francese ne La Revue socialiste nn. 3, 4 e 5 del 20 aprile e del 5 maggio 1880. Traduzione conforme a quella delle Edizioni in lingue estere di Mosca. Le note di Engels sono state contrassegnate con l'*. Con solo il numero le note di corredo non degli autori.
 
    Prefazione alla prima edizione tedesca del 1882
    Compongono il presente scritto tre capitoli del mio lavoro Il rovesciamento 
    della scienza del signor Eugen Dühring1, Lipsia,1878. Su richiesta del 
    mio amico Paul Lafargue2 io li avevo raccolti a suo tempo per una traduzione 
    in francese, dopo averli qua e là più o meno ampiamente sviluppati. 
    La traduzione francese, da me riveduta, apparve dapprima nella Revue socialiste, 
    e quindi in opuscolo a parte, sotto il titolo di Socialisme utopique et socialisme 
    scientifique, Parigi, 1880. Poco fa è apparsa a Ginevra una nuova versione, 
    in polacco, fatta sulla base della francese e recante il titolo: Socyjalizm 
    utopijny a naukowy, Imprimerie de l'Autore, Ginevra, 1882.
    Il sorprendente successo della traduzione di Lafargue in paesi di lingua francese 
    e specialmente in Francia mi spinse a pormi il problema se per caso non dovesse 
    riuscire altrettanto utile un'analoga edizione separata di questi tre capitoli 
    in tedesco. Accadde allora che la redazione del Sozialdemokrat3 di Zurigo 
    mi avvertì che in seno al Partito socialdemocratico tedesco tutti reclamavano 
    l'edizione di nuovi opuscoli di propaganda, e mi chiese se ero disposto a 
    destinare a tal uopo quei tre capitoli. Naturalmente detti il mio consenso 
    e posi senz'altro a disposizione il mio lavoro.
    Ma esso non era stato scritto in origine per la propaganda immediata fra il 
    popolo. Come poteva convenire a tale scopo un lavoro ispirato anzitutto a 
    puri intendimenti scientifici? Quali cambiamenti nella forma e nel contenuto 
    erano necessari?
    Quanto alla forma, potevano destar preoccupazione soltanto le numerose parole 
    straniere. Ma già Lassalle4, nei suoi discorsi e nei suoi opuscoli 
    di propaganda, ne era tutt'altro che parco, e nessuno se ne è mai rammaricato, 
    per quanto io sappia. Da quel tempo i nostri operai si sono esercitati a leggere 
    più copiosamente e più metodicamente i giornali e si sono quindi 
    nella stessa misura più familiarizzati con le parole straniere. Perciò 
    mi sono limitato a eliminare dal mio scritto tutte le parole straniere inutili, 
    e quanto alle rimanenti, che mi è stato impossibile evitare, ho rinunziato 
    ad apporvi le cosiddette traduzioni esplicative. Infatti le parole straniere 
    inevitabili, segnatamente le espressioni scientifiche e tecniche, universalmente 
    accettate, non sarebbero inevitabili se fossero traducibili. La traduzione 
    ne falsa quindi il significato, e in luogo di chiarirlo, lo rende oscuro. 
    In tali casi riesce di gran lunga più proficuo un chiarimento orale.
    Quanto al contenuto invece, credo di poter affermare che presenterà 
    poche difficoltà per gli operai tedeschi. Difficile è soltanto 
    la terza parte del mio lavoro, ma assai meno per gli operai, di cui essa compendia 
    le condizioni generali di esistenza, che per i borghesi "colti". 
    Nelle numerose aggiunte esplicative ho pensato meno agli operai che ai lettori 
    "colti", gente come l'onorevole deputato von Eynern5, il signor 
    consigliere segreto Heinrich von Sybel e altri Treitschke6, dominati dalla 
    irresistibile smania di tornar sempre a dar prova, nero sul bianco, della 
    loro atroce ignoranza, e quindi della loro colossale incomprensione del socialismo. 
    Se Don Chisciotte giostra contro i mulini a vento, questo è il suo 
    ufficio e il suo compito, ma a Sancio Pancia non possiamo concedere questo 
    diritto.
    Siffatti lettori si meraviglieranno altresì d'imbattersi, in uno schizzo 
    dell'evoluzione storica del "socialismo, nella cosmogonia di Kant-Laplace, 
    nelle moderne scienze naturali, in Darwin, nonché nella filosofia classica 
    tedesca e in Hegel. Ma il socialismo scientifico è un prodotto essenzialmente 
    tedesco e poteva solo nascere in quella nazione la cui filosofia classica 
    aveva saputo tenere in vita la tradizione della dialettica cosciente: la Germania*1. 
    La concezione materialistica della storia e la sua specifica applicazione 
    alla moderna lotta di classe tra proletariato e borghesia erano infatti possibili 
    solo mediante la dialettica. E se i maestri di scuola della borghesia tedesca 
    hanno sommerso nella palude sconsolata dell'eclettismo la memoria dei grandi 
    filosofi tedeschi e della dialettica da essi affermata, tanto che siamo costretti 
    a invocare le scienze naturali moderne come testimoni del fatto che la dialettica 
    esiste nella realtà, - noi socialisti tedeschi siamo orgogliosi di 
    non discendere soltanto da Saint-Simon7, da Fourier8 e da Owen9, ma anche 
    da Kant10, da Fichte11 e da Hegel12.
Friedrich Engels
Londra, 21 settembre 1882
    
    Prefazione alla quarta edizione tedesca del 1891
    La mia previsione che il contenuto del presente lavoro non avrebbe presentato 
    serie difficoltà per gli operai tedeschi è stata confermata. 
    Dal marzo 1883, data della prima edizione, sono state smerciate almeno tre 
    edizioni, 10.000 esemplari in tutto, e ciò sotto l'impero delle ormai 
    defunte leggi antisocialiste, il che fornisce un nuovo esempio dell'impotenza 
    delle misure poliziesche contro un movimento pari a quello del proletario 
    moderno.
    Dopo la prima edizione sono ancora apparse diverse traduzioni in lingue straniere, 
    una italiana di Pasquale Martignetti: Il socialismo utopistico ed il socialismo 
    scientifico, Benevento, 1883; una in russo: Razvitie naucnavo sozialisma, 
    Ginevra, 1884; una in danese Socialismens Udvikling fra Utopi til Videnskab, 
    in Socialisk Bibliotek, I Bind Copenaghen, 1885; una in spagnolo: Socialismo 
    utòpico y socialismo cientìfico, Madrid, 1886; e una in olandese: 
    De Ontwikkeling van het Socialisme van Utopie tot Wetenschap, L'Aja, 1886.
    Questa nuova edizione tedesca contiene alcune modificazioni di poca importanza. 
    Delle aggiunte più importanti sono state fatte solo in due punti: nel 
    primo capitolo su Saint-Simon, che scapitava alquanto rispetto a Fourier e 
    ad Owen, e alla fine del terzo circa la nuova forma di produzione dei "trust", 
    divenuta nel frattempo così importante.
    Friedrich Engels 
    Londra, 12 maggio 1891
 
    Prefazione all'edizione inglese del 1892 
    Questo opuscolo faceva parte originariamente di un'opera di maggior mole. 
    Verso il 1875 il dottor Eugen Dühring13, libero docente all'Università 
    di Berlino, annunciò improvvisamente e in modo alquanto rumoroso la 
    sua conversione al socialismo, e presentò al pubblico tedesco non soltanto 
    una teoria socialista completa, ma anche tutto un piano pratico di riorganizzazione 
    della società. Naturalmente si lanciò coi pugni stretti contro 
    i suoi predecessori e soprattutto contro Marx, che onorò di un'ondata 
    di attacchi furiosi.
    Questo avveniva nel periodo in cui le due frazioni del Partito socialista 
    tedesco - gli eisenacchiani14 e i lassalliani15 - avevano appena realizzato 
    la loro fusione16, conseguendo in tal modo non soltanto un immenso aumento 
    delle loro forze, ma anche, ciò che è più importante, 
    la capacità di dirigere tutte queste forze contro il nemico comune. 
    Il Partito socialista era in Germania sulla via di diventare rapidamente una 
    grande forza. Ma, per diventare una grande forza, la prima condizione era 
    che l'unità appena realizzata non fosse compromessa; e il dottor Dühring 
    incominciò invece apertamente a raggruppare attorno a sé una 
    setta, il nocciolo di un futuro nuovo partito. Era dunque necessario raccogliere 
    il guanto che ci veniva gettato e intraprendere ad ogni costo la lotta, lo 
    volessimo o non lo volessimo.
    La cosa non era straordinariamente difficile, ma evidentemente di lunga durata. 
    Noi altri tedeschi, come tutti sanno, possediamo una Gründlichkeit17 
    terribilmente pesante, profondamente radicale o radicalmente profonda, come 
    vi piacerà di chiamarla. Ogni volta che uno di noi espone qualche cosa 
    ch'egli pensa essere una nuova teoria, sente subito il bisogno di elaborarla 
    in un sistema che abbracci tutto l'universo. Egli deve dimostrare che i primi 
    princìpi della logica e le leggi fondamentali dell'universo non sono 
    esistiti per tutta l'eternità che all'unico scopo di condurre in ultima 
    analisi lo spirito umano a questa teoria ora scoperta, che corona tutto. Sotto 
    questo rapporto il dottor Dühring era all'altezza del genio nazionale. 
    Niente meno che un completo Sistema di filosofia, di filosofia dello spirito, 
    della morale, della natura e della storia, un completo Sistema dell'economia 
    politica e del socialismo, e infine una Critica storica dell'economia politica, 
    - tre grossi volumi in ottavo grevi come peso e come contenuto, tre corpi 
    d'armata d'argomenti mobilitati contro tutti i filosofi e gli economisti anteriori 
    in generale, e contro Marx in particolare; in realtà, un tentativo 
    di totale "sovvertimento della scienza": ecco con che cosa dovevo 
    misurarmi! Dovevo trattare di tutto: dalla concezione del tempo e dello spazio 
    al bimetallismo18, dall'eternità della materia e del movimento alla 
    caducità delle idee morali, dalla selezione naturale di Darwin19 all'educazione 
    della gioventù in una società futura. Ad ogni modo il sistema 
    universale del mio avversario mi offriva l'occasione di sviluppare, in polemica 
    contro di lui e in forma più sistematica di quanto non si fosse fatto 
    prima, le opinioni che Marx ed io avevamo su questa grande varietà 
    di soggetti. Fu questa la ragione principale che mi trascinò ad accingermi 
    a questo compito, d'altronde così ingrato.
    La mia risposta, pubblicata dapprima in una serie di articoli sul Vorwärts 
    20 di Lipsia, organo centrale del Partito socialista, fu poi raccolta in un 
    volume col titolo: La scienza sovvertita dal signor Eugen Dühring. Una 
    seconda edizione apparve a Zurigo nel 1886.
    Su richiesta del mio amico Paul Lafargue, attuale deputato di Lilla alla Camera 
    dei deputati francese, rimaneggiai tre capitoli di questo libro per farne 
    il contenuto di un opuscolo ch'egli tradusse in francese e pubblicò 
    nel 1880 col titolo Socialisme utopique et socialisme scientifique. Sulla 
    scorta del testo francese vennero preparate delle edizioni in polacco e in 
    spagnolo. Nel 1882 i nostri amici tedeschi pubblicarono l'opuscolo nella lingua 
    in cui era stato scritto originariamente. Indi apparvero, sulla base del testo 
    tedesco, le traduzioni italiana, russa, danese, olandese e rumena. Questa 
    edizione inglese porta quindi a dieci il numero delle lingue in cui questo 
    breve scritto è stato diffuso. Per quanto io so, nessun altro scritto 
    socialista, non escluso il nostro Manifesto comunista del 1848 o Il Capitale 
    di Marx, ha avuto tante traduzioni. In Germania l'opuscolo ha avuto quattro 
    edizioni, con una tiratura complessiva di circa 20.000 copie.
    L'appendice La Marca21 fu scritta allo scopo di diffondere nel Partito socialista 
    tedesco alcune nozioni elementari circa la storia e lo sviluppo della proprietà 
    fondiaria in Germania. La cosa sembrava allora tanto più necessaria 
    in un momento in cui l'assimilazione da parte di questo partito degli operai 
    della città era oramai quasi completa, ed era necessario conquistare 
    gli operai agricoli e i contadini. Questa appendice è stata inclusa 
    nella traduzione, perché le forme primitive di agricoltura, comuni 
    a tutte le tribù teutoniche, e la storia della loro decadenza, sono 
    ancora meno conosciute in Inghilterra che in Germania. Ho lasciato il testo 
    nella sua forma originaria, senza fare allusione all'ipotesi avanzata recentemente 
    da Maksim Kovalevskij22, secondo la quale la ripartizione delle terre arate 
    e dei prati tra i membri della Marca venne preceduta dalla loro coltivazione 
    in comune da parte di un'ampia comunità familiare patriarcale, comprendente 
    diverse generazioni (può servire di esempio la Zadruga degli slavi 
    del Sud, tuttora esistente), e si produsse soltanto quando questa comunità 
    fu talmente cresciuta che non si adattava più a una lavorazione collettiva. 
    È probabile che Kovalevskij abbia pienamente ragione, ma il problema 
    è ancora sub judice. La terminologia economica usata in questo libro 
    nella misura in cui è nuova corrisponde a quella usata nell'edizione 
    inglese del Capitale di Marx. Indichiamo col termine di "produzione di 
    merci" quella fase economica in cui gli oggetti vengono prodotti non 
    solo per l'uso del produttore, ma anche per scambiarli, cioè come merci, 
    non come valori di uso. Questa fase si estende dagli inizi della produzione 
    per lo scambio fino ai giorni nostri. Essa raggiunge il suo pieno sviluppo 
    solo sotto la produzione capitalistica, cioè nelle condizioni in cui 
    il capitalista, il proprietario dei mezzi di produzione, occupa, per un salario, 
    degli operai che sono privi di ogni mezzo di produzione eccettuata la loro 
    propria forza-lavoro, e intasca la somma di cui il prezzo di vendita dei prodotti 
    eccede le sue spese. Dividiamo la storia della produzione industriale a partire 
    dal Medioevo in tre periodi.
    1. Artigianato, piccoli capi artigiani con pochi garzoni e apprendisti. Ogni 
    operaio elabora il prodotto completamente;
    2. Manifattura, in cui un gran numero di operai, riuniti in un grande opificio, 
    elaborano il prodotto secondo i princìpi della divisione del lavoro, 
    facendo ogni operaio solo una operazione parziale, cosicché il prodotto 
    è terminato solo dopo esser passato attraverso le mani di tutti;
    3. Industria moderna, in cui il prodotto viene elaborato dalla macchina messa 
    in movimento da una forza, e il compito dell'operaio si riduce alla sorveglianza 
    e alla correzione dell'azione del meccanismo.
    Mi rendo perfettamente conto che il contenuto di questo opuscolo urterà 
    una parte considerevole del pubblico inglese. Ma se noi continentali avessimo 
    accordato la minima attenzione ai pregiudizi della "rispettabilità" 
    britannica, cioè del filisteismo23 inglese, ci troveremmo in una posizione 
    assai peggiore di quella in cui già ci troviamo. Questo opuscolo difende 
    quello che noi chiamiamo il "materialismo storico", e la parola 
    materialismo ferisce gli orecchi della immensa maggioranza dei lettori inglesi. 
    "Agnosticismo"24 potrebbe ancora passare, ma materialismo è 
    assolutamente inammissibile!
    Eppure la culla di tutto il materialismo moderno, a partire dal secolo XVIII, 
    fu l'Inghilterra e nessun altro paese.
    "Il materialismo è il figlio naturale della Gran Bretagna. Già 
    il suo scolastico Duns Scoto25 si chiedeva se la materia non potesse pensare.
    "Per compiere questo miracolo egli ricorse all'onnipotenza di Dio, cioè 
    costrinse la stessa teologia a predicare il materialismo. Egli era, inoltre, 
    nominalista. Il nominalismo26 si trova come un elemento centrale nei materialisti 
    inglesi; esso è in generale la prima espressione del materialismo.
    "Il vero progenitore del materialismo inglese e di tutta la scienza sperimentale 
    moderna è Bacone27. La scienza della natura costituisce per lui la 
    vera scienza, e la fisica sensibile la parte principale della scienza della 
    natura. Anassagora28 con le sue omeomerie29 e Democrito30 con i suoi atomi 
    sono spesso le sue autorità. Secondo la sua dottrina, i sensi sono 
    infallibili e sono la fonte di tutte le conoscenze. La scienza è scienza 
    dell'esperienza e consiste nell'applicare un metodo razionale al dato sensibile. 
    Induzione, analisi, comparazione, osservazione, sperimentazione, sono le condizioni 
    principali di un metodo razionale. Fra le proprietà naturali della 
    materia, il movimento è la prima e la principale, non solo come movimento 
    meccanico e matematico, ma ancor più come impulso, spirito vitale, 
    tensione, come - per usare l'espressione di Jakob Böhme31 - tormento 
    [Qual *2] della materia. Le forme primitive di quest'ultima sono forze essenziali, 
    viventi, individualizzanti, inerenti a essa, producenti le distinzioni specifiche.
    "In Bacone, in quanto suo primo creatore, il materialismo racchiude in 
    sé, in un modo ancora ingenuo, i germi di uno sviluppo onnilaterale. 
    La materia, nel suo splendore poeticamente sensibile, sorride a tutto l'uomo. 
    La dottrina - aforistica - brulica invece ancora di inconseguenze teologiche.
    "Nel suo sviluppo ulteriore il materialismo diventa unilaterale. Hobbes32 
    è il sistematore del materialismo baconiano. La sensibilità 
    perde il suo fiore e diventa la sensibilità astratta del geometra. 
    Il movimento fisico viene sacrificato al movimento meccanico o matematico; 
    la geometria è proclamata la scienza principale. Il materialismo diventa 
    misantropo. Per poter vincere lo spirito misantropo, senza carne, sul suo 
    proprio terreno, il materialismo stesso è costretto a mortificare la 
    sua carne e a diventare asceta. Esso si presenta come un essere dell'intelletto, 
    ma sviluppa anche la consequenzialità spregiudicata dell'intelletto.
    "Se la sensibilità fornisce agli uomini tutte le conoscenze, dimostra 
    Hobbes, partendo da Bacone, intuizione, pensiero, rappresentazione, ecc. non 
    sono altro che fantasmi del mondo corporeo più o meno spogliato della 
    sua forma sensibile. La scienza può solo dare un nome a questi fantasmi. 
    Un unico nome può essere applicato a più fantasmi. Possono darsi 
    poi nomi di nomi. Ma sarebbe una contraddizione far trovare da un lato a tutte 
    le idee la loro origine nel mondo sensibile, e affermare, da un altro lato, 
    che un termine è più che un termine, affermare che, oltre agli 
    enti rappresentati, sempre singoli, ci siano anche enti universali. Una sostanza 
    incorporea è piuttosto la medesima contraddizione che un corpo incorporeo. 
    Corpo, essere, sostanza, sono una sola e medesima idea reale. Non si può 
    separare il pensiero da una materia che pensa. Essa è il soggetto di 
    tutte le modificazioni. Il termine infinito è privo di senso se non 
    significa la capacità del nostro spirito di aggiungere senza fine cosa 
    a cosa. Poiché solo il materiale è percepibile, conoscibile, 
    non si conosce niente dell'esistenza di Dio. Solo la mia propria esistenza 
    è certa. Ogni passione umana è un movimento meccanico che finisce 
    o comincia. Gli oggetti degli impulsi sono il bene. L'uomo è subordinato 
    alle stesse leggi cui è subordinata la natura. Potere e libertà 
    sono identici.
    "Hobbes aveva sistemato Bacone, ma non aveva fondato in modo più 
    preciso il suo principio fondamentale, l'origine delle conoscenze e delle 
    idee dal mondo sensibile. Locke33, nel suo saggio sull'origine dell'intelletto 
    umano, dà un fondamento al principio di Bacone e di Hobbes.
    "Come Hobbes aveva eliminato i pregiudizi teistici del materialismo baconiano, 
    così Collins, Dodwell, Coward, Hartley, Priestly34, ecc. eliminano 
    l'ultimo limite teologico del sensismo lockiano. Il deismo35 non è, 
    almeno per i materialisti, niente di più di un modo comodo e noncurante 
    di disfarsi della religione"*3.
    Così scriveva Marx a proposito dell'origine britannica del materialismo 
    moderno.
    E se gli inglesi d'oggi non sono particolarmente entusiasti della giustizia 
    resa da Marx ai loro antenati, tanto peggio per loro! Ciò non toglie 
    niente al fatto innegabile che Bacone, Hobbes e Locke furono i padri di quella 
    brillante pleiade di materialisti francesi che, nonostante tutte le vittorie 
    per terra e per mare conseguite sui francesi dagli inglesi e dai tedeschi, 
    fecero del secolo XVIII un secolo francese per eccellenza; e ciò ancor 
    prima ch'esso fosse coronato dalla rivoluzione francese, della quale noi, 
    che non vi abbiamo partecipato, tentiamo ancor sempre di acclimatare i risultati 
    in Inghilterra come in Germania.
    Non si può negarlo. Lo straniero colto, il quale verso la metà 
    del secolo eleggeva domicilio in Inghilterra, era colpito soprattutto da una 
    cosa, ed era - in qualunque modo egli la considerasse - la stupidità 
    e il bigottismo religiosi della classe media inglese "rispettabile". 
    A quell'epoca noi eravamo tutti materialisti, o almeno liberi pensatori molto 
    avanzati, ed era per noi inconcepibile che quasi tutte le persone istruite 
    in Inghilterra prestassero fede a ogni sorta di impossibili miracoli, e che 
    perfino dei geologi, come Buckland e Mantell36, deformassero i dati delle 
    loro scienze perché non fossero in contraddizione con le leggende della 
    creazione del mondo secondo Mosè; era per noi inconcepibile che per 
    trovare uomini che osassero servirsi della loro ragione in materia religiosa 
    bisognasse andare fra gli illetterati, fra la "folla sudicia", come 
    si usava chiamarla, fra gli operai e specialmente fra i socialisti seguaci 
    di Owen.
    Ma in seguito l'Inghilterra si è "civilizzata". L'esposizione 
    del 185137 segnò la fine del suo esclusivismo insulare.
    A poco a poco l'Inghilterra si è internazionalizzata nel mangiare e 
    nel bere, nei costumi, nelle idee, a un punto tale che io incomincio ad augurare 
    che certi costumi e abitudini inglesi vengano generalmente accolti sul Continente, 
    come altri costumi continentali sono stati accolti in Inghilterra. Una cosa 
    è sicura: la popolarizzazione dell'olio d'oliva per l'insalata (che 
    l'aristocrazia era sola a conoscere prima del 1851) è stata accompagnata 
    da una fatale diffusione dello scetticismo continentale in materia religiosa; 
    e si è giunti a un punto tale che l'agnosticismo, pur senza essere 
    ancora considerato così ammodo come la Chiesa di Stato d'Inghilterra, 
    si trova, per quanto riguarda la rispettabilità, quasi su uno stesso 
    piano con la setta dei battisti e incontestabilmente al di sopra dell'esercito 
    della salvezza38. E non posso fare a meno di pensare che per molti, che sinceramente 
    deplorano e condannano questo progresso dell'irreligiosità, sarà 
    una consolazione l'apprendere che queste idee di data recente non sono d'origine 
    straniera e non portano, come tanti altri oggetti di uso quotidiano, l'etichetta 
    Made in Germany, ma sono al contrario quanto v'ha di più tradizionalmente 
    inglese e che i loro autori di duecento anni fa andavano ben più lontano 
    dei loro discendenti di oggi.
    Infatti, che cosa è l'agnosticismo se non un materialismo che si vergogna? 
    La concezione della natura dell'agnostico è interamente materialista. 
    L'intero mondo naturale è governato da leggi, ed esclude in modo assoluto 
    l'intervento di qualsiasi azione esterna. Ma - aggiunge l'agnostico con circospezione 
    - noi non siamo in grado di poter affermare o infirmare la esistenza di là 
    dell'universo conosciuto di un qualsiasi essere supremo. Questa riserva poteva 
    ancora avere la sua ragion d'essere all'epoca in cui Laplace39 rispondeva 
    fieramente a Napoleone, che gli chiedeva perché nella sua Meccanica 
    celeste non aveva fatto menzione del creatore: "Je n'avais pas besoin 
    de cette hypothèse"40. Ma oggi la nostra concezione evoluzionistica 
    dell'universo non lascia assolutamente più posto né per un creatore 
    né per un ordinatore; e ammettere un essere supremo che stia al di 
    fuori di tutto l'universo esistente sarebbe una contraddizione in termini 
    e inoltre, mi sembra, un'offesa gratuita ai sentimenti delle persone religiose.
    Il nostro agnostico ammette pure che le nostre conoscenze sono fondate sui 
    dati che riceviamo attraverso i sensi; ma - si affretta ad aggiungere - come 
    possiamo sapere se i nostri sensi ci forniscono delle rappresentazioni fedeli 
    degli oggetti percepiti per mezzo di essi? E continua informandoci che quando 
    egli parla degli oggetti e delle loro proprietà non intende in realtà 
    questi oggetti e queste proprietà di cui non può saper niente 
    di sicuro, ma semplicemente le impressioni che essi hanno prodotto sui suoi 
    sensi. Non v'è dubbio che è difficile poter confutare solo con 
    degli argomenti una tale maniera di ragionare. Ma prima di argomentare gli 
    uomini hanno agito. "In principio era l'azione"41. E l'attività 
    umana aveva risolto la difficoltà molto tempo prima che l'ingegnosità 
    umana l'avesse inventata. The proof of the pudding is in the eating42. Nel 
    momento che facciamo uso di questi oggetti secondo le qualità che in 
    essi percepiamo, sottoponiamo a una prova infallibile l'esattezza o l'inesattezza 
    delle percezioni dei nostri sensi. Se queste percezioni erano false anche 
    il nostro giudizio circa l'uso dell'oggetto deve essere falso; di conseguenza 
    il nostro tentativo di usarlo deve fallire. Ma se riusciamo a raggiungere 
    il nostro scopo, se troviamo che l'oggetto corrisponde all'idea che ne abbiamo, 
    che esso serve allo scopo a cui lo abbiamo destinato, questa è la prova 
    positiva che entro questi limiti le nostre percezioni dell'oggetto e delle 
    sue qualità concordano con la realtà esistente fuori di noi. 
    Quando invece il nostro tentativo non riesce, non ci mettiamo molto, d'abitudine, 
    a scoprire le cause del nostro insuccesso; troviamo che la percezione che 
    ha servito di base al nostro tentativo, o era per se stessa incompleta o superficiale, 
    o era collegata in modo non giustificato dalla realtà coi dati di altre 
    percezioni43. Nella misura in cui avremo preso cura di educare e di utilizzare 
    correttamente i nostri sensi, e di mantenere la nostra azione nei limiti prescritti 
    da percezioni correttamente ottenute e correttamente utilizzate, troveremo 
    che il successo delle nostre azioni dimostra che le nostre percezioni sono 
    conformi alla natura oggettiva degli oggetti percepiti. Finora non abbiamo 
    un solo esempio che le nostre percezioni sensorie, scientificamente controllate, 
    determinino nel nostro cervello delle idee sul mondo esterno le quali siano, 
    per loro natura, in contrasto con la realtà, o che vi sia una incompatibilità 
    immanente fra il mondo esterno e le percezioni sensorie che noi ne abbiamo.
    Ma ecco farsi avanti l'agnostico neokantiano, il quale ora ci dice: - Noi 
    possiamo, sì, percepire correttamente le proprietà di un oggetto, 
    ma nessun procedimento sensorio o mentale ci permette di conoscere la cosa 
    in sé. Questa cosa in sé è al di là della nostra 
    conoscenza. - A ciò Hegel già da molto tempo ha risposto. Se 
    conoscete tutte le qualità di una cosa, conoscete anche la cosa in 
    sé; non resta altro che il fatto che la cosa stessa esiste all'infuori 
    di voi, e quando i vostri sensi vi hanno appreso questo fatto, avete colto 
    l'ultimo resto della cosa in sé, della celebre inconoscibile cosa in 
    sé di Kant. Oggi possiamo soltanto aggiungere che al tempo di Kant 
    la nostra conoscenza degli oggetti naturali era così frammentaria, 
    che si era in diritto di supporre44 una misteriosa cosa in sé. Ma da 
    allora queste cose inafferrabili sono state le une dopo le altre afferrate, 
    analizzate e, ciò che più conta, riprodotte dal progresso gigantesco 
    della scienza45. E non possiamo considerare inconoscibile ciò che noi 
    stessi possiamo produrre. Mentre le sostanze organiche erano, per la chimica 
    della prima metà del secolo, delle cose misteriose, oggi impariamo 
    a fabbricarle le une dopo le altre dai loro elementi chimici, senza l'ausilio 
    di processi organici. La chimica moderna dichiara che non appena la costituzione 
    chimica di un corpo qualsiasi è conosciuta, questo corpo può 
    venire fabbricato dai suoi elementi. Siamo ancora lontani dal conoscere esattamente 
    la costituzione delle sostanze organiche più elevate, dei cosiddetti 
    corpi albuminoidi; ma non v'è alcuna ragione di pensare che non giungeremo 
    a questa conoscenza, dopo secoli di ricerche, se sarà necessario, e 
    che armati di questa conoscenza, non riusciremo a produrre l'albumina artificiale. 
    Quando saremo arrivati a questo punto, avremo in pari tempo prodotto la vita 
    organica, perché la vita, dalle sue forme più semplici alle 
    più complesse, non è altro che il modo di essere normale dei 
    corpi albuminoidi.
    Ad ogni modo il nostro agnostico, dopo aver fatto queste riserve mentali di 
    pura forma, parla e agisce come il più convinto materialista, poiché 
    tale in fondo egli è. Anch'egli dirà che, dato lo stato delle 
    nostre conoscenze, la materia e il movimento - l'energia, come si dice ora 
    - non possono essere né creati né distrutti, ma non abbiamo 
    nessuna prova ch'essi non siano stati creati in un momento qualunque che ignoriamo. 
    Ma se tentate di ritorcere contro di lui questa concessione in un caso particolare 
    qualsiasi, egli vi farà senz'altro tacere. Se pure ammette la possibilità 
    dello spiritualismo in abstracto, non ne vuol sentir parlare in concreto. 
    Egli vi dirà che per quanto noi conosciamo e possiamo conoscere, non 
    esiste un creatore o un ordinatore dell'universo; che, per ciò che 
    ci riguarda, la materia e l'energia non possono essere né create né 
    distrutte; che per noi il pensiero è una forma dell'energia, una funzione 
    del cervello; che tutto ciò che noi sappiamo è che il mondo 
    materiale è governato da leggi immutabili, e così di seguito. 
    Dunque, in quanto egli è uomo di scienza, in quanto egli sa qualche 
    cosa, egli è materialista; al di là della sua scienza, nelle 
    sfere dove egli non sa niente, egli traduce la sua ignoranza in greco e la 
    chiama agnosticismo.
    In ogni caso, una cosa mi sembra chiara; anche se io fossi un agnostico non 
    potrei chiamare la concezione della storia abbozzata in questo opuscolo "agnosticismo 
    storico". Le persone religiose riderebbero di me, e gli agnostici mi 
    domanderebbero sdegnati se li voglio canzonare. Spero dunque che anche la 
    "rispettabilità" britannica, che in tedesco si chiama filisteismo, 
    non si scandalizzerà se io mi servo in inglese, come lo faccio in molte 
    altre lingue, del termine "materialismo storico" per indicare quella 
    concezione dello sviluppo della storia che cerca le cause prime e la forza 
    motrice decisiva di tutti gli avvenimenti storici importanti nello sviluppo 
    economico della società, nella trasformazione dei modi di produzione 
    e di scambio, nella divisione della società in classi che ne deriva 
    e nella lotta di queste classi tra di loro.
    E mi si accorderà forse tanto più facilmente questo permesso, 
    se mostrerò che il materialismo storico può essere di qualche 
    utilità anche per la rispettabilità del filisteo britannico. 
    Ho già detto che circa quaranta o cinquanta anni fa lo straniero colto 
    che si stabiliva in Inghilterra era disgustato di ciò che aveva ragione 
    di considerare come il bigottismo religioso e la stupidità della classe 
    media inglese "rispettabile". Dimostrerò ora che la rispettabile 
    classe media dell'Inghilterra di quell'epoca non era così stupida come 
    sembrava allo straniero intelligente. Le sue tendenze religiose si possono 
    spiegare.
    Quando l'Europa uscì dal Medioevo, la borghesia cittadina in via di 
    sviluppo era in essa l'elemento rivoluzionario. La posizione che essa si era 
    conquistata in seno all'organizzazione feudale era già divenuta troppo 
    angusta per la sua forza di espansione. Il libero sviluppo della borghesia 
    non era più compatibile con il mantenimento del sistema feudale; il 
    sistema feudale doveva crollare.
    Ma il grande centro internazionale del feudalismo era la chiesa cattolica 
    romana. Essa riuniva tutto l'Occidente feudale europeo, malgrado tutte le 
    sue guerre intestine, in un grande sistema politico che era in contrasto sia 
    con i greci scismatici che con il mondo mussulmano. Essa circondava le istituzioni 
    feudali dell'aureola di una consacrazione divina. Essa aveva modellato la 
    sua gerarchia su quella della feudalità, e infine era essa stessa diventata 
    il più potente di tutti i signori feudali, perché almeno un 
    terzo di tutti i possedimenti fondiari del mondo cattolico le apparteneva. 
    Prima di poter attaccare il feudalesimo profano separatamente in ogni paese, 
    bisognava abbattere questa sua organizzazione centrale, sacra.
    Parallelamente allo sviluppo della borghesia si produsse però il grande 
    risveglio della scienza. L'astronomia, la meccanica, la fisica, l'anatomia, 
    la fisiologia vennero di nuovo coltivate. Per lo sviluppo della sua produzione, 
    la borghesia aveva bisogno di una scienza che indagasse le proprietà 
    fisiche degli oggetti naturali e il modo di agire delle forze della natura. 
    Ma la scienza non era stata fino ad allora che l'umile serva della chiesa, 
    cui non era permesso di oltrepassare i limiti posti dalla fede, in una parola, 
    era stata tutto eccetto che scienza. La scienza insorse allora contro la chiesa; 
    la borghesia aveva bisogno della scienza e si unì al movimento di rivolta.
    Ho toccato in questo modo solo due dei punti nei quali la borghesia in sviluppo 
    doveva entrare in collisione con la religione stabilita; ciò è 
    però sufficiente per dimostrare, in primo luogo, che la borghesia era 
    la classe più direttamente interessata alla lotta contro la potenza 
    della chiesa cattolica e, in secondo luogo, che in quell'epoca ogni lotta 
    contro il feudalesimo doveva assumere un aspetto religioso e doveva in prima 
    linea essere diretta contro la chiesa. Ma se furono le università e 
    i mercanti delle città a lanciare per primi il grido di guerra, esso 
    non poteva mancare, e infatti non mancò di trovare un'eco fra le masse 
    popolari delle campagne, fra i contadini, che dappertutto conducevano contro 
    i signori feudali, tanto spirituali che temporali, una lotta ostinata, e precisamente 
    una lotta per l'esistenza.
    La lunga lotta della borghesia europea contro il feudalesimo culminò 
    in tre grandi battaglie decisive.
    La prima fu quella che noi chiamiamo la Riforma protestante in Germania. Al 
    grido di guerra di Lutero contro la chiesa risposero due insurrezioni politiche: 
    prima l'insurrezione della piccola nobiltà diretta da Franz von Sickingen 
    nel 1523, e poi la grande Guerra dei contadini del 1525. Entrambe furono sconfitte, 
    soprattutto a causa della indecisione dei borghesi urbani, quantunque essi 
    fossero i maggiori interessati, indecisione di cui non possiamo qui ricercare 
    le cause. Da quel momento la lotta degenerò in un conflitto fra i principi 
    locali e il potere centrale imperiale, ed ebbe come conseguenza la scomparsa 
    della Germania, per il corso di due secoli, dal novero delle nazioni europee 
    politicamente attive. Dalla Riforma luterana sorse però una nuova religione, 
    e precisamente una religione adatta alle esigenze della monarchia assoluta. 
    Non appena i contadini tedeschi del Nord-est si furono convertiti al luteranesimo, 
    furono respinti dallo stato di uomini liberi allo stato di servi.
    Ma dove Lutero fallì, Calvino riportò la vittoria. La sua dottrina 
    rispondeva alle esigenze della parte più ardita della borghesia dell'epoca. 
    La sua dottrina della predestinazione era l'espressione religiosa del fatto 
    che nel mondo commerciale della concorrenza il successo o il fallimento non 
    derivano dall'attività o dall'abilità dell'uomo, ma da circostanze 
    indipendenti da lui. "Non si tratta dunque della volontà o dell'azione 
    del singolo, ma della grazia" di superiori, ma sconosciute, forze economiche. 
    E questo era particolarmente vero in un'epoca di rivoluzione economica, quando 
    tutti gli antichi centri e le strade del commercio venivano sostituiti da 
    altri, quando l'America e le Indie si aprivano al mondo, e anche i più 
    sacri articoli della fede economica - i valori dell'oro e dell'argento - cominciavano 
    a vacillare e a crollare. Inoltre la costituzione della chiesa di Calvino 
    era assolutamente democratica e repubblicana; e allorché il regno di 
    dio si faceva repubblicano, come potevano i regni di questo mondo restare 
    sotto il dominio di monarchi, di vescovi e di signori feudali? Mentre il luteranesimo 
    tedesco diventava docile strumento nelle mani di principotti tedeschi, il 
    calvinismo fondava una repubblica in Olanda e forti partiti repubblicani in 
    Inghilterra e particolarmente in Scozia.
    Il secondo grande sollevamento della borghesia trovò nel calvinismo 
    la sua dottrina di lotta bell'e pronta. Questo sollevamento si produsse in 
    Inghilterra. La borghesia delle città si lanciò per la prima 
    nel movimento; i contadini medi (yeomanry) dei distretti rurali lo fecero 
    trionfare. È abbastanza curioso il fatto che in tutte le tre grandi 
    rivoluzioni della borghesia i contadini forniscono l'esercito per la lotta, 
    mentre sono la classe che dopo la vittoria viene immancabilmente rovinata 
    dalle conseguenze economiche della vittoria stessa. Un secolo dopo Cromwell46, 
    la yeomanry inglese era quasi scomparsa. Eppure fu solo per la partecipazione 
    di questa yeomanry e dell'elemento plebeo delle città che la lotta 
    venne combattuta fino alla vittoria e Carlo I fatto salire sul patibolo47. 
    Affinché potessero venire assicurate almeno quelle conquiste della 
    borghesia che erano mature e pronte ad essere mietute, era necessario che 
    la rivoluzione oltrepassasse di molto il suo scopo, esattamente come in Francia 
    nel 1793 e in Germania nel 1848. Sembra che questa sia una delle leggi della 
    evoluzione della società borghese.
    A questo eccesso di attività rivoluzionaria succedette in Inghilterra 
    la inevitabile reazione, la quale a sua volta oltrepassò di molto lo 
    scopo48. Dopo una serie di oscillazioni il nuovo centro di gravità 
    finì per essere raggiunto e diventò il punto di partenza della 
    evoluzione ulteriore. Il grande periodo della storia inglese, che i filistei 
    chiamano la "grande ribellione", e le lotte che la seguirono, ebbero 
    la loro conclusione in un avvenimento relativamente meschino del 1689 che 
    gli storici liberali decorano col titolo di "gloriosa rivoluzione"49.
    Il nuovo punto di partenza fu un compromesso fra la borghesia ascendente e 
    gli antichi grandi proprietari feudali. Questi ultimi, quantunque si chiamassero 
    come oggi aristocrazia, erano già da tempo sulla via di diventare ciò 
    che diventò Luigi Filippo50 in Francia solo molto tempo dopo: i primi 
    borghesi della nazione. Fortunatamente per l'Inghilterra i vecchi signori 
    feudali si erano massacrati reciprocamente durante le guerre delle due rose51. 
    I loro successori, quantunque generalmente rampolli delle stesse vecchie famiglie, 
    discendevano da linee collaterali così lontane che costituivano un 
    corpo completamente nuovo, con abitudini e tendenze ben più borghesi 
    che feudali. Essi conoscevano perfettamente il valore del denaro e incominciarono 
    immediatamente ad aumentare le loro rendite fondiarie, espellendo centinaia 
    di piccoli fittavoli e sostituendoli con delle pecore. Enrico VIII, dissipando 
    in donazione e prodigalità le terre della chiesa, creò una legione 
    di nuovi grandi proprietari fondiari borghesi. Allo stesso risultato portarono 
    le ininterrotte confische di grandi domini, che si cedevano poi a piccoli 
    o grandi nuovi venuti, continuate dopo di lui sino alla fine del secolo XVII. 
    Per conseguenza, a partire da Enrico VII, l'"aristocrazia" inglese 
    non pensò affatto a ostacolare lo sviluppo della produzione industriale, 
    ma cercò anzi di trarne un beneficio. Allo stesso modo non è 
    mai mancata una parte dei proprietari fondiari disposta, per ragioni economiche 
    e politiche, a collaborare coi capi della borghesia industriale e finanziaria. 
    Il compromesso del 1689 si realizzò dunque facilmente. Le spolia opima 
    politiche - gli uffici, le sinecure, i grossi stipendi - furono lasciate alle 
    grandi famiglie nobiliari, a condizione che esse prestassero sufficiente attenzione 
    agli interessi economici della borghesia finanziaria, industriale e mercantile. 
    E questi interessi economici erano già allora sufficientemente potenti 
    per determinare la politica generale della nazione. Vi potevano essere disaccordi 
    su questioni singole, ma l'oligarchia aristocratica comprendeva troppo bene 
    come la sua propria prosperità economica fosse irrevocabilmente legata 
    a quella della borghesia industriale e commerciale.
    A partire da questo momento, la borghesia diventò una frazione, modesta 
    ma ufficialmente riconosciuta, delle classi governanti dell'Inghilterra, con 
    le quali aveva in comune l'interesse a mantenere in stato di soggezione la 
    grande massa lavoratrice del popolo. Il commerciante o il manifatturiere occupò, 
    nei confronti dei suoi commessi, dei suoi impiegati, dei suoi domestici, la 
    posizione del padrone che dà da mangiare, o, come si diceva ancora 
    poco tempo fa in Inghilterra, del "superiore naturale". Egli doveva 
    cavarne quanto più e quanto miglior lavoro era possibile; e per arrivare 
    a questo risultato doveva abituarli alla necessaria sottomissione. Egli stesso 
    era religioso; la religione era stata il vessillo sotto il quale avevano combattuto 
    il re e i signori; non gli occorse molto per scoprire i vantaggi che si potevano 
    trarre da questa stessa religione per agire sullo spirito dei suoi inferiori 
    naturali e per renderli docili agli ordini dei padroni che all'imperscrutabile 
    volere di dio era piaciuto di porre sopra di loro. In una parola, la borghesia 
    inglese doveva prendere ora la sua parte nell'oppressione dei "ceti inferiori", 
    della grande massa produttrice del popolo, e uno dei mezzi usati a questo 
    scopo di oppressione fu l'influenza della religione.
    Vi fu però anche un'altra circostanza che contribuì a rafforzare 
    le inclinazioni religiose della borghesia: la nascita del materialismo in 
    Inghilterra. Questa nuova dottrina atea non urtava soltanto i sentimenti della 
    devota classe media: essa si annunciava oltre tutto come una filosofia conveniente 
    solo agli eruditi e alle persone colte, a differenza della religione, che 
    era abbastanza buona per la grande massa incolta, compresa la borghesia. Con 
    Hobbes il materialismo si presentò sulla scena come difensore dell'onnipotenza 
    monarchica, e fece appello alla monarchia assoluta per mantenere sotto il 
    giogo quel puer robustus sed malitiosus che era il popolo. E anche per i successori 
    di Hobbes, Bolingbroke, Shaftesbury, ecc., la nuova forma deista del materialismo 
    restò una dottrina aristocratica, esoterica e perciò odiata 
    dalla borghesia, non solo per la sua eresia religiosa, ma anche per le sue 
    connessioni politiche antiborghesi. Perciò, in opposizione al materialismo 
    e al deismo dell'aristocrazia, le stesse sette protestanti che avevano fornito 
    il vessillo e i combattenti nella lotta contro gli Stuart costituirono la 
    principale forza di combattimento della classe media progressista, e costituiscono 
    ancora oggi la spina dorsale del "grande partito liberale".
    Il materialismo passava nel frattempo dall'Inghilterra alla Francia, dove 
    incontrò un'altra scuola filosofica materialista, sorta dal cartesianismo52, 
    con la quale si fuse. Anche in Francia esso rimase dapprincipio una dottrina 
    esclusivamente aristocratica; ma il suo carattere rivoluzionario non tardò 
    a rivelarsi. I materialisti francesi non limitarono la loro critica alle questioni 
    religiose; essi criticarono tutte le tradizioni scientifiche, tutte le istituzioni 
    politiche dei tempi loro. Per dimostrare che la loro dottrina aveva una applicazione 
    universale presero la via più corta: l'applicarono bravamente a tutti 
    i soggetti della scienza, in un'opera di giganti dalla quale presero il nome, 
    nell'Enciclopedia. Così, nell'una o nell'altra delle sue forme - come 
    materialismo dichiarato o come deismo - il materialismo diventò la 
    concezione del mondo di tutta la gioventù colta della Francia; a un 
    punto tale che durante la grande rivoluzione la dottrina filosofica covata 
    in Inghilterra dai monarchici diede un vessillo teorico ai repubblicani e 
    terroristi, e fornì il testo della Dichiarazione dei diritti dell'uomo53.
    La grande rivoluzione francese fu il terzo sollevamento della borghesia, ma 
    fu il primo che respinse completamente il ciarpame religioso e venne combattuto 
    esclusivamente sul terreno politico. Essa fu pure la prima rivoluzione in 
    cui si combatté realmente fino alla distruzione di una delle parti 
    in guerra, l'aristocrazia, e fino al completo trionfo dell'altra, la borghesia. 
    In Inghilterra la continuità delle istituzioni prerivoluzionarie e 
    postrivoluzionarie e il compromesso tra i grandi proprietari fondiari e i 
    capitalisti trovarono la loro espressione nella continuità dei precedenti 
    giuridici e nella conservazione piena di rispetto delle forme legali feudali. 
    In Francia la rivoluzione ruppe completamente con le tradizioni del passato, 
    spazzò le utime vestigia del feudalesimo e creò nel Code civil54 
    un magistrale adattamento dell'antico diritto romano alle condizioni del capitalismo 
    moderno, un'espressione quasi perfetta delle relazioni giuridiche economiche 
    corrispondenti a quello stadio dello sviluppo economico che Marx chiama "produzione 
    mercantile"; così geniale che questo codice rivoluzionario francese 
    serve ancora oggi di modello alla riforma delle leggi sulla proprietà 
    in tutti i paesi, non esclusa l'Inghilterra. Non dimentichiamo però 
    una cosa. Se il diritto inglese continua ad esprimere le relazioni economiche 
    della società capitalistica in una barbara lingua feudale, che corrisponde 
    alla sostanza che vuole esprimere così come l'ortografia inglese corrisponde 
    alla pronuncia - vous écrivez Londres et vous prononcez Costantinople55, 
    diceva un francese - questo stesso diritto inglese è però il 
    solo che abbia conservato intatta e trasmesso all'America e alle colonie la 
    parte migliore di quella libertà personale, di quell'autonomia locale 
    e di quella indipendenza di fronte ad ogni intervento estraneo, fatta eccezione 
    per quello della giustizia, in una parola, la parte migliore di quelle vecchie 
    libertà germaniche che sul continente erano andate perdute sotto la 
    monarchia assoluta e che fino ad oggi non sono più state riconquistate 
    completamente in nessun paese.
    Ma ritorniamo al nostro borghese inglese. La rivoluzione francese gli procurò 
    una splendida occasione di rovinare con il concorso delle monarchie continentali, 
    il commercio marittimo francese, di annettersi le colonie francesi, di finirla 
    con le ultime velleità francesi di rivaleggiare sui mari. Questa fu 
    una delle ragioni per cui egli combatté contro la rivoluzione. L'altra 
    ragione fu che i metodi di questa rivoluzione gli ripugnavano e non soltanto 
    detestava il suo "esecrabile" terrorismo, ma anche il suo tentativo 
    di spingere all'estremo il dominio della borghesia. Che ne sarebbe stato del 
    borghese inglese senza la sua aristocrazia che gli insegnava le belle maniere 
    (degne del maestro), che inventava per lui le mode, che forniva gli ufficiali 
    all'esercito, custode dell'ordine all'interno, e alla flotta, conquistatrice 
    di colonie e di nuovi mercati all'estero? C'era anche una minoranza progressista 
    della borghesia, è vero: gente i cui interessi erano usciti male dal 
    compromesso. Questa minoranza, reclutata principalmente nella classe media 
    meno ricca, simpatizzò con la rivoluzione, ma era impotente nel parlamento.
    Così, quanto più il materialismo diventava il credo della rivoluzione 
    francese, tanto più il borghese inglese timorato di dio si aggrappava 
    tenacemente alla sua religione. Il regno del terrore a Parigi non aveva dimostrato 
    a quali eccessi si arriva quando le masse perdono la religione? Quanto più 
    il materialismo si propagava dalla Francia ai paesi vicini e veniva rinforzato 
    da analoghe correnti dottrinali, specialmente dalla filosofia tedesca, quanto 
    più il materialismo e il libero pensiero diventavano sul Continente 
    le qualità richieste da ogni spirito colto, tanto più tenacemente 
    la classe media inglese si aggrappava alle sue svariate credenze. Queste credenze 
    potevano differire le une dalle altre, ma tutte erano fortemente religiose 
    e cristiane.
    Mentre la rivoluzione assicurava in Francia il trionfo politico della borghesia, 
    in Inghilterra Watt, Arkwright, Cartwright56 ed altri iniziavano una rivoluzione 
    industriale che spostò completamente il centro di gravità della 
    potenza economica. La ricchezza della borghesia aumentava ora in modo infinitamente 
    più rapido di quella dell'aristocrazia fondiaria. Nella stessa borghesia, 
    l'aristocrazia finanziaria, i banchieri, ecc. erano sempre più spinti 
    in secondo piano dai fabbricanti. Il compromesso del 1689, anche con i mutamenti 
    graduali che aveva subìto a vantaggio della borghesia, non corrispondeva 
    più alle posizioni relative delle parti contraenti. Anche il carattere 
    di queste parti contraenti si era modificato. La borghesia del 1830 differiva 
    notevolmente da quella del secolo precedente. Il potere politico, restato 
    ancora nelle mani dell'aristocrazia che ne approfittava per resistere alle 
    pretese della nuova borghesia industriale, diventò incompatibile con 
    i nuovi interessi economici. Si imponeva una nuova lotta contro l'aristocrazia, 
    essa non poteva terminare se non con la vittoria del nuovo potere economico.
    Grazie all'impulso impresso dalla rivoluzione francese nel 1830, venne realizzata, 
    malgrado tutte le resistenze, la riforma parlamentare57; essa diede alla borghesia 
    nel parlamento una posizione forte e riconosciuta. Seguì poi l'abrogazione 
    delle leggi sui cereali58, che assicurò una volta per sempre il predominio 
    della borghesia, specialmente della sua frazione più attiva, i fabbricanti, 
    sull'aristocrazia fondiaria. Questa fu la più grande vittoria della 
    borghesia, e fu anche l'ultima che essa riportò a suo profitto esclusivo. 
    Tutti i suoi trionfi successivi essa dovrà dividerli con una nuova 
    forza sociale, dapprincipio sua alleata, ma in seguito sua rivale.
    La rivoluzione industriale aveva dato origine a una classe di potenti manufatturieri 
    capitalisti, ma anche ad una classe, molto più numerosa, di operai 
    di fabbrica. Questa classe aumentava continuamente di numero, nella misura 
    in cui la rivoluzione industriale si estendeva da un ramo all'altro della 
    produzione. In proporzione al numero aumentava però anche la sua forza; 
    e questa forza si fece sentire già nel 1824, quando costrinse un parlamento 
    recalcitrante a sospendere le leggi contro la libertà di associazione. 
    Durante l'agitazione per la riforma parlamentare gli operai formarono l'ala 
    radicale del partito riformista; quando la legge del 1832 li escluse dal suffragio 
    essi formularono le loro rivendicazioni nella Carta del Popolo (People's Charter)59 
    e si organizzarono, in opposizione al forte partito borghese favorevole all'abolizione 
    della legge sui cereali, in partito cartista indipendente. Questo fu il primo 
    partito operaio dei tempi moderni.
    Poi vennero le rivoluzioni del febbraio e del marzo 1848 sul continente, nelle 
    quali gli operai ebbero una parte così importante e formularono, almeno 
    a Parigi, delle rivendicazioni che erano assolutamente inammissibili per la 
    società capitalistica. E sopravvenne allora la reazione generale. Dapprima 
    la disfatta dei cartisti il 10 aprile 184860; poi la repressione della insurrezione 
    degli operai parigini nel giugno dello stesso anno; quindi gli insuccessi 
    del 1849 in Italia, in Ungheria, nella Germania meridionale, e infine la vittoria 
    di Luigi Bonaparte61 su Parigi, il 2 dicembre 1851. Lo spauracchio delle rivendicazioni 
    operaie era così scacciato, almeno per un certo tempo; ma a qual prezzo! 
    Se il borghese inglese era già prima convinto che bisognava mantenere 
    nella gente del popolo lo spirito religioso, con quanta maggior urgenza doveva 
    sentirne la necessità ora, dopo tutte queste esperienze! E senza menomamente 
    preoccuparsi delle canzonature dei suoi compari continentali, la borghesia 
    inglese continuò a spendere milioni su milioni, anno per anno, per 
    evangelizzare i ceti inferiori. Non soddisfatta del proprio apparato religioso, 
    essa chiamò in suo soccorso Fra Gionata62, il più abile organizzatore 
    che allora esistesse della religione come affare commerciale, importò 
    dall'America il revivalismo, Moody e Sankey63, e così via; infine accettò 
    persino l'aiuto pericoloso dell'esercito della salvezza, che fa rivivere la 
    propaganda del cristianesimo primitivo, si rivolge ai poveri e proclama che 
    essi sono gli eletti, combatte il capitalismo nel suo modo religioso e alimenta 
    così un elemento di antagonismo di classe, derivante dal cristianesimo 
    primitivo, che può diventare un giorno pericoloso per i ricchi che 
    oggi danno denaro per il suo sviluppo.
    Sembra sia una legge dell'evoluzione storica che la borghesia non possa in 
    nessun paese d'Europa conquistare il potere politico - almeno per un periodo 
    abbastanza lungo - in modo così esclusivo come fece l'aristocrazia 
    feudale nel Medioevo. Perfino in Francia, dove il feudalesimo fu così 
    completamente sradicato, la borghesia nel suo insieme, come classe, non s'è 
    impadronita del governo che per periodi corti. Durante il regno di Luigi Filippo, 
    dal 1830 al 1848, solo una piccola frazione della borghesia fu al potere, 
    mentre la maggior parte di essa era esclusa dal suffragio a causa del censo 
    elettorale elevato. Sotto la seconda repubblica, dal 1848 al 1851, tutta la 
    borghesia fu al potere, ma per tre anni soltanto; la sua incapacità 
    spianò la strada al secondo impero. Soltanto sotto la terza repubblica 
    la borghesia, nel suo complesso, ha conservato il potere per più di 
    venti anni; essa dà però già ora segni consolanti di 
    decadenza. Un regno duraturo della borghesia non è stato possibile 
    finora che nei paesi come l'America dove il feudalesimo non è mai esistito 
    e fin dal principio la società si è costituita su una base borghese.
    In Inghilterra la borghesia non ebbe mai il potere senza condividerlo. Anche 
    la vittoria del 1832 lasciò l'aristocrazia in possesso quasi esclusivo 
    di tutte le alte funzioni governative. La servilità con la quale la 
    classe media ricca accettò questa situazione mi era incomprensibile, 
    finché un giorno non intesi in un discorso pubblico un grande fabbricante 
    liberale, il signor W. A. Forster, supplicare i giovani di Bradford di imparare 
    il francese, se volevano farsi strada nel mondo; egli citava la propria esperienza 
    e raccontava il suo imbarazzo allorché, in qualità di ministro, 
    aveva dovuto muoversi in una società nella quale il francese era almeno 
    tanto necessario quanto l'inglese; infatti a quell'epoca i borghesi inglesi 
    erano, in media, dei villani rifatti che, volere o no, dovevano abbandonare 
    all'aristocrazia quei posti superiori nell'apparato di governo per i quali 
    si esigevano altre qualità che la grettezza e la vanagloria insulari 
    condite di astuzia mercantile*4.
    Ancora oggi i dibattiti interminabili della stampa sulla "middle class 
    education"64 dimostrano che la borghesia inglese non si considera ancora 
    abbastanza degna di una educazione superiore e mira a qualcosa di più 
    modesto. Fu così che perfino dopo l'abolizione della legge sui cereali 
    si considerò come una cosa naturale che gli uomini che avevano riportato 
    la vittoria, i Cobden, i Bright, i Forster, ecc., fossero esclusi da ogni 
    partecipazione al governo ufficiale del paese sino a che; venti anni dopo, 
    una nuova riforma parlamentare65 aprì loro la porta del ministero. 
    Ancora oggi la borghesia inglese è così profondamente permeata 
    del sentimento della propria inferiorità sociale, che mantiene a spese 
    proprie e della nazione una casta decorativa di parassiti che deve rappresentare 
    degnamente la nazione in tutte le grandi funzioni, e si considera altamente 
    onorata quando un borghese qualunque è considerato degno di essere 
    ammesso in questa corporazione chiusa, che la borghesia stessa, in fin dei 
    conti, produce.
    La classe media industriale e commerciale non era dunque giunta a scacciare 
    completamente dal potere politico l'aristocrazia fondiaria, che già 
    il nuovo rivale, la classe operaia, entrava in scena. La reazione seguita 
    al movimento cartista e alle rivoluzioni continentali, come pure lo sviluppo 
    senza precedenti dell'industria inglese dal 1848 al 1866 (che di solito si 
    attribuisce solamente al libero scambio ma è dovuto in misura molto 
    maggiore allo sviluppo colossale delle ferrovie, della navigazione oceanica 
    a vapore e dei mezzi di comunicazione in generale), ancora una volta avevano 
    condotto la classe operaia alle dipendenze del partito liberale, del quale 
    essa aveva formato, come nel periodo precartista, l'ala radicale. La rivendicazione 
    del diritto di voto per gli operai diventò però a poco a poco 
    irresistibile; mentre i whigs, i capi dei liberali, cadevano di nuovo in preda 
    allo sgomento. Disraeli66 mostrò la sua superiorità. Egli sfruttò 
    il momento favorevole per i tories, introducendo nei distretti urbani lo household-suffrage67, 
    e legando ad esso un rimaneggiamento delle circoscrizioni elettorali. Seguì, 
    poco dopo, il voto segreto (the ballot); quindi, nel 1884, la estensione dello 
    household-suffrage a tutte le circoscrizioni, anche rurali, un nuovo rimaneggiamento 
    delle circoscrizioni, che per lo meno le rese pressocché uguali. Tutte 
    queste misure aumentarono notevolmente la forza elettorale della classe operaia, 
    a tal punto che in 150 o 200 collegi elettorali gli operai formarono ora la 
    maggioranza dei votanti. Ma non vi è migliore scuola del parlamentarismo 
    per insegnare il rispetto della tradizione! Se la borghesia considera con 
    rispetto e con devozione quella che Lord John Manners chiama argutamente la 
    "nostra vecchia nobiltà", la massa degli operai considerava 
    allora con rispetto e deferenza quella che si chiamava allora la "classe 
    migliore", la borghesia. E in realtà quindici anni fa l'operaio 
    inglese era l'operaio modello, la cui rispettosa deferenza verso il padrone 
    e la cui modestia e umiltà nel reclamare i suoi diritti erano un balsamo 
    per le ferite inferte ai nostri socialisti tedeschi della cattedra68 dalle 
    incurabili tendenze comuniste e rivoluzionarie degli operai del loro paese.
    Ma i borghesi inglesi erano dei buoni uomini d'affari e vedevano più 
    lontano dei professori tedeschi. Solo di malavoglia essi avevano diviso il 
    loro potere con la classe operaia. Durante gli anni del cartismo essi avevano 
    imparato a conoscere di che cosa è capace quel puer robustus sed malitiosus 
    che è il popolo. Da allora erano stati obbligati ad accettare la maggior 
    parte delle rivendicazioni della Carta del popolo, che erano diventate leggi 
    del paese. Ora più che mai il popolo doveva esser contenuto con dei 
    mezzi morali; e il primo e il più importante mezzo morale per agire 
    sulle masse era ancora la religione. Di qui la maggioranza di preti nelle 
    amministrazioni scolastiche, di qui i crescenti contributi volontari pagati 
    dalla borghesia per ogni sorta di demagogia religiosa, dal ritualismo69 all'esercito 
    della salvezza.
    Ed è così che si è giunti al trionfo del rispettabile 
    filisteismo britannico sul libero pensiero e sull'indifferenza religiosa del 
    borghese continentale. Gli operai della Francia e della Germania erano diventati 
    dei rivoltosi. Essi erano completamente infetti di socialismo, e inoltre, 
    e per ottime ragioni, non avevano molti pregiudizi circa la legalità 
    dei mezzi per conquistarsi il potere. Il puer robustus si era fatto realmente 
    di giorno in giorno più malitiosus. Quale ultima risorsa rimaneva al 
    borghese francese e tedesco se non quella di buttare a mare alla chetichella 
    il loro libero pensiero, allo stesso modo che il giovanotto, preso dal mal 
    di mare, getta in acqua il sigaro acceso col quale si pavoneggiava imbarcandosi? 
    L'uno dopo l'altro gli spiriti forti si dettero delle arie compunte, parlarono 
    con rispetto della chiesa, dei suoi dogmi e delle sue cerimonie, e vi si conformarono 
    anche, quando non poterono farne a meno. La borghesia francese mangiò 
    di magro il venerdì, e i borghesi tedeschi in sudore ascoltarono nelle 
    loro poltrone in chiesa gli interminabili sermoni protestanti. Il loro materialismo 
    li aveva messi in un brutto impiccio. "Si deve conservare la religione 
    al popolo": questo era l'ultimo e l'unico mezzo per salvare la società 
    dalla rovina totale. Per loro disgrazia essi avevano fatto questa scoperta 
    soltanto dopo aver fatto quanto era loro umanamente possibile per rovinare 
    la religione per sempre. Ed ora era venuta la volta per il borghese britannico 
    di canzonarli e di gridar loro: "Imbecilli: tutto questo ve lo avrei 
    già potuto dire due secoli fa!".
    Eppure io temo che né la stupidità religiosa della borghesia 
    inglese né la conversione post festum di quella continentale potranno 
    opporre una diga all'avanzata della marea proletaria. La tradizione è 
    un grande freno, è la forza di inerzia della storia. Ma essa è 
    soltanto passiva, e perciò deve soccombere. Nemmeno la religione sarà 
    per la società capitalistica una salvaguardia eterna. Poiché 
    le nostre idee giuridiche, filosofiche e religiose sono i prodotti più 
    o meno lontani dei rapporti economici dominanti in una data società, 
    queste idee non possono mantenersi a lungo dopo che i rapporti economici si 
    sono radicalmente modificati. O si deve credere a una rivelazione soprannaturale, 
    oppure si deve ammettere che nessuna predica religiosa è in grado di 
    sorreggere una società che sta crollando.
    Di fatto, anche in Inghilterra gli operai hanno di nuovo incominciato a mettersi 
    in movimento. Senza dubbio essi sono ancora tenuti alla catena da ogni genere 
    di tradizioni. Tradizioni borghesi, come il pregiudizio largamente diffuso 
    che non vi possono essere che due partiti, il conservatore e il liberale, 
    e che la classe operaia deve conquistare la sua emancipazione con l'aiuto 
    del grande partito liberale. Tradizioni operaie, ereditate dai primi tentativi 
    di azione indipendente, come l'esclusione da numerose vecchie Trade Unions 
    di tutti quegli operai che non hanno fatto un periodo regolamentare di apprendistato, 
    il che non significa altro se non che ogni sindacato che agisce a questo modo 
    si crea egli stesso i suoi crumiri. Malgrado tutto, però, la classe 
    operaia inglese marcia in avanti: perfino il professor Brentano70 è 
    stato costretto con rincrescimento a segnalare il fatto ai suoi confratelli 
    del socialismo della cattedra. Come ogni cosa in Inghilterra, essa si muove 
    con passo lento e misurato, qui esitando, là facendo a tastoni dei 
    tentativi in parte infelici; a volte diffidando esageratamente della parola 
    socialismo, assorbendone però a poco a poco la sostanza. Essa si muove, 
    e il suo movimento abbraccia tutti gli strati operai, uno dopo l'altro. Ora 
    essa ha scosso dal loro torpore i manovali dell'East End di Londra, e noi 
    tutti abbiamo visto quale magnifico impulso queste nuove forze a loro volta 
    hanno impresso al movimento. E se la marcia del movimento non è così 
    rapida come lo desidererebbe l'impazienza di certuni, non dimentichino costoro 
    che è la classe operaia che mantiene in vita le migliori qualità 
    del carattere nazionale inglese, e che quando in Inghilterra vien fatto un 
    passo in avanti non è mai più perduto. Se i figli dei vecchi 
    cartisti, per le ragioni già accennate, non sono stati ciò che 
    si attendeva, i nipoti promettono di esser degni dei loro nonni.
    Ma il trionfo della classe operaia europea non dipende soltanto dall'Inghilterra. 
    Esso non potrà essere conquistato che mediante la collaborazione almeno 
    dell'Inghilterra, della Francia e della Germania71. In questi due ultimi paesi 
    il movimento operaio è un bel tratto più avanzato che quello 
    inglese.
    In Germania la distanza che lo separa dal trionfo può essere valutata. 
    I progressi ch'esso ha fatto in questo paese negli ultimi venticinque anni 
    sono senza precedenti ed esso avanza con una rapidità sempre crescente. 
    Se la borghesia tedesca si è mostrata sprovvista in modo lamentevole 
    di capacità politica, di disciplina, di coraggio, di energia, la classe 
    operaia tedesca ha dato prova di possedere in alto grado tutte queste qualità. 
    Or sono circa quattro secoli, la Germania fu il punto di partenza del primo 
    grande sollevamento della classe media europea; al punto in cui sono oggi 
    le cose, è forse impossibile che la Germania sia anche il teatro della 
    prima grande vittoria del proletariato europeo? 
    Friedrich Engels
    
    Capitolo I 
    Il socialismo moderno, considerato nel suo contenuto, è anzitutto il 
    risultato della visione, da una parte, degli antagonismi di classe, dominanti 
    nella società moderna, tra possidenti e non possidenti, salariati e 
    capitalisti; dall'altra, dell'anarchia dominante nella produzione. Considerato 
    invece nella sua forma teorica, esso appare all'inizio come una continuazione 
    più radicale, che vuol essere più conseguente, dei princìpi 
    sostenuti dai grandi illuministi francesi del XVIII secolo. Come ogni nuova 
    teoria, esso ha dovuto anzitutto ricollegarsi al materiale ideologico preesistente, 
    per quanto avesse la sua radice nella realtà economica.
    I grandi uomini che in Francia, illuminando gli spiriti, li prepararono alla 
    rivoluzione che si avvicinava, agirono essi stessi in un modo estremamente 
    rivoluzionario. Non riconoscevano nessuna autorità esteriore di qualsiasi 
    specie essa fosse. Religione, concezione della natura, società, ordinamento 
    dello Stato, tutto fu sottoposto alla critica più spietata; tutto doveva 
    giustificare la propria esistenza davanti al tribunale della ragione o rinunziare 
    all'esistenza. L'intelletto pensante fu applicato a tutto come unica misura. 
    Era il tempo in cui, come dice Hegel, il mondo venne poggiato sulla testa*5, 
    dapprima nel senso che la testa dell'uomo e i princìpi trovati dal 
    suo pensiero pretesero di valere come base di ogni azione e di ogni associazione 
    umana; ma più tardi anche nel senso più ampio che la realtà, 
    che era in contraddizione con questi princìpi, fu effettivamente rovesciata 
    da cima a fondo. Tutte le forme sociali e statali che sino allora erano esistite, 
    tutte le antiche idee tradizionali furono gettate in soffitta come cose irrazionali, 
    il mondo si era fino a quel momento lasciato guidare unicamente da pregiudizi; 
    tutto il passato meritava solo compassione e disprezzo. Ora per la prima volta 
    spuntava la luce del giorno; d'ora in poi la superstizione, l'ingiustizia, 
    il privilegio e l'oppressione sarebbero stati soppiantati dalla verità 
    eterna, dalla giustizia eterna, dall'eguaglianza fondata sulla natura, dai 
    diritti inalienabili dell'uomo.
    Noi sappiamo ora che questo regno della ragione non fu altro che il regno 
    della borghesia idealizzato, che la giustizia eterna trovò la sua realizzazione 
    nella giustizia borghese; che l'eguaglianza andò a finire nella borghese 
    eguaglianza davanti alla legge; che la proprietà fu proclamata proprio 
    come uno dei più essenziali diritti dell'uomo; e che lo Stato conforme 
    a ragione, il contratto sociale di Rousseau72, si realizzò, e solo 
    così poteva realizzarsi, come repubblica democratica borghese. I grandi 
    pensatori del secolo XVIII non poterono oltrepassare i limiti imposti loro 
    dalla loro epoca più di quanto lo avevano potuto tutti i loro predecessori.
    Ma, accanto all'antagonismo tra nobiltà feudale e borghesia, che pretendeva 
    rappresentare tutta la rimanente società, sussisteva l'antagonismo 
    generale tra sfruttatori e sfruttati, tra ricchi oziosi e poveri lavoratori. 
    E precisamente questa circostanza rendeva possibile ai rappresentanti della 
    borghesia di ergersi a rappresentanti non soltanto di una classe particolare, 
    ma di tutta l'umanità sofferente. E c'è di più. Sin dalla 
    sua origine la borghesia era affetta dall'antagonismo che le è proprio: 
    non possono esserci capitalisti senza operai salariati, e nella stessa misura 
    in cui il maestro della corporazione medievale evolveva nel borghese moderno, 
    il garzone della corporazione e il giornaliero che non apparteneva a nessuna 
    corporazione evolvevano nel proletario. E sebbene nel complesso la borghesia 
    avesse il diritto di pretendere di rappresentare contemporaneamente, nella 
    lotta contro la nobiltà, gli interessi delle diverse classi lavoratrici 
    di quell'epoca, pure, in ogni grande movimento borghese, scoppiavano dei moti 
    autonomi di quella classe che era la precorritrice più o meno sviluppata 
    del proletariato moderno. Così nell'epoca della Riforma e della Guerra 
    dei contadini gli anabattisti e Thomas Münzer73; nella grande rivoluzione 
    inglese i Livellatori74; nella grande rivoluzione francese Babeuf75. Accanto 
    a queste levate di scudi rivoluzionarie di una classe ancora immatura fecero 
    la loro comparsa manifestazioni teoriche ad esse adeguate: nei secoli XVI 
    e XVII le descrizioni utopistiche di regimi sociali ideali76, nel secolo XVIII 
    le teorie comuniste vere e proprie (Morelly e Mably77). La rivendicazione 
    dell'eguaglianza non si limitò più ai diritti politici, essa 
    doveva estendersi anche alla posizione sociale dei singoli; non si dovevano 
    sopprimere semplicemente privilegi di classe, ma le stesse differenze di classe. 
    La prima forma con cui la nuova dottrina fece la sua comparsa fu così 
    un comunismo ascetico che si ricollegava a Sparta e spregiatore di tutti i 
    godimenti della vita. Seguirono poi i tre grandi utopisti: Saint-Simon, nel 
    quale le tendenze borghesi conservavano ancora una certa validità accanto 
    alla tendenza proletaria, Fourier e Owen, il quale, nel paese in cui la produzione 
    capitalistica era più sviluppata e sotto l'impressione degli antagonismi 
    che ne risultavano, ricollegandosi direttamente al materialismo francese, 
    sviluppò sistematicamente i suoi progetti per l'eliminazione delle 
    differenze di classe.
    È comune a tutti e tre il fatto che essi non si presentano come rappresentanti 
    degli interessi del proletariato, che frattanto si era prodotto storicamente. 
    Come gli illuministi essi non vogliono cominciare col liberare una classe 
    determinata, ma tutta quanta l'umanità ad un tempo. Come quelli, essi 
    vogliono instaurare il regno della ragione e della giustizia eterna; ma il 
    loro regno differisce da quello degli illuministi come la terra dal cielo. 
    Anche il mondo borghese ordinato secondo i princìpi di questi illuministi 
    è irrazionale e ingiusto e trova il suo posto nel secchio dell'immondizia 
    proprio come il feudalesimo e tutti i regimi sociali precedenti. Se la ragione 
    e la giustizia effettive non hanno sino ad ora regnato nel mondo, ciò 
    proviene solo dal fatto che non se ne è avuta sino ad ora una giusta 
    conoscenza. Mancava proprio quel singolo uomo geniale che ora è apparso 
    e ha riconosciuto la verità; che esso sia comparso ora, che proprio 
    ora sia stata riconosciuta la verità, non è un avvenimento inevitabile 
    che consegua necessariamente dal nesso dello sviluppo storico, ma un puro 
    caso fortunato. Sarebbe potuto nascere ugualmente cinquecento anni prima e 
    avrebbe allora risparmiato all'umanità cinquecento anni di errori, 
    di lotte e di sofferenze78.
    Abbiamo visto come i filosofi francesi del XVIII secolo, coloro che prepararono 
    la rivoluzione, si appellassero alla ragione come unico giudice di tutto ciò 
    che esiste. Dovevano istituirsi uno Stato secondo ragione e una società 
    secondo ragione e tutto ciò che contraddiceva alla ragione eterna doveva 
    essere eliminato senza misericordia. Abbiamo visto del pari che questa ragione 
    eterna in realtà non era altro che l'intelletto idealizzato del cittadino 
    della classe media che proprio allora andava evolvendosi nel borghese moderno. 
    Ora, quando la rivoluzione francese ebbe realizzato questa società 
    secondo ragione e questo Stato secondo ragione, le nuove istituzioni, per 
    quanto razionali esse fossero a paragone del precedente stato di cose, tuttavia 
    non risultarono affatto assolutamente razionali. Lo Stato secondo ragione 
    era completamente andato in fumo. Il Contratto sociale di Rousseau aveva trovato 
    la sua realizzazione nel Terrore79, uscita dal quale la borghesia, che aveva 
    perduto la fede nella propria capacità politica, si era rifugiata prima 
    nella corruzione del Direttorio80 e finalmente sotto la protezione del dispotismo 
    napoleonico.
    La pace perpetua che era stata promessa si trasformò in una guerra 
    di conquista senza fine. La società secondo ragione non ebbe sorte 
    migliore. Il contrasto tra ricchi e poveri, anziché risolversi nel 
    benessere generale, fu acuito dall'eliminazione dei privilegi corporativi 
    e di altro genere che lo mitigavano e dalle istituzioni ecclesiastiche di 
    beneficenza che lo attenuavano; la "libertà della proprietà" 
    dai ceppi feudali, diventata ora una realtà, si presentava ai piccoli 
    borghesi e ai piccoli contadini come la libertà di vendere la loro 
    piccola proprietà, schiacciata dalla concorrenza preponderante del 
    grande capitale e della grande proprietà terriera, precisamente a questi 
    grandi signori, e quindi come libertà di trasformarsi, per i piccoli 
    borghesi e i piccoli contadini, nella libertà dalla proprietà; 
    lo slancio dell'industria su base capitalistica elevò miseria e povertà 
    delle masse lavoratrici a condizione di vita per la società. Il pagamento 
    in contanti divenne sempre più, secondo l'espressione di Carlyle81 
    l'unico elemento di coesione della società. Il numero dei delitti crebbe 
    di anno in anno. Se i vizi feudali che prima facevano spudoratamente mostra 
    di sé alla luce del sole, furono, se non soppressi, almeno temporaneamente 
    confinati in secondo piano, al loro posto tanto più rigogliosamente 
    fiorirono i vizi borghesi fino ad allora coltivati in segreto. Il commercio, 
    sviluppandosi, divenne sempre più imbroglio. La parola d'ordine rivoluzionaria 
    della "fratellanza" si realizzò nelle angherie e nell'invidia 
    della lotta della concorrenza. Al posto dell'oppressione violenta subentrò 
    la corruzione, al posto della spada, quale leva principale del potere sociale, 
    subentrò il denaro. Il diritto della prima notte passò dai signori 
    feudali ai fabbricanti borghesi. La prostituzione dilagò in misura 
    sinora inaudita. Il matrimonio stesso rimase, come prima, una forma giuridicamente 
    riconosciuta, un mantello che ufficialmente copriva la prostituzione e venne 
    inoltre completato dall'adulterio praticato su larga scala. Per farla breve, 
    confrontate con le pompose promesse degli illuministi, le istituzioni sociali 
    e politiche instaurate col "trionfo della ragione" si rivelarono 
    caricature e amare delusioni. Mancavano ancora solo gli uomini che constatassero 
    questa delusione: e questi uomini vennero all'inizio del nuovo secolo. Nel 
    1802 apparvero le Lettere ginevrine di Saint-Simon; nel 1808 apparve la prima 
    opera di Fourier, quantunque le basi della sua storia datassero dal 1799; 
    il primo gennaio del 1800 Robert Owen prese la direzione di New Lanark82.
    Ma in questo periodo il modo di produzione capitalistico e con esso l'antagonismo 
    tra borghesia e proletariato era ancora poco o nulla sviluppato. La grande 
    industria che era appena sorta in Inghilterra era ancora sconosciuta in Francia. 
    Ma solo la grande industria sviluppa, da una parte, quei conflitti che rendono 
    ineluttabilmente necessario un rivoluzionamento del modo di produzione, la 
    soppressione del suo carattere capitalistico, conflitti non solo tra le classi 
    che essa forma, ma anche tra le stesse forze produttive e le forme di scambio 
    che essa parimenti crea; e dall'altra sviluppa proprio in queste gigantesche 
    forze produttive anche i mezzi per risolvere questi conflitti. Se quindi intorno 
    al 1800 i conflitti scaturenti dal nuovo ordinamento sociale erano solo sul 
    nascere, questo vale ancora molto di più riguardo ai mezzi per la loro 
    soluzione. Se le masse nullatenenti di Parigi durante il Terrore avevano potuto, 
    per un istante, conquistare il potere e così portare alla vittoria 
    la rivoluzione borghese anche contro la borghesia, con questo fatto esse avevano 
    dimostrato solo che nelle condizioni di allora non era possibile che il potere 
    rimanesse a lungo nelle loro mani. Il proletariato che cominciava appena a 
    distaccarsi da queste masse nullatenenti, come ceppo di una nuova classe ancora 
    assolutamente incapace di un'azione politica indipendente, si presentava come 
    un ceto oppresso, sofferente, al quale, nella incapacità in cui era 
    di aiutarsi da se stesso, un aiuto poteva tutt'al più portarsi dall'esterno, 
    dall'alto.
    Questa situazione storica teneva in suo potere anche i fondatori del socialismo, 
    all'immaturità della posizione delle classi, corrispondevano teorie 
    immature. La soluzione delle questioni sociali, che restava ancora celata 
    nelle condizioni economiche poco sviluppate, doveva uscire dal cervello umano. 
    La società non offriva che inconvenienti: eliminarli era compito della 
    ragione pensante. Si trattava di inventare un nuovo e più perfetto 
    sistema di ordinamento sociale e di elargirlo alla società dall'esterno, 
    con la propaganda e, dove fosse possibile, con l'esempio di esperimenti modello. 
    Questi nuovi sistemi sociali erano, sin dal principio, condannati ad essere 
    utopie: quanto più erano elaborati nei loro particolari, tanto più 
    dovevano andare a finire nella pura fantasia.
    Una volta stabilito tutto questo, non ci fermeremo neanche un momento di più 
    su questo lato che oggi appartiene completamente al passato. Possiamo lasciare 
    a rigattieri della letteratura il compito di andare in giro sofisticando solennemente 
    su queste fantasticherie, che oggi ormai fanno soltanto sorridere, e il far 
    valere di fronte a tali "follie" la superiorità del loro 
    sobrio modo di pensare. Noi preferiamo invece rallegrarci dei germi geniali 
    di idee e dei pensieri che affiorano dovunque sotto questo manto fantastico 
    e per i quali quei filistei non hanno occhi.
    Saint-Simon fu un figlio della grande rivoluzione francese, scoppiata quando 
    egli non aveva ancora trent'anni. La rivoluzione fu la vittoria del terzo 
    stato, cioè della gran massa della nazione attiva nella produzione 
    e nel commercio, sugli stati oziosi sino allora privilegiati: la nobiltà 
    e il clero. Ma la vittoria del terzo stato si era presto rivelata come la 
    vittoria esclusiva di una piccola parte di questo stato, come la conquista 
    del potere politico da parte dello strato sociale privilegiato di esso, la 
    borghesia possidente. E invero questa borghesia si era rapidamente sviluppata 
    già durante la rivoluzione, sia mediante la speculazione sulla proprietà 
    terriera nobiliare ed ecclesiastica confiscata e poi venduta, sia mediante 
    la frode compiuta ai danni della nazione dai fornitori militari. Fu proprio 
    il dominio di questi imbroglioni che sotto il Direttorio condusse la Francia 
    e la rivoluzione sull'orlo della rovina e con ciò dette a Napoleone 
    il pretesto per il suo colpo di Stato. Così nella testa di Saint-Simon 
    l'antagonismo fra terzo stato e stati privilegiati prese la forma dell'antagonismo 
    tra "lavoratori" ed "oziosi". Gli oziosi non erano soltanto 
    gli antichi privilegiati, ma anche tutti coloro che vivevano di rendite senza 
    partecipare alla produzione e al commercio. E i "lavoratori" non 
    erano soltanto i salariati, ma anche i fabbricanti, i mercanti e i banchieri. 
    Che gli oziosi avessero perduto la capacità della direzione spirituale 
    e del dominio politico era un fatto compiuto e dalla rivoluzione aveva avuto 
    l'ultimo suggello. Che i nullatenenti non possedessero questa capacità, 
    questo fatto appariva a Saint-Simon provato dalle esperienze del Terrore. 
    Ma chi doveva dirigere e dominare? Secondo Saint-Simon la scienza e l'industria, 
    entrambe tenute insieme da un nuovo vincolo religioso, destinato a ristabilire 
    l'unità delle idee religiose distrutta sin dal tempo della Riforma: 
    un "nuovo cristianesimo" necessariamente mistico e rigidamente gerarchico. 
    Ma la scienza erano i professori e l'industria erano in prima linea i borghesi 
    attivi, fabbricanti, mercanti e banchieri. Questi borghesi si sarebbero, è 
    vero, dovuti tramutare in una specie di pubblici ufficiali, di amministratori 
    fiduciari della società, ma tuttavia avrebbero dovuto occupare di fronte 
    agli operai una posizione di comando e anche economicamente privilegiata. 
    I banchieri specialmente avrebbero dovuto essere chiamati a regolare, mediante 
    una regolamentazione del credito, tutta la produzione sociale. Questa concezione 
    corrispondeva ad un periodo in cui in Francia la grande industria e con essa 
    l'antagonismo tra borghesia e proletariato era proprio solo sul nascere. Ma 
    ciò che Saint-Simon particolarmente accentua è questo: che a 
    lui ciò che in primo luogo importa dovunque e sempre è la sorte 
    della "classe più numerosa e più povera" (la classe 
    la plus nombreuse et la plus pauvre).
    Saint-Simon già nelle sue Lettere ginevrine stabilisce il principio 
    che "tutti gli uomini debbono lavorare". Nello stesso scritto sa 
    già che il dominio del Terrore fu il dominio delle masse nullatenenti. 
    "Guardate - grida loro - che cosa accadde in Francia nel periodo in cui 
    vi dominavano i vostri compagni: essi portarono la fame". Concepire invece 
    la rivoluzione francese come una lotta di classi e non solo tra nobiltà 
    e borghesia, ma tra nobiltà, borghesia e nullatenenti era per l'anno 
    1802, una scoperta genialissima. Nel 1816 egli dichiara che la politica è 
    la scienza della produzione e predice che la politica si dissolverà 
    completamente nell'economia. Se il riconoscimento che la realtà economica 
    è la base delle istituzioni politiche, appare qui soltanto ancora in 
    germe, tuttavia la trasformazione del governo politico, esercitato su uomini, 
    in un'amministrazione di cose e in una direzione di processi produttivi, è 
    qui espressa già chiaramente e con essa quell'"abolizione dello 
    Stato", su cui di recente si è fatto tanto chiasso83. Con pari 
    superiorità sui suoi contemporanei egli proclama nel 1814, immediatamente 
    dopo l'entrata degli alleati a Parigi84, e ancora nel 1815 durante la guerra 
    dei cento giorni85, che l'alleanza della Francia con l'Inghilterra, e secondariamente 
    l'alleanza di tutti e due i Paesi con la Germania, è per l'Europa l'unica 
    garanzia di uno sviluppo prosperoso e di pace. Per predicare ai francesi del 
    1815 l'alleanza con i vincitori di Waterloo86, ci voleva certo altrettanto 
    coraggio quanto lungimiranza storica.
    Mentre in Saint-Simon scorgiamo una geniale larghezza di vedute grazie alla 
    quale in lui sono contenute in germe quasi tutte le idee non rigorosamente 
    economiche dei socialisti venuti più tardi, in Fourier troviamo una 
    critica delle vigenti condizioni sociali, ricca di uno spirito schiettamente 
    francese, ma non perciò meno profondamente penetrante. Fourier prende 
    in parola la borghesia, i suoi ispirati profeti prerivoluzionari e i suoi 
    interessati apologisti postrivoluzionari. Egli svela spietatamente la miseria 
    materiale e morale del mondo borghese e le contrappone tanto le splendide 
    promesse degli illuministi di una società in cui dominerà la 
    ragione, di una civiltà che darà ogni felicità e di una 
    perfettibilità umana illimitata, quanto l'ipocrita fraseologia degli 
    ideologi borghesi contemporanei, dimostrando come, dovunque, alla frase più 
    altisonante corrisponda la realtà più miserevole, e coprendo 
    di beffe mordaci questo irrimediabile fiasco delle frasi. Fourier non è 
    solo un critico; la sua natura perennemente gaia ne fa un satirico e precisamente 
    uno dei più grandi satirici di tutti i tempi. La speculazione e la 
    frode che fiorirono col tramonto della rivoluzione, nonché la generale 
    grettezza da rigattiere del commercio francese di allora, vengono descritte 
    da lui con uno spirito pari alla sua maestria. Ancora più magistrale 
    è la sua critica della forma borghese dei rapporti sessuali e della 
    posizione della donna nella società borghese87. Egli dichiara per la 
    prima volta che, in una data società, il grado di emancipazione della 
    donna è la misura naturale dell'emancipazione generale. Ma dove Fourier 
    appare più grande è nella sua concezione della storia della 
    società. Egli divide tutto il suo corso quale sinora si è svolto 
    in quattro fasi di sviluppo: stato selvaggio, barbarie, stato patriarcale, 
    civiltà88, la quale ultima coincide con quella che oggi si chiama società 
    borghese e dimostra che l'"ordinamento civile eleva ognuno di quei vizi, 
    che la barbarie pratica in una maniera semplice, ad un modo di essere complesso, 
    a doppio senso, ambiguo e ipocrita", che la civiltà si muove in 
    un "circolo vizioso", in contraddizioni che continuamente riproduce 
    senza poterle superare, cosicché essa raggiunge sempre il contrario 
    di ciò che vuol raggiungere o che dà a vedere di voler raggiungere. 
    Cosicché, per esempio, "nella civiltà la povertà 
    sorge dalla stessa abbondanza". Fourier, come si vede, maneggia la dialettica 
    con la stessa maestria del suo contemporaneo Hegel. Con pari dialettica egli, 
    di fronte alle chiacchiere sulla infinita perfettibilità umana, mette 
    in rilievo il fatto che ogni fase storica ha il suo ramo ascendente, ma ha 
    anche il suo ramo discendente ed applica questo modo di vedere anche al futuro 
    di tutta la umanità. Come Kant introdusse nella scienza naturale la 
    futura distruzione della terra, così Fourier introduce nel pensiero 
    storiografico la futura distruzione dell'umanità.
    Mentre in Francia l'uragano della rivoluzione ripulì il paese, in Inghilterra 
    avvenne una rivoluzione più silenziosa ma non perciò meno poderosa. 
    Il vapore e le nuove macchine utensili trasformarono la manifattura nella 
    grande industria moderna e rivoluzionarono così tutta la base della 
    società borghese. Il sonnolento processo di sviluppo del periodo della 
    manifattura si trasformò in un vero periodo di tempestoso sviluppo 
    della produzione89. Con velocità sempre crescente si compì la 
    scissione della società in grandi capitalisti e proletari nullatenenti: 
    tra queste due classi invece del ceto medio ben definito di una volta, una 
    massa instabile di artigiani e di piccoli commercianti, la parte più 
    fluttuante della popolazione, conduceva ora un'esistenza malsicura. Il nuovo 
    modo di produzione era ancora solo all'inizio della sua fase ascendente: esso 
    era ancora il modo di produzione normale e date le circostanze, l'unico modo 
    possibile. Ma già allora produceva inconvenienti sociali stridenti: 
    assembrarsi di una popolazione senza sede nei peggiori quartieri delle grandi 
    città; dissolversi di tutti i legami tradizionali, della subordinazione 
    patriarcale, della famiglia; sopralavoro specialmente delle donne e dei fanciulli 
    in misura spaventosa; enorme demoralizzazione della classe operaia gettata 
    improvvisamente a vivere in condizioni del tutto nuove: dalla campagna alla 
    città, dall'agricoltura all'industria, da condizioni stabili a condizioni 
    malsicure e mutevoli di giorno in giorno90. Apparve allora come riformatore 
    un industriale ventinovenne, un uomo dal carattere di fanciullo, semplice 
    sino al sublime e ad un tempo dirigente nato come pochi. Robert Owen aveva 
    fatta sua la dottrina dei materialisti dell'illu-minismo, secondo la quale 
    il carattere dell'uomo è, da una parte, il prodotto dell'organizzazione 
    in cui nasce e, dall'altra, delle circostanze che lo circondano durante la 
    sua vita e specialmente durante il periodo del suo sviluppo. Nella rivoluzione 
    industriale la maggior parte degli uomini del suo ceto vedeva solo confusione 
    e caos, che permettono di pescare nel torbido ed arricchirsi rapidamente. 
    Egli vide in essa invece l'occasione per applicare il suo principio favorito 
    e così mettere ordine nel caos. Lo aveva già tentato con successo 
    a Manchester come dirigente di una fabbrica di più di cinquecento operai; 
    dal 1800 al 1829 diresse in qualità di condirettore le grandi filande 
    di New Lanark in Scozia seguendo gli stessi princìpi, ma solo con maggiore 
    libertà di azione e con un successo che gli procurò rinomanza 
    europea. Una popolazione, che salì a poco a poco a 2.500 unità 
    e che originariamente si componeva degli elementi più svariati e per 
    la massima parte fortemente demoralizzati, fu da lui trasformata in una perfetta 
    colonia modello, nella quale l'ubriachezza, la polizia, il giudice penale, 
    i processi, l'assistenza ai poveri, il bisogno di beneficenza erano cose sconosciute. 
    E tutto questo semplicemente per il fatto che egli mise quella gente in condizioni 
    più degne dell'uomo e, soprattutto, fece educare accuratamente la generazione 
    nuova. Egli fu l'inventore degli asili d'infanzia e li introdusse qui per 
    la prima volta. A partire dal secondo anno di vita i bambini venivano a scuola 
    dove tanto si divertivano che a stento potevano essere ricondotti a casa. 
    Mentre i suoi concorrenti facevano lavorare da tredici a quattordici ore al 
    giorno, a New Lanark si lavorava solo dieci ore e mezza. Allorché una 
    crisi cotoniera costrinse a fermare il lavoro per la durata di quattro mesi, 
    agli operai in ferie fu corrisposto il pieno salario. E, così stando 
    le cose, lo stabilimento aveva più che raddoppiato di valore e corrisposto 
    sino all'ultimo ai proprietari un lauto profitto.
    Con tutto ciò Owen non era soddisfatto. L'esistenza che aveva creato 
    per i suoi operai era ancora ai suoi occhi molto lontana dall'essere un'esistenza 
    degna dell'uomo; "quegli uomini erano miei schiavi": le condizioni 
    relativamente favorevoli in cui egli li aveva messi erano ancora molto lontane 
    dal permettere uno sviluppo generale e razionale del carattere e dell'intelletto 
    e meno ancora permettevano una libera attività.
    "E tuttavia la parte attiva di questi 2.500 uomini produceva per la società 
    altrettanta ricchezza reale quanta appena un mezzo secolo prima avrebbe potuto 
    produrne una popolazione di 600.000 uomini. Io mi chiedevo: che cosa avviene 
    della differenza tra la ricchezza consumata da 2.500 persone e quella che 
    i 600.000 avrebbero dovuto consumare?".
    La risposta era chiara. Essa era stata impiegata per versare ai proprietari 
    dello stabilimento il 5% di interesse sul capitale investito ed inoltre più 
    di 300.000 lire sterline (6 milioni di marchi) di profitto. E ciò che 
    era vero per New Lanark, lo era, e in misura ancora maggiore, per tutte le 
    fabbriche inglesi.
    "Senza questa nuova ricchezza creata dalle macchine non si sarebbero 
    potute condurre le guerre per abbattere Napoleone, e per mantenere i princìpi 
    aristocratici della società. Eppure questo nuovo potere era stato creato 
    dalla classe operaia*6.
    Ad essa perciò ne appartenevano anche i frutti. Le nuove potenti forze 
    produttive, che sino ad allora erano servite solo per l'arricchimento dei 
    singoli e l'asservimento delle masse, offrivano a Owen le basi per un rinnovamento 
    sociale ed erano destinate, come proprietà comune, a lavorare solo 
    per il benessere comune.
    In una tale maniera, tipica del mondo degli affari, e, per così dire, 
    frutto del calcolo commerciale, sorse il comunismo di Owen. E mantenne sempre 
    lo stesso carattere orientato verso la pratica. Così nel 1823 Owen 
    propose di eliminare la miseria irlandese mediante colonie comuniste e allegò 
    al progetto calcoli perfetti sulle spese di impianto, sulle spese annue e 
    sui redditi prevedibili. E così nel suo piano definitivo per l'avvenire, 
    l'elaborazione tecnica dei dettagli, compreso lo schizzo, il piano e la visuale 
    a volo d'uccello è condotta con tale cognizione di causa che, una volta 
    ammesso il metodo di riforma sociale proposto da Owen, anche dal punto di 
    vista di uno specialista, ben poco si può dire contro l'organizzazione 
    particolare.
    Il passaggio al comunismo fu il punto critico della vita di Owen. Sino a quando 
    si era presentato come semplice filantropo non aveva raccolto che ricchezza, 
    plausi, onori e gloria. Era l'uomo più popolare d'Europa. Non solo 
    uomini del suo ceto, ma uomini di Stato e prìncipi lo ascoltavano plaudendo. 
    Ma quando si fece avanti con le sue teorie comuniste, la situazione cambiò 
    di punto in bianco. Tre grandi ostacoli gli sembrava che soprattutto sbarrassero 
    la strada alla riforma sociale: la proprietà privata, la religione 
    e la forma attuale del matrimonio. Attaccandoli egli sapeva che cosa lo attendeva: 
    il bando da tutta la società ufficiale e la perdita di tutta la sua 
    posizione sociale. Ma non si lasciò distogliere dall'attaccarli senza 
    riguardi e avvenne quello che aveva previsto. Messo al bando dalla società 
    ufficiale, seppellito nel silenzio dalla stampa, impoverito dal fallimento 
    di esperimenti comunisti in America ai quali aveva sacrificato tutta la sua 
    fortuna, si volse direttamente alla classe operaia e rimase a lavorare nel 
    suo seno per altri trent'anni. Tutti i movimenti sociali, tutti i veri progressi 
    che in Inghilterra sono stati realizzati nell'interesse degli operai, sono 
    legati al nome di Owen. Così nel 1819, dopo una lotta quinquennale, 
    riuscì a fare approvare la prima legge per la limitazione del lavoro 
    delle donne e dei fanciulli nelle fabbriche. Così presiedette il primo 
    congresso in cui le Trade Unions di tutta l'Inghilterra si riunirono in un'unica 
    grande organizzazione sindacale91. Così introdusse, come misure di 
    transizione verso l'organizzazione completamente comunista della società, 
    da una parte, le società cooperative (di consumo e di produzione) che 
    da allora hanno per lo meno fornito la prova pratica che tanto il mercante 
    quanto il fabbricante sono persone delle quali si può benissimo fare 
    a meno, dall'altra parte, gli empori del lavoro, istituzioni per lo scambio 
    dei prodotti del lavoro per mezzo di una carta-moneta-lavoro la cui unità 
    era costituita dall'ora lavorativa92; istituzioni che necessariamente dovevano 
    fallire, ma che anticipavano in modo perfetto la banca di scambio proudhoniana93 
    di molto posteriore, e se ne distinguevano proprio perché non volevano 
    rappresentare la panacea di tutti i mali sociali, ma solo un primo passo per 
    una trasformazione molto più radicale della società.
    Il modo di vedere degli utopisti dominò a lungo le idee socialiste 
    del secolo XIX e in parte le domina ancora. Ad esso, fino a poco tempo fa, 
    si inchinarono tutti i socialisti francesi e inglesi, ad esso appartiene anche 
    il comunismo tedesco degli inizi compreso quello di Weitling94. Il socialismo 
    è per tutti loro l'espressione della assoluta verità, della 
    assoluta ragione, della assoluta giustizia e basta che sia scoperto perché 
    conquisti il mondo con la propria forza; poiché la verità assoluta 
    è indipendente dal tempo, dallo spazio e dallo sviluppo storico dell'uomo, 
    è un semplice caso quando e dove sia scoperta. Inoltre poi la verità, 
    la ragione e la giustizia assolute a loro volta sono diverse per ogni caposcuola; 
    e poiché la forma particolare che la verità, la ragione e la 
    giustizia assolute assumono è a sua volta condizionata dall'intelletto 
    soggettivo, dalle condizioni di vita, dal grado di cognizioni e di educazione 
    a pensare di ognuno di essi, in questo conflitto di assolute verità 
    non c'è nessun'altra soluzione possibile se non che esse si logorino 
    vicendevolmente. Così stando le cose, non poteva allora venir fuori 
    altro che una specie di socialismo medio eclettico, quale effettivamente regna 
    sino ad oggi nella testa della maggior parte degli operai socialisti in Francia 
    e in Inghilterra, una miscela che ammette un'infinita molteplicità 
    di sfumature, e che risulta da ciò che hanno di meno cospicuo le invettive 
    critiche, i princìpi di economia e le rappresentazioni della società 
    futura dei vari fondatori di sette; miscela che si ottiene tanto più 
    facilmente quanto più ai singoli elementi componenti, nel corso della 
    discussione, vengono smussati gli angoli acuti della precisione, come ciottoli 
    levigati nel torrente. Per fare del socialismo una scienza, bisognava anzitutto 
    farlo poggiare su una base reale.
    
    Capitolo II 
    Frattanto, accanto e dopo la filosofia francese del secolo XVIII era sorta 
    la filosofia tedesca moderna e aveva trovato la sua conclusione in Hegel. 
    Il suo merito maggiore fu la riassunzione della dialettica come la forma più 
    alta del pensiero. Gli antichi filosofi greci erano stati tutti dei dialettici, 
    per nascita, per natura, e la mente più universale che vi fu tra loro, 
    Aristotele, aveva già indagato anche le forme più essenziali 
    del pensiero dialettico. Per contro la filosofia moderna, quantunque la dialettica 
    anche in essa abbia avuto splendidi rappresentanti (per es., Descartes e Spinoza), 
    particolarmente per l'influenza inglese si era sempre più arenata nel 
    cosiddetto modo di pensare metafisico, che aveva dominato quasi esclusivamente 
    anche i filosofi francesi del secolo XVIII, almeno in quel che concerne i 
    loro lavori specificamente filosofici. Mentre, al di fuori della filosofia 
    propriamente detta, essi erano pure in condizione di dare dei capolavori di 
    dialettica; ricorderemo solo il Nipote di Rameau di Diderot95 e il Discorso 
    sull'origine della diseguaglianza tra gli uomini di Rousseau. Daremo qui brevemente 
    l'essenziale di questi due metodi di pensiero.
    Se sottoponiamo alla considerazione del nostro pensiero la natura o la storia 
    umana o la nostra specifica attività spirituale, ci si offre anzitutto 
    il quadro di un infinito intreccio di nessi, di azioni reciproche, in cui 
    nulla rimane quel che era, dove era e come era, ma tutto si muove, si cambia, 
    nasce e muore. Noi, quindi, in un primo tempo vediamo il quadro d'insieme 
    nel quale i particolari più o meno passano in seconda linea e badiamo 
    più al movimento, ai passaggi, ai nessi, che a ciò che si muove, 
    passa e sta in connessione. Questa visione primitiva, ingenua, ma sostanzialmente 
    giusta del mondo è quella dell'antica filosofia greca e fu espressa 
    chiaramente per la prima volta da Eraclito96: tutto è ed anche non 
    è, perché tutto scorre, è in continuo cambiamento, in 
    continuo nascere e morire. Ma questa concezione, sebbene colga giustamente 
    il carattere generale del quadro d'insieme dei fenomeni, pure non è 
    ancora sufficiente per spiegare i particolari di cui questo quadro d'insieme 
    si compone, e sino a quando non conosceremo questi particolari, non saremo 
    chiaramente edotti neppure del quadro stesso. Ma per conoscere questi particolari 
    dobbiamo staccarli dal loro nesso naturale o storico ed esaminarli ciascuno 
    per sé, nella loro natura, nelle loro cause, nei loro effetti particolari, 
    ecc. Questo è il compito che hanno in un primo tempo le scienze naturali 
    e la ricerca storica, campi d'indagine che per ragioni molto valide non ebbero 
    presso i greci dell'età classica che una posizione di secondo piano, 
    perché questi dovevano prima di tutto raccogliere il materiale. Solo 
    dopo che una certa quantità di materiale della natura e della storia 
    è stato accumulato, può cominciare il vaglio critico, il raffronto 
    e rispettivamente la divisione in classi, ordini e specie. Gli inizi dell'indagine 
    scientifica della natura sorsero solo con i greci del periodo alessandrino97 
    e, più tardi, nel Medioevo, furono ulteriormente sviluppati dagli arabi; 
    una vera scienza della natura data, però, solo dalla seconda metà 
    del secolo XV e da allora ha progredito con celerità costantemente 
    crescente. L'analisi della natura nelle sue singole parti, la ripartizione 
    dei diversi fenomeni e degli oggetti della natura in classi determinate, l'indagine 
    dell'interno dei corpi organici nelle loro molteplici conformazioni anatomiche 
    sono state la condizione principale dei progressi giganteschi che nella conoscenza 
    della natura gli ultimi quattrocento anni ci hanno portato. Ma questo metodo 
    ci ha del pari lasciato la abitudine di concepire le cose e i fenomeni della 
    natura nel loro isolamento, al di fuori del loro vasto nesso d'insieme; di 
    concepirli perciò non nel loro movimento, ma nel loro stato di quiete, 
    non come essenzialmente mutevoli, ma come entità fisse e stabili, non 
    nella loro vita, ma nella loro morte. E poiché questa maniera di vedere 
    le cose, come è accaduto con Bacone e con Locke, è passata dalle 
    scienze naturali nella filosofia, ha prodotto la limitatezza specifica degli 
    ultimi secoli, cioè il modo di pensare metafisico.
    Per il metafisico le cose e le loro immagini riflesse nel pensiero, i concetti, 
    sono oggetti isolati di indagine, da considerarsi successivamente e indipendentemente 
    l'uno dall'altro, fissi, rigidi, dati una volta per sempre. Egli pensa per 
    antitesi assolutamente immediate; il suo discorso è: sì, sì; 
    no, no, e il resto viene dal maligno. Per lui, una cosa esiste o non esiste; 
    ugualmente è impossibile che una cosa nello stesso tempo sia se stessa 
    ed un'altra. Positivo e negativo si escludono reciprocamente in modo assoluto; 
    causa ed effetto stanno del pari in rigida opposizione reciproca. Questa maniera 
    di pensare ci appare a prima vista estremamente plausibile per il fatto che 
    essa è proprio quella del cosiddetto senso comune. Solo che il senso 
    comune, per quanto sia un compagno tanto rispettabile finché sta nello 
    spazio compreso tra le quattro pareti domestiche, va incontro ad avventure 
    assolutamente sorprendenti appena si arrischia nel vasto mondo dell'indagine 
    scientifica; e la maniera metafisica di vedere le cose, giustificata e perfino 
    necessaria in campi la cui estensione è più o meno vasta a seconda 
    della natura dell'oggetto, tuttavia, ogni volta, prima o poi, urta contro 
    un limite, al di là del quale diventa unilaterale, limitata, astratta 
    e si avvolge in contraddizioni insolubili, giacché, per le cose singole, 
    dimentica il loro nesso, per il loro essere, dimentica il loro sorgere e tramontare, 
    per il loro stato di quiete, dimentica il loro movimento, giacché, 
    per vedere gli alberi, non vede la foresta. Per es., per i casi della vita 
    quotidiana, sappiamo e possiamo dire con precisione se un animale esiste o 
    meno; ma se indaghiamo con maggiore precisione, troveremo che alle volte questa 
    è una cosa estremamente complessa, come sanno molto bene i giuristi, 
    che invano si sono tormentati per scoprire un limite razionale a partire dal 
    quale la soppressione del feto nel seno materno è un assassinio; e 
    del pari è impossibile stabilire l'istante della morte, poiché 
    la fisiologia dimostra che la morte non è un avvenimento unico ed istantaneo, 
    ma un fenomeno la cui durata è molto lunga. Parimenti ogni corpo organico, 
    in ogni istante è e non è il medesimo; in ogni istante elabora 
    materie tratte dall'esterno e ne secerne delle altre, in ogni istante cellule 
    del suo corpo muoiono e se ne formano di nuove; dopo un tempo più o 
    meno lungo la materia di questo corpo si è completamente rinnovata, 
    sostituita da altri atomi di materia, cosicché ogni essere organizzato 
    è costantemente il medesimo e pure un altro. Considerando le cose con 
    maggiore precisione, noi troviamo anche che i due poli di una opposizione, 
    il positivo e il negativo, sono tanto inseparabili l'uno dall'altro quanto 
    contrapposti e che malgrado tutto il loro carattere contraddittorio si compenetrano 
    vicendevolmente; troviamo del pari che causa ed effetto sono rappresentazioni 
    che hanno validità come tali solo se le applichiamo ad un caso singolo, 
    ma che nella misura in cui consideriamo questo fatto singolo nella sua connessione 
    generale con la totalità del mondo, queste rappresentazioni si confondono 
    e si dissolvono nella visione della universale azione reciproca, in cui cause 
    ed effetti si scambiano continuamente la loro posizione, ciò che ora 
    o qui è effetto, là o poi diventa causa e viceversa.
    Tutti questi fenomeni e metodi di pensiero non rientrano nel quadro del pensiero 
    metafisico. Per la dialettica invece, che considera le cose e le loro immagini 
    concettuali essenzialmente nel loro nesso, nel loro concatenamento, nel loro 
    movimento, nel loro sorgere e tramontare, fenomeni come quelli che abbiamo 
    riferiti sopra sono altrettante conferme della sua specifica maniera di procedere. 
    La natura è il banco di prova della dialettica e noi dobbiamo dire 
    a lode delle moderne scienze naturali che esse hanno fornito a questo banco 
    di prova un materiale estremamente ricco che va accumulandosi giornalmente 
    e che di conseguenza esse hanno dimostrato che, in ultima analisi, la natura 
    procede dialetticamente e non metafisicamente, che non si muove nell'eterna 
    uniformità di un circolo che di continuo si ripete ma percorre una 
    vera storia. Qui bisogna far menzione, prima di ogni altro, di Darwin che 
    ha assestato alla concezione metafisica della natura il colpo più vigoroso 
    con la sua dimostrazione che tutta quanta la natura organica, quale oggi esiste, 
    piante e animali, e conseguentemente anche l'uomo, è il prodotto di 
    un processo di sviluppo che è durato milioni di anni. Ma poiché 
    sino ad ora i naturalisti che hanno appreso a pensare dialetticamente si possono 
    contare sulle dita, la confusione senza limiti che domina oggi nelle scienze 
    naturali teoriche e che porta alla disperazione maestri e scolari, scrittori 
    e lettori si spiega con questo conflitto tra i risultati che sono stati scoperti 
    e la maniera tradizionale di pensare.
    Una rappresentazione esatta della totalità del mondo, del suo sviluppo 
    e di quello dell'umanità, nonché dell'immagine di questo sviluppo 
    quale si rispecchia nella testa degli uomini, può quindi effettuarsi 
    solo per via dialettica, prendendo costantemente in considerazione le azioni 
    reciproche del nascere e del morire, dei mutamenti progressivi o regressivi. 
    E in questo senso ha proceduto la filosofia tedesca moderna sin dal suo principio. 
    Kant iniziò la sua carriera scientifica risolvendo la stabilità 
    del sistema solare newtoniano, e la sua eterna durata, una volta dato il famoso 
    impulso iniziale, in un fenomeno che ha una storia: nella formazione, cioè, 
    del sole e di tutti i pianeti da una massa nebulosa rotante98. E ne trasse 
    già la conseguenza che data questa formazione, era data del pari necessariamente 
    la futura fine del sistema solare. Le sue vedute un mezzo secolo più 
    tardi ricevettero da Laplace una base matematica, e ancora un altro mezzo 
    secolo dopo, lo spettroscopio dimostrò l'esistenza nello spazio cosmico 
    di queste tali masse gassose incandescenti a diversi gradi di condensazione.
    Questa filosofia tedesca moderna trovò la sua conclusione nel sistema 
    hegeliano, nel quale, per la prima volta, e questo è il suo grande 
    merito, tutto quanto il mondo naturale, storico e spirituale venne presentato 
    come un processo, cioè in un movimento, in un cambiamento, in una trasformazione, 
    in uno sviluppo che mai hanno tregua, e fu fatto il tentativo di dimostrare 
    il nesso intimo esistente in questo movimento e in questo sviluppo. Mettendosi 
    da questo punto di vista, la storia dell'umanità appariva non più 
    come un groviglio confuso di violenze insensate che sono tutte ugualmente 
    condannabili davanti al tribunale della ragione filosofica, ora diventata 
    matura, e che è meglio dimenticare al più presto possibile, 
    ma come il processo di sviluppo della umanità stessa. E ora il compito 
    del pensiero consisteva nel seguire, attraverso tutte le deviazioni, la marcia 
    graduale di tale processo che si compie a poco a poco e dimostrarne, attraverso 
    tutte le accidentalità apparenti, l'intima regolarità.
    Che Hegel non abbia assolto questo compito, qui non ha importanza. Il suo 
    merito, che fa epoca, è quello di averlo posto, tanto più che 
    questo è un compito che nessun individuo da solo potrà mai assolvere. 
    Sebbene Hegel sia stato, con Saint-Simon, la mente più universale della 
    sua epoca, pure egli era limitato in primo luogo dall'ambito necessariamente 
    ristretto delle sue conoscenze e in secondo luogo dalle conoscenze e dalle 
    concezioni della sua epoca che, del pari, erano ristrette per ambito e profondità. 
    Ma a tutto ciò si aggiungeva anche una terza cosa. Hegel era un idealista, 
    cioè per lui i pensieri della sua testa non erano i riflessi, più 
    o meno astratti, delle cose e dei fenomeni reali, ma invece le cose e il loro 
    sviluppo erano i riflessi realizzati della "Idea" preesistente, 
    non si sa come, al mondo medesimo. Conseguentemente tutto veniva poggiato 
    sulla testa, e il nesso reale del mondo veniva completamente rovesciato. E 
    per quanto anche così alcuni nessi singoli venissero concepiti da Hegel 
    in modo giusto e geniale, pure, per le ragioni che sono state addotte, molto, 
    anche nei dettagli, doveva riuscire rabberciato, artificioso, architettato 
    di sana pianta, in breve, sovvertito. Il sistema di Hegel fu come tale un 
    colossale aborto, ma fu anche l'ultimo nel suo genere. Il fatto è che 
    esso era affetto da un'altra contraddizione interna insanabile; da una parte 
    aveva come suo presupposto essenziale la visione storica delle cose, secondo 
    la quale la storia umana è un processo di sviluppo che, per sua natura, 
    non può trovare la sua conclusione intellettuale nella scoperta di 
    una cosiddetta verità assoluta, mentre dall'altra parte afferma di 
    essere la quintessenza proprio di questa verità assoluta. Un sistema 
    che abbracci completamente e concluda una volta per sempre la conoscenza della 
    natura e della storia è in contraddizione con le leggi fondamentali 
    del pensiero dialettico; la qual cosa tuttavia non esclude affatto, ma invece 
    implica, che la conoscenza sistematica di tutto il mondo esterno possa fare 
    di generazione in generazione dei passi da gigante.
    La convinzione della completa assurdità dell'idealismo tedesco quale 
    era esistito sino allora condusse necessariamente al materialismo, ma, si 
    noti bene, non al materialismo puramente metafisico, esclusivamente meccanicistico, 
    del secolo XVIII. Anziché rigettare semplicemente, in modo ingenuamente 
    rivoluzionario, tutta la storia precedente, il materialismo moderno vede nella 
    storia il processo di sviluppo dell'umanità ed è suo compito 
    scoprirne le leggi di movimento. In contrasto con la rappresentazione dominante 
    tanto nei francesi del secolo XVIII che in Hegel, secondo la quale la natura 
    è un tutto che si muove in orbite ristrette e che rimane sempre eguale 
    a se stesso, con i suoi eterni corpi celesti, come aveva insegnato Newton99, 
    e con le sue specie immutabili di esseri organici, come aveva insegnato Linneo100, 
    il materialismo moderno riassume i moderni progressi delle scienze naturali, 
    secondo cui la natura ha anch'essa la sua storia svolgentesi nel tempo, i 
    corpi celesti nascono e muoiono, così come le specie degli organismi 
    dalle quali vengono abitati se si determinano circostanze favorevoli, e le 
    orbite, nella misura in cui sono in generale ammissibili, assumono delle dimensioni 
    infinitamente più grandiose. In entrambi i casi il materialismo moderno 
    è essenzialmente dialettico e non ha bisogno di una filosofia che stia 
    al di sopra delle altre scienze. Dal momento in cui si esige da ciascuna scienza 
    particolare che essa si renda conto della sua posizione nel nesso complessivo 
    delle cose e della conoscenza delle cose, ogni scienza particolare che abbia 
    per oggetto il nesso complessivo diventa superflua. Ciò che quindi 
    resta ancora in piedi, autonomamente, di tutta quanta la filosofia che si 
    è avuta sino ad ora è la dottrina del pensiero e delle sue leggi, 
    cioè la logica formale e la dialettica. Tutto il resto si risolve nella 
    scienza positiva della natura e della storia.
    Tuttavia, mentre il rovesciamento della concezione della natura non si poteva 
    compiere che nella misura in cui l'indagine forniva l'adeguato materiale di 
    conoscenze positive, già molto prima si erano verificati dei fatti 
    storici che determinarono una svolta decisiva nella concezione della storia. 
    Nel 1831 a Lione101 era avvenuta la prima sollevazione di operai, dal 1838 
    al 1842 aveva raggiunto il suo culmine il primo movimento operaio nazionale, 
    quello dei cartisti inglesi102. La lotta di classe tra il proletariato e la 
    borghesia si presentava in primo piano nella storia dei paesi più progrediti 
    d'Europa, nella stessa misura in cui in quei paesi si sviluppavano da una 
    parte la grande industria e dall'altra il dominio politico che la borghesia 
    aveva di recente conquistato. Le dottrine dell'economia borghese sulla identità 
    di interessi di capitale e lavoro, sull'armonia universale e sul benessere 
    universale del popolo come conseguenza della libera concorrenza venivano smentite 
    dai fatti in modo sempre più convincente. Tutte queste cose non potevano 
    più essere respinte come non si poteva respingere il socialismo francese 
    ed inglese che ne era la espressione teorica, anche se estremamente imperfetta. 
    Ma la vecchia concezione idealistica della storia, che non era stata ancora 
    soppiantata, non conosceva lotte di classi poggianti su interessi materiali; 
    la produzione e tutti i rapporti economici non facevano in essa la loro comparsa 
    che incidentalmente, come elementi subordinati della "storia della civiltà".
    I nuovi fatti costrinsero a sottoporre ad una nuova indagine tutta la storia 
    precedente e si vide allora che tutta la storia precedente, ad eccezione delle 
    età primitive, era la storia delle lotte delle classi, che queste classi 
    sociali che si combattono vicendevolmente sono di volta in volta risultati 
    dei rapporti di produzione e di scambio, in una parola dei rapporti economici 
    della loro epoca; che quindi di volta in volta la struttura economica della 
    società costituisce il fondamento reale partendo dal quale si deve 
    spiegare in ultima analisi tutta la sovrastruttura delle istituzioni giuridiche 
    e politiche, così come delle ideologie religiose, filosofiche e di 
    altro genere di ogni periodo storico. Hegel aveva liberato la concezione della 
    storia dalla metafisica, l'aveva resa dialettica; ma la sua concezione della 
    storia era essenzialmente idealistica. L'idealismo veniva ora cacciato dal 
    suo ultimo rifugio, la concezione della storia; veniva data una concezione 
    materialistica della storia e veniva trovata la via per spiegare la coscienza 
    degli uomini col loro essere, invece di spiegare, come si era fatto sino allora, 
    il loro essere con la loro coscienza.
    Conseguentemente il socialismo appariva adesso non più come scoperta 
    accidentale di questa o di quella testa geniale, ma come il risultato necessario 
    della lotta tra due classi formatesi storicamente: il proletariato e la borghesia. 
    Il suo compito non era più quello di approntare un sistema quanto più 
    possibile perfetto della società, ma quello di indagare il processo 
    storico economico da cui necessariamente erano sorte queste classi e il loro 
    conflitto, e scoprire nella situazione economica così creata, il mezzo 
    per la soluzione del conflitto. Ma con questa concezione materialistica era 
    altrettanto incompatibile il socialismo che era esistito sino allora, quanto 
    la concezione della natura del materialismo francese era incompatibile con 
    la dialettica e con le moderne scienze naturali. Il socialismo precedente 
    criticava, è vero, il vigente modo di produzione capitalistico e le 
    sue conseguenze, ma non poteva darne una spiegazione né quindi venirne 
    a capo: non poteva che respingerlo semplicemente come un male. Quanto più 
    violentemente esso inveiva contro lo sfruttamento della classe operaia, inseparabile 
    dal modo di produzione capitalistico, tanto meno era in grado di spiegare 
    chiaramente in che cosa consista e come sorga questo sfruttamento. Si trattava 
    invece da una parte di presentare questo modo di produzione capitalistico 
    nel suo nesso storico e nella sua necessità nell'ambito di un determinato 
    periodo storico, e quindi anche la necessità del suo tramonto, dall'altra, 
    invece, di svelare anche il suo carattere interno, che ancora era rimasto 
    celato. Questo si ebbe con la scoperta del plusvalore. Fu dimostrato che l'appropriazione 
    di lavoro non pagato è la forma fondamentale del modo di produzione 
    capitalistico e dello sfruttamento dell'operaio che con esso viene compiuto; 
    che il capitalista, anche se compra la forza lavoro del suo operaio secondo 
    il pieno valore che essa, come merce, ha sul mercato, ne trae tuttavia un 
    valore maggiore di quello che per essa ha pagato; e che in ultima analisi 
    questo plusvalore costituisce la somma di valore per cui la massa di capitale 
    continuamente crescente si accumula tra le mani delle classi possidenti. Il 
    processo tanto della produzione capitalistica che della produzione del capitale 
    era spiegato.
    Entrambe queste grandi scoperte: la concezione materialistica della storia 
    e la rivelazione del segreto della produzione capitalistica mediante il plusvalore, 
    le dobbiamo a Marx. Con queste due grandi scoperte il socialismo è 
    diventato una scienza che ora occorre anzitutto elaborare ulteriormente in 
    tutti i suoi particolari e nessi.
Capitolo III 
    La concezione materialistica della storia parte dal principio che la produzione 
    e, con la produzione, lo scambio dei suoi prodotti sono la base di ogni ordinamento 
    sociale; che, in ogni società che si presenta nella storia, la distribuzione 
    dei prodotti, e con essa l'articolazione della società in classi o 
    ceti, si modella su ciò che si produce, sul modo come si produce e 
    sul modo come si scambia ciò che si produce. Conseguentemente le cause 
    ultime di ogni mutamento sociale e di ogni rivolgimento politico vanno ricercate 
    non nella testa degli uomini, nella loro crescente conoscenza della verità 
    eterna e dell'eterna giustizia, ma nei mutamenti del modo di produzione e 
    di scambio; esse vanno ricercate non nella filosofia ma nell'economia dell'epoca 
    che si considera. Il sorgere della conoscenza che le istituzioni sociali vigenti 
    sono irrazionali ed ingiuste, che la ragione è diventata un nonsenso, 
    il beneficio un malanno103, è solo un segno del fatto che nei metodi 
    di produzione e nelle forme di scambio si sono inavvertitamente verificati 
    dei mutamenti per i quali non è più adeguato quell'ordinamento 
    sociale che si attagliava a condizioni economiche precedenti. Con ciò 
    è detto nello stesso tempo che i mezzi per eliminare gli inconvenienti 
    che sono stati scoperti debbono del pari esistere, più o meno sviluppati, 
    negli stessi mutati rapporti di produzione. Questi mezzi non devono, diciamo, 
    essere inventati dal cervello, ma essere scoperti per mezzo del cervello nei 
    fatti materiali esistenti della produzione.
    Su queste basi, quale è dunque la posizione del socialismo moderno?
    L'ordinamento sociale vigente, ed è questo un fatto ammesso ora quasi 
    generalmente, è stato creato dalla classe oggi dominante, la borghesia. 
    Il modo di produzione peculiare della borghesia, da Marx in poi designato 
    col nome di modo di produzione capitalistico, era incompatibile con i privilegi 
    locali e di ceto e con i vincoli personali reciproci dell'ordinamento feudale; 
    la borghesia infranse l'ordinamento feudale e sulle sue rovine instaurò 
    l'ordinamento sociale borghese, il regno della libera concorrenza, della libertà 
    di domicilio, dell'eguaglianza dei diritti dei possessori delle merci, insomma 
    tutte quelle che si chiamano delizie borghesi. Il modo di produzione capitalistico 
    si poté ora sviluppare liberamente. Le forze produttive elaborate sotto 
    la direzione della borghesia si svilupparono da quando il vapore e le nuove 
    macchine utensili trasformarono la vecchia manifattura nella grande industria 
    con celerità e proporzioni fino ad allora inaudite. Ma come a suo tempo 
    la manifattura, e l'artigianato che sotto l'influsso di essa si era ulteriormente 
    sviluppato, erano venuti in conflitto con i vincoli feudali delle corporazioni, 
    così la grande industria, arrivata al suo più pieno sviluppo, 
    viene in conflitto con i limiti entro i quali la confina il modo di produzione 
    capitalistico. Le nuove forze produttive hanno ormai superato la forma borghese 
    del loro sfruttamento; né questo conflitto tra forze produttive e modo 
    di produzione è un conflitto sorto nella testa degli uomini, come press'a 
    poco quello tra il peccato originale e la giustizia divina, ma esiste nei 
    fatti, obiettivamente, fuori di noi, indipendentemente dalla volontà 
    e dalla condotta stessa di quegli uomini che lo hanno determinato. Il socialismo 
    moderno non è altro che il riflesso ideale di questo conflitto reale, 
    il suo ideale rispecchiarsi, in primo luogo, nella testa della classe che 
    sotto di esso direttamente soffre, la classe operaia.
    Ora, in che cosa consiste questo conflitto?
    Prima della produzione capitalistica, cioè nel Medioevo, sussisteva 
    dappertutto la piccola produzione, fondata sul fatto che i lavoratori avevano 
    la proprietà privata dei loro mezzi di produzione: l'agricoltura dei 
    piccoli contadini, liberi o servi, l'artigianato delle città. l mezzi 
    di lavoro, terra, attrezzi agricoli, laboratori, utensili, erano mezzi di 
    lavoro individuali, destinati solo all'uso individuale, quindi necessariamente 
    modesti, minuscoli, limitati. Ma proprio perciò essi appartenevano 
    anche, di regola, al produttore stesso. Concentrare questi mezzi di produzione 
    sparpagliati e ristretti, estenderli, trasformarli nelle leve potentemente 
    efficienti della produzione attuale: questa è stata precisamente la 
    funzione storica del modo di produzione capitalistico e della classe che lo 
    rappresenta, la borghesia. Come essa abbia adempiuto questa sua funzione, 
    a partire dal secolo XV, passando per i tre stadi della cooperazione semplice, 
    della manifattura e della grande industria, è stato descritto diffusamente 
    da Marx nella quarta sezione del Capitale. Ma la borghesia, come vi è 
    parimenti dimostrato, non poteva trasformare quei mezzi di produzione limitati, 
    in possenti forze produttive, senza trasformarli da mezzi di produzione individuali 
    in mezzi di produzione sociali che possono essere usati solo da una collettività 
    di uomini. Al posto del filatoio, del telaio a mano, del maglio del fabbro, 
    subentrarono la macchina per filare, il telaio meccanico, il maglio a vapore; 
    al posto del laboratorio individuale subentrò la fabbrica, che esige 
    il lavoro associato di centinaia e di migliaia di uomini. E come i mezzi di 
    produzione, così la produzione stessa si trasformò da una serie 
    di atti individuali in una serie di atti sociali e i prodotti si trasformarono 
    da prodotti individuali in prodotti sociali. Il filo, il tessuto, gli oggetti 
    di metallo che ora uscivano dalla fabbrica, erano il prodotto comune di molti 
    operai, per le cui mani essi dovevano passare successivamente prima di essere 
    pronti. Nessuno di loro può dire individualmente: "Questo l'ho 
    fatto io, è il mio prodotto".
    Ma là dove la divisione naturale del lavoro sorta a poco a poco senza 
    un piano, è la forma fondamentale della produzione, in seno alla società, 
    essa imprime ai prodotti la forma di merci il cui scambio reciproco, compra 
    e vendita, mette i singoli produttori in condizione di soddisfare i loro svariati 
    bisogni. Questo avveniva nel Medioevo. Il contadino, per esempio, vendeva 
    prodotti agricoli all'artigiano e a sua volta comprava da esso prodotti artigiani. 
    In questa società di produttori individuali, di produttori di merci, 
    si insinuò dunque il nuovo modo di produzione. Nel beI mezzo della 
    divisione del lavoro, naturale, priva di un piano, quale dominava in tutta 
    la società, questo nuovo modo di produzione instaurò la divisione 
    del lavoro secondo un piano, quale era organizzata nella singola fabbrica; 
    accanto alla produzione individuale comparve la produzione sociale. I prodotti 
    di entrambe venivano venduti allo stesso mercato e quindi a prezzi, almeno 
    approssimativamente, eguali. Ma l'organizzazione secondo un piano era più 
    forte della divisione naturale del lavoro; le fabbriche che lavoravano socialmente 
    producevano i loro prodotti più a buon mercato che non i piccoli produttori 
    isolati. La produzione individuale soggiacque successivamente in tutti i campi, 
    la produzione sociale rivoluzionò tutto l'antico modo di produzione. 
    Ma questo suo carattere rivoluzionario fu così poco riconosciuto che, 
    al contrario, essa fu introdotta come mezzo per accrescere e favorire la produzione 
    delle merci. Essa sorse ricollegandosi direttamente a leve determinate e già 
    esistenti della produzione e dello scambio delle merci: il capitale mercantile, 
    l'artigianato, il lavoro salariato. Poiché essa stessa si presentava 
    come una nuova forma della produzione di merci, le forme di appropriazione 
    della produzione di merci rimasero in pieno vigore anche per essa.
    Nella produzione di merci, quale si era sviluppata nel Medioevo, non poteva 
    affatto sorgere la questione a chi dovesse appartenere il prodotto del lavoro. 
    Il produttore individuale lo aveva, di regola, confezionato con una materia 
    prima che gli apparteneva e che spesso era prodotta da lui stesso, con mezzi 
    di lavoro propri e col lavoro manuale proprio o della sua famiglia. Non c'era 
    assolutamente nessun bisogno che egli se lo appropriasse, gli apparteneva 
    in modo assolutamente spontaneo. La proprietà dei prodotti era quindi 
    fondata sul proprio lavoro. Anche laddove ci si serviva di aiuto altrui, di 
    regola quest'aiuto restava cosa accessoria e chi lo prestava frequentemente 
    riceveva, oltre al salario, anche un'altra remunerazione: l'apprendista e 
    il garzone delle corporazioni lavoravano per avviarsi a diventare maestri, 
    più che per il vitto e il salario. A questo punto venne la concentrazione 
    dei mezzi di produzione in grandi officine e manifatture, la loro trasformazione 
    in mezzi di produzione effettivamente sociali. Ma i mezzi di produzione e 
    i prodotti sociali furono trattati come se fossero ancora, quali erano prima, 
    mezzi di produzione e prodotti individuali. Se sinora il possessore dei mezzi 
    di lavoro si era appropriato il prodotto perché di regola era un prodotto 
    suo proprio, e il lavoro sussidiario altrui era solo l'eccezione, ora il possessore 
    degli strumenti di lavoro continuò ad appropriarsi il prodotto, malgrado 
    non fosse più il suo prodotto, ma esclusivamente il prodotto del lavoro 
    altrui. In questo modo i prodotti, ormai creati socialmente, se li appropriarono 
    non già coloro che mettevano effettivamente in movimento i mezzi di 
    produzione e che effettivamente creavano i prodotti, ma il capitalista. I 
    mezzi di produzione e la produzione sono diventati essenzialmente sociali, 
    ma sono sottoposti ad una forma di appropriazione che ha come presupposto 
    la produzione privata individuale, nella quale quindi ognuno possiede il proprio 
    prodotto e lo porta al mercato. Il modo di produzione viene sottoposto a questa 
    forma di appropriazione malgrado ne elimini il presupposto*7. In questa contraddizione 
    che conferisce al nuovo modo di produzione il suo carattere capitalistico, 
    risiede già in germe tutto il contrasto del nostro tempo. Quanto più 
    il nuovo modo di produzione divenne dominante in tutti i campi decisivi della 
    produzione e in tutti i paesi di importanza economica decisiva, e conseguentemente 
    soppiantò la produzione individuale sino ai suoi residui insignificanti, 
    tanto più crudamente doveva apparire anche l'inconciliabilità 
    della produzione sociale e dell'appropriazione capitalistica. 
    I primi capitalisti, come abbiamo detto, trovarono già esistente la 
    forma del lavoro salariato; ma lavoro salariato come eccezione, occupazione 
    ausiliaria, accessoria, fase transitoria. Il lavoratore agricolo che andava 
    temporaneamente a lavorare a giornata aveva il suo palmo di terra col quale, 
    in mancanza di meglio, poteva vivere. Gli ordinamenti delle corporazioni si 
    davano cura che il garzone di oggi diventasse il maestro di domani. Ma non 
    appena i mezzi di produzione divennero sociali e furono concentrati nelle 
    mani dei capitalisti, tutto questo mutò. Il mezzo di produzione, così 
    come il prodotto del piccolo produttore individuale, perdette sempre più 
    di valore e a costui non restò altro che andare a salario presso il 
    capitalista. Il lavoro salariato, prima eccezione e occupazione ausiliaria, 
    divenne regola e forma fondamentale di tutta la produzione; prima occupazione 
    accessoria, diventò ora l'attività esclusiva dell'operaio. Il 
    salariato temporaneo si trasformò in salariato a vita. La quantità 
    dei salariati a vita fu inoltre smisuratamente accresciuta dal contemporaneo 
    crollo dell'ordinamento feudale, dalla dispersione del personale dei signori 
    feudali, dall'espulsione dei contadini dalle loro fattorie, ecc. La separazione 
    tra i mezzi di produzione concentrati nelle mani dei capitalisti e i produttori, 
    ridotti a non possedere altro che la forza-lavoro, divenne completa. La contraddizione 
    tra produzione sociale e appropriazione capitalistica si presentò come 
    antagonismo tra proletariato e borghesia104.
    Abbiamo visto che il modo di produzione capitalistico si inserì in 
    una società di produttori di merci, di produttori individuali, il cui 
    nesso sociale era determinato dallo scambio dei loro prodotti. Ma ogni società 
    fondata sulla produzione di merci ha questo di particolare: che in essa i 
    produttori hanno perduto il dominio sui loro propri rapporti sociali. Ognuno 
    produce per sé con mezzi di produzione che casualmente possiede e per 
    il fabbisogno del suo scambio individuale. Nessuno sa né quale quantità 
    del suo articolo arriva al mercato, né in generale quale quantità 
    ne è richiesta; nessuno sa se il suo prodotto individuale risponde 
    ad un effettivo bisogno, né se potrà ricavarne le spese, né 
    se in generale potrà vendere. Domina l'anarchia della produzione sociale. 
    Ma la produzione di merci, come ogni altra forma di produzione, ha le sue 
    leggi specifiche, immanenti, inseparabili da essa. E queste leggi si attuano 
    malgrado l'anarchia, in essa e per mezzo di essa. Esse compaiono nell'unica 
    forma di nesso sociale che continua ad esistere, nello scambio, e si fanno 
    valere sui produttori individuali come leggi coattive della concorrenza. Da 
    principio esse sono quindi sconosciute a questi stessi produttori e devono 
    essere scoperte da loro a poco a poco e solo con una lunga esperienza. Esse 
    dunque si attuano senza i produttori e contro i produttori, come leggi naturali 
    della loro forma di produzione agenti ciecamente. Il prodotto domina i produttori.
    Nella società medioevale, specialmente nei primi secoli, la produzione 
    era essenzialmente indirizzata al consumo personale. Essa appagava in prevalenza 
    soltanto i bisogni del produttore e della sua famiglia. Laddove, come nella 
    campagna, sussistevano rapporti di dipendenza personale, la produzione contribuiva 
    anche all'appagamento dei bisogni del signore feudale. Quindi non c'era scambio 
    e conseguentemente i prodotti non assumevano neppure il carattere di merci. 
    La famiglia del contadino produceva quasi tutto quello di cui abbisognava, 
    attrezzi e indumenti non meno che mezzi di sussistenza. Solo allorché 
    pervenne a produrre un'eccedenza sul proprio fabbisogno e sui versamenti in 
    natura dovuti al signore feudale, solo allora cominciò a produrre anche 
    merci; questa eccedenza immessa nello scambio, offerta in vendita, divenne 
    merce. Gli artigiani cittadini dovettero, certo, già sin dal principio, 
    produrre per lo scambio. Ma essi provvedevano il loro bestiame nel bosco comunale 
    che forniva loro fabbisogno personale; avevano orti e piccoli campi; mandavano 
    il loro bestiame nel bosco comunale che forniva loro inoltre legname da costruzione 
    e legna da ardere; le donne filavano il lino, la lana, ecc. La produzione 
    per lo scambio, la produzione di merci, era solo sul nascere. Da qui scambio 
    limitato, mercato limitato, modo di produzione stabile, isolamento locale 
    verso l'esterno e unione locale all'interno: la Marca nella campagna, la corporazione 
    nella città.
    Ma con l'estensione della produzione di merci, e specialmente con l'apparire 
    del modo di produzione capitalistico, entrarono più apertamente e più 
    potentemente in azione le leggi della produzione di merci sinora latenti. 
    I vecchi vincoli si allentarono, le vecchie barriere che isolavano furono 
    infrante, i produttori si trasformarono sempre più in produttori di 
    merci indipendenti e isolati. Apparve l'anarchia della produzione sociale 
    e sempre più fu spinta al suo estremo. Ma il principale strumento con 
    cui il modo di produzione capitalistico accresceva questa anarchia della produzione 
    sociale era precisamente l'opposto dell'anarchia: era la crescente organizzazione 
    della produzione, in quanto produzione sociale, in ogni singola azienda produttiva. 
    Con questa leva, esso mise fine alla vecchia pacifica stabilità. Laddove 
    veniva introdotto in un ramo di industria, non tollerava accanto a sé 
    nessun altro modo di produzione più vecchio. Laddove si impadroniva 
    di un mestiere ne distruggeva l'antica forma artigiana. Il campo del lavoro 
    divenne un campo di battaglia. Le grandi scoperte geografiche e le colonizzazioni 
    che seguirono moltiplicarono i territori di sbocco e accelerarono la trasformazione 
    dell'artigianato in manifattura. La lotta non scoppiò soltanto tra 
    i singoli produttori di una località; le lotte locali sviluppandosi 
    divennero a loro volta lotte nazionali, come le guerre commerciali dei secoli 
    XVII e XVIII105. Finalmente la grande industria e la creazione del mercato 
    mondiale resero universale la lotta e ad un tempo le conferirono una violenza 
    inaudita. Tra i singoli capitalisti, così come tra intere industrie 
    e interi paesi, il problema della loro esistenza viene deciso dalle condizioni 
    più o meno favorevoli della produzione, che possono essere naturali 
    o artificiali. Chi soccombe viene eliminato senza nessun riguardo. È 
    la lotta darwiniana per l'esistenza dell'individuo, trasportata, con accresciuto 
    furore, dalla natura alla società. Il punto di vista dell'animale nella 
    natura appare come l'apice dell'umano sviluppo. La contraddizione tra produzione 
    sociale e appropriazione capitalistica si presenta ora come antagonismo tra 
    l'organizzazione della produzione nella singola fabbrica e l'anarchia della 
    produzione nel complesso della società.
    Il modo di produzione capitalistico si muove entro queste due forme nelle 
    quali si manifesta quella contraddizione che gli è immanente per la 
    sua origine e descrive, senza possibilità di uscirne, quel "circolo 
    vizioso" che già Fourier vi aveva scoperto. Ciò che Fourier 
    non poteva invero ancora scorgere ai suoi tempi, è che questo circolo 
    progressivamente si restringe, che il movimento rappresenta piuttosto una 
    spirale, e che, come quello dei pianeti, raggiungerà la sua fine collidendo 
    col centro. È la forza motrice dell'anarchia sociale della produzione 
    che trasforma sempre più la grande maggioranza degli uomini in proletari 
    e, a loro volta, sono le masse proletarie che metteranno termine, infine, 
    all'anarchia della produzione. È la forza motrice dell'anarchia sociale 
    della produzione che trasforma l'infinita perfezionabilità delle macchine 
    della grande industria in un'obbligazione che impone al singolo capitalista 
    industriale di perfezionare sempre più le proprie macchine, pena la 
    rovina. Ma perfezionare le macchine significa render superfluo del lavoro 
    umano. Se l'introduzione e l'aumento del macchinario significa soppiantare 
    milioni di operai manuali con pochi operai addetti alle macchine, il miglioramento 
    del macchinario, significa soppiantare un numero sempre crescente di operai, 
    essi stessi addetti alle macchine, e in ultima analisi creare una massa di 
    salariati disponibili superiore alla quantità media di unità 
    che il capitale ha bisogno di occupare: creare cioè un vero esercito 
    di riserva industriale, come io lo chiamavo già nel 1845*8, disponibile 
    per i tempi in cui l'industria lavora ad alta pressione, gettato sul lastrico 
    nella crisi che necessariamente segue, in tutti i tempi palla di piombo al 
    piede della classe operaia nella sua lotta per l'esistenza col capitale, regolatore 
    che serve a tenere il salario a quel basso livello che è adeguato alle 
    esigenze dei capitalisti. Così avviene che, per dirla con Marx, la 
    macchina diventa il più potente mezzo di guerra del capitale contro 
    la classe operaia; che lo strumento di lavoro strappa giornalmente dalle mani 
    dell'operaio i mezzi di sussistenza; che il prodotto stesso dell'operaio si 
    trasforma in uno strumento per l'asservimento dell'operaio. Così accade 
    che l'economizzare mezzi di lavoro diventa a priori ad un tempo una dilapidazione 
    senza ritegno della forza-lavoro e una rapina ai danni dei normali presupposti 
    della funzione del lavoro; che le macchine che sono il mezzo più potente 
    per abbreviare il tempo di lavoro, si mutano nel mezzo più infallibile 
    per trasformare tutta la vita dell'operaio e della sua famiglia in tempo di 
    lavoro disponibile per la valorizzazione del capitale; così accade 
    che il sopralavoro degli uni diventa il presupposto della disoccupazione degli 
    altri e che la grande industria che dà la caccia a nuovi consumatori 
    su tutta la superficie terrestre, in patria riduce il consumo delle masse 
    ad un minimo di fame e così mina il proprio mercato interno.
    "La legge infine che equilibra costantemente sovrappopolazione relativa, 
    ossia l'esercito industriale di riserva, da una parte, e volume e energia 
    dell'accumulazione dall'altra, incatena l'operaio al capitale in maniera più 
    salda che i cunei di Efesto non saldassero alla roccia Prometeo. Questa legge 
    determina un'accumulazione di miseria proporzionata all'accumulazione di capitale. 
    L'accumulazione di ricchezza all'uno dei poli è dunque al tempo stesso 
    accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, 
    brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto, ossia dalla parte della 
    classe che produce il proprio prodotto come capitale" (Marx, Capitale, 
    p. 671).
    E aspettare dal modo di produzione capitalistico un'altra distribuzione di 
    prodotti, significa pretendere che gli elettrodi di una batteria, finché 
    stanno in collegamento con la batteria, non debbano scomporre l'acqua e sviluppare 
    ossigeno al polo positivo e idrogeno al polo negativo.
    Abbiamo visto come la perfettibilità della macchina moderna, spinta 
    al punto più alto, si trasformi, mediante l'anarchia della produzione 
    nella società, in un'imposizione che costringe il singolo capitalista 
    industriale a migliorare incessantemente le proprie macchine, ad elevarne 
    la forza produttiva. La semplice possibilità effettiva di estendere 
    l'ambito della sua produzione, si trasforma per lui in un'imposizione di egual 
    natura. L'enorme forza espansiva della grande industria, di fronte alla quale 
    quella dei gas è un vero giuoco da bambini, si presenta ora ai nostri 
    occhi come un bisogno di espansione sia qualitativa che quantitativa che si 
    fa beffa di ogni pressione contraria. Questa pressione contraria è 
    formata dal consumo, dallo smercio, dai mercati per i prodotti della grande 
    industria. Ma la capacità di espansione dei mercati, sia estensiva 
    che intensiva, è dominata anzitutto da leggi affatto diverse, che agiscono 
    in modo molto meno energico. L'espansione dei mercati non può andare 
    di pari passo con quella della produzione. La collisione diviene inevitabile 
    e poiché non può presentare nessuna soluzione sino a che non 
    manda a pezzi lo stesso modo di produzione capitalistico, diventa periodica. 
    La produzione capitalistica genera un nuovo "circolo vizioso".
    In effetti, dal 1825, anno in cui scoppiò la prima crisi generale, 
    tutto il mondo industriale e commerciale, la produzione e lo scambio di tutti 
    i popoli civili e delle loro appendici più o meno barbariche, si sfasciano 
    una volta ogni dieci anni circa. Il commercio langue, i mercati sono ingombri, 
    si accumulano i prodotti tanto numerosi quanto inesitabili, il denaro contante 
    diviene invisibile, il credito scompare, le fabbriche si fermano, le masse 
    operaie, per aver prodotto troppi mezzi di sussistenza, mancano dei mezzi 
    di sussistenza: fallimenti e vendite all'asta si susseguono. La stagnazione 
    dura per anni, forze produttive e prodotti vengono dilapidati e distrutti 
    in gran copia, sino a che finalmente le masse di merci accumulate defluiscono 
    grazie ad una svalutazione più o meno grande e produzione e scambio 
    a poco a poco riprendono il loro cammino. Gradualmente la loro andatura si 
    accelera, si mette al trotto, il trotto dell'industria si trasforma in galoppo 
    e questo si accelera sino ad assumere l'andatura sfrenata di una vera corsa 
    a ostacoli industriale, commerciale, creditizia e speculativa per ricadere 
    finalmente, dopo salti da rompersi il collo, nel baratro del crac. E così 
    sempre da capo. Tutto questo dal 1825 lo abbiamo sperimentato per ben cinque 
    volte e in questo momento (1877) lo stiamo sperimentando per la sesta volta. 
    E il carattere di queste crisi è così nettamente marcato, che 
    Fourier le ha colte tutte quante, allorché definì la prima come 
    crise plétorique, crisi di sovrabbondanza.
    Nelle crisi la contraddizione tra produzione sociale e appropriazione capitalistica 
    perviene allo scoppio violento. La circolazione delle merci è momentaneamente 
    annientata; il mezzo della circolazione, il denaro, diventa un ostacolo per 
    la circolazione; tutte le leggi della produzione e della circolazione delle 
    merci vengono sovvertite. La collisione economica raggiunge il suo punto culminante: 
    il modo della produzione si ribella contro il modo dello scambio.
    Il fatto che l'organizzazione sociale della produzione nell'interno della 
    fabbrica ha raggiunto il punto in cui diventa incompatibile con l'anarchia 
    della produzione esistente nella società accanto ad essa e al di sopra 
    di essa, questo fatto viene reso tangibile agli stessi capitalisti dalla potente 
    concentrazione dei capitali che ha luogo durante le crisi, mediante la rovina 
    di un gran numero di grandi capitalisti e di un numero ancora maggiore di 
    piccoli capitalisti. Tutto il meccanismo del modo di produzione capitalistico 
    si arresta sotto la pressione delle forze produttive che esso stesso mette 
    in azione. Esso non riesce più a trasformare in capitale tutta questa 
    massa di mezzi di produzione: essi giacciono inoperosi e, precisamente per 
    questa ragione, anche l'esercito di riserva industriale è costretto 
    a restare inoperoso. Mezzi di produzione, mezzi di sussistenza, operai disponibili, 
    tutti gli elementi della produzione e della ricchezza generale, esistono in 
    sovrabbondanza. Ma la "sovrabbondanza diventa fonte di miseria e di penuria" 
    (Fourier) perché è precisamente essa che ostacola la trasformazione 
    dei mezzi di produzione e di sussistenza in capitale. Infatti nella società 
    capitalistica i mezzi di produzione non possono entrare in azione se prima 
    non si sono trasformati in capitale, in mezzi per lo sfruttamento della forza-lavoro 
    umana. La necessità che i mezzi di produzione e di sussistenza assumano 
    il carattere di capitale si erge come uno spettro tra essi e gli operai. Essa 
    sola impedisce il contatto tra le leve reali e le leve personali della produzione; 
    essa sola proibisce ai mezzi di produzione di funzionare e agli operai di 
    lavorare e di vivere. Da una parte dunque viene conclamata la incapacità 
    del modo di produzione capitalistico di continuare a dirigere queste forze 
    produttive. Dall'altra queste stesse forze produttive spingono con forza sempre 
    crescente alla soppressione della contraddizione, alla propria emancipazione 
    dal loro carattere di capitale, all'effettivo riconoscimento del loro carattere 
    di forze produttive sociali.
    È questa reazione al proprio carattere di capitale delle forze produttive 
    nel loro rigoglioso sviluppo, è questa progressiva spinta a far riconoscere 
    la propria natura sociale, ciò che obbliga la stessa classe capitalistica 
    a trattare sempre più come sociali queste forze produttive, nella misura 
    in cui è possibile, in generale, sul piano dei rapporti capitalistici. 
    Tanto il periodo di grande prosperità nell'industria con la sua illimitata 
    inflazione creditizia, quanto lo stesso crac con la rovina di grandi imprese 
    capitalistiche, spingono a quella forma di socializzazione di masse considerevolmente 
    grandi di mezzi di produzione, che incontriamo nelle diverse specie di società 
    per azioni. Molti di questi mezzi di produzione e di scambio sono sin dal 
    principio così enormi da escludere, come ad esempio avviene nelle strade 
    ferrate, ogni altra forma di sfruttamento capitalistico. Ad un certo grado 
    dello sviluppo, neanche questa forma è più sufficiente. I grandi 
    produttori nazionali di uno stesso ramo di produzione industriale si riuniscono 
    in un "trust", in un'associazione avente lo scopo di regolare la 
    produzione; essi determinano la quantità totale da produrre, se la 
    ripartiscono tra di loro ed impongono così il prezzo di vendita stabilito 
    in precedenza. Ma poiché tali trust, quando gli affari cominciano ad 
    andar male, per lo più si dissolvono, proprio per questa ragione essi 
    spingono ad una forma ancora più concentrata di socializzazione: tutto 
    il ramo di industria si trasforma in una unica grande società per azioni; 
    la concorrenza nazionale cede il posto al monopolio nazionale di questa unica 
    società; così accadde già nel 1890 con la produzione 
    inglese degli alcali che ora, dopo la fusione di tutte e 48 le grandi fabbriche, 
    viene esercitata da un'unica grande società con direzione unica e con 
    un capitale di 120 milioni di marchi.
    Nel trust la libera concorrenza si trasforma in monopolio, la produzione, 
    priva di un piano, della società capitalistica capitola davanti alla 
    produzione, secondo un piano, dell'irompente società socialista. Certo, 
    in un primo tempo questo avviene ancora a tutto vantaggio dei capitalisti. 
    Ma qui lo sfruttamento diventa così tangibile da dover necessariamente 
    crollare. Nessun popolo sopporterebbe una produzione diretta da trust, uno 
    sfruttamento così scoperto della collettività per opera di una 
    piccola banda di tagliatori di cedole.
    In un modo o nell'altro, con trust o senza trust, una cosa è certa: 
    che il rappresentante ufficiale della società capitalistica, lo Stato, 
    deve alla fine assumerne la direzione*9. La necessità della trasformazione 
    in proprietà statale si manifesta anzitutto nei grandi organismi di 
    comunicazione: poste, telegrafi, ferrovie.
    Se le crisi hanno rivelato l'incapacità della borghesia a dirigere 
    ulteriormente le moderne forze produttive, la trasformazione dei grandi organismi 
    di produzione e di traffico in società per azioni, in trust e in proprietà 
    statale mostra che la borghesia non è indispensabile per il raggiungimento 
    di questo fine. Tutte le funzioni sociali del capitalista sono oggi compiute 
    da impiegati salariati. Il capitalista non ha più nessuna attività 
    sociale che non sia l'intascar rendite, il tagliar cedole e il giocare in 
    borsa, dove i vari capitalisti si spogliano a vicenda dei loro capitali. Se 
    il modo di produzione capitalistico ha cominciato col soppiantare gli operai, 
    oggi esso soppianta i capitalisti e li relega, precisamente come gli operai, 
    tra la popolazione superflua, anche se in un primo tempo non li relega tra 
    l'esercito di riserva industriale.
    Ma né la trasformazione in società per azioni e trust, né 
    la trasformazione in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale 
    delle forze produttive. Nelle società per azioni e nei trust questo 
    carattere è evidente. E a sua volta lo Stato moderno non è altro 
    che l'organizzazione che la società borghese si dà per mantenere 
    le condizioni esterne generali del modo di produzione capitalistico di fronte 
    agli attacchi sia degli operai che dei singoli capitalisti. Lo Stato moderno, 
    qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, 
    uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Quanto più 
    si appropria le forze produttive, tanto più diventa un capitalista 
    collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta. 
    Gli operai rimangono dei salariati, dei proletari. Il rapporto capitalistico 
    non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice. Ma giunto all'apice, 
    si rovescia. La proprietà statale delle forze produttive non è 
    la soluzione del conflitto, ma racchiude in sé il mezzo formale, la 
    chiave della soluzione.
    Questa soluzione può consistere solo nel fatto che si riconosca in 
    effetti la natura sociale delle moderne forze produttive e che quindi il modo 
    di produzione, di appropriazione e di scambio sia messo in armonia con il 
    carattere sociale dei mezzi di produzione. E questo può accadere solo 
    a condizione che, apertamente e senza tergiversazioni, la società si 
    impadronisca delle forze produttive le quali sono divenute troppo grandi per 
    subire qualsiasi altra direzione che non sia quella sua. Così il carattere 
    sociale dei mezzi di produzione e dei prodotti che oggi si volge contro gli 
    stessi produttori, che sconvolge periodicamente il modo di produzione e di 
    scambio e si impone con forza possente e distruttiva solo come cieca legge 
    naturale, viene fatto valere con piena consapevolezza dai produttori e, da 
    causa di turbamento e di sconvolgimento periodico, si trasforma nella più 
    potente leva della produzione stessa.
    Le forze socialmente attive agiscono in modo assolutamente eguale alle forze 
    naturali: in maniera cieca, violenta, distruttiva, sino a quando non le riconosciamo 
    e non facciamo i conti con esse. Ma una volta che le abbiamo riconosciute, 
    che ne abbiamo compreso il modo d'agire, la direzione e gli effetti, dipende 
    solo da noi il sottometterle sempre più al nostro volere e per mezzo 
    di esse raggiungere i nostri fini. E questo vale in modo tutto particolare 
    per le odierne potenti forze produttive. Sino a quando ostinatamente ci rifiuteremo 
    di intenderne la natura e il carattere, e a questa intelligenza si oppongono 
    il modo di produzione capitalistico e i suoi sostenitori, queste forze agiranno 
    malgrado noi e contro di noi, e, come abbiamo diffusamente esposto, ci domineranno. 
    Ma una volta che siano comprese nella loro natura, esse, nelle mani dei produttori 
    associati, possono essere trasformate da demoniache dominatrici in docili 
    serve. È questa la differenza tra la forza distruttiva dell'elettricità 
    nel fulmine della tempesta e l'elettricità domata del telegrafo e della 
    lampada ad arco; la differenza tra l'incendio e il fuoco che agisce al servizio 
    dell'uomo. Quando le odierne forze produttive saranno considerate in questo 
    modo, conformemente alla loro natura finalmente conosciuta, all'anarchia sociale 
    della produzione subentrerà una regolamentazione socialmente pianificata 
    della produzione, conforme ai bisogni sia della comunità che di ogni 
    singolo. Così il modo di appropriazione capitalistico, in cui il prodotto 
    asservisce anzitutto chi lo produce, ma poi anche colui che se lo appropria, 
    viene sostituito dal modo di appropriazione dei prodotti, fondato sulla natura 
    stessa dei moderni mezzi di produzione: da una parte da una appropriazione 
    direttamente sociale come mezzo per mantenere ed allargare la produzione, 
    dall'altra da un appropriazione direttamente individuale come mezzo di sussistenza 
    e di godimento.
    Il modo di produzione capitalistico, trasformando in misura sempre crescente 
    la grande maggioranza della popolazione in proletari, crea la forza che, pena 
    la morte, è costretta a compiere questo rivolgimento. Spingendo in 
    misura sempre maggiore alla trasformazione dei grandi mezzi di produzione 
    socializzati in proprietà statale, essa stessa mostra la via per il 
    compimento di questo rivolgimento. Il proletariato s'impadronisce del potere 
    dello Stato e per prima cosa trasforma i mezzi di produzione in proprietà 
    dello Stato. Ma così sopprime se stesso come proletariato, sopprime 
    ogni differenza di classe e ogni antagonismo di classe e sopprime anche lo 
    Stato come Stato. La società esistita sinora, moventesi in antagonismi 
    di classe, aveva necessità dello Stato, cioè di un'organizzazione 
    della classe sfruttatrice in ogni periodo, per conservare le sue condizioni 
    esterne di produzione e quindi specialmente per tener con la forza la classe 
    sfruttata nelle condizioni di oppressione date dal modo vigente di produzione 
    (schiavitù, servitù della gleba o semiservitù feudale, 
    lavoro salariato). Lo Stato era il rappresentante ufficiale di tutta la società, 
    la sua sintesi in un corpo visibile, ma lo era solo in quanto era lo Stato 
    di quella classe che per il suo tempo rappresentava, essa stessa, tutta quanta 
    la società: nell'antichità era lo Stato dei cittadini padroni 
    di schiavi, nel Medioevo lo Stato della nobiltà feudale, nel nostro 
    tempo lo Stato della borghesia. Ma, diventando alla fine effettivamente il 
    rappresentante di tutta la società, si rende, esso stesso, superfluo. 
    Non appena non ci sono più classi sociali da mantenere nell'oppressione, 
    non appena con l'eliminazione del dominio di classe e della lotta per l'esistenza 
    individuale fondata sull'anarchia della produzione sinora esistente, saranno 
    eliminati anche i conflitti e gli eccessi che sorgono da tutto ciò, 
    non ci sarà da reprimere più niente di ciò che rendeva 
    necessario un potere repressivo particolare, uno Stato. Il primo atto con 
    cui lo Stato si presenta realmente come rappresentante di tutta la società 
    cioè la presa di possesso dei mezzi di produzione in nome della società, 
    è ad un tempo l'ultimo suo atto indipendente in quanto Stato. L'intervento 
    di un potere statale nei rapporti sociali diventa superfluo successivamente 
    in ogni campo e poi viene meno da se stesso. Al posto del governo sulle persone 
    appare l'amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi. 
    Lo Stato non viene "abolito": esso si estingue.
    Questo è l'apprezzamento che deve farsi della frase "Stato popolare 
    libero"106 tanto quindi per la sua giustificazione temporanea in sede 
    di agitazione, quanto per la sua definitiva insufficienza in sede scientifica; 
    e questo è del pari l'apprezzamento che deve farsi dell'esigenza dei 
    cosiddetti anarchici che lo Stato debba essere abolito dall'oggi al domani.
    La presa di possesso di tutti i mezzi di produzione da parte della società, 
    fin dall'apparire del modo di produzione capitalistico nella storia, è 
    stata assai spesso sognata più o meno oscuramente sia da singoli che 
    da intere sette, come un ideale dell'avvenire. Ma essa poteva diventare possibile, 
    poteva diventare una necessità storica, solo quando fossero state presenti 
    le condizioni materiali della sua attuazione. Essa, come ogni altro progresso 
    sociale, diviene realizzabile non già per mezzo della conoscenza acquisita 
    che l'esistenza delle classi contraddice alla giustizia, all'eguaglianza, 
    ecc., non già per mezzo della semplice volontà di abolire queste 
    classi, ma per mezzo di certe nuove condizioni economiche. La divisione della 
    società in una classe che sfrutta e una classe che è sfruttata, 
    in una classe che domina e una classe che è oppressa, è stata 
    la conseguenza necessaria del precedente angusto sviluppo della produzione. 
    Fino a quando il complessivo lavoro sociale fornisce solo un provento che 
    supera soltanto di poco ciò che è necessario per un'esistenza 
    stentata di tutti, fino a quando perciò il lavoro impegna tutto o quasi 
    tutto il tempo della maggioranza dei membri della società, necessariamente 
    la società si divide in classi. Accanto a questa grande maggioranza 
    dedita esclusivamente al lavoro, si forma una classe emancipata dal lavoro 
    immediatamente produttivo, la quale cura gli affari comuni della società: 
    direzione del lavoro, affari di Stato, giustizia, scienza, arti, ecc. A base 
    della divisione in classi sta quindi la legge della divisione del lavoro. 
    Ma ciò non impedisce che questa divisione in classi non si sia effettuata 
    mediante forza e rapina, astuzia e inganno107 e che la classe dominante, una 
    volta in sella, non abbia mai mancato di consolidare il proprio dominio a 
    spese della classe che lavora e di trasformare la direzione della società 
    in un accresciuto sfruttamento delle masse.
    Ma se, di conseguenza, la divisione in classi ha una certa giustificazione 
    storica, tale giustificazione essa l'ha soltanto per un determinato intervallo 
    di tempo, per determinate condizioni sociali. Essa si è fondata sull'insufficienza 
    della produzione e sarà eliminata dal pieno sviluppo delle moderne 
    forze produttive. Ed in effetti, l'abolizione delle classi sociali ha come 
    suo presupposto un grado di sviluppo storico in cui non solo l'esistenza di 
    questa o di quella determinata classe dominante, ma in generale l'esistenza 
    di una classe dominante e quindi della stessa differenza di classe, è 
    diventata un anacronismo, un vecchiume. Essa ha quindi come suo presupposto 
    un alto grado di sviluppo della produzione nel quale l'appropriazione dei 
    mezzi di produzione e dei prodotti, e perciò del potere politico, del 
    monopolio della cultura e della direzione spirituale da parte di una particolare 
    classe della società non solo è diventata superflua, ma è 
    diventata anche economicamente, politicamente e intellettualmente un ostacolo 
    allo sviluppo. Questo punto oggi è raggiunto. Se il fallimento politico 
    e intellettuale della borghesia a stento è ancora un segreto anche 
    per essa stessa, il suo fallimento economico si ripete regolarmente ogni dieci 
    anni. In ogni crisi la società soffoca sotto il peso delle proprie 
    forze produttive e dei propri prodotti che essa non può utilizzare, 
    ed è impotente davanti all'assurda contraddizione che i produttori 
    non hanno niente da consumare perché mancano i consumatori. La forza 
    di espansione dei mezzi di produzione strappa i legami che ad essi sono imposti 
    dal modo di produzione capitalistico. La loro liberazione da questi legami 
    è la sola condizione preliminare di uno sviluppo ininterrotto e costantemente 
    accelerato delle forze produttive, e quindi di un incremento praticamente 
    illimitato della produzione stessa. Ma non basta. L'appropriazione sociale 
    dei mezzi di produzione elimina non solo l'ostacolo artificiale oggi esistente 
    nella produzione, ma anche la vera e propria completa distruzione di forze 
    produttive e di prodotti, che al presente è l'immancabile compagna 
    della produzione e che raggiunge il suo punto culminante nelle crisi. L'appropriazione 
    sociale, eliminando l'insensato sciupìo del lusso delle classi oggi 
    dominanti e dei loro rappresentanti politici, libera inoltre a vantaggio della 
    collettività una massa di mezzi di produzione e di prodotti. La possibilità 
    di assicurare, per mezzo della produzione sociale, a tutti i membri della 
    collettività una esistenza che non solo sia completamente sufficiente 
    dal punto di vista materiale e diventi ogni giorno più ricca, ma che 
    garantisca loro lo sviluppo e l'esercizio completamente liberi delle loro 
    facoltà fisiche e spirituali: questa possibilità esiste ora 
    per la prima volta, ma esiste*10.
    Con la presa di possesso dei mezzi di produzione da parte della società, 
    viene eliminata la produzione di merci e con ciò il dominio del prodotto 
    sui produttori. L'anarchia all'interno della produzione sociale viene sostituita 
    dall'organizzazione cosciente secondo un piano. La lotta per l'esistenza individuale 
    cessa. In questo modo, in un certo senso, l'uomo si separa definitivamente 
    dal regno degli animali e passa da condizioni di esistenza animali a condizioni 
    di esistenza effettivamente umane. La cerchia delle condizioni di vita che 
    circondano gli uomini e che sinora li hanno dominati passa ora sotto il dominio 
    e il controllo degli uomini, che adesso, per la prima volta, diventano coscienti 
    ed effettivi padroni della natura, perché, ed in quanto, diventano 
    padroni della loro propria organizzazione sociale. Le leggi della loro attività 
    sociale che sino allora stavano di fronte agli uomini come leggi di natura 
    estranee e che li dominavano, vengono ora applicate dagli uomini con piena 
    cognizione di causa e quindi dominate. L'organizzazione sociale propria degli 
    uomini che sinora stava loro di fronte come una necessità imposta dalla 
    natura e dalla storia, diventa ora la loro propria libera azione. Le forze 
    obiettive ed estranee che sinora hanno dominato la storia passano sotto controllo 
    degli uomini stessi. Solo da questo momento gli uomini stessi faranno con 
    piena coscienza la loro storia, solo da questo momento le cause sociali da 
    loro poste in azione avranno prevalentemente, e in misura sempre crescente, 
    anche gli effetti che essi hanno voluto. È questo il salto dell'umanità 
    dal regno della necessità al regno della libertà108.
    Riassumiamo brevemente, per concludere, il cammino che abbiamo percorso.
    I. Società medioevale. Piccola produzione individuale. Mezzi di produzione 
    adattati all'uso individuale, perciò rozzi e primitivi, minuscoli, 
    di efficacia minima. Produzione per il consumo immediato sia del produttore 
    stesso che del suo signore feudale. Solo laddove ha luogo un'eccedenza della 
    produzione su questo consumo, quest'eccedenza viene offerta in vendita e destinata 
    allo scambio: la produzione di merci è quindi solo sul nascere, ma 
    già ora essa contiene in sé, in germe, l'anarchia nella produzione 
    sociale.
    II. Rivoluzione capitalistica. Trasformazione dell'industria in un primo tempo 
    per opera della cooperazione semplice e della manifattura. Concentrazione 
    in grandi officine dei mezzi di produzione sin qui sparsi, e quindi loro trasformazione 
    da mezzi di produzione individuali in mezzi di produzione sociali: trasformazione 
    che non tocca in complesso la forma dello scambio. Le vecchie forme di appropriazione 
    rimangono in vigore. Appare il capitalista: nella sua qualità di proprietario 
    dei mezzi di produzione si appropria anche dei prodotti e li trasforma in 
    merci. La produzione è diventata un atto sociale; lo scambio e con 
    esso l'appropriazione rimangono atti individuali, atti del singolo. Il prodotto 
    sociale se lo appropria il capitalista singolo. Contraddizione fondamentale 
    da cui sorgono tutte le contraddizioni tra le quali si muove la società 
    odierna e che la grande industria mette chiaramente in evidenza.
    A. Separazione del prodotto dai mezzi di produzione. Condanna dell'operaio 
    al lavoro salariato vita natural durante. Antagonismo tra proletariato e borghesia. 
    
    B. Crescente rilievo e progrediente efficienza delle leggi che dominano la 
    produzione di merci. Sfrenata lotta di concorrenza. Contraddizione tra l'organizzazione 
    sociale nella singola fabbrica e l'anarchia sociale nel complesso della produzione.
    C. Da una parte perfezionamento del macchinario, diventato per opera della 
    concorrenza legge coercitiva per ogni singolo industriale e che equivale ad 
    un sempre crescente licenziamento di operai: esercito di riserva industriale. 
    Dall'altra parte estensione illimitata della produzione e del pari legge coercitiva 
    della concorrenza per ogni singolo industriale. Da una parte e dall'altra 
    sviluppo inaudito delle forze produttive, eccedenza dell'offerta sulla domanda, 
    sovrapproduzione, ingorgo dei mercati, crisi decennali, circolo vizioso: qua 
    eccedenza di mezzi di produzione e di prodotti, là eccedenza di operai 
    senza occupazione e senza mezzi di sussistenza; ma queste due leve della produzione 
    e del benessere sociale non possono andare insieme perché la forma 
    capitalistica della produzione impedisce alle forze produttive di agire, ai 
    prodotti di circolare, ove precedentemente non si siano trasformati in capitale: 
    ciò che è precisamente impedito dal loro eccesso. La contraddizione 
    si è sviluppata sino a diventare il controsenso per cui il modo di 
    produzione si ribella contro la forma dello scambio. E' provato che la borghesia 
    è incapace di continuare ulteriormente a dirigere le proprie forze 
    produttive sociali.
    D. Parziale riconoscimento del carattere sociale delle forze produttive, riconoscimento 
    a cui è obbligato lo stesso capitalista. Appropriazione dei grandi 
    organismi di produzione e di traffico, prima da parte di società per 
    azioni, più tardi da parte di trusts e in ultimo da parte dello Stato. 
    La borghesia dimostra di essere una classe superflua, tutte le sue funzioni 
    sociali vengono ora compiute da impiegati stipendiati.
    III. Rivoluzione proletaria. Soluzione delle contraddizioni: il proletariato 
    si impadronisce del potere politico e in virtù di questo potere trasforma 
    i mezzi di produzione sociale che sfuggono dalle mani della borghesia, in 
    proprietà pubblica. Con questo atto il proletariato libera i mezzi 
    di produzione dal carattere di capitale che sinora essi avevano e dà 
    al loro carattere sociale la piena libertà di esplicarsi. Ormai diviene 
    possibile una produzione sociale conforme ad un piano prestabilito. Lo sviluppo 
    della produzione rende anacronistica l'ulteriore esistenza di classi sociali 
    distinte. Nella misura in cui scompare l'anarchia della produzione sociale, 
    vien meno anche l'autorità politica dello Stato. Gli uomini, finalmente 
    padroni della forma loro propria di organizzazione sociale, diventano perciò 
    ad un tempo padroni della natura, padroni di se stessi, liberi.
    Compiere quest'azione di liberazione universale è la missione storica 
    del proletariato moderno. Studiarne a fondo le condizioni storiche e conseguentemente 
    la natura stessa e dare così alla classe, oggi oppressa e chiamata 
    all'azione, la coscienza delle condizioni e della natura della sua propria 
    azione è il compito del socialismo scientifico, espressione teorica 
    del movimento proletario.
    Friedrich Engels
    
    
    
    Note di Engels
    *1 "In Germania" è uno sbaglio. Si deve dire: "presso 
    i tedeschi". Infatti la dialettica tedesca era così indispensabile 
    alla genesi del socialismo scientifico come erano indispensabili le evolute 
    condizioni economiche e politiche dell'Inghilterra e della Francia. Lo sviluppo 
    economico e politico della Germania dopo il 1840, arretrato assai più 
    di oggi, poteva tutt'al più offrire delle caricature socialiste. (Cfr. 
    Il Manifesto comunista, III, l, c. Il socialismo tedesco o il "vero" 
    socialismo). Solo quando le condizioni economiche e politiche createsi in 
    Inghilterra e in Francia vennero sottoposte alla critica dialettica tedesca, 
    solo allora poté essere ottenuto un risultato reale. Sotto questo aspetto 
    il socialismo scientifico non è dunque un prodotto esclusivamente tedesco, 
    ma ugualmente internazionale.
    *2 Qual è un gioco di parole filosofico. Qual significa letteralmente 
    tormento, sofferenza che spinge a una azione qualsiasi. Il mistico Böhme 
    dà alla parola tedesca anche qualche cosa del significato della parola 
    latina qualitas [qualità]. Il suo Qual era il principio attivo che 
    deriva dallo sviluppo spontaneo (ma che, a sua volta, determina tale sviluppo) 
    delle cose, delle relazioni o delle persone soggette al Qual, cosa ben diversa 
    da una pena che si subisca dall'esterno. (Nota di Engels al testo inglese). 
    
    *3. K. Marx e F. Engels, La sacra famiglia, Francoforte sul Meno, 1845, pp. 
    201-204.
    *4. E persino negli affari la vanagloria sciovinista nazionale è assai 
    cattiva consigliera. Fino ai tempi più recenti il comune fabbricante 
    inglese considerava al di sotto della dignità di un inglese parlare 
    altra lingua che non fosse la propria, ed era fiero che dei "poveri diavoli" 
    di stranieri si stabilissero in Inghilterra e lo liberassero in tal modo dalla 
    noia della distribuzione dei suoi prodotti all'estero. Egli non capiva che 
    questi stranieri, per lo più tedeschi, si impossessavano così 
    di una larga parte del commercio estero dell'Inghilterra - importazione non 
    meno che esportazione - e che il commercio estero diretto dagli inglesi riduceva 
    a poco a poco alle colonie, alla Cina, agli Stati Uniti e all'America del 
    Sud. E tanto meno s'accorgeva che questi tedeschi commerciavano con altri 
    tedeschi all' estero e organizzavano gradualmente una rete completa di colonie 
    di commercio su tutta la superficie terrestre. Ma quando la Germania, circa 
    quarant'anni fa, incominciò seriamente a produrre per l'esportazione, 
    essa trovò in queste colonie di commercio tedesche uno strumento che 
    servì a meraviglia per compiere la sua trasformazione, in breve tempo, 
    da paese esportatore di cereali in paese industriale di primaria importanza. 
    Allora finalmente, circa dieci anni fa, il fabbricante inglese ebbe paura 
    e domandò ai suoi ambasciatori e ai suoi consoli come fosse ch'egli 
    non riusciva più a conservare i suoi clienti. Le risposte furono unanimi: 
    l) voi non imparate la lingua dei vostri clienti e aspettate invece che essi 
    imparino la vostra; 2) voi non cercate di soddisfare i bisogni, le abitudini 
    e i gusti dei vostri compratori, ma aspettate che essi accettino i vostri 
    gusti inglesi. 
    *5. Il passo di Hegel sulla rivoluzione francese è il seguente: "il 
    pensiero, il concetto del diritto si fece d'altronde valere tutto in una volta, 
    e la vecchia impalcatura dell'ingiustizia non potette minimamente resistere 
    ad esso. Nell'idea del diritto fu così, ora, fondata ed edificata una 
    costituzione, e tutto doveva da allora in poi basarsi su questo fondamento. 
    Da che il sole splende sul firmamento e i pianeti girano intorno ad esso, 
    non si era ancora scorto che l'uomo si basa sulla sua testa, cioè sul 
    pensiero e costruisce la realtà conformemente ad esso. Anassagora era 
    stato il primo a dire che il Nous governa il mondo; ma solo ora l'uomo pervenne 
    a riconoscere che il pensiero doveva governare la realtà spirituale. 
    Questa fu dunque una splendida aurora. Tutti gli esseri pensanti hanno celebrato 
    concordi quest'epoca. Dominò in quel tempo una nobile commozione, il 
    mondo fu percorso e agitato da un entusiasmo dello spirito, come se allora 
    fosse finalmente avvenuta la vera conciliazione del divino col mondo" 
    (G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia). Non sarebbe tempo 
    di mettere in moto le leggi contro i socialisti nei riguardi di queste pericolose 
    dottrine sovversive del defunto professor Hegel?. 
    *6. Da The Revolution in Mind and Practice [la traduzione completa del titolo 
    è: La rivoluzione nel pensiero e nella pratica della razza umana] memoriale 
    diretto a tutti i "repubblicani rossi, ai comunisti e ai socialisti d'Europa", 
    e al governo provvisorio francese del 1848, nonché "alla regina 
    Vittoria e ai suoi consiglieri responsabili". 
    *7. Non occorre spiegare qui che, seppure la forma di appropriazione rimane 
    la stessa, il carattere dell'appropriazione viene rivoluzionato, non meno 
    che la produzione, dal processo che è stato descritto sopra. Che io 
    mi appropri il mio proprio prodotto o il prodotto altrui, sono naturalmente 
    due specie molto differenti di appropriazione. Incidentalmente: il lavoro 
    salariato, in cui è già contenuto in germe tutto il modo di 
    produzione capitalistico, è molto antico; per secoli esso è 
    esistito, allo stato sporadico e sparso, accanto alla schiavitù. Ma 
    il germe poté svilupparsi sino a raggiungere il modo di produzione 
    capitalistico solo allorché si produssero le condizioni storiche necessarie. 
    
    *8. La situazione della classe operaia in Inghilterra, p. 109
    *9. Io dico: deve. Infatti, solo nel caso in cui i mezzi di produzione o di 
    comunicazione siano realmente diventati troppo grandi per essere diretti da 
    società per azioni, in cui quindi la statizzazione è diventata 
    economicamente inevitabile, solo in questo caso essa, anche se viene compiuta 
    dallo Stato attuale, rappresenta un progresso economico, il raggiungimento 
    di un nuovo stadio preliminare nella presa di possesso di tutte le forze produttive 
    da parte della società. Di recente però, da quando Bismarck 
    si è dato a statizzare, ha fatto la sua comparsa un certo socialismo 
    falso, e qua e là perfino degenerato in una forma di compiaciuto servilismo, 
    che dichiara senz'altro socialistica ogni statizzazione, compresa quella bismarckiana. 
    In verità se la statizzazione del tabacco fosse socialista, potremmo 
    annoverare tra i fondatori del socialismo Napoleone e Mettemich. Se lo Stato 
    belga per motivi politici e finanziari assolutamente correnti ha costruito 
    direttamente le sue principali strade ferrate, se Bismarck senza nessuna necessità 
    economica ha statizzato le principali linee ferroviarie della Prussia, semplicemente 
    per poterle dirigere e sfruttare meglio in caso di guerra, per trasformare 
    i ferrovieri in gregge elettorale governativo e principalmente per procurarsi 
    una nuova fonte di entrate indipendente dalle decisioni del parlamento: queste 
    non sono state per nulla misure socialiste né dirette né indirette, 
    né consapevoli né inconsapevoli. Altrimenti sarebbero istituzioni 
    socialiste anche il regio commercio marittimo, la regia manifattura delle 
    porcellane e perfino i sarti di reggimento o magari la statizzazione dei... 
    bordelli, proposta con tutta serietà da un mariuolo nel quarto decennio 
    di questo secolo, sotto Federico Guglielmo III. 
    *10. Poche cifre bastano per dare un'idea approssimativa dell'enorme forza 
    di espansione dei moderni mezzi di produzione perfino sotto la pressione capitalistica. 
    Secondo i più recenti calcoli di Giffen la ricchezza complessiva della 
    Gran Bretagna e Irlanda ammonta in cifra tonda a:
    1814 - 2.200 milioni di sterline = 44 miliardi di marchi
    1865 - 6.100 milioni di sterline = 122 miliardi di marchi
    1875 - 8.500 milioni di sterline = 170 miliardi di marchi
    Per quanto riguarda la devastazione dei mezzi di produzione e dei prodotti 
    nelle crisi, soltanto la perdita complessiva dell'industria siderurgica tedesca 
    nell'ultimo crac fu valutata a 455 milioni di marchi al secondo congresso 
    degli industriali tedeschi, Berlino, 21 febbraio 1878.
    
    
    
    Note di corredo non dell'autore
    
    1)In italiano l'opera è stata tradotta e pubblicata con il titolo di 
    Anti-Dühring.
    2)Paul Lafargue (1842-1911), dirigente del movimento operaio francese, fu 
    tra i fondatori del Partito operaio francese e membro del Consiglio generale 
    della I Internazionale. Fu genero di Marx di cui sposò la figlia Laura.
    3)Sozialdemokrat, organo centrale della socialdemocrazia tedesca, pubblicato 
    - a causa del divieto previsto dalle leggi eccezionali antisocialiste tedesche 
    - prima in Svizzera e poi a Londra.
    4)Ferdinand Lassalle (1825-1864), avvocato, fondatore dell'Associazione generale 
    dei lavoratori tedeschi. Teorico e dirigente della corrente riformista della 
    socialdemocrazia tedesca tra il 1862 e il 1864. Su questioni fondamentali 
    ebbe posizioni opportuniste e fu l'iniziatore della tendenza opportunista 
    nel movimento operaio tedesco. Fautore della unificazione della Germania sotto 
    l'egemonia della Prussia. Propugnò la costituzione di associazioni 
    operaie con l'aiuto dello Stato. Fu decisamente combattuto da Marx ed Engels. 
    Cfr., ad esempio: Marx, Critica del programma di Gotha.
    Industriale di Brema, scrisse opuscoli contro la 5) socialdemocrazia.
    Storici tedeschi. 6)
    7)Henri Claude de Rouvroy conte di Saint-Simon (1760-1825), socialista utopista 
    francese, profeta dell'industrialismo.
    8)François Marie Charles Fourier (1772-1837), filosofo e scrittore 
    francese. Socialista utopista, progettò colonie comuniste come unità 
    economiche indipendenti.
    9)Robert Owen (1771-1858), socialista utopista inglese. Fautore di un "nuovo 
    mondo etico", introdusse per la prima volta nella sua filanda di New 
    Lanark innovazioni all'epoca straordinarie, tra cui la riduzione del tempo 
    di lavoro, un sistema di previdenza contro malattie e vecchiaia, comitati 
    operai consultivi, ecc. 
    10)Immanuel Kant (1724-1804), grande filosofo fondatore dell'idealismo classico 
    tedesco. Tentò di giungere alla sintesi tra razionalismo e idealismo.
    11)Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), filosofo tedesco, discepolo di Kant, 
    fondatore dell'idealismo soggettivo.
    12)Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), grande filosofo tedesco, massimo 
    rappresentante dell'idealismo oggettivo. La sua filosofia influenzò 
    moltissimo il pensiero europeo. Compì studi approfonditi sulla dialettica. 
    Marx accettò il suo metodo a cui diede però, rovesciandolo, 
    un fondamento materialista.
    13)Eugen Karl Dühring (1833-1921), filosofo ed economista piccolo borghese 
    tedesco. Le sue concezioni filosofiche erano un miscuglio eclettico di positivismo, 
    materialismo metafisico e idealismo.
    14)Eisenachiani, erano i membri del Partito operaio socialdemocratico. Così 
    chiamati dalla città di Eisenach in cui era stato fondato il partito. 
    Massimi esponenti degli eisenachiani furono A.Bebel e W.Liebknecht.
    15)Lassalliani, erano i membri dell'Associazione generale degli operai tedeschi. 
    Così chiamati dal fondatore e capo dell'Associazione, Ferdinand Lassalle.
    Al congresso di Gotha (22-27 maggio 1875) 16) eisenachiani e lassalliani si 
    unificarono dando vita al Partito operaio socialista di Germania. L'unificazione 
    avvenne sulla base di un programma aspramente contestato da Marx e da Engels. 
    (Cfr., in particolare: Marx, Critica del programma di Gotha).
    17)Gründlichkeit = "profondità".
    18)Bimetallismo, sistema monetario fondato sull'oro e l'argento.
    19)Charles Robert Darwin (1809-1882), grande naturalista inglese, fondatore 
    della biologia materialistica, nonché della dottrina dell'origine e 
    della evoluzione delle specie animali e vegetali (evoluzionismo).
    20)Vorwärts = "Avanti!", organo centrale del Partito operaio 
    socialista di Germania, pubblicato a Leipzig dal 1876 al 1878.
    21)Die Mark = "La Marca", era un saggio di Engels pubblicato originariamente 
    in appendice alla presente opera e qui non riportato. Si trattava di una breve 
    storia dei contadini tedeschi. La "marca" era una comunità 
    rurale dell'antica Germania.
    22)Maksim Maksimovich Kovalevskij (1851-1916), sociologo, storico e uomo politico 
    democratico russo. Noto per le sue ricerche sulla società primitiva.
    23)Filisteismo, termine sempre usato da Marx ed Engels per indicare lo spirito 
    e il comportamento ipocrita e gretto, meschino ed egoistico, tipico della 
    piccola-borghesia.
    24)Agnosticismo, dottrina filosofica che riconosce l'esistenza del mondo materiale 
    ma nega la possibilità di conoscerlo.
    25)John Duns Scoto (circa 1270-1308), francescano, filosofo e teologo scolastico, 
    rappresentante del nominalismo, prima espressione del materialismo nel Medioevo.
    26)Nominalismo, dottrina filosofica medioevale. Sosteneva che i concetti universali 
    non esistono, ma sono soltanto "nomi" di cui ci serviamo per definire 
    le cose e le loro somiglianze. Ad esso si oppose la dottrina "realista".
    27)Francis Bacone di Verulam (1561-1626), filosofo inglese, padre del materialismo 
    inglese.
    28)Anassagora di Clazome-ne (circa 500-428 avanti Cristo), filosofo greco. 
    Secondo Anassagora la materia è divisibile all'infinito, e in ogni 
    sua particella, per quanto piccola, secondo il principio che "tutto è 
    in tutto", sarebbero sempre presenti tutti gli "spermata" (= 
    semi), cioè le diverse qualità della materia, sia pure in proporzioni 
    diverse.
    29)Omeomerie, termine usato da Aristotele nell'interpretare Anassagora. Si 
    tratterebbe di minuscole particelle di materia, qualitativamente distinte, 
    divisibili all'infinito.
    30)Democrito (circa 460-370 avanti Cristo), grande filosofo materialista greco, 
    uno dei fondatori della teoria atomistica.
    31)Jakob Böhme (1575-1624), filosofo tedesco approdato al misticismo.
    32)Thomas Hobbes (1588-1679), grande filosofo inglese, seguace del materialismo 
    meccanicistico.
    33)John Locke (1632-1704), filosofo inglese, seguace dell'empirismo.
    Illuministi inglesi. 34)
    35)Deismo. È una dottrina religiosa e filosofica che ammette l'esistenza 
    di dio come principio supremo impersonale dell'universo che rimane però 
    estraneo alla vita della natura e della società. Fu ostile al teismo 
    che, all'opposto, crede in una divinità personale con cui si comunicherebbe 
    attraverso la "rivelazione" e la fede.
    Geologi inglesi, 36) scopritori e studiosi di fossili. Mantell è famoso 
    come scopritore di resti fossili di dinosauri.
    Engels allude alla prima esposizione 37) universale del commercio e dell'industria 
    che ebbe luogo a Londra tra il maggio e l'ottobre 1851.
    38)Esercito della salvezza, organizzazione religiosa filantropica di tendenza 
    reazionaria, fondata in Inghilterra nel 1865 e riorganizzata alla maniera 
    militare (da cui il suo nome) nel 1880. In molti paesi ha avuto un ruolo nel 
    distogliere le masse lavoratrici dalla lotta contro lo sfruttamento.
    39)Pierre Simon Laplace (1749-1827), matematico, fisico ed astronomo francese. 
    Parallelamente a Kant enuncia da un punto di vista matematico l'ipotesi della 
    nascita del sistema solare da una nube gassosa. Fu anche ministro degli interni 
    di Napoleone.
    "Non avevo bisogno di questa ipotesi". 40)
    Frase del 41) Faust di Goethe, prima parte.
    "La prova del pudding si fa mangiandolo". 42)
    Nel 43) testo inglese seguiva la precisazione: "il che noi chiamiamo 
    un ragionamento difettoso".
    Nel testo inglese seguiva la precisazione: "al di 44) là di quel 
    poco che conoscevamo di essi".
    Sull'importanza e 45) sul ruolo della teoria nelle scienze, cfr.: Engels, 
    Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, in 
    cui Engels porta l'esempio della scoperta sperimentale del pianeta Nettuno 
    dopo che, in base a calcoli matematici, era stata stabilita l'esistenza e 
    la collocazione del pianeta nel sistema solare.
    46)Oliver Cromwell (1599-1658), puritano, fu a capo della borghesia nella 
    rivoluzione inglese del XVII secolo. Dal 1653 fu "Lord Protettore" 
    di Inghilterra, Scozia e Irlanda.
    Nel testo inglese seguiva la precisazione: "Da sola, 47) la borghesia 
    non ci sarebbe mai riuscita".
    Nel testo inglese 48) si trova, invece, l'espressione: "si spinse molto 
    oltre la posizione che essa avrebbe potuto garantire a se stessa".
    49)Gloriosa rivoluzione: è il nome attribuito dalla storiografia borghese 
    inglese al colpo di stato del 1688 ai danni della dinastia degli Stuart e 
    all'ascesa al trono della monarchia costituzionale di Guglielmo d'Orange, 
    fondata sul compromesso tra l'aristocrazia terriera e la grande borghesia 
    in ascesa.
    50)Luigi Filippo (1773-1850), duca d'Orleans, re di Francia dal 1830 al 1848.
    51)Le guerre delle due rose: guerre civili che si combatterono in Inghilterra 
    tra il 1455 e il 1485 e capeggiate dalla dinastia dei Lancaster da un lato 
    e da quella degli York dall'altro. Sono così chiamate perché 
    le due fazioni inalberavano una rosa rossa (i Lancaster) e una rosa bianca 
    (gli York). I Lancaster erano sostenuti dall'aristocrazia feudale del Nord, 
    mentre gli York rappresentavano una coalizione di proprietari fondiari del 
    Sud, più evoluti economicamente, di cavalieri e borghigiani. Le guerre 
    si conclusero con lo sterminio pressocché totale della vecchia feudalità 
    e con l'ascesa al trono di Enrico VII che instaurò la monarchia assoluta 
    della dinastia Tudor.
    52)Cartesianesimo, dottrina filosofica dei discepoli del filosofo francese 
    del XVII secolo Descartes (Cartesio) che trassero dalle opere del maestro 
    conclusioni di tipo materialista.
    53)La Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino fu adottata nel 
    1789 dall'Assemblea costituente francese e proclamava i principi politici 
    su cui dovevano essere fondate le istituzioni del nuovo regime borghese. Fu 
    inclusa nella Costituzione del 1791 e fu la base dell'omonima "Dichiarazione" 
    dei Giacobini del 1793.
    54)Il Code civil è la parte più rilevante storicamente e politicamente 
    del Code Napoléon (che comprendeva cinque codici: civile, di procedura 
    civile, commerciale, penale e di procedura penale) entrato in vigore tra il 
    1804 e il 1810. Fu, in realtà, il primo compendio organico dell'ordinamento 
    giuridico della borghesia e costituisce, ancora oggi, la base del diritto 
    borghese. Il Code Napoléon ebbe vigore fino al 1815 anche in tutte 
    le regioni occupate dagli eserciti napoleonici.
    "Si scrive Londra e si legge 55) Costantinopoli".
    56)James Watt (1736-1819), ingegnere scozzese, ideatore di un tipo perfezionato 
    di macchina a vapore. Richard Arkright (1732-1823), inventore della macchina 
    per filare. Edmund Cartright (1743-1823), inventore del telaio meccanico.
    Engels si riferisce al 57) Reform Act con cui nel 1831-1832 fu introdotta 
    in Gran Bretagna la riforma elettorale con cui i rappresentanti della borghesia 
    industriale ebbero accesso al parlamento. Proletariato e piccola borghesia, 
    promotori della riforma, furono ingannati dalla borghesia liberale e ne restarono 
    esclusi.
    Nel 1842 il parlamento inglese ridusse 58) il dazio sull'importazione dei 
    cereali; nel 1846 ne abolì le restrizioni all'importazione e nel 1849 
    eliminò ogni dazio. Si trattò di una grande vittoria della borghesia 
    industriale sulla proprietà fondiaria, all'insegna della libertà 
    di scambio.
    59)La Carta del popolo fu pubblicata come progetto di legge l'8 maggio 1838 
    ed era articolata in sei punti: suffragio universale, elezioni parlamentari 
    annuali, scrutinio segreto, revisione delle circoscrizioni elettorali, abolizione 
    del censo per i candidati alle elezioni, indennità parlamentare.
    Engels si riferisce al fallimento - 60) dovuto alle esitazioni degli organizzatori 
    - della manifestazione di massa indetta in quel giorno per depositare in parlamento 
    la petizione che rivendicava l'adozione della Carta del popolo. Ne seguì 
    una repressione anticartista.
    61)Luigi Bonaparte (1808-1873), nipote di Napoleone, presidente della Seconda 
    Repubblica, con il colpo di stato del 2 dicembre 1851 diventa imperatore dei 
    francesi con il nome di Napoleone III. Cfr. ampiamente: Marx: Il 18 brumaio 
    di Luigi Bonaparte.
    62)Fra Gionata, soprannome ironico dato dagli inglesi agli americani durante 
    la guerra d'indipendenza americana.
    63)Revivalismo, movimento religioso della chiesa protestante apparso in Inghilterra 
    nella prima metà del secolo XVIII e molto attivo in America nel 1800. 
    Perseguiva un allargamento e un consolidamento dell'influenza della religione 
    cristiana attraverso la predicazione e l'organizzazione di comunità 
    di credenti. Moody e Sankey furono tra i predicatori americani più 
    attivi.
    "Educazione della 64) classe media". Per "classe media" 
    si intendeva allora la borghesia.
    Nel 1867, sotto la pressione del movimento operaio e con l'impegno 65) attivo 
    del Consiglio generale della I Internazionale, il parlamento inglese fu costretto 
    ad approvare il secondo Reform Act, in base al quale il numero degli elettori 
    aumentò di oltre il doppio.
    66)Benjamin Disraeli Lord Beaconsfield (1804-1881), romanziere e uomo di stato 
    inglese, capo del partito conservatore (Tories), primo ministro nel 1868 e 
    poi dal 1874 al 1880.
    "Diritto di voto ai capifamiglia". 67)
    68)Socialisti della cattedra, così chiamati perché i loro maggiori 
    rappresentanti erano professori delle università tedesche. Agirono 
    tra gli anni '70 e '90 del XIX secolo. Predicavano un riformismo liberale 
    ammantato di socialismo. Affermavano che lo Stato è un'istituzione 
    al di sopra delle classi e può riconciliarle introducendo gradualmente 
    il "socialismo" senza ledere gli interessi del capitalismo. Si limitavano 
    a organizzare le assicurazioni degli operai contro infortuni e malattie e 
    a rivendicare alcune riforme. Sostenevano che l'esistenza di sindacati ben 
    organizzati rendeva superflua la lotta politica e i partiti operai.
    69)Ritualismo, corrente che si forma nella chiesa anglicana intorno al 1830 
    e che preconizza la restaurazione di certi dogmi e riti della chiesa cattolica 
    nella chiesa anglicana.
    70)Lujo Brentano (1844-1921), professore di economia politica.
    È la questione 71) della possibilità, nell'epoca del capitalismo 
    premonopolistico, della vittoria della rivoluzione proletaria simultaneamente 
    in più paesi capitalisti avanzati e, dunque, sull'impossibilità 
    della vittoria in un solo paese. Sulla questione Engels si era già 
    pronunziato in modo compiuto nel 1847 nell'opera Princìpi del comunismo. 
    Successivamente, nelle condizioni del capitalismo monopolistico, Lenin elaborò 
    la teoria dello sviluppo ineguale del capitalismo e concluse sulla possibilità 
    della vittoria della rivoluzione socialista in un solo paese. Cfr. soprattutto: 
    Lenin, A proposito della parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa e L'imperialismo, 
    fase suprema del capitalismo. La polemica, come è noto si ripropose 
    tra Stalin, che difendeva la tesi di Lenin, e Trotzky, che teorizzava la controrivoluzionaria 
    teoria della "rivoluzione ininterrotta".
    72)Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), uno dei maggiori filosofi del secolo 
    XVIII, illuminista, deista, ispiratore dei princìpi della Rivoluzione 
    borghese del 1789 e dei suoi più radicali esponenti.
    73)Thomas Münzer (circa 1490-1525), rivoluzionario e ideologo dei contadini 
    in un moto rivoluzionario in Turingia insieme alla setta degli anabattisti 
    all'epoca della Riforma e nella guerra contadina del 1535. Gli anabattisti 
    erano membri di una setta religiosa protestante che rigettavano il battesimo 
    dei bambini come inefficace perché imposto in età non razionale.
    74)Livellatori, rappresentanti delle plebi urbane e rurali che durante la 
    rivoluzione inglese del 1648 avanzarono le rivendicazioni più democratiche 
    e radicali.
    75)François-Noel Babeuf detto Graccus (1760-1797), grande rivoluzionario 
    francese, è il primo a sottolineare l'importanza della lotta di classe 
    come molla della storia. Eminente rappresentante del comunismo egualitario. 
    Durante la Rivoluzione francese si proclama seguace dei sanculotti e lotta 
    contro ogni involuzione e deviazione dei vari gruppi dirigenti. Fonda e dirige 
    il giornale Il tribuno del popolo. Dopo un primo arresto è organizzatore 
    e animatore della "congiura degli Uguali" e si batte contro il Direttorio 
    e i sostenitori delle alleanze di classe. Costretto all'illegalità, 
    il suo gruppo diventa il primo "partito" retto da principi centralistici. 
    Di nuovo arrestato è fatto giustiziare il 28 maggio 1797. Suo seguace 
    e continuatore fu Filippo Buonarroti.
    Engels allude alle opere 76) di Tommaso Moro e Tommaso Campanella, rappresentanti 
    del comunismo utopistico.
    77)Morelly, abate francese del XVIII secolo, ispiratore di Babeuf, auspicò 
    l'abolizione della proprietà privata. Mably, anch'egli abate nel XVIII 
    secolo, vagheggiò il ritorno all'uguaglianza primitiva e alla comunanza 
    dei beni.
    La parte 78) che segue corrisponde alla terza parte, capitolo I, dell'Antidühring.
    79)Terrore (giugno 1793-luglio 1794), periodo della Rivoluzione francese durante 
    il quale i Giacobini esercitano la loro dittatura rivoluzionaria e democratica.
    80)Direttorio, organo del potere esecutivo in Francia dal 1795 (dopo il colpo 
    di stato controrivoluzionario) al 1799, composto di cinque persone. Praticò 
    il terrore contro le forze democratiche difendendo gli interessi della grande 
    borghesia. Estremamente corrotto, fu rovesciato da Napoleone Bonaparte.
    81)Thomas Carlyle (1795-1881), filosofo idealista inglese, per la sua critica 
    della borghesia inglese fu "classificato" nel Manifesto come "socialista 
    feudale". Sostenne che solo i grandi uomini fanno la storia, e finì 
    per approdare a posizioni conservatrici e reazionarie. La sua opera Past and 
    Present (= "Passato e presente") sulla società borghese fu 
    recensita da Engels negli Annali franco-tedeschi nel 1844.
    82)New Lanark, opificio per la filatura del cotone fondato nel 1784 da Robert 
    Owen e piccola città operaia nelle vicinanze della città scozzese 
    di Lanark.
    Engels si riferisce qui alle 83) posizioni e alla propaganda idealiste e non 
    scientifiche degli anarchici seguaci di Bakunin.
    Il 31 marzo 1814. 84)
    85)I Cento giorni, periodo di temporaneo ristabilimento dell'impero compreso 
    tra il ritorno a Parigi di Napoleone dall'isola d'Elba il 20 marzo 1815, e 
    il 22 giugno, data della sua definitiva abdicazione.
    86)Waterloo, villaggio belga dove il 18 giugno 1815 le truppe anglo-olandesi 
    al comando del duca di Wellington e le truppe prussiane comandate da Blucher 
    sconfissero Napoleone I.
    Cfr.: Engels, 87) L'origine della famiglia, della proprietà privata 
    e dello Stato.
    Engels, invece, distingue solo tre fasi: lo stato selvaggio, la 88) barbarie 
    e la civiltà. Cfr.: Engels, L'origine ecc.
    Nell' 89)Anti-Dühring Engels precisa; "in un periodo di vero Sturm 
    und Drang della produzione". Sturm und Drang (= "Tempesta e Impeto") 
    fu il motto che orientò il primo romanticismo tedesco.
    Engels aveva studiato da vicino e descritto dettagliatamente queste 90) questioni 
    in La situazione della classe operaia in Inghilterra.
    Nell'ottobre 1833 si tiene a Londra un congresso delle società 91) 
    cooperative e delle Trade Unions sotto la presidenza di Owen. Esso dà 
    vita alla Grande associazione delle imprese della Gran Bretagna e dell'Irlanda. 
    Accolta molto sfavorevolmente dalla borghesia e dallo Stato, l'Associazione 
    cessa di esistere nell'agosto 1834.
    92)Empori del lavoro, fondati dalle cooperative operaie di Owen in diverse 
    città dell'Inghilterra. In essi si effettuava lo scambio equitativo 
    dei prodotti del lavoro sulla base di una "carta moneta del lavoro" 
    la cui unità di base era l'ora di lavoro.
    L'antimarxista Proudhon tentò di istituire una banca di cambio 93) 
    durante la rivoluzione del 1848-1849. Questa Banca del popolo fu fondata il 
    31 gennaio 1849 a Parigi. Esistette due mesi e fallì agli inizi di 
    aprile senza aver neppure iniziato a funzionare.
    94)Wilhelm Weitling (1808-1871), esponente di primo piano del movimento operaio 
    tedesco delle origini, teorico del comunismo egualitario utopistico.
    95)Denis Diderot (1713-1784), filosofo illuminista francese, seguace del materialismo 
    meccanicistico, ateo, uno degli ideologi della borghesia rivoluzionaria francese, 
    redattore dell'Enciclopedia.
    96)Eraclito (circa 540-circa 480 avanti Cristo), filosofo greco, uno dei fondatori 
    della dialettica, seguace del materialismo spontaneo.
    97)Periodo alessandrino (dal III secolo avanti Cristo al VII secolo della 
    nostra era), così chiamato dalla città di Alessandria d'Egitto, 
    uno dei principali centri economici e culturali dell'epoca. In questo periodo 
    numerose scienze conobbero un grande progresso, in particolare la matematica 
    (con Euclide ed Archimede), la geografia, l'astronomia, l'anatomia, la fisiologia.
    L'opera di Kant a cui Engels si riferisce è la 98) Storia naturale 
    universale e teoria dei cieli. Cfr. anche la nota n. 39 su Laplace.
    99)Isaac Newton (1642-1727), grande fisico, astronomo e matematico inglese, 
    padre della meccanica classica. Enunciò la legge della gravitazione 
    universale.
    100)Karl von Linné (1707-1778), naturalista svedese, autore della classificazione 
    delle piante e degli animali.
    Durante uno sciopero degli operai tessili di 101) Lione, che in particolare 
    lavoravano la seta, per la fissazione del salario minimo, una manifestazione 
    fu dispersa a fucilate. Gli operai insorsero e tennero la città finché 
    non fu fatto intervenire l'esercito.
    102)Cartisti. Vedi la nota n.59. Il movimento fu attivo fino al 1848, quando 
    cominciò a declinare. Non ebbe mai un programma e una tattica veramente 
    determinati né una direzione proletaria e rivoluzionaria. La sua importanza 
    e l'influenza del cartismo sulla storia politica dell'Inghilterra e sull'evoluzione 
    del movimento operaio mondiale furono enormi.
    Parole di Mefistofele nel 103) Faust di Goethe.
    Secondo Marx questa contraddizione può essere superata eliminando 104) 
    "il modo di produzione capitalistico, conservando però la produzione 
    sociale" (cfr.: Marx, Il Capitale). Il ruolo del proletariato e il fine 
    del socialismo sono tutti nel superamento di questa contraddizione.
    Queste guerre furono combattute tra Spagna, Portogallo, Olanda, 105) Francia 
    e Inghilterra per il dominio dei traffici commerciali con l'America e l'India 
    e, quindi, per la colonizzazione di quelle terre. La vittoria arrise all'Inghilterra 
    che dominò il commercio mondiale fino agli albori del XIX secolo.
    106)Stato popolare libero un nonsenso, una definizione antinomica che Marx 
    ha denunciato e smascherato più e più volte, in particolare 
    cfr.: Marx, Critica del programma di Gotha.
    Engels allude polemicamente alla teoria di Dühring secondo cui la 107) 
    divisione della società in classi è dovuta solo alla violenza.
    Nell' 108)Anti-Dühring, Engels precisa: "Hegel fu il primo a rappresentare 
    in modo giusto il rapporto di libertà e necessità. Per lui la 
    libertà è il riconoscimento della necessità. "Cieca 
    è la necessità solo nella misura in cui non viene compresa". 
    La libertà non consiste nel sognare l'indipendenza dalle leggi della 
    natura, ma nella conoscenza di queste leggi e nella possibilità, legata 
    a questa conoscenza, di farle agire secondo un piano per un fine determinato. 
    Ciò vale in riferimento tanto alle leggi della natura esterna, quanto 
    a quelle che regolano l'esistenza fisica e spirituale dell'uomo stesso".