Biblioteca Multimediale Marxista
    
    in Marx-Engels, Opere complete, Editori Riuniti, vol. XVII, pagg. 392-396.
    
    Dall'inglese.
    
    
    
    
    Dopo una serie di informazioni le più contraddittorie, riceviamo infine 
    qualche notizia degna di fede sui particolari della meravigliosa marcia di 
    Garibaldi da Marsala a Palermo. è, indubbiamente, una delle imprese 
    militari più straordinarie del secolo, e sarebbe quasi inspiegabile 
    se non fosse per il prestigio che precede la marcia di un trionfante generale 
    rivoluzionario. Il successo di Garibaldi dimostra che le truppe regie di Napoli 
    sono ancora terrorizzate dall'uomo che ha tenuto alta la bandiera della rivoluzione 
    italiana di fronte ai battaglioni francesi, napoletani, e austriaci, e che 
    la popolazione siciliana non ha perso la fede in lui, o nella causa nazionale.
    Il 6 maggio, due battelli lasciano la costa di Genova con circa 1.400 uomini 
    armati, organizzati in sette compagnie, ognuna delle quali, evidentemente, 
    destinata a diventare il nucleo di un battaglione da reclutarsi fra gli insorti. 
    L'8 sbarcano a Talamone, sulla costa toscana, e persuadono il comandante del 
    forte là situato, con chissà quali argomenti, a fornire loro 
    carbone, munizioni, e quattro pezzi di artiglieria da campo. Il 10 entrano 
    nel porto di Marsala, all'estremità occidentale della Sicilia, e sbarcano 
    con tutto il loro materiale, nonostante l'arrivo di due navi da guerra napoletane, 
    che non sono in grado al momento giusto di fermarli; la storia dell'interferenza 
    britannica a favore degli invasori si è dimostrata falsa, ed è 
    ora abbandonata anche dagli stessi napoletani. Il 12, la piccola banda aveva 
    avanzato su Salemi, a 18 miglia di distanza nell'entroterra, sulla strada 
    di Palermo. Sembra che i capi del partito rivoluzionario abbiano incontrato 
    Garibaldi, si siano consultati con lui, e abbiano raccolto rinforzi tra gli 
    insorti, circa 4.000 uomini; mentre questi venivano organizzati, l'insurrezione, 
    repressa ma non domata poche settimane prima, si rinfocolò di nuovo 
    su tutte le montagne della Sicilia occidentale, e come fu dimostrato il 16, 
    non senza effetto. Il 15, Garibaldi con i suoi 1.400 volontari organizzati 
    e i 4.000 contadini armati, avanza verso nord attraverso le colline, verso 
    Calatafimi, dove la strada di campagna da Marsala si congiunge con la strada 
    maestra che va da Trapani a Marsala. Le gole che conducono a Calatafimi, attraverso 
    un contrafforte dell'alto monte Cerrara, chiamato monte del Pianto dei Romani, 
    erano difese da tre battaglioni di truppe regie, con cavalleria e artiglieria, 
    sotto il comando del gen. Landi. Garibaldi attaccò subito questa posizione, 
    che in un primo tempo fu ostinatamente difesa; ma sebbene in questo attacco 
    non avesse potuto impiegare contro i 3.000 o 3.500 napoletani niente più 
    che i suoi volontari e una parte molto piccola di insorti siciliani, i regi 
    furono successivamente scacciati da cinque forti posizioni, con la perdita 
    di un cannone da montagna e numerosi morti e feriti. Le perdite dei garibaldini 
    sono stimate da loro stessi in 18 morti e 128 feriti. I napoletani dichiarano 
    di aver conquistato una delle bandiere di Garibaldi in questo scontro, ma, 
    avendo trovato essi una bandiera dimenticata a bordo di uno dei battelli abbandonati 
    a Marsala, è possibile che abbiano esibito questa stessa bandiera a 
    Napoli come prova della loro pretesa vittoria. La loro sconfitta a Calatafimi, 
    tuttavia, non li costrinse ad abbandonare quella città la sera stessa. 
    La lasciarono solo il mattino seguente, e dopo sembra che non abbiano opposto 
    ulteriore resistenza a Garibaldi, finché non raggiunsero Palermo. La 
    raggiunsero effettivamente, ma in un terribile stato di disgregazione e disordine. 
    La certezza di aver dovuto soccombere di fronte a semplici "filibustieri 
    e ad una feccia armata" ricordava loro tutto d'un colpo la terribile 
    immagine di quel Garibaldi, che, mentre difendeva Roma contro i francesi, 
    poteva trovare ancora il tempo di marciare su Velletri e di far fare dietro 
    front all'avanguardia dell'intero esercito napoletano; di colui che in seguito 
    aveva conquistato sulle pendici delle Alpi guerrieri di una tempra di gran 
    lunga superiore a quelli che produce Napoli. La precipitosa ritirata, senza 
    neanche dar mostra di voler resistere ancora, deve aver ulteriormente accresciuto 
    il loro scoraggiamento e la tendenza alla diserzione che già esisteva 
    nei loro ranghi; e quando all'improvviso essi si trovarono circondati e bersagliati 
    da quell'insurrezione che era stata preparata nell'incontro a Salemi, la loro 
    compattezza fu completamente travolta; della brigata di Landi, rientrò 
    a Palermo niente più che una calca disordinata e scoraggiata, in numero 
    grandemente ridotto, in piccole bande successive.
    Garibaldi entrò a Calatafimi il giorno in cui Landi ne uscì 
    - il 16; il 17 marciò su Alcamo (10 miglia); il 18 su Partinico (10 
    miglia) e oltrepassato questo luogo puntò su Palermo. Il 19, acquazzoni 
    torrenziali impedirono alle truppe di avanzare.
    Nel frattempo, Garibaldi aveva appurato che i napoletani stavano scavando 
    trincee intorno a Palermo, e rinforzando i vecchi, cadenti bastioni della 
    città dalla parte che si affaccia su Partinico. Essi potevano contare 
    ancora su 22.000 uomini, e così rimanevano di gran lunga superiori 
    a tutte le forze che egli avrebbe potuto opporre loro. Ma erano scoraggiati; 
    la loro disciplina allentata; molti di loro cominciavano a pensare di passare 
    alle fila degli insorti; mentre era risaputo, sia tra i loro soldati che tra 
    i nemici, che i loro generali erano degli imbecilli. Le sole truppe degne 
    di affidamento tra loro erano i due battaglioni stranieri. Stando così 
    le cose, Garibaldi non avrebbe potuto rischiare un attacco frontale diretto 
    sulla città, mentre i napoletani non potevano intraprendere niente 
    di decisivo contro di lui, ammesso che le loro truppe ne fossero in grado, 
    dato che essi devono sempre lasciare una forte guarnigione in città 
    e non allontanarsi mai troppo da essa. Con un generale di stampo comune al 
    posto di Garibaldi, questo stato di cose avrebbe condotto a una serie di azioni 
    sconnesse e non risolutive, in cui egli avrebbe potuto addestrare una parte 
    delle sue reclute nell'arte militare, ma in cui anche le truppe regie avrebbero 
    potuto recuperare molto in fretta buona parte della perduta fiducia e disciplina, 
    poiché non avrebbero potuto non riportare qualche successo in alcune 
    di queste azioni. Ma una guerra di questo tipo non sarebbe convenuta né 
    ad un'insurrezione, né a un Garibaldi. Un'audace offensiva era l'unico 
    sistema di tattica permesso in una rivoluzione; un successo straordinario, 
    come quello della liberazione di Palermo, divenne una necessità non 
    appena gli insorti furono giunti in vista della città.
    Ma come attuare tutto ciò? Fu qui che Garibaldi dimostrò brillantemente 
    di essere un generale adatto non solo alla semplice guerra partigiana, ma 
    anche a operazioni più importanti.
    Il 20 e i giorni successivi, Garibaldi attaccò gli avamposti napoletani 
    e le posizioni nelle vicinanze di Monreale e Parco, sulla strada che porta 
    a Palermo da Trapani e Corleone, facendo credere così al nemico che 
    il suo attacco si sarebbe attuato soprattutto contro il lato sud-ovest della 
    città, e che qui fosse concentrata la parte più consistente 
    delle sue forze. Con un'abile combinazione di attacchi e finte ritirate, indusse 
    il generale napoletano a far uscire un numero sempre più grande di 
    truppe dalla città in questa direzione, finché il 24 circa 10.000 
    napoletani apparvero fuori dalla città, verso Parco. Era quello che 
    Garibaldi voleva. Egli li impegnò subito con una parte delle sue forze, 
    indietreggiò lentamente davanti a loro in modo da spingerli sempre 
    più lontano fuori dalla città, e quando li ebbe attirati a Piana(1), 
    al di là della principale catena di colline che taglia la Sicilia e 
    qui divide la Conca d'oro (così è chiamata la valle di Palermo) 
    dalla valle di Corleone, egli gettò improvvisamente il grosso delle 
    sue truppe sull'altra parte della stessa catena, nella valle di Misilmeri, 
    che si apre sul mare, vicino a Palermo. Il 25 egli fissò il quartier 
    generale a Misilmeri, a otto miglia dalla capitale. Non siamo informati su 
    ciò che fece dopo con i suoi 10.000 uomini disseminati lungo la sola 
    strada dissestata che c'è sulle montagne, ma possiamo esser certi che 
    egli li tenne ben occupati con alcune nuove indiscusse vittorie, in modo da 
    impedire che ritornassero troppo presto a Palermo. Avendo così ridotto 
    i difensori della città quasi della metà, e trasferito la sua 
    linea d'attacco dalla strada di Trapani alla strada di Catania, egli poteva 
    procedere al grande attacco. Se l'insurrezione in città abbia preceduto 
    l'assalto di Garibaldi, o se sia divampata al suo presentarsi alle porte della 
    città, non risulta chiaro dai dispacci contraddittori; ma certo è 
    che la mattina del 27, tutta Palermo insorse armata e Garibaldi si scagliò 
    su Porta Termini, al lato sud-est della città, dove nessun napoletano 
    lo attendeva. Il resto si sa: il graduale abbandono della città da 
    parte delle truppe, ad eccezione delle batterie, della cittadella e del palazzo 
    reale; i bombardamenti che seguirono, l'armistizio, la capitolazione. Mancano 
    ancora particolari dettagliati di tutte queste azioni; ma i fatti principali 
    sono sufficientemente definiti.
    Nel frattempo, dobbiamo dire che le manovre con cui Garibaldi preparò 
    l'attacco su Palermo lo definiscono subito un generale di prim'ordine. Finora 
    noi lo conoscevamo solo come un capo di guerriglia molto abile e molto fortunato; 
    anche nell'assedio di Roma il suo modo di difendere la città con continue 
    sortite difficilmente gli poteva dare l'occasione di sollevarsi sopra quel 
    livello. Ma qui lo troviamo su un buon terreno strategico, ed egli esce da 
    questa prova da maestro provetto nella sua arte. Il modo di indurre il comandante 
    napoletano nell'errore di mandare metà delle truppe fuori tiro, l'improvvisa 
    marcia laterale e per riapparire davanti a Palermo, dalla parte dove era meno 
    atteso, e l'energico attacco quando la guarnigione era indebolita, sono operazioni 
    che portano il marchio del genio militare più di qualsiasi altro avvenimento 
    verificatosi durante la guerra italiana del 1859. L'insurrezione siciliana 
    ha trovato un capo militare di prim'ordine; speriamo che il Garibaldi uomo 
    politico, che dovrà presto comparire sulla scena, possa mantenere intatta 
    la gloria del generale.
    Apparso sul "New York-Daily Tribune", n. 5979, 22 giugno 1860, editoriale. 
    Scritto intorno al 7 giugno 1860. 
    (1) Piana dei Greci