Biblioteca Multimediale Marxista


Questioni sull'ottima repubblica



ARTICOLO PRIMO

Se a ragione e utilmente si sia aggiunta alla dottrina politica il dialogo della Città del Sole.

Più difficoltà militano contro la ragionevolezza e l'utilità di una tal repubblica.

1. Di ciò che non esistette mai, né esisterà né si spera che esista, è inutile e vano l'occuparsene; ma un simile modo di vivere in comune affatto esente di delitti è impossibile, né mai si è veduto, né si vedrà, dunque inutilmente ci siamo di esso occupati. Argomento che Luciano usava contro la repubblica di Platone.

2. Questa repubblica non può sussistere che in una sola città, non in un regno, poiché non si possono trovare luoghi affatto simili, adunque o sarà corrotta dai popoli soggetti, dal commercio, o dalle sedizioni che nasceranno contro una maniera di vivere sì austera.

3. Questa repubblica vien immaginata ottima e che duri per sempre; ella prima non potrà durare per sempre perché necessariamente essa dovrà corrompersi alla fine, o essere invasa dalla peste pel lungo domicilio non essendo purificata dal vento, dalla guerra, dalla fame, dalle bestie feroci, se mai potrà sfuggire alla tirannia interna, o infine dal troppo numero dei cittadini, come diceva Platone della sua repubblica. Secondo, non potrà essere ottima poiché necessariamente vi saranno dei delitti come dice l'apostolo: si discessimus quia peccatum non habemus, ipsi nos seducimus, e parimenti Aristotile prova che la comunanza dei beni utili e delle mogli fa viziosa una repubblica contro Platone, e quando ci sembra aver sfuggito un male ne incontriamo una moltitudine.

4. Quel modo di vivere è più secondo natura che è provato dall'uso di tutte le nazioni; ma il nostro è rigettato da tutte, dunque inutilmente e leggermente ne abbiam tenuto discorso.

5. Nessuno vorrebbe vivere sotto leggi ed osservanze così severe e sotto tutela dei pedagoghi e questa repubblica sarebbe rovesciata dagli stessi cittadini, come addivenne a molti ordini religiosi viventi in comunità.

6. È naturale agli uomini lo studiare le opere di Dio, il viaggiare pel mondo, cercare dovunque le scienze, far esperienza di tutto; ma gli abitanti di una tal repubblica sarebbero come i monaci che non studiano che sui libri, e quando intendono qualche cosa che in essi non si trova si scandalizzano e si conturbano; come ora appena credono alle osservazioni di Galileo, e anteriormente che Colombo avesse trovato un nuovo emisfero, perché S. Agostino lo nega.
Ma, rispondendo prima in generale, in nostro favore sta l'esempio di Tommaso Moro, martire recente, che scrisse la sua repubblica Utopia imaginaria, sul cui esempio noi abbiamo trovate le istituzioni della nostra; e Platone parimente presentò un'idea della repubblica, che sebbene, come dicono i teologi, nella natura corrotta non può essere in tutte le parti posta in pratica, pure nello stato d'innocenza avrebbe ottimamente potuto sussistere, e Cristo appunto ci richiama allo stato d'innocenza. Aristotile istituì nello stesso modo la sua repubblica e molti altri filosofi. I principi parimente promulgano leggi che credono esser ottime; non perché s'imaginino che nessuno le trasgredirà, ma perché pensano che faranno felice chi le osserva. E S. Tommaso insegna che i religiosi non sono tenuti sotto pena di peccato ad osservare quanto vien prescritto nella regola, ma solo le cose più essenziali, quantunque sarebbero più felici osservandole tutte: devono vivere secondo la regola cioè adattare per quanto possono comodamente la loro vita alla regola. Mosè promulgò leggi date da Dio e istituì un'ottima repubblica, e finché gli Ebrei vissero a norma della medesima fiorirono; quando poi non ne osservarono le leggi decaddero. Così i retori stabiliscono le ottime regole di un buon discorso privo di ogni difetto. Così i filosofi imaginano un poema senza pecca, e tuttavia alcun poeta non sfugge ogni pecca. Così i teologi descrivono la vita dei santi, e nessuno o pochi di loro la imita. Qual nazione poi o qual individuo poté imitare la vita di Cristo senza peccato? Furono per questo scritti inutilmente gli Evangeli? non mai: ma perché facciamo ogni sforzo per accostarci il più che possiamo ai medesimi. Cristo stabilì una repubblica eccellentissima, priva d'ogni peccato che gli apostoli appena osservarono intieramente, poi dal popolo passò al clero, e finalmente ai soli monaci; e in questi ora persevera in alcuni, negli altri poi vedi ben pochi istituti conservarsi in armonia colla medesima. Noi poi presentiamo la nostra repubblica non come data da Dio ma come un trovato filosofico e della ragione umana per dimostrare che la verità del Vangelo è conforme alla natura. Che se in alcune cose ci scostiamo dal Vangelo, o sembriamo scostarci, ciò non si deve ascrivere ad empietà, ma alla debolezza umana che priva di rivelazione pensa molte cose essere giuste, che al lume della medesima non sono tali, come diremo della comunità dei matrimoni; e per questo abbiamo supposta la nostra repubblica nel gentilesimo che aspetta la rivelazione di una vita migliore, e vivendo secondo i dettami della ragione merita di averla. Quindi sono come catecumeni della vita cristiana; perciò dice Cirillo contro Giuliano: che ai gentili fu data la filosofia come catechismo per la fede cristiana. Noi poi ammaestriamo i gentili perché vivano rettamente se non vogliono essere abbandonati da Dio, e persuadiamo i cristiani che la vita di Cristo è conforme alla natura prendendo da questa repubblica l'esempio, come S. Clemente romano dalla repubblica socratica, e come fecero e il Grisostomo e S. Ambrogio.
Egli è poi chiaro come con questa maniera di vivere vengano tolti tutti i vizi, poiché né i magistrati hanno ragioni di ambire i posti, e tutti gli ab si che nascono, sia dalla successione, sia dall'elezione, sia dalla sorte, stabilendo noi una specie di repubblica come quella delle grue e delle api celebrate da S. Ambrogio; così pure vengono tolte le sedizioni dei sudditi, che nascono sia dall'insolenza dei magistrati, sia dalla licenza di questi, o dalla povertà, o dalla troppa abbiezione ed oppressione.
Così tutti i mali che nascono dai due opposti, dalle ricchezze e dalla povertà, e che Platone e Salomone considerano come l'origine dei mali della repubblica: cioè l'avarizia, l'adulazione, la frode, i furti, la sordidezza dalla povertà: la rapina, l'arroganza, la superbia, l'ostentazione, l'oziosità, ecc., dalle ricchezze.
Così si distruggono i vizi che nascono dall'abuso dell'amore, come gli adulteri, la fornicazione, la sodomia, gli aborti, la gelosia, le discordie domestiche, ecc.
Così i mali che procedono dal troppo amore dei figli o delle consorti; e la proprietà che tronca, come dice Sant'Agostino, le forze della carità, e l'amor proprio cagione di tutti i mali, come dice Santa Caterina in un dialogo; da qui l'avarizia, l'usura, l'illiberalità, l'odio del prossimo, l'invidia verso i ricchi e i grandi: noi accresciamo l'amore della comunità e togliamo gli odj che nascono dall'avarizia, radice di ogni male, così le liti, le frodi, le false testimonianze, ecc.
Così tutti i mali del corpo e dell'anima che nascono o dal troppo lavoro nel povero, o dall'ozio nei ricchi, mentre da noi si scompartono le fatiche ugualmente.
Così i mali che vengono dall'ozio nelle donne, e che corrompono la generazione e la salute del corpo e dello spirito, mentre noi le occupiamo di esercizi e delle virtù ad esse confacenti.
Così i mali che nascono dall'ignoranza e dalla stoltezza, mentre nella nostra repubblica si vede tanta esperienza di dottrina in ogni cosa, e nella stessa fabbrica della città, ove con imagini e pitture a chi solo vi riguardi si insegnano tutte le scienze quasi in un modo storico.
Così vien provveduto meravigliosamente contro la corruzione delle leggi.
Finalmente siccome abbiamo sfuggito in ogni cosa gli estremi e ridotto tutte le cose a giusto mezzo, in cui sta la virtù, non può imaginarsi una repubblica più felice e più facile. E finalmente tutti i difetti che si sono notati nelle repubbliche di Minosse, di Licur , di Solone, di Caronda, di Romolo, di Platone, di Aristotile e di altri autori, nella nostra repubblica, a chi ben vi guarda, non vi si trovano, e felicemente si è provveduto a tutto, poiché essa è dedotta dalla dottrina delle primalità metafisiche, colle quali nulla vien negletto od ommesso.

Ora alla prima difficoltà si è risposto che se non si può raggiungere esattamente l'idea di una tal repubblica, non per questo si è scritto inutilmente, mentre si propone un esemplare da imitarsi per quanto si può. Ma che essa sia pur possibile lo mostra e la vita dei primi cristiani in cui la comunanza fu stabilita sotto gli apostoli secondo testifica S. Luca e S. Clemente. E in Alessandria si è osservato l'istesso modo di vivere sotto S. Marco, come testifican Filone e S. Girolamo. Tale fu la vita del clero fino ad Urbano 1 ed anche sotto S. Agostino; e tale ora è la vita dei monaci che S. Grisostomo desidera, come possibile, introdotta in tutta la città di Costantinopoli, e che io spero doversi in futuro realizzare doo la ruina dell'Anticristo, come ne' miei profetali. Chi poi aristotelizzando la nega, è però costretto ad ammetterla possibile nello stato di innoc enza, sebbene non di presente. Ma i padri la suppongono praticabile anche ora, poiché Cristo ci ha ridotti a quel primo stato. E mentre Luciano, gentile e ateista, deride Platone per aver imaginato una repubblica impossibile, S. Clemente,. Ambroo e Grisostomo lo lodano, e esti per dottrina e per santità sono bene da anteporsi a mille Luciani.

Alla seconda obbiezione. Noi abbiamo per questo attribuito un tal modo di vivere solo alla capitale. 1 villaggi poi imiteranno un tal modo o in parte, o nel tutto, quando più di essi si uniranno a formare una provincia. Luoghi adatti poi si troveranno facilmente, e dove manchino varieremo la forma, in modo che nel più alto del monte sia il capo della città, nelle appendici semicircolari poi le abitazioni, e al piano il nostro modello sarà pur buono, se non vi si oppone il fango, che si può schivare selciando le vie e scavando acquedotti. Perché poi gli abitanti non siano corrotti dal commercio si è provveduto nel testo coi magistrati a ciò deputati, ed a fuggire le sedizioni esterne valgono le rocche ben munite della metropoli e le milizie che percorrono di continuo per la difesa dell'impero, e più la probità della città dominante, il servire alla quale è una felicità come per gli ignoranti è bene servire al sapiente e al probo e più coll'opinione di probità che colla forza Roma accrebbe l'impero, e sotto Pompilio stimarono nefando usare dei mezzi contrari alla virtù contra i nemici.

Alla terza obbiezione. Essa durerà fino ad uno dei periodi generali delle cose umane che dan origine ad un nuovo secolo. Poiché quanto alla peste, alle fiere, alla fame, alla guerra, abbiamo provveduto ottimamente per quanto si può colla virtù o almeno assai meglio di quel che si soglia fare altrove, poiché i venti per le quattro vie maggiori purgano la città, e dove sono impediti dalle case suppliscono le finestre, poste in modo da chiudersi alle cattive esalazioni e da aprirsi alle salubri. Quanto al numero degli abitanti vedi la metafisica. Dico questa essere una via ottima e di cui si deve più aver cura che della durata. Certo vi saranno dei peccati, ma non gravi, come negli altri Stati o almeno non tali che ruinino la repubblica come risulta dagli ordini stabiliti. Ciò poi che Aristotile obbietta ad una tale repubblica verrà sciolto nei susseguenti articoli.

Alla quarta obbiezione. Dico che tal repubblica, come il secolo d'oro, vien da tutti desiderata e chiesta da Dio quando si domanda che la sua volontà sia fatta così in cielo come in terra. Non vien però praticata per la malizia dei principi, che a sé non all'impero della somma ragione sottomettono i popoli. Dall'uso poi e dall'esperienza è provato essere possibile quanto abbiam detto; come è più secondo natura il vivere conforme alla ragione che all'affetto sensuale, e virtuosamente di quel che viziosamente, secondo Grisostomo. E i monaci sono di ciò una prova, e ora gli anabatisti, che vivono in comune, che se ritenessero i veri dogmi della fede, più profitterebbero in questo modo di vita; e volesse il cielo che non fossero eretici, e praticassero la giustizia come noi professiamo: che sarebbero un esempio della sua verità; ma non so per qual stoltezza rifiutano il migliore.

Alla quinta obbiezione. Ella è anzi una somma felicità il vivere virtuosamente, come dice Grisostomo, e dove commettendo errore sei tosto corretto, avanti che sopporti gli effetti dell'errore. La licenza è causa dei mali, ed è felice quella necessità che ci sforza al bene. Ma, a noi avvezzi al male, sembra duro questo genere di vita, come ai giuocatori e ai discoli la vita dei buoni cittadini: e a questi la vita dei monaci. Ma provate, e vedrete i religiosi non mai per la severità della disciplina si rivoltano, ma se avviene è pel commercio dei laici, per l'ambizione degli onori e l'amore della proprietà o per libidine, ma nella nostra repubblica si è provveduto e sfuggito tutte queste cagioni. Dunque non prova l'esempio di quelli.

Alla sesta obbiezione. Noi anzi cerchiamo di far tesoro per la nostra repubblica delle osservazioni dell'esperienza, della scienza di tutta la terra, e a questo fine abbiamo stabilito peregrinazioni, comunicazioni di commercio e ambasciate. Né i monaci si privano di questi beni mutando spesso città e provincia, né l'ignoranza dell'esperienza si dà a vedere nei migliori monaci, ma solo nei volgari. Le loro querele poi giovano perché meglio si discutono le cose, e si rischiarano, e alla fine si acquietano pure tutti i virtuosi. E tu non troverai che in alcun luogo più si sia fatto per la dottrina e la conservazione delle scienze che negli ordini dei monaci e dei frati. E i monaci antropomorfiti, insorti contra Origene ad istigazione del maligno Teofilo patriarca, non ottennero nulla dopo un esatto esame. Ma è chiaro che tali sedizioni non avverranno nella città del Sole. Il monachismo è stato ritrovato per l'aumento della santità e della scienza, non per rendere pesante la sudditanza, come pretendono gli ipocriti.

--------------------------------------------------------------------------------

ARTICOLO SECONDO

Se sia più conforme alla natura, e più utile alla conservazione e all'aumento della repubblica e dei particolari, la comunanza dei beni esterni come sostengono Socrate e Platone, oppure la divisione difesa da Aristotile.

Prima obbiezione. Contro la comunanza dei beni Aristotile nel 2° libro della Politica argomenta in questo modo: o in questa comunanza, dice, i campi sarebbero propri e i frutti comuni o viceversa, o sì gli uni che gli altri comuni. Nel primo caso chi avesse più suolo dovrebbe più lavorare per coltivarlo, e avere egual parte di frutti con quelli che non lavorano, e da qui nascerebbero discordia e ruina. Nel secondo caso nessuno sarebbe stimolato al lavoro, e i campi sarebbero mal coltivati, poiché ognuno pensa più a sé che alle cose comuni, e dove v'è una moltitudine di servi il servizio è peggiore, mentre ognuno rimette sull ' 'altro il lavoro che dovrebbe fare. Nel terzo caso avverrebbe lo stesso e inoltre un nuovo male, poiché ognuno vorrebbe avere la migliore e la più gran parte nei frutti, e la minore nelle fatiche, e quindi invece dell'amicizia, non vi sarebbe che discordia e frode.

Seconda obbiezione. Contro la comunanza dei beni utili si obbietta essere necessarie più classi di persone pel buon governo della repubblica, come soldati, artefici e governatori, secondo Socrate: che se tutte le cose fossero comuni, ognuno rifiuterebbe le fatiche dell'agricoltore, e vorrebbe esser soldato e in tempo di guerra vorrebbe essere agricoltore, e non combatterebbe senza stipendio; o meglio ancora tutti vorrebbero essere rettori, giudici o sacerdoti. Così onorando alcuni, si aggraverebbero gli altri, aggravando i primi di minor lavoro, e quindi vi sarebbe ancora dell'ingiustizia, come per lo innanzi; è dunque meglio dividere i beni.

Terza obbiezione. La comunanza distrugge la liberalità e la facoltà di esercitare l'ospitalità, di soccorrere i poveri, poiché chi nulla possiede del suo non può fare alcuna di queste cose.

Quarta obbiezione. L un'eresia il negare la giustizia della divisione dei beni, come sostiene S. Agostino contro quelli che aveano in comune le donne e i beni e dicevano di vivere in tal modo alla maniera degli apostoli. E Soto nel lib. de Just. et Jure, dice che il concilio di Costanza condanna Giovanni Uss che nega potersi possedere qualche cosa in particolare; e Cristo disse: reddite quae Caesaris Caesari.

In contrario rispondiamo prima in generale colle parole di S. Clemente papa nell'epist. 4, e che sono riferite da Graziano nel can. 2, quest. I. - Carissimi, l'uso di tutte le cose che sono in questo mondo dovea essere comune, ma per iniquità, l'uno disse essere sua questa cosa, l'altro quell'altra, ecc., e dice che gli apostoli hanno insegnato e vissuto in modo che tutto fosse in comune, anche le donne. E così insegnano tutti i Padri commentando il principio della Genesi, poiché Dio non distribuì nulla e lasciò tutto in comune agli uomini perché crescessero, moltiplicassero e riempissero la terra. Così insegna Isidoro nel capo del jus naturale; e che gli apostoli abbiano vissuto in tal modo e tutti i cristiani primitivi si vede da S. Luca, S. Clemente, Tertulliano, Grisostomo, Agostino, Ambrogio, Filone, Origene ed altri; questa vita fu poi ristretta ai soli chierici che viveano in comune come testificano gli stessi e S. Girolamo, Prospero e Urbano papa e altri. Ma sotto il papa Simplicio, circa l'anno 470, fu fatta dal medesimo la divisione dei beni della Chiesa per modo che una parte toccasse al vescovo, l'altra alla fabbrica, l'altra al clero, ed una ai poveri. Poscia Gelasio papa poco dopo e S. Agostino non volevano ordinar chierici se non ponevano tutto in comune. Ma in seguito per non fare degli ipocriti che celavano il proprio' lo si permise, ma non volentieri. Perciò è un'eresia il condannare la vita comune, o il dirla contro natura. Anzi S. Agostino pensa che il togliere la proprietà è cagione di maggior splendore. Quindi sì per la presente che per la futura vita è migliore la comunanza dei beni. E S. Grisostomo insegna che questo genere di vita passò nei monaci ed egli la adotta, la insinua e la predica a tutti, e insegna nell'omelia al popolo di Antiochia che nessuno è padrone de' suoi beni ma solamente è dispensatore, come il vescovo di quelli della Chiesa, e quindi ogni laico il quale abusa de' suoi beni e non ne comunica agli altri, esser colpevole. S. Tommaso dice che siamo padroni della proprietà, non dell'uso, poi nell'estremo bisogno tutte le cose sono comuni. Perciò, se bene rifletti, una tale proprietà è piuttosto un peso per l'obbligazione di render conto della mala distribuzione, e ciò vien affermato da S. Basilio nel sermone ai ricchi, e da S. Ambrogio nel sermone 81, e S. Grisostomo lo inculca in quasi tutte le sue omelie e particolarmente sopra S. Luca al cap. 6 ove si trovano queste parole: nemo dicat proprio a Deo percipimus omnia: mendacii verba sunt meum et tuum. Lo stesso afferma Socrate nella Repubblica di Platone o del Timeo, lo stesso S. Agostino nel trattato 8° sopra Giovanni e il poeta Cristiano:

Si duo de notris tollas pronomina rebus,
Praelia cessarent, pax sine lite foret.
E Ovidio nelle Metamorfosi I, pone tal vita nel secol d'oro. E Ambrogio sopra il salmo 118 alla lettera L, dice: Dominus noster terram hanc possessionem omnium hominum voluit esse communem: sed avaritia possessionum jura distribuit: e nel libro de Virg. dice che la violenza, la strage e la guerra distribuirono le cose agli ebrei carnali, non però ai leviti, che figuravano il cristianesimo e il clero. S. Clemente poi afferma che ciò fu per l'iniquità dei gentili. E lo stesso S. Ambrogio nel lib. I degli Uffizi, cap. 28, prova colla scrittura e coll'autorità degli storici tutte le cose essere comuni, ma per usurpazione essere state divise, e lo stesso negli Hexam. V, insegna coll'esempio della repubblica civile delle api la vita in comune, tanto dei beni che della generazione, e coll'esempio delle grue sviluppa la vita comune in una repubblica militare. E Gesù Cristo coll'esempio degli uccelli che non hanno nulla di proprio, che non seminano né mietono, né dividono la pastura; eppure, come dice il giurisperito: jus naturale est id quod natura omnia animalia docuit. Per cui egli è certissimo essere per diritto naturale tutte le cose comuni.
Scoto nel 4 delle sentenze 15, risponde che la comunanza è di diritto naturale nello stato di natura, ma Adamo avendo peccato fu derogato a tal diritto. Ma vana è questa risposta poiché, come dice S. Tommaso, il peccato non distrugge i beni di natura, ma solo quelli di grazia. Esso offese la natura e la ragione, ma non introdusse un nuovo diritto; quindi se la comunanza fu di diritto, la sola ingiustizia poté introdurre la divisione. Perciò anche la glossa sul testo di S. Clemente dice che essa fu introdotta: per iniquitatem, idest per jus gentium contrarium juri naturali.

Ma come vi può essere diritto se è contrario alla natura, che è l'arte divina? Così il diritto sarebbe un peccato. Scoto risponde che ciò avviene per l'iniquità, cioè pel peccato originale, ma questo commento è vano, poiché come spiegherà le parole di S. Ambrogio, che dice la divisione introdotta dall'avarizia e dalla violenza? Di più S. Clemente dice che gli Apostoli ci hanno rimessi nello stato dijus naturale; adunque questa che fu iniquità lo è pur ora. Gaetano insegna che fu una comunanza naturale « negativa », cioè che la natura non insegnò la divisione: ma non « affermativa », come se avesse detto di vivere in comune e non altrimenti. E Scoto vi aderisce come al solito, ma aggiunge, come mai allora la divisione verrebbe dall'iniquità e dall'avarizia, come insegnano i santi, se la comunanza nello stato di natura non fu che negativa? Quindi con più ragione S. Tommaso insegna l'uso comune essere di diritto naturale, la distribuzione poi e l'acquisto della proprietà essere di diritto positivo. E questa divisione non può essere contraria alla natura, poiché questa proprietà è nel caso di necessità, e in tutto ciò che succede, il necessario divien comunità, come insegna parlando dell'elemosine; poiché tutto ciò che eccede i bisogni della persona e della natura, si deve donare, altrimenti non sarebbero condannati nel giorno del giudizio quelli che non sollevarono i bisognosi. E sebbene questa dottrina di S. Tommaso sembri giustificare in qualche parte la divisione, non le accorda però che il diritto di distribuire e di sollevare, e resta, giusta la dottrina di S. Grisostomo, Basilio, Ambrogio e Leone papa (ser. V, de Collectis), che i ricchi sono dispensatori non padroni delle cose; che se poi sono padroni, non lo sono che di distribuire e di donare, come i vescovi della parte della Chiesa; la parte poi di cui sono padroni si limita al puro vitto e vestito. E questa parte la hanno pure i monaci, come loro la attribuisce e prova Giovanni papa XXII nelle Extrav. Poiché di diritto e non ingiustamente mangia il monaco e l'apostolo, quindi ha l'uso di diritto, non di solo fatto, giacché questo ultimo diritto lo ha il ladro quando mangia le cose altrui. Scoto pensa che questo papa errasse, ed abbia deciso ciò per odio contro i Francescani, poiché Clemente V e Nicola III, pontefici, accordano ai Francescani soltanto l'uso di fatto, non di diritto, come un invitato a cena mangia solo di fatto non di diritto. Ma Scoto s'inganna, e ingiustamente condanna un papa, poiché quei pontefici da lui citati non distruggono il diritto di gius naturale, ma solo il diritto positivo, quindi S. Tommaso pensa che nelle cose che si distruggono coll'uso non si può distinguere l'uso dal dominio, come si vede nel trattato dell'usufrutto delle cose che si consumano coll'uso (lib. 2). Perciò questi pontefici non si contraddicono tra di loro, come insegna Giovanni XXII, ma è bensì eretico chi nega l'uso di diritto agli Apostoli e a Cristo; poiché allora non avrebbero mangiato di diritto, ma ingiustamente come il ladro. Il ladro ha il diritto di fatto ma nella necessità ha anche il diritto naturale. Da tutto questo risulta la solidità della dottrina dei Santi, contro gli sciocchi che mettono la bocca in cielo. L'invitato mangia di diritto, e il suo titolo è la donazione, non minore del titolo di vendita. Ma, dirai: i ricchi sono dunque obbligati alla restituzione del superfluo, e a chi? ai poveri o alla repubblica? direi alla repubblica e ai poveri, ma perché non vi è luogo a disputa poiché questi non hanno acquistato un diritto positivo, dico a Dio, a cui dovranno render ragione nel giorno finale, come insegnano S. Basilio, Ambrogio e Leone.
Adunque colla nostra repubblica vengono tranquillizzate le coscienze, tolta l'avarizia, radice di ogni male, e le frodi commesse nei contratti, e i furti e le rapine e la mollezza e l'oppressione dei poveri, e l'ignoranza che invade anche gli ingegni meglio disposti, perché rifuggono dalla fatica mentre pretendono filosofare, e le inutili cure, e le fatiche, e il danaro che mantiene i mercadanti, e la illiberalità, e la superbia, e gli altri mali prodotti dalla divisione' e l'amor proprio, e le inimicizie, e le invidie, e le insidie, come si è mostrato. Distribuendosi gli onori secondo le attitudini naturali si tolgono i mali che nascono dalla successione, dall'elezione e dall'ambizione, come insegna S. Ambrogio parlando della repubblica delle api, e così seguiamo la natura che è l'ottima maestra, come nelle api. E l'elezione di cui noi facciamo uso non è licenziosa, ma naturale, eleggendo quelli che si distinguono per le virtù naturali e morali.

Ora rispondendo in particolare alla prima obbiezione, diciamo che Aristotile commette errore spontaneamente e di mala fede, poiché anche per Platone e i fondi e i frutti e le «fatiche» sono comuni; e nella nostra repubblica vengono distribuite dai magistrati dell'arti le fatiche secondo la capacità e la forza, ed eseguite dai capi delle arti con tutta la moltitudine, come si vide nel testo; né da alcuno può usurparsi nulla, nutrendosi tutti a tavola comune e ricevendo le vesti dal magistrato del vestiario, secondo la qualità e le stagioni, e conformi alla salute; e ciò pure si vede fare dai monaci e dagli apostoli. Quindi Aristotile ciarla inutilmente. Non hai che da esaminare nel testo il modo della distribuzione dei vestiti secondo le stagioni, le fatiche e le arti e la esecuzione, ecc., né alcuno può far difficoltà, poiché tutte le cose sono fatte con ragione, anzi ognuno ama di fare ciò che è conforme alla sua disposizione naturale, ciò che appunto praticasi nella nostra repubblica.

Alla seconda obbiezione si risponde, che ciascuno vien applicato dai Magistrati fin dall'infanzia, secondo le disposizioni naturali, alle varie arti, e chiunque per esperienza e per dottrina riesce ottimo, si prepone all'arte per cui è idoneo. Sommi magistrati poi non possono divenire se non gli eccellenti, secondo l'ordine notato nel testo. Quindi né il soldato vorrebbe divenir capitano, né l'agricoltore sacerdote, dandosi gli incarichi secondo l'esperienza e la dottrina, non per favore e per parentele: ma adeguati alle cognizioni. E ciascuno riceve l'ufficio nel ramo in cui si distingue. Né i primi magistrati possono onorare gli uni e reprimere gli altri, non governando arbitrariamente, ma seguendo la natura, applicano ciascuno all'ufficio conveniente. E non possedendo nulla in proprio per cui possano violare il diritto altrui per ingrandire i figliuoli, conviene loro agir bene per essere onorati, e considerando tutti come fratelli e figli e parenti si mantiene un egual amore per tutti senza alcuna distinzione. Nessuno combatte per paga, ma per sé, pei figli e pei fratelli, né alcuno ha bisogno di stipendio, avendo ognuno da vivere bene, ma dell'onore che le azioni valorose ottengono dai fratelli. 1 Romani fino alla guerra di Terracina combatterono senza stipendio e gareggiavano a morir per la patria; ma quando invase l'amore della proprietà, mancò a poco a poco la virtù. E Sallustio e S. Agostino insegnano che essi giunsero a tanto impero per l'amore della comunità, e Catone in Sallustio dice: pubblicae opes et privata paupertas, foris justum imperium, intus indicendo animus liber, neque formidini neque cupiditati obnoxius, rem Romanam auxere. Nella nostra repubblica poi queste cose assai migliori si conservano per la comunanza dei beni utili e onesti sotto la guida della natura.

Alla terza obbiezione. Inconsideratamente parla Aristotile, e anche Scoto, per non dire ampiamente. Forse che i monaci e gli apostoli non sono liberali perché non posseggono in proprio? La liberalità non consiste nel dare quello che hai usurpato, ma nel porre tutto in comune, come afferma S. Tommaso. Nel testo poi vedrai come dalla repubblica si onorino gli ospiti, e come si sovvenga ai miseri per natura, poiché presso di noi non vi ha alcun misero per fortuna, essendo tutte le cose comuni, e tutti fratelli, e sono indicati i mutui uffici con cui si mostra la liberalità: e se ne insti dirò: che essi hanno mutata la liberalità in beneficenza che è alla prima superiore.

Alla quarta obbiezione. Scoto argomenta con punica fede, come al solito, poiché lo stesso Agostino al cap. 4 de haeres; e S. Tommaso 2, 2 quest. 66, art. 2, insegna essere eretici quelli che dicono non potersi salvare coloro che possedono in proprio qualche cosa, e parimente quelli che sostengono doversi usare il vago concubito delle donne, ma non perché predicano la comunità, ché anzi è maggior eresia il negar la comunità, che gli apostoli e i monaci osservano, di quel che la divisione. Concediamo poi che la Chiesa poté accordare la divisione piuttosto tollerantemente che positivamente e direttamente. Ma, come dice S. Agostino, che pur vuole avere piuttosto chierichi zoppi che morti, cioè piuttosto proprietari che ipocriti. E lo stesso Scoto poi sostiene che la divisione fu introdotta per la negligenza con cui son trattate le cose comuni, e la cupidigia del proprio interesse, quindi da cattiva radice, e perciò la divisione non può esser buona cosa, ma solo permessa, non voluta dalla natura. Ora come ardisce poi egli chiamar eretici quelli che seguitano la natura, e lodare quelli che predicano con Aristotile la permissione introdotta dalla corruttela? Diciamo che la Chiesa può accordare la divisione e permetterla, come tolleransi le meretrici per minor male, come i zoppi piuttosto che i morti, al dire di Agostino. Il modo poi con cui vien dalla Chiesa accordata la proprietà si è spiegato che non è se non una procura, non l'uso del superfluo, e Alessandro, Alonzo e Tommaso Valden e Ricardo e il Panormita, pensano essere eretico chi asserisce i chierici essere veri padroni dei beni della Chiesa, e non accordano ai medesimi che l'uso. S. Tommaso non dà loro il dominio che della piccola porzione che consumano poiché non sono che usufruttuari dei fondi, né possono lasciargli ai figli o agli amici. Cosa poi sia dei laici si è detto superiormente. Gli ignoranti sono pronti a chiamar eretico quello che non possono convincere colle ragioni. La parola di Cristo: Reddite quae sunt Casaris Casari, non rende padrone il medesimo se non di dispensare, o di nulla, poiché nulla appartiene a Cesare. Che cosa ha egli che non abbia ricevuto? Tutte le cose adunque sono di Dio e a Cesare solo come amministratore. Vedi nella Monarchia del Messia ove si è scritto di ciò. Lo stesso Cristo dice: reges gentium dominantur eorum, vos autem non sic, sed qui maior est fiat minister. Perciò giustamente predica S. Tommaso la proprietà di amministrazione e procura la comunità dell'uso. E il papa è il servo dei servi di Dio, e l'imperatore il servo della Chiesa.

--------------------------------------------------------------------------------

ARTICOLO TERZO

Se la comunanza delle donne sia più conforme alla natura e più utile alla generazione e quindi a tutta la repubblica, oppure la proprietà delle mogli e dei figli.


Ad Aristotile sembra più conveniente la proprietà e nociva la comunanza a cui oppone:

Prima obbiezione. Socrate pensa che l'amore si accrescerebbe tra i cittadini da ciò che ognuno considererebbe i vecchi come suoi genitori, e questi i giovani come figli, e gli eguali come fratelli, ma ciò distruggerebbe anzi ogni amore. Poiché o si prende quel « tutti » collettivamente ed è vero che tutti i vecchi sono padri di tutti i giovani, ma allora l'amore di ciascun vecchio in particolare sarebbe ben piccolo verso quelli, come una goccia di miele in molta acqua, e tosto si estinguerebbe, perché nessuno conoscerebbe i propri figli, né questi il loro padre. in vero se si riunisce il diviso in modo che ciascuno si consideri padre di ciascuno, ciò accrescerebbe l'amore, ma è impossibile che alcuno abbia più di una madre e un padre; di più ognuno conoscerebbe i propri figli dalla fisonomia e quindi avrebbe più affetto per questi.

Seconda obbiezione. Nascerebbero discordie tra le donne e spesso tra i padri e i figli incerti.

Terza obbiezione. Nel vago concubito non si conosce la prole ed è pur naturale all'uomo il voler conoscere la propria discendenza in cui si perpetua.

Quarta obbiezione. Nascerebbero adulterii, fornicazione ed incesti, colle sorelle, le madri e le figlie, e le gelosie per le donne, e le contese per quelle che vorrebbero abbracciare.

Quinta obbiezione. Scoto obbietta le parole: erunt duo in carne una; adunque non si possono avere più mogli senza una dispensa divina.

Sesta obbiezione. Fu l'eresia dei Nicolaiti il mettere le mogli in comune.

Rispondiamo prima in generale coll'autorità di S. Clemente nel citato canone: conjuges secundum Apostolorum doctrinam comunes esse debere. Ma siccome questo sarebbe contro l'onestà cristiana si deve ammettere la glossa a questo passo apposta: comunes quo ad obsequium non quo ad thorum. E a dir vero, come testifica Tertulliano, così vissero i primi cristiani, che tutto aveano in comune tranne le donne pel talamo, poiché è palese che le donne servivano tutti. Ma i Nicolaiti introdussero la comunità nel talamo, ed io pure condanno questa eresia, ma sostengo la comunanza nelle funzioni, non però nel governo politico; poiché la donna non può essere magistrato né insegnare agli uomini, ma solo tra le donne e nel ministero della generazione. Alle stesse poi son commesse le arti che si eseguiscono con poca fatica o anche la guerra nella difesa delle mura. E noi leggiamo che le donne spartane difesero la patria nell'assenza dei mariti, e le femmine tra gli animali si battono come i maschi, e le amazzoni un tempo nell'Asia ed ora nell'Africa fanno la guerra. Ma Gaetano nel libro de Pulchro, dice che ciò non è conforme alla natura, e perciò esse doveano tagliare la destra mammella per poter maneggiare la lancia. Ma io dirò forse con maggior fondamento con Galeno, che lo facevano perché la forza che serviva a nutrire la destra mammella passasse a rinforzare il braccio destro. Né la destra mammella impedisce punto di maneggiare la lancia, ma solo di appoggiarla al petto. Inoltre vi sono più maniere di combattere che convengono alle donne come si vede negli Africani. Aristotile poi non poté rifiutare questo argomento delle amazzoni. E noi pure non le mischiamo a tutte le faccende di guerra ma solo alla difesa delle mura, ai pronti soccorsi, e non vogliamo di esse formare una repubblica di Amazzoni, e solo le rinforziamo perché servano alla difesa e alla prole. Aristotile rigetta l'argomento delle femmine che combattono tra le fiere, perché queste non hanno cura delle cose famigliari come le nostre che sole vi sono destinate dalla natura, ma s'inganna, poiché le fiere hanno cura dei loro piccoli, e procurano ad essi cibo e difesa, e viceversa molti uomini si occupano delle cose famigliari, come particolarmente i monaci; adunque non è contro natura come egli insegna.
Diremo di più che la comunanza delle donne pel concubito non è contro il naturale diritto particolarmente come fu stabilita da noi, che anzi vi è grandemente conforme: quindi non è eresia l'insegnarla in uno stato diretto dai puri lumi naturali, ma bensì dopo conosciuto il jus divino ed ecclesiastico positivo: come non è eresia il mangiare carni tutti i giorni e l'insegnare nello stato naturale che ciò è utile, ma dopo la promulgazione della legge ecclesiastica sulla proibizione dei cibi in certi giorni per l'astinenza cristiana, è un'eresia il farne uso e l'insegnare ciò esser lecito. Si prova inoltre; ogni peccato contro natura o distrugge l'individuo, o la specie, o è diretto a questa distruzione, come insegna S. Tommaso; quindi le uccisioni, il furto, la rapina, la fornicazione, l'adulterio, la sodomia, ecc., sono contro natura, perché offendono il prossimo o impediscono la generazione o tendono a queste cose; ma la società comune delle donne non distrugge né le persone, né impedisce la generazione, dunque non è contro l'ordine, ma al contrario giova grandemente all'individuo, alla generazione e alla repubblica, come appare dal testo.

Si deve poi notare che vi ha tre specie di vago concubito; l'uno, per cui ciascuno può mischiarsi ad ognuno che desidera e come vuole, e questo è contro la natura razionale dell'uomo, quantunque sia proprio di alcune bestie, come dei cavalli, degli asini, delle capre, ecc., e quindi la natura provvide che queste bestie solo in certi tempi sentano gli stimoli alla generazione; gli uomini poi, essendo sempre ad essa disposti, se potessero mischiarsi con ciascuna, si indebolirebbero di continuo, e tutti andrebbero sempre dalle più belle, e queste per la confusione dei semi e per l'azione contraria, non concepirebbero, come avviene alle meretrici. Le donne brutte, poi eccitate da gelosia e da dolore, macchinerebbero ogni male contro le belle. Perciò questo vago concubito è un'eresia e un'empietà contro natura, e fu appunto quella dei Gnostici e dei Nicolaiti, e di alcuni moderni eretici e alcuni religiosi della setta di Maometto nell'Africa, che tengon lecito l'unirsi a ciascuna, e anche in publico.

L'altro genere di concubito vago, è quello dopo le nozze legali, ragunandosi in certi tempi, e a cui nelle tenebre è lecito unirsi a quello che la sorte gli offre: come si è scoperto di recente nella Gallia e in Germania in certe contrade: onde avvenne che cert'uni, ricevuto il segno, riconobbero di essersi uniti alle madri, e questo modo è pure un'eresia contro natura, e certo contro la legge divina positiva, poiché non ha per iscopo la generazione, ma la sola libidine: e l'unione vaga delle bestie è ancora migliore, poiché esse generano, né è contro natura poiché vien prodotta la prole, ma in queste unioni di eretici è solo per accidente se viene la generazione, non avendo per iscopo che la lussuria, poiché per la generazione bastano bene i mariti a casa.

Il terzo modo di concubito finalmente è quello da noi descritto in una società quasi di natura, nella quale cioè non generino se non i più robusti e i migliori, e seguendo la direzione dei medici e dei magistrati, nei tempi atti alla generazione, secondo l'astrologia, con timore e ossequio alla divinità, e solo dopo gli anni 25 sino ai 53; alle donne pure abbiamo prescritto un tempo, quello cioè in cui sono a ciò atte, e abbiamo distrutte le unioni inconvenienti, quelle cioè che si fanno per solo riguardo delle ricchezze, per cui o la repubblica non ha prole dalle medesime, o ne ha una vile, deforme e imbecille, come si vede dall'esperienza, e fu notato da Pitagora sommo filosofo. Abbiamo impedita ugualmente la debolezza prodotta dal troppo coito o le malattie da sterilità; poiché se l'una non concepisce con questo, può concepire con quello, e la natura ci insegna appunto in questo caso a mutare. Ciò poi che le nostre leggi hanno stabilito: che ciascuno non usi che colla propria moglie ancorché sterile, non può essere facilmente coi soli lumi naturali approvato dal filosofo; perciò io non sostengo se non che gli istitutori di una repubblica colla comunanza delle donne non peccano nello stato dei puri lumi naturali, avanti che la rivelazione insegni non doversi così praticare. Onde Durando ed altri sostengono che nemmeno la fornicazione non è contro la legge naturale, e molti teologi confessano non essere essa proibita che per legge positiva; e la ragione di S. Tommaso che essa è contraria alla generazione e all'educazione, non vale quando si sappia che la donna è sterile. E tuttavia io sono d'accordo in ciò con S. Tommaso che con lunghe deduzioni si può ciò provare colla pura ragione, ma non però conoscere da tutti. Così Socrate non peccò bevendo il veleno, costretto dalla legge, quantunque i teologi provino essere peccato, poiché nessuno può essere obbligato dalla legge ad agire contro se stesso. Ma queste sottili deduzioni nate dalla luce evangelica non potevano essere conosciute dagli antichi filosofi che anzi provarono essere lecito l'uccidersi da sé, ed essere noi padroni della propria vita, come stimarono Catone, Seneca e Cleomene. In conseguenza io sostengo che la comunità delle donne nel modo da noi posta non è contro il diritto naturale, o se lo è non può esser conosciuto dal filosofo coi soli lumi naturali, poiché ciò non si deduce direttamente dal diritto naturale, come conclusione immediata, ma solo come lontana deduzione, e piuttosto fondata sul diritto positivo, che può variare. Le ragioni poi di Aristotele non nascono dalla natura della cosa, ma da sola invidia contro Platone; ed egli stesso ricorda molte nazioni che vissero in questo modo. Viene pure a nostro sostegno S. Tommaso che nella 2, 2 quest. 154, art. 9 confessa che nessuna congiunzione è contro natura, tranne quella del figlio colla madre, e del padre colla figlia; poiché gli stessi cavalli, secondo Aristotile, hanno ciò in orrore. Ed io stesso vidi a Montedoro un cavallo che non voleva unirsi colla madre. E non perché non ne venga la generazione, ma per reverenza naturale. E tuttavia, secondo la testimonianza di Tolomeo, fu comune usanza tra i Persiani l'unirsi alle madri. E tra gli animali, i gallinacci e molti altri praticano lo stesso. lo tuttavia nella repubblica ho schivato che le madri si unissero ai figli, o i padri alle figlie, quantunque quest'ultimo caso sia meno contro natura. Gaetano pure prova, appoggiato allo spirito di S. Tommaso e alla ragione naturale, che l'unione colla sorella o cogli affini e consanguinei, non è contro il diritto naturale, ma solo contro il legale; ed essere un precetto giudiziale, non morale, la proibizione degli altri gradi; poiché i figli di Adamo si unirono colle sorelle, e Abramo e Giacobbe patriarchi, al primo dei quali Sara era sorella. E S. Tommaso adduce due ragioni di queste proibizioni, cioè pel rispetto ai parenti, perché potessero vivere insieme senza scrupolo, e perché si moltiplicassero le amicizie per mezzo dei matrimoni, e la libidine non riescisse più dolce col proprio sangue. Ragioni che secondo Gaetano decisero pure la legge cristiana. Ma nella repubblica solare non avrebbero luogo, poiché le donne abitano separatamente e non avviene l'unione se non secondo la legge, i tempi e i luoghi prefissi. Ciò poi che si accorda nella repubblica solare, per fuggire la sodomia e un mal maggiore, si accorda pure nella religione cristiana; poiché il marito può usare senza peccato della moglie ancorché gravida, per estinguere la libidine, e non per la generazione. lo poi provvidi affinché questo seme non vada perduto, e diedi tutti i miei precetti per la conservazione della repubblica; gli altri poi non sono riprovati dagli stessi filosofi secondo il diritto naturale, e Aristotile in grazia della salute raccomanda il coito ai non generanti, come pure Ippocrate ed altri per ischivare mali maggiori.

Ora in particolare rispondo alla prima obbiezione. Che quel tutti si può prendere nei due sensi: poiché tutti fino ad una certa età, determinata nel testo, sono padri di tutti collettivamente e separatamente: il primo è vero, secondo l'atto naturale, l'altro poi secondo la carità naturale. Né da ciò vien diminuita la carità, ma solo la cupidità e l'avarizia; poiché l'uomo, regnando la divisione, è disposto ad amare i proprj figli più che non conviene, e a disprezzare gli altrui oltre misura. L'uomo saggio poi ama più i migliori ancorché d'altri, ed ha maggior cura dei cattivi per migliorarli: poiché riesce spiacevole il vedere tante deformità nel genere umano, e quindi abbiamo orrore dei zoppi, dei ciechi, dei miserabili perché sono del nostro genere e rappresentano a ciascuno la propria infelicità. Per la comunanza poi dei figli, dei fratelli, dei padri, delle madri, si provvede in modo da diminuire il troppo amor proprio che è la cupidità, e da aumentare l'amor comune cioè la carità. Quindi S. Agostino disse amputatio proprietatis est augmentum caritatis e si deve piuttosto credere a S. Agostino che ad Aristotele, e col primo sta pure S. Paolo che dice: caritas non querit quae sua sunt, cioè antepone le cose comuni alle proprie, non le proprie alle comuni. Nell'unione dei monaci si vede lo stesso, poiché il monaco non possedendo nulla in proprio, ama la comunità come il piede tutto il corpo; se poi possiede in proprio è come un membro reciso, o un piede tagliato, non avendo cura che di ciò che è suo. Lo stesso avvenne nella repubblica romana; quando i cittadini erano poveri e la repubblica ricca, tutti volevano morire per la patria; quando poi i cittadini furono ricchi, ciascuno avrebbe ammazzato la patria pel proprio vantaggio. L'Apostolo adduce l'esempio delle membra e del corpo, e lo stesso insegnano Ambrogio e Grisostomo. L'amore dunque nella comunità non sarebbe come una goccia di miele in molt'acqua, ma come un piccol fuoco in molta stoppa. Poiché l'amore è una delle primalità, e di sua natura diffusivo, come il fuoco, ed esso è felice nella società di molti per la fama, la diffusione del nome, la memoria e gli ajuti più numerosi che vi riceve. Separatamente, quantunque ciascuno non sia figlio che di un solo, può esser amato da tutti quando formano un solo nella carità. Onde lo zio ama i nipoti quantunque da lui non generati, perché si considera di una stessa famiglia. E il papa e i cardinali chi non vede quanto amino i nipoti, e i consanguinei, che pure non hanno generati? E noi amiamo gli amici e i figli degli amici, e i vecchi nei monasteri amano i novizi, soprattutto i virtuosi; taccia adunque il nemico della carità. - La fisionomia inganna poiché i figli non rassomigliano sempre al padre, ma sovente agli estranei; e di poco ostacolo sarebbe quella piccola propensione nella nostra repubblica ove tutto è ordinato secondo la legge di natura e del merito. Giacobbe pure amò più Giuseppe, ed altri altri; ciò non pregiudicherebbe alla comunità né alla carità; i figli qui non congiureranno tra di loro, vivendo tutti sotto la stessa disciplina; le sante donne dei patriarchi, come Rachele e Lia, tenevano come loro propri anche i figli delle ancelle, ma Aristotile non conobbe una tal carità.

Alla seconda obbiezione. Si nega la conseguenza quando il tutto è governato secondo le regole e la scienza dei medici, delle matrone e dell'astrologia. Dalla posizione del cielo nascono e si conoscono le inclinazioni morali, secondo S. Tommaso (Polit. 5, lect. 13). E i nostri Solari crederebbero illecito l'unirsi per puro piacere e per sanità, nei quai casi si è provveduto altrimenti; quanto alle risse vedi il testo.

Alla terza obbiezione. Essendo tutti i membri di uno stesso corpo, considerano tutti i giovani minori per figli, e sanno di perpetuarsi meglio in quella comunità, che nei figli proprj. Inoltre, come tutti insegnano, la vita della fama procurataci dalle opere buone è da preferirsi a quella che abbiamo nei figli. Così i filosofi si procurano figli col seme della loro dottrina, non col seme carnale. Né i pidocchi quantunque nascano da noi son nostri figli. Né i veri figli di Abramo ora sono i giudei, ma i cristiani. L'eternità poi la cerchiamo in Dio, e per la repubblica una vita beata, come insegna Ambrogio. Né gli animali conoscono i loro figli una volta cresciuti; né questo viene direttamente, ma solo indirettamente da natura.

Alla quarta obbiezione. Diciamo con Gaetano e S. Tommaso, non essere incesto contro natura che quello commesso colla madre, e noi lo schiviamo nella repubblica; colle sorelle poi e con altre non è che legale, e dove non siavi questa legge non vi ha inc 1 esto, né alcun adulterio. Poiché l'adulterio è o naturale o legale: il naturale avviene tra animali di diversa specie, come insegna Sant'Ambrogio nel 5 Hex. cap. 3, come tra l'asino e la cavalla: il legale è poi quando alcuno pratica la donna altrui, proibito dalla legge: ma nella nostra repubblica non esiste questa legge; ma vi sono generatori pubblici più utili a questa funzione: non vi ha dunque adulterio, come non vi ha prole adulterina, né unione illegale. Così tra i monaci non è un furto ove tutte le cose sono comuni, se alcuno mangia del pane. Poiché l'adulterio non consiste nella libidine, altrimenti il marito che usa della moglie per piacere sarebbe adultero, ma da ciò che si usa di donna non sua; ma la legge ora la fa sua, e non farebbe torto alla repubblica se non usandone contro la regola: come il monaco ruba dei beni del monastero, quando usurpa le cose comuni senza permesso. Ma, si dirà, S. Tommaso insegna pure che tutti i precetti del Decalogo sono precetti naturali. Si risponde, posta la divisione: poiché il furto non esiste se non stabilita la divisione dei beni. Altri dottori poi sostengono non tutti quei precetti essere di diritto naturale. Nella nostra repubblica poi non vi ha divisione di proprietà, ma solo d'uso, e a tempo per mantener l'ingegno e la forza dei cittadini. Non si conosce poi che la fornicazione sia peccato dalla sola natura delle cose, né nella repubblica del Sole vi ha fornicazione, essendovi comunanza. Le altre turpitudini, la gelosia e le contese, qui non possono aver luogo ove si regolano le cose secondo una legge e una disciplina a tutti gradevole: né ciò che è proprio delle bestie e di certi eretici qui non avviene; vedi il testo.

Alla quinta obbiezione. Se fosse di diritto naturale l'avere una sol donna. Dio stesso non potrebbe dispensarci, secondo S. Tommaso. Ma Giacobbe prese due sorelle, e Davide cinque mogli, e Salomone 700, e quasi tutti i patriarchi ebbero più mogli, né si vede in ciò alcuna dispensa, quantunque comunemente si creda; egli è chiaro che la pluralità delle donne non è contro natura. E tutti gli animali, tranne forse la tortora e il colombo, che si unisce alla sola sorella, si congiungono con più femmine. E in questa repubblica, che si governa colle leggi naturali, non colle rivelate, ciò non poteva essere conosciuto. Anzi la natura insegna a chi non genera con una, di unirsi ad un'altra: e ciò anche Sara chiese ad Abramo, come cosa naturale, se non vi sia rivelazione contraria, e Lia e Rachele diedero al marito le proprie ancelle. E come questi Solari potrebbero sapere essere ciò contro natura quando né gli uomini né gli animali possono ciò discoprire? Inoltre i nostri cittadini non ne hanno né una né molte, ma nel tempo prescritto alla generazione ciascuno si avvicina a quella che la legge gli destina pel bene della repubblica, né generano per loro ma per la repubblica, anzi nemmen noi poiché il padre tra di noi non ha tanto potere sul figlio quanto la repubblica; poiché la parte è pel tutto e non il tutto per la parte. Se dunque il tutto ha cura della totalità nella repubblica solare, né la rimette ai privati, esso opera convenientemente. Il marito unendosi per libidine alla moglie, quando gli pare, produce una prole imbecille e degenere. Noi abbiamo cura di avere un'ottima generazione nei nostri cavalli, non per la nostra specie. Anche per Aristotile è un miscuglio contro natura se chi è d'animo servile cerca di congiungersi a donne generose e come gli pare ad esse si unisce. E S. Grisostomo, nel libro del sacerdozio, figuratamente riprova il vescovo ignorante che si unisce alla Chiesa generosa - Il Signore disse: erunt duo in carne una; ciò è vero, e così avviene pure nella nostra repubblica, poiché Iddio non insegnò con ciò che nessuno non debba unirsi se non ad una; altrimenti né Giacobbe avrebbe preso simultaneamente due mogli, né morta una sarebbe lecito prenderne un'altra. Dei due si fa dunque una carne, perché dal miscuglio dei due semi ne nasca una prole: e Sant'Ambrogio dice con S. Paolo: non avrei conosciuto questo peccato se la legge non lo ordinasse.

Alla sesta obbiezione. L'eresia dei Nicolaiti stava in ciò che ammettevano esser lecito ad ognuno di unirsi come gli piacesse ad ognuna, e questo è contrario al diritto naturale e impedisce la generazione, come si è già detto; ma nella repubblica solare l'unione avviene sotto le regole della filosofia e dell'astrologia, e sì ordinatamente che la generazione riesca migliore e più numerosa; essa è dunque conforme alla natura, e quindi non è eresia se non dopo condannata dalla Chiesa. Ortensio ossia Catone, uomo sapientissimo e dottissimo, concedette in prestito la propria moglie a Bruto per avere prole da lei, come se quel rigido stoico volesse con ciò insegnare che ciò si faceva secondo l'ordine naturale. Come dunque gli abitanti solari guidati dai puri lumi naturali possono sapere che, tranne la nostra forma di matrimonio, tutte le altre siano peccato, mentre gli stessi Ebrei e i Romani ammisero il divorzio, e i filosofi accordarono la permuta; e Socrate e Platone ciò insegnarono? Aristotile non rimprovera loro di mancare al diritto naturale, ma perché non gli pare ciò utile; anzi narra che alcune nazioni vissero in tal modo. lo poi concedo questa essere ora un'eresia nella Chiesa cristiana, ma che colla sola guida della natura non si può conoscere che sia male quando non si faccia in modo bestiale o a quello dei Nicolaiti. S. Tommaso afferma essere il matrimonio contro natura quando non favorisca la prole e la società, ma nella nostra repubblica l'unione è anzi sommamente favorevole a tutti due.
Gli argomenti addotti da Aristotile contro la comunanza: che essa è superflua, come se alcuno volesse far versi di un sol piede, e tirar l'armonia da una sol corda; sono puerili e contrari alla carità e alla repubblica dei monaci e degli apostoli, che allora converrebbe condannare, perché avevano un sol cuore e una sol anima e non dicevano alcuna cosa esser propria ma tutte le cose aveano tra loro comuni.
Poiché questa unità non distrugge la pluralità, ma la fortifica per l'unione, non già di un sol uomo, ma di tutti gli stati e condizioni; ciò che non ottiene Aristotile nella sua repubblica, e non già da una sol corda ma da più tiriamo l'armonia. Aristotile non stabilisce che la discordia, componendo la sua repubblica di due contrari; noi da più abbiamo l'unione e come un carme, poiché tutte le cose concordano insieme: Aristotile non compone il suo carme che di due piedi contrari, e discordi, come si è mostrato nell'esame della sua repubblica. La nostra poi è del tutto apostolica, se stabilisce la comunanza non pel piacere, ma per l'ossequio come si vede nel nostro dialogo.

FINE DELLE QUESTIONI
SULLA CITTA DEL SOLE



La traduzione utilizzata è quella inclusa in L'Utopia, ovvero la Repubblica di Tommaso Moro e la Città del Sole di Tommaso Campanella, Versioni italiane, nuovamente rivedute e corrette, G. Daelli e C., Milano, 1863, pp. 149-78.