Biblioteca Multimediale Marxista


Capitolo Settimo


LE FIGURE E LE FIGURINE(2)

Pankrac.

La prigione ha due vite. Una è chiusa dentro le celle, completamente isolata dal resto del mondo e tuttavia legata ad esso dai legami più intimi dovunque si tratta di prigionieri politici. L'altra è dinanzi alle celle, nei lunghi corridoi, nella penombra piena di tedio. II mondo interamente rinchiuso in sé stesso, il mondo in uniforme, un mondo fatto di molte figurine e di poche figure. Di questo mondo voglio parlare.
Ha la sua zoologia. Ed ha anche la sua storia; se non l'avesse, non potrei conoscerne la zoologia cosi a fondo. Conoscerei solo un retroscena, voltato verso di noi, solo una superficie, apparentemente integra e solida, chiusa con il suo peso di ferro sulla popolazione delle celle. Era così ancora un anno fa, meno di un anno fa. Ora la superficie è piena di fessure, e attraverso ad esse trapelano delle facce; povere, gentili, preoccupate, ridicole, estremamente varie, ma sempre appartenenti ad una creatura umana. La difficile situazione del regime sottopone ad una eguale pressione ogni membro di quel mondo grigio, e ne spreme fuori, alla luce, tutto quanto ha di umano. A volte è pochissimo, a volte un po' di più. Questa quantità crea delle differenze fra loro e forma dei tipi. Evidentemente ci trovi anche parecchi uomini completi, ma non hanno aspettato. Non hanno avuto bisogno di trovarsi loro alle strette per aiutare gli altri alle strette.
La prigione è un'istituzione senza allegria. Ma quel mondo davanti alle celle è più triste del mondo delle celle. Nelle celle vive l'amicizia, e quale amicizia! Di quelle che si formano al fronte nel corso di lunghi pericoli, quando la tua vita può essere oggi fra le mie mani e la mia domani fra le tue. Ma questo regime di amicizia non esiste affatto tra i secondini tedeschi. Non può esistere. Sono circondati da un'atmosfera di denuncia, l'uno spia e denuncia l'altro, ciascuno si guarda dall'altro, anche se ufficialmente lo chiama "camerata"; e i migliori, che non possono e non vogliono restare senza un amico, preferiscono cercarlo nelle celle.
I loro nomi non hanno importanza. Fra noi li chiamavamo con i soprannomi che avevamo loro dato e con quelli che per loro avevano coniato i nostri predecessori e che poi erano passati in uso a noi a titolo ereditario.. Certuni avevano tanti soprannomi quante erano le celle; erano dei tipi di mezzo, né carne né pesce. In una cella uno aveva dato un po' più da mangiare, nella cella accanto aveva dato un ceffone a un detenuto, erano solo contatti di secondi con i prigionieri, ma s'imprimevano per sempre nella memoria della cella e formavano un'idea particolare, un soprannome particolare. Ma di tanto in tanto le celle erano tutte d'accordo nella scelta dei soprannomi. Nel caso di coloro che avevano caratteri più pronunciati. Così e così. In senso buono o in senso cattivo.
Guarda quel tipo! guarda queste figurine!
Non si tratta d'una raccolta fatta cosi come capita.
E' una parte dell'esercito politico del nazismo, gli uomini scelti. Gli appoggi del regime. I sostegni della sua società.

"Un Samaritano".

Grande e grosso, con una vocetta da tenore; è lo " SS-Reservist " Rheuss, portiere di una scuola a Colonia, sul Reno. Come tutti i portieri delle scuole tedesche, Rheuss ha seguito i corsi, di prima urgenza e di tanto in tanto sostituisce il barbiere della prigione. È il primo con cui io sia venuto in contatto qui, mi ha trascinato in cella, m'ha sdraiato sul materasso, ha curato le mie ferite facendomi le prime pezzette. Forse mi ha veramente aiutato a salvarmi la vita. Che cosa si è manifestato in un simile gesto: l'uomo? o il samaritano di prima urgenza? Non so, ma sicuramente era il nazismo che si manifestava in lui, quando ha rotto i denti agli ebrei arrestati e quando li ha costretti a inghiottire, cucchiaiate piene di sale o di sabbia come medicamento universale contro tutte le malattie.

"Il mugnaio".

Un ometto, un chiacchierone, che faceva il cocchiere presso la fabbrica di birra Fabian di Budejovice! Viene nella cella con un largo sorriso, porta il pasto senza fare mai male a nessuno; ma, non ci crederesti, sta a ore intere dietro la porta, ascoltando quello che si dice nella cella, per poter correre dal superiore con ogni minima ridicola notizia.

Koklar.

Anche un operaio di una fabbrica di birra di Budejovice. Ce ne sono parecchi qui, di questi operai tedeschi dei Sudeti. "Non importa che cosa pensa o fa un operaio individualmente - scriveva una volta Marx - quello che importa è ciò che gli operai, in quanto classe, debbono fare per adempiere la loro missione storica".
Quegli operai dei Sudeti non sanno davvero nulla della funzione della loro classe. Sradicati da essa, messi contro di essa, penzolano su per aria con le loro idee, e verosimilmente penzoleranno nel senso proprio della parola.
Koklar è passato al nazismo per avere la vita più facile.
Ha avuto la dimostrazione che è più complicato di quanto immaginasse. Da quell'epoca ha perso il suo sorriso. Ha puntato tutto sulla vittoria del nazismo, ed ha avuto la dimostrazione che ha puntato su un cavallo morto. Da quell'epoca ha perso il controllo dei propri nervi. Durante la notte, camminando solo soletto con un paio di ciabatte di feltro per i corridoi della prigione, senza accorgersene ha lasciato il segno dei suoi pensieri neri nella polvere delle finestre:
- Tutto fottuto - ci ha scritto sopra poeticamente, pensando al suicidio.
Durante il giorno pianta grane ai detenuti e ai sorveglianti, berciando con la sua voce penetrante e affannata, per non avere paura.

Rössler.

Un tipo lungo, magro, con una voce rude di basso, uno dei pochissimi qui che possa ridere sinceramente. Un operaio tessile della regione di Jablonec. Viene nella cella e discute. Per ore intere.
- Come sono arrivato a questo? Sono stato senza un lavoro regolare per dieci anni, e venti corone alla settimana, per tutta quanta una famiglia - sai che vita sia? Questi vengono e ti dicono: ti daremo lavoro, vieni con noi. Io ci vado - e il lavoro me lo danno, a me e a tutti gli altri. Possiamo mangiare. Possiamo farci una casa. Possiamo vivere. Il socialismo? beh, no, non c'entra. Io me lo immaginavo diversamente. Ma è sempre meglio di prima.
- Non è vero? La guerra? Io non l'ho voluta la guerra. Io non ho voluto che gli altri morissero. L'unica cosa che volevo era di campare io.
- Volere o no, dite, io ci contribuisco? E allora che cosa dovrei fare ora? Ho fatto male a qualcuno, qui? Se io me ne vado ne verrà un altro, forse peggiore. Forse che gioverò a qualcuno andandomene? Quando la guerra finirà tornerò in fabbrica...
- Chi pensi che vincerà la guerra? Non noi? Voi? E a noi, che cosa ci capiterà, dopo?
- La fine? Peccato. Me l'ero immaginata diversamente - ed esce dalla cella con il suo lungo passo dinoccolato.
Mezz'ora dopo ritorna con una domanda, come sia veramente nell'Unione Sovietica.

"Coso".

Una mattina aspettavamo al pianterreno, nel corridoio principale di Pankrac, per essere trasportati agli interrogatori a palazzo Petschek. Ogni giorno eravamo lì, in piedi, con la fronte al muro perché non vedessimo quello che succedeva dietro di noi. Ma quella mattina risuonava alle nostre spalle una voce per me del tutto nuova.
- Non voglio veder nulla, non voglio sentir nulla. Non mi conoscete ancora, imparerete a conoscermi!
Ho riso. In quel luogo dove si imparava a domare gli uomini come animali la citazione di quel povero cretino del tenente Dub del "Bravo soldato Svejk" (11) era proprio al suo posto. E nessuno aveva avuto ancora il coraggio di pronunziare qui ad alta voce una spiritosaggine del genere. Ma una gomitata del mio vicino più esperta mi avvertì di non ridere, che forse mi ingannavo, che forse quella battuta non era stata pensata come una spiritosaggine. Infatti non era una spiritosaggine.
"Coso", che aveva pronunciato dietro di noi quelle parole, era un esserino in uniforme di SS, il quale visibilmente non aveva la più lontana idea di Svejk. "Coso" parlava come il tenente Dub solo perché intellettualmente gli era imparentato. "Coso" rispondeva al nome di Withan, e in quanto Withan era stato sergente maggiore nell'esercito cecoslovacco. "Coso" aveva ragione. Siamo arrivati a conoscerlo in modo veramente perfetto, e non abbiamo mai parlato di lui se non al neutro, "Coso". Perché, per esser sinceri, la nostra inventiva era a corto, quando doveva trovare un soprannome adeguato a quel ricco miscuglio di cretinismo, di imbecillità, di carrierismo e di cattiveria, che costituiva uno dei principali pilastri del regime di Pankrac.
" Coso" non arriva alle ginocchia di un maiale, come dice un'espressione popolare per definire quel genere di piccolo carrierista vanitoso, e per ferirlo nel punto più sensibile. Ce ne vuole, di piccolezza intellettuale, perché un uomo soffra della propria piccolezza fisica. E Withan ne soffre, e si vendica contro tutto quanto sia più grande fisicamente e intellettualmente; perciò, contro tutto.
Non con le botte. Non ha abbastanza audacia per picchiare. Ma con la denuncia. Quanti detenuti ci hanno rimesso la vita, perché non è indifferente che uno esca da Pankrac per il campo di concentramento - seppure ne esce - con questa o con quella nota caratteristica. "Coso" è infinitamente ridicolo. Nuota con dignità nel corridoio e sogna la sua grande importanza. Ogni volta che si trova di fronte un uomo, sente il bisogno di arrampicarsi in qualche posto. Se interroga, si siede sulla balaustrata e rimane anche un'ora in quella posizione scomoda pur di superarti di un palmo. Se sorveglia il taglio della barba, sale su una scaletta, oppure passeggia su una panca pronunciando le sue ingegnose sentenze:
- Non voglio vedere nulla, né sentir nulla! Non mi conoscete... .
Durante la mezz'ora di ginnastica del mattino, passeggia sull'aiola, che lo eleva di dieci centimetri al di sopra di quanti lo circondano. Entra nella cella con la dignità d'un monarca per salire subito dopo sopra una sedia, in modo da osservare e perquisire dall'alto.
E' infinitamente ridicolo, ma - come ogni imbecille che occupi un posto dove si tratti della vita della gente - è anche infinitamente pericoloso. In fondo alla sua imbecillità si nasconde un talento: riuscire a fare di una mosca un elefante. Non conosce altro che il suo compito di cane da guardia e per questa ragione la minima deviazione dall'ordine prescritto gli pare qualcosa di grande che corrisponde all'importanza della sua missione. Inventa e costruisce delitti e crimini contro il regolamento della prigione per potersi addormentare tranquillo immaginandosi d'essere qualcuno! E chi volete che, qui, si curi di sapere che cosa c'è di vero nelle sue denunce?

Smetonz.

Un portamento marziale con una faccia da cretino e occhi senza espressione, caricatura vivente degli sbirri nazisti di George Grosz (12). Mungeva le vacche alla frontiera lituana, ma, è sorprendente, quelle belle bestie non hanno lasciato in lui nessuna traccia della loro nobiltà. Per i superiori personifica le virtù tedesche: è tagliente, energico, duro, incorruttibile (uno dei rari che non chieda i nostri pasti ai responsabili dei corridoi), ma...
Uno scienziato tedesco, non so più chi, ha calcolato una volta l'intelligenza delle creature dal numero delle "parole" che sono capaci di formare. E mi pare abbia constatato che la creatura che ha meno intelligenza è il gatto domestico, che sa formare solo centoventotto parole. Ah, che genio in confronto a Smetonz dalle cui labbra Pankrac non ha mai udito altro che queste quattro parole:
"Pass bloss auf, Mensch!" (Bada, tu!)
Due, tre volte la settimana ha trasmesso il suo servizio, due, tre volte la settimana si sforzava con disperazione, e mai ne combinava una bene. L'ho visto quando il direttore della prigione lo rimproverava perché le finestre non erano aperte. Per un istante la montagna di carne si dondolò con imbarazzo su un piede e sull'altro, sulle gambe corte, la testa inchinata stupidamente si abbassò più che mai, gli angoli della bocca caddero per lo sforzo enorme di ripetere quello che le orecchie avevano appena sentito... e d'improvviso tutta quella materia cominciò a urlare come una sirena; gridò l'allarme in tutti i corridoi, nessuno capì di che si trattasse, le finestre continuavano a restar chiuse, solo il sangue colava dal naso dei due prigionieri più vicini a Smetonz. Finalmente aveva trovato la soluzione.
La soluzione, come sempre. Picchiare, picchiare tutti quelli che gli capitavano a tiro, picchiare anche a morte, questo lo capiva, soltanto questo. Una volta, entrando in una cella comune, dette un pugno a uno dei detenuti; il detenuto, un uomo malato, cadde per terra in preda a una crisi. Seguendo il ritmo della crisi tutti gli altri prigionieri dovettero fare delle genuflessioni, fino al momento in cui il malato fu interamente prostrato e Smetonz, con le mani sui fianchi, con un sorriso imbecille, guardava contento, come se fosse riuscito a risolvere bene quella situazione complicata.
Un primitivo che di tutto quanto gli era stato insegnato aveva ritenuto una cosa sola: che poteva picchiare.
Eppure, in quella creatura, qualcosa si ruppe. Fu press'a poco un mese fa. Erano seduti in due, lui e K..., soli nella cancelleria della prigione e K... gli spiegò la situazione. Ci volle tempo, molto tempo prima che Smetonz capisse anche vagamente. Si alzò, apri la porta guardando prudentemente nel corridoio; dappertutto silenzio, era notte, la prigione dormiva. Chiuse la porta, girò con cura la chiave e lentamente crollò sulla sedia:
- Allora pensi...?
Si prese la testa tra le mani. Un peso terribile opprimeva la piccola anima nel corpo enorme. Rimase a lungo cosi disfatto. Poi alzò la testa e disse con disperazione:
- Hai ragione. Non possiamo più vincere...
Da un mese ormai la prigione di Pankrac non ode più il grido di guerra di Smetonz. E i nuovi prigionieri ignorano cosa sia la sua mano.

Il Direttore della prigione.

Piuttosto basso, sempre elegante sia. quando è in borghese come quando è in uniforme di Untersturmführer, amante del lusso, contento di sé, appassionato di cani da caccia e di donne, è un aspetto che non ci riguarda.
Altro aspetto, e cosi lo si conosce a Pankrac: brutale, grossolano, senza cultura, un tipico arricchito nazista, pronto a sacrificare tutti per conservare la propria posizione. Si chiama Soppa - se può importare il suo nome. È originario della Polonia, ha terminato l'apprendistato di fabbro, ma questo onorevole mestiere è passato in lui senza altre conseguenze. È già molto tempo che è entrato al servizio di Hitler e, ruffiano pieno di chiacchiera, ha fatto carriera fino ad arrivare al posto attuale. Lo difende con ogni mezzo, è crudele e senza scrupoli, verso tutti, verso i prigionieri come verso gli impiegati, verso i bambini come verso i vecchi. Non esiste amicizia tra gli impiegati del nazismo a Pankrac, ma nessuno fra loro è senza ombra di amicizia come Soppa. Il solo qui che egli apprezzi un poco e a cui parla più spesso è il barbiere della prigione il "polizeimeister Weisner". Ma sembra che questa amicizia non venga ricambiata.
Conosce solo se stesso. Ha ottenuto da solo il posto di direttore e solo per se stesso rimarrà fedele al regime nazista fino all'ultimo momento. È forse l'unico che non pensi a salvarsi in un modo o in un altro. Sa che per lui non c'è scampo. La caduta del nazismo sarà la sua caduta, la fine della sua vita sontuosa, la fine del suo appartamento di lusso, la fine della sua eleganza (che non si fa scrupolo di portare i vestiti dei cechi fucilati).
È la fine. Sì.

L'infermiere della prigione.

Il polizeimeister Weisner è una figurina speciale nell'ambiente di Pankrac. A volte ti sembra che non faccia affatto parte di Pankrac, e a volte non riesci a immaginarti Pankrac senza di lui. Se non è in infermeria, si aggira per i corridoi con il suo passettino danzante, parla da solo, e osserva, osserva sempre. Come un estraneo, che sia venuto solo per un momento e voglia portar via di qui il maggior numero possibile di impressioni. Ma sa mettere la chiave nella serratura e aprire silenziosamente e con rapidità come il sorvegliante più esperto. Ha nei modi una secchezza che gli consente di dire cose piene di importanza nascosta senza, al tempo stesso, impegnarsi: non puoi prenderlo in parola. Si accosta alle persone ma non permette a nessuno di accostarsi a lui. Non fa rapporti, non denuncia. sebbene veda molte cose. Entra in una cella piena di fumo. Respira profondamente con il naso:
- Uhm - e fa schioccare la lingua - è strettamente vietato - e la fa schioccare un'altra volta - fumare nelle celle.
Ma non fa rapporto. Ha sempre una faccia corrugata, infelice come se lo torturasse una grande pena. È chiaro che non vuole avere nulla a comune con il regime che serve e di cui ogni giorno cura le vittime. Non crede in quel regime, non crede alla sua durata definitiva, e non ci ha mai creduto. Per questa ragione non ha fatto trasferire la famiglia da Bratislava a Praga, sebbene pochi impiegati del Reich si siano lasciati sfuggire questa occasione di succhiare fino all'osso il paese occupato.
Ma neppure vuole avere qualcosa a comune, con il popolo che lotta contro quel regime, neppure si unisce alla sua lotta.
Mi ha curato con onestà piena di applicazione. Fa cosi nella maggior parte dei casi e persiste nel vietare che i prigionieri troppo straziati dalle torture vengano portati a nuovi interrogatori. Forse lo fa per tranquillizzarsi la coscienza. Ma, invece, non ti dà il minimo aiuto nei casi in cui ne avresti veramente bisogno. Forse perché è dominato dalla paura.
È il tipo del suddito meschino. Rimane solo tra la paura del regime che lo governa, e di quello che succederà dopo. Cerca una via d'uscita. E non ne trova. Non è un topo. È solo un minuscolo sorcio preso in trappola. Senza speranza.

"Flemma".

È più che una figurina. Ma non è ancora una figura completa. È qualcosa di mezzo. Gli manca una convinzione chiara, per essere una figura.
In realtà sono in due, di questo genere. Persone semplici, sensibili, passive da principio, stupefatte poi dello spavento in cui sono precipitate, e con l'aspirazione di uscirne; prive di indipendenza e per questa ragione sempre in cerca di un appoggio, portate oltre fino al posto buono più dall'istinto che da una conoscenza; ti aiutano perché aspettano da te un aiuto. È giusto darglielo. Ora e in avvenire.
Quei due - gli unici fra tutti i funzionari tedeschi di Pankrac - erano stati anche al fronte.
Hanauer, operaio in una sartoria di Znojmo, tornato da un breve soggiorno sul fronte orientale con delle ferite che non ha avuto troppa fretta di far guarire. "La guerra non è per gli uomini" filosofeggia, un po' alla maniera di Svejk, "io non ho da chiapparci proprio niente".
Höfer, un allegro calzolaio di Bata (13), ha fatto la campagna di Francia ed ha piantato il servizio militare malgrado gli avessero promesso una promozione. " Ech Scheise!" (eh, merda) si è detto facendo con la mano un gesto di schifo, come fa quasi quotidianamente sopra tutte le piccole noie, di cui ha sempre abbastanza.
Si rassomigliano l'uno con l'altro per la loro sorte e per le loro naturali inclinazioni; ma Hofer è più coraggioso, più formato, più completo. "Flemma" è il soprannome che quasi tutte le celle sono d'accordo nel dargli.
Il giorno che è lui in servizio, è giorno di tranquillità nelle celle. Se grida, strizza l'occhio per farti sapere che non lo fa per te ma solo perché un superiore giù al pianterreno deve essere persuaso che il regolamento viene applicato con energia.
Del resto è fatica inutile, non convince più nessuno, e non passa settimana senza che gli venga affibbiato per punizione un servizio supplementare.
"Ech, Scheise! " fa con un gesto noncurante, e continua il suo gioco. Più che un sorvegliante è un giovane apprendista calzolaio abbastanza spensierato. Può capitare di pescarlo in qualche cella, con i ragazzi della prigione, a giocare a monetina con una passione piena di gioia. Altre volte, caccia fuori dalla cella nel corridoio i detenuti, e fa una "perquisizione". La perquisizione dura un pezzo. Se sei troppo curioso, puoi guardare dentro la cella e lo vedrai seduto al tavolino, con la testa fra le mani. Dorme, dorme con quieta voluttà; è il miglior modo di nascondersi dai superiori, perché i detenuti nel corridoio sorvegliano e annunciano qualsiasi pericolo che si avvicini. E ha bisogno di dormire almeno durante le ore di servizio, visto che durante le ore di riposo gli toglie il sonno una bella figliola amata da lui più di ogni altra cosa.
Il crollo o la vittoria del nazismo? "Ech, Scheise!" è mai possibile che duri questa fiera?
Lui non considera di far parte della fiera. Questo lo rende già interessante. Ma lo è anche di più in quanto non vuole farne parte. E non ne fa parte. Hai bisogno di trasmettere un messaggio scritto all'altro settore della prigione? "Flemma" provvede. Hai bisogno di mandare a dire qualcosa fuori? "Flemma" se ne incarica. Hai bisogno di metterti d'accordo con qualcuno, di parlargli per persuaderlo con un intervento personale, e salvare cosi altre persone? "Flemma" te lo porta nella cella e sorveglia un po' con la gioia di un monello che è riuscito a giocare un bel tiro. Spesso bisogna raccomandargli di essere prudente. È in mezzo al pericolo e quasi non se ne rende conto. Non si rende perfettamente conto della portata del bene che fa. Se ne facesse ancora di più si sentirebbe sollevato. Ma questo non rendersi conto gli impedisce di crescere.
Non è ancora una figura. È il termine di trapasso per arrivarci.

Kolin.

Fu una sera durante lo stato d'assedio. Il sorvegliante in uniforme di SS che mi faceva entrare nella cella ha fatto finta di frugarmi le tasche.
- Che avete?, - ha domandato piano.
- Non so. Mi hanno detto che sarò fucilato domani.
- Vi spaventa?
- Lo avevo previsto.
Per un attimo ha passato meccanicamente la mano sul, risvolto della mia giacca.
- E' possibile che lo facciano. Se non domani, forse più tardi, forse anche no. Ma di questi tempi... è bene esser preparati...
E di nuovo ha taciuto.
- Forse... tuttavia... se volete... Volete lasciare una commissione per qualcuno? o volete scrivere? Non per ora, capite, per il futuro, come siete arrivato fin qui, se qualcuno vi ha tradito, come si è comportato questo; o quello... in modo che ciò che sapete non se ne vada con voi...
Se volevo scrivere? era come se indovinasse il mio desiderio più fervido.
Dopo un attimo mi ha portato un foglio con un lapis.
Li ho accuratamente nascosti perché nessuna perquisizione potesse trovarli.
E non li ho mai toccati.
Era troppo bello, non potevo fidarmi. Troppo bello: qui, nella casa buia, pochi giorni dopo il mio arresto nell'uniforme di coloro che per te non avevano altro che grida e botte, trovare un uomo, un amico, che ti dà la mano, perché tu non perisca senza lasciare tracce, perché tu possa lasciare un messaggio agli uomini futuri, perché tu possa parlare almeno un istante a chi sopravviverà e giungerà ad essere libero. E proprio ora! Nei corridoi fanno l'appello dei nomi per le esecuzioni, il sangue ubriaca i bruti che gridano come bestie, e lo spavento ha stretto la gola di quelli che non hanno potuto gridare. Proprio ora, in un simile momento, no, era incredibile, non poteva proprio esser vero, era certamente un tranello. Quale forza doveva avere un uomo per tenderti, la mano di sua iniziativa in una situazione simile! e che audacia!
Presso a poco un mese è passato. Abolito lo stato di assedio, le grida si affievolivano, i momenti crudeli si mutavano in ricordi. Fu, ancora una volta, di sera, dopo il mio ritorno dall'interrogatorio, e di nuovo lo stesso sorvegliante davanti alla mia cella.
- L'avete scampata, a quanto pare. Come mai? - e guardandomi con occhio scrutatore - tutto in ordine?
Capii bene la sua domanda. Mi commosse profondamente. E mi persuase più che qualsiasi altra cosa della sua onestà. Solo un uomo che aveva intimamente il diritto di farlo poteva domandarmi così. E da quella sera riposi in lui la mia fiducia. Era uno dei nostri. A prima vista: un personaggio enigmatico. Camminava nei corridoi solo, calmo, riservato, attento, osservando tutto. Mai una volta che tu l'abbia sentito gridare. Mai una volta che tu l'abbia visto picchiare.
- Ve ne prego, datemi uno schiaffo quando Smetonz passa di qui, gli chiedevano i compagni della cella vicina, che vi veda un momento, una volta, attivamente al lavoro.
Scuoteva la testa in segno di diniego.
- Non è mica necessario.
Mai che tu l'abbia sentito parlare altrimenti che in cèco. Tutto in lui ti diceva che era diverso dagli altri. E difficilmente avresti potuto dire come mai anche loro lo hanno sentito, senza poterlo cogliere.
È dovunque c'è bisogno di lui, porta la calma dove regna la confusione, dà coraggio a chi abbassa la testa, riannoda le fila spezzate che minacciano nuove persone al di fuori. Non si perde nei particolari. Lavora sistematicamente e su larga scala. E non da poco tempo. Fino dal principio. È entrato a servizio del nazismo con questo compito.
Adolf Kolinsky, sorvegliante cèco della Moravia, uomo cèco, di antica famiglia cèca, si dichiara tedesco per poter sorvegliare i detenuti cèchi a Kradec Kralové e poi a Pankrac. Che indignazione fra quelli che lo conoscevano! Ma quattro anni dopo, durante l'appello, il direttore tedesco della prigione, agitandogli violentemente il pugno dinanzi agli occhi - un po' tardi del resto - lo minaccia :
- Vi toglierò di corpo il vostro "cèchismo"!
Anche in questo il direttore s'ingannava. Non era solo "cèchismo". Sarebbe stato necessario togliergli di corpo l'uomo. Un uomo, che consapevolmente e volontariamente è andato in un luogo preciso per combattere e per aiutare a combattere. E che il pericolo continuo ha servito solo a rendere più risoluto.

"Il Nostro ".

Se la mattina dell'11 febbraio 1943 ci avessero portato una tazza di cioccolata per colazione in cambio della solita miscela di chissà cosa, non avremmo neanche fatto caso a questo miracolo. Perché quella mattina alla nostra porta apparve per un istante l'uniforme di un poliziotto cèco. Apparve solo per un istante. Un passo, calzoni neri dentro scarpe alte, una mano in una manica azzurro cupo che si alza all'altezza della serratura, spinge la porta, e l'apparizione sparisce. Fu cosi breve che un quarto d'ora dopo eravamo già disposti a non crederci più.
Un poliziotto cèco a Pankrac! Quali conclusioni di lunga portata potevamo trarre da questo fatto!
Due ore dopo già le stavamo traendo. La porta della cella di nuovo era aperta, una bustina da poliziotto cèco si chinava all'interno e con una lieta smorfia nelle labbra al di sopra del nostro stupore annunziava:
- Freistunde! (un'ora di ricreazione).
Ora non potevamo più sbagliarci. Tra le uniformi grigioverdi dei sorveglianti SS, nei corridoi, apparivano parecchie macchie scure che ci sembravano piene di luce: i poliziotti cèchi.
Cosa significa questo per noi? Come saranno? In qualunque modo siano, già il fatto della loro presenza parla chiaro. Come precipita verso la fine questo regime che perfino nel suo organismo più sensibile, nel solo appoggio di cui dispone, nel suo strumento di oppressione, è costretto a inquadrare uomini del popolo che vuole opprimere! Che terribile deficienza di materiale umano deve avere, se indebolisce perfino la sua ultima speranza, pur di acquistare qualche individuo! Quanto tempo ancora pretende di resistere?
Evidentemente saranno uomini appositamente scelti, saranno forse peggiori dei sorveglianti tedeschi già demoralizzati dall'abitudine e dalla mancanza di fiducia nella vittoria, ma la realtà, la realtà che essi rappresentano anche qui, è il segno infallibile della fine.
Cosi abbiamo pensato. Ed era ancor più di quanto ci fossimo permessi di pensare nei primi momenti. Perché il regime non aveva già più scelta, non aveva più di che scegliere.
L'11 febbraio abbiamo visto per la prima volta le uniformi cèche. Il secondo giorno abbiamo cominciato a riconoscere le persone.
È venuto, ha guardato nella cella, ha strusciato i piedi con imbarazzo sulla soglia, e poi - come l'energia capricciosa entra all'improvviso in un capriolo quando si slancia con tutte e quattro le zampe - ha detto con audacia improvvisa:
- Beh, come state, signori?
Abbiamo risposto con un sorriso. Anche lui ha riso, poi ha preso di nuovo un'aria di imbarazzo:
- Non siate arrabbiati contro di noi. Credeteci, avremmo preferito continuare a consumare le scarpe sul selciato, piuttosto che venirvi a sorvegliare qui. Ma siamo stati obbligati. E forse... Forse servirà a qualcosa...
Si è rallegrato quando gli abbiamo detto che cosa pensassimo della cosa e come li considerassimo. E così siamo diventati amici dal primo momento... Era Vitek, un ragazzo semplice dal cuore d'oro, colui che quella mattina per primo è apparso un momento alla porta della nostra cella.
L'altro, Tuma, il vero tipo dell'ex-secondino cèco. Un poco volgare, chiacchierone, ma in fondo buono, come uno di quelli che una volta chiamavamo "paparino" nelle prigioni della prima repubblica (14). Non ha sentito cosa ci fosse di eccezionale nella sua posizione, anzi si è sentito subito a suo agio, facendo sempre dello spirito un po' pesante, mantenendo cosi bene l'ordine che era lui il primo a turbarlo: qui faceva scivolare del pane nella cella, là delle sigarette, altrove si lanciava in una conversazione divertente su un argomento qualsiasi (salvo che sulla situazione politica). Faceva questo con assoluta naturalezza, era la sua concezione personale del compito del sorvegliante, e non lo nascondeva. Il primo rimprovero ricevuto per la sua condotta non lo fece cambiare, ma lo rese più prudente. Continuava ad essere il sorvegliante "paparino". Non avresti osato chiedergli qualcosa di grosso. Ma si respirava bene accanto a lui.
Il terzo camminava intorno alla cella con aria triste, taciturna, senza interessarsi a niente. Non ha reagito ai nostri prudenti tentativi per prendere contatto.
- Non abbiamo fatto un grande acquisto con lui, dichiarò babbo Pesek dopo averlo osservato per una settimana. Quello è il meno riuscito tra loro.
- O il più intelligente, ho detto - più che altro per spirito di opposizione perché avere due opinioni diverse nelle piccole cose è il sale della vita nella cella.
Dopo quindici giorni avevo l'impressione che quel taciturno strizzasse l'occhio in modo un poco più vivo. Ricambiai l'impercettibile ammiccamento, che in prigione ha mille significati. E ancora nulla. Forse mi ero ingannato.
Dopo un mese tutto era già chiaro. Fu così subitaneo come quando la farfalla esce dalla crisalide. La rugosa crisalide si è spaccata e una creatura viva è apparsa. Non si trattava di una farfalla. Si trattava di un uomo.
- Tu costruisci dei piccoli monumenti - ripeteva babbo Pesek davanti a qualcuna di queste descrizioni di caratteri.
Sì, vorrei che non fossero dimenticati i compagni che hanno fedelmente e coraggiosamente combattuto fuori e qui, e che sono caduti. Ma vorrei pure che non si dimenticassero i vivi che ci hanno aiutato con non minore fedeltà e coraggio nelle condizioni più difficili. Perché dall'ombra dei corridoi di Pankrac escano alla luce della vita personalità come quelle di Kolinsky e di quel poliziotto cèco. Non per loro gloria. Ma per servire di esempio agli altri. Perché il dovere umano non finisce con questa lotta ed esser uomo sarà continuare ad esigere da se stessi un cuore coraggioso finché gli uomini non saranno completamente uomini.
In fondo è solo una storia breve, questa del poliziotto Jaroslav Hora. E ci trovi la storia di un uomo completo.
La regione di Radnice. Un angolo sperduto del paese. Una regione bella, triste e povera. Il padre fa il vetraio. La vita è dura. La fatica quando c'è lavoro, e la miseria quando viene la disoccupazione, che è qui cosa stabile. Quando ti fa piegare sulle ginocchia oppure ti fa alzare nel sogno di una vita migliore, nella fiducia in essa, nella lotta per essa. Il padre ha scelto la seconda soluzione. E' diventato comunista.
Il giovane Jarda pedala tra i ciclisti nella manifestazione del 1° maggio, con un nastro rosso attorcigliato alla ruota. Non l'ha scordato ancora. Lo porta con sé, senza saperlo con precisione, in qualche posto nel suo intimo, durante l'apprendistato di tornitore nell'officina Skoda, dove comincia a lavorare.
La crisi, la disoccupazione, la guerra, la prospettiva d'un lavoro, il servizio nella polizia. Non so che cosa faccia in questo momento il nastro rosso dentro di lui. Forse è aggomitolato in qualche posto, posato lì, forse mezzo dimenticato, ma non perduto. Un giorno il giovane è assegnato al servizio di Pankrac. Non ci viene volontariamente come Kolinsky con un compito determinato già in precedenza da lui.
Esamina il suo campo d'azione. Valuta le proprie forze. Il volto gli si turba riflettendo intensamente da dove cominciare e come cominciare nel modo migliore! Non è un professionista politico. E' un semplice figlio del popolo. Ma ha l'esperienza del padre. Ha un nucleo solido intorno a cui si accumulano le sue decisioni. Ed ecco presa la decisione. Dalla crisalide raggrinzita viene fuori un uomo.
Ed è un uomo interiormente bello, puro quanto raro, sensibile, timido e tuttavia virile. Rischia tutto quello che più è necessario. C'è bisogno di cose piccole e di cose grandi. Farà le cose piccole e le cose grandi. Lavora senza gesti, piano, con prudenza, ma senza paura. Tutto ciò gli riesce, perfettamente evidente. In lui è imperativo categorico. Deve esser fatto cosi, a che servono allora le parole?
E, per parlare propriamente, è tutto. È la storia completa di un personaggio che oggi può segnare al suo attivo parecchie vite umane salvate. Parecchie persone vivono e lavorano fuori perché un uomo a Pankrac ha compiuto il suo dovere di uomo. Loro lo ignorano e lui le ignora. Come ignora Kolinsky. Vorrei che gli altri potessero riconoscerli dopo. Kolinsky e Hora hanno trovato qui, molto presto, la via che li conduceva l'uno verso l'altro. E questo ha moltiplicato le loro possibilità.
Ricordateli come esempio... Come l'esempio di uomini che hanno la testa al posto giusto. E il cuore prima di tutto.

Papà Skorepa

Quando li vedi per caso tutti e tre assieme, vedi l'immagine vivente della fraternità: l'uniforme grigioverde delle SS, sorvegliante Kolinsky; l'uniforme dei detenuti di servizio ai corridoi, papà Skorepa. Ma li vedi insieme solo di rado, molto di rado. Proprio perché appartengono gli uni agli altri.
Le regole della prigione permettono di utilizzare per dei lavori nei corridoi, per la pulizia e per portare i pasti "solo dei prigionieri particolarmente sicuri, disciplinati e strettamente isolati dagli altri". Questo secondo la lettera del regolamento. Lettera morta, assolutamente morta già in partenza. Perché simili addetti ai servizi non esistono, non sono mai esistiti. E prima di tutto mai nelle prigioni della Gestapo. I responsabili di corridoio qui sono invece le antenne spinte in avanti dal collettivo delle celle destinate a ravvicinare al mondo per poter vivere e per potere intendersi. Quanti di loro hanno già pagato con la vita un messaggio a voce o scritto, scoperto loro addosso! Tuttavia la legge del collettivo della prigione chiede con insistenza a quelli che li sostituiscono di continuare il loro lavoro pericoloso. Non rimane dunque che impegnarsi a fondo, con audacia, perché se si ha paura non si evita nulla lo stesso. Con la paura si può solo distruggere molto, si può anche perdere tutto come in ogni lavoro illegale.
Ed è un lavoro illegale elevato a potenza: direttamente nelle mani di quelli che vogliono sterminarlo, sotto gli occhi dei sorveglianti, nel posto da loro prescritto, durante i secondi scelti da loro, nelle condizioni che essi creano. Tutto quanto hai imparato all'esterno è insufficiente qui. Eppure non ti si chiede meno di questo.
Ci sono dei maestri del lavoro illegale fuori. Ci sono dei maestri di questo lavoro tra i responsabili dei corridoi. Papà Skorepa è un maestro di questo genere. Modesto, umile, tranquillo a prima vista, e vivo come un pesce. I sorveglianti cantano le sue lodi: guardate che lavoratore, che uomo fidato, come si occupa unicamente del suo dovere, senza lasciarsi andare a niente di proibito; prendete esempio da lui, voialtri responsabili dei corridoi!
Sì, prendete esempio da lui, responsabili dei corridoi! È il vero modello del responsabile, immaginato dal detenuto. La più salda e la più sensibile antenna del collettivo della prigione.
Conosce gli abitanti delle celle, ogni nuova recluta, fin da principio, perché è qui, come sono i suoi compagni di cella, quale è la sua condotta e qual è la loro. Studia i "casi" e cerca di scoprire i loro segreti. È importante, se vuoi dare un consiglio o trasmettere un messaggio.
Conosce il nemico. Esamina accuratamente ogni sorvegliante, studiandone le abitudini, i lati forti e le debolezze, in quale senso bisogna essere particolarmente vigilanti con lui, in quale senso si può profittare di lui, come lusingarlo, come giocarlo. Molte delle note caratteristiche da me utilizzate mi sono state fornite da papà Skorepa. Li conosce tutti, potrebbe disegnarli ciascuno individualmente e ciascuno in modo perfetto. È importante, se volete avere libertà di movimenti nei corridoi; e la possibilità di fare un lavoro garantito ed efficace. Prima di tutto Skorepa conosce il suo dovere. È un comunista che sa che in nessun posto potrebbe cessare di essere tale, potrebbe mettersi le mani sulle ginocchia e "fermare la sua attività". Dirò perfino che qui, nel pericolo supremo e sotto la pressione più dura, ha trovato il suo vero posto. Qui è ingrandito.
È versatile. Ogni giorno e ogni ora crea una situazione nuova e richiede un nuovo metodo. Lui li trova rapidamente e con sagacia. Ha a disposizione solo frazioni di minuti. Bussa dolcemente alla porta della cella, ascolta il messaggio preparato e lo trasmette brevemente e chiaramente all'altro capo del corridoio, prima che il nuovo addetto al servizio salga la scala del primo piano. È prudente e ha presenza di spirito. Centinaia di messaggi scritti sono passati per le sue mani, nessuno è stato scoperto, né mai sono sorti sospetti.
Sa dove la scarpa fa più male, dove bisogna rialzare il morale, dove deve dare un'informazione precisa sulla situazione esterna, quando lo sguardo dei suoi occhi, veri occhi da papà, debbono ridare forza all'uomo in cui la disperazione sta salendo, oppure quando un pane o un ramaiolo di zuppa supplementare possono far scordare la fame, lo sa, lo avverte, grazie ai suoi sensi affinati, e alla sua esperienza, e agisce in conformità.
È un combattente forte e coraggioso. È un uomo puro. È papà Skorepa.
Vorrei che leggendo queste pagine, vedeste in lui non soltanto lui solo, ma quel tipo completo di "hausarbeiter" (15), che ha saputo capovolgere il lavoro richiesto dagli oppressori in lavoro per gli oppressi. Papà Skorepa è uno, ma il tipo a cui appartiene comprende molte specie di personaggi differenti dal punto di vista umano, ma non per questo più piccoli. A Pankrac e a palazzo Petschek, vorrei ricordare le loro figure, ma disgraziatamente mi resta solo qualche ora, troppo poco anche per "una canzone in cui si può raccontare in breve le cose che, pure, si sono vissute a lungo".
Almeno qualche nome, qualche esempio, che non bisogna proprio dimenticare, e da lontano non è tutto: "Rebek" Josef Teringl, fermo, pronto a fare sacrifici, appassionato, a cui è legata una parte della storia di palazzo Petschek e della nostra resistenza laggiù, così come il suo compagno inseparabile, un vero coraggioso, Pepik Bervida.
Il dottor Milos Nedved, un bel ragazzo, un ragazzo nobile, che ha pagato a Oswiecim (16) con la vita l'aiuto ai compagni imprigionati.
Arnost Lorenz, l'uomo a cui hanno giustiziato la moglie, perché lui non aveva tradito, e che un anno dopo è andato solo all'esecuzione, per salvare i compagni, gli "hausarbeiters" del "400", e tutto quanto il suo collettivo.
Magnificamente e inalterabilmente pieno di spirito Vasek Rezek; chiusa in sé e profondamente dedita alla causa Anicka Vikovà, giustiziata durante lo stato d'assedio; energico (uno spazio bianco nel manoscritto) sempre allegro, abile, sempre capace di inventare nuove vie il " bibliotecario" Springer, il giovane e caro Bilek...
Solo degli esempi; solo degli esempi. Figure più grandi e più, piccole. Ma sempre figure. Mai figurine.