Biblioteca Multimediale Marxista


Terrorismo e Comunismo


TORINO
FRATELLI BOCCA, EDITORI
MILANO - ROMA
1920

Prefazione.
Questo lavoro, incominciato circa un anno fa, fu interrotto dalla rivoluzione del 9 novembre, che mi impose ben altri compiti che ricerche teoriche e storiche. Soltanto alcuni mesi dopo, ho potuto riprenderlo e condurlo a termine, pur troppo però in modo discontinuo. E questo non à certo giovato all'unità dell'esposizione. Di più, a peggiorarla contribuì il fatto, che, nello sviluppo del tema propostomi, esso à subito qualche spostamento. Come punto di partenza, avevo scelto il problema centrale del socialismo moderno, ossia la posizione della democrazia sociale di fronte al metodo bolscevico. Ma siccome il bolscevismo si appella di preferenza alla Comune parigina del '71, come al suo precedente e modello, ch'ebbe la sanzione di Marx, e d'altra parte la Comune è poco nota alla presente generazione, mi accinsi ad un parallelo tra quella e la repubblica dei soviet.
Ma per ben comprendere la Comune, dovevo ricondurmi alla prima Comune di Parigi, e quindi alla rivoluzione francese e al governo del Terrore. Ne seguì un secondo parallelo colla repubblica sovietista, e allo studio sulla Comune si aggiunse lo studio del Terrore, sua radice e frutto insieme.
Due son dunque i fili conduttori che in questo scritto s'intrecciano, dei quali l'uno dall'altro talvolta devia. Ben di ciò avvertii io stesso lo svantaggio tanto da domandarmi, se non fosse meglio fare due lavori distinti: una trattazione della Comune e un esame del terrorismo. Ma questi due fatti erano nella mia mente entrambi in così stretta dipendenza con la repubblica dei soviet, donde avevo preso le mosse, che mi sembrò impossibile di trattarne separatamente. Spero, nonostante le difficoltà insite nel doppio carattere dell'argomento, d'esser riuscito ad assicurare l'unità ideale di costruzione alla mia opera. Per quanto talune delle mie deduzioni possano sembrare accademiche al lettore, esse sono invece inspirate alla maggior attualità, ne avrebbe potuto esser diversamente in un tempo di tanta fermentazione come il nostro. Con questo non si pensi, che io abbia cercato di adattare la verità ai bisogni del momento presente, ma piuttosto che mi sono studiato di mettere in rilievo, anche quando mi rifacevo al più lontano passato, solo quegli aspetti delle cose che fossero adatti a portare luce nel caos, in cui ci dibattiamo.
Diamo pure uno sguardo a questo caos russo e tedesco; certo lo spettacolo e la prospettiva, ch'esso subito ci offre, non son fatti per rallegrarci: un mondo che precipita nella rovina economica e nella più spaventevole guerra fratricida; qui come là socialisti al governo, che usano con altri socialisti di quella stessa violenza, che un mezzo secolo fa tutto il proletariato internazionale stigmatizzava colla maggiore indignazione nei massacratori versagliesi della Comune.
Però l'orizzonte si rischiara, se guardiamo all'Internazionale. I lavoratori dell'Europa occidentale si sono sollevati, da essi dipende il raggiungere un più positivo risultato con più degni metodi di quel che non si sia conseguito fin qui nell'Oriente. Ma a tal fine è necessario, che noi li rendiamo idonei a riconoscere dai loro risultati i diversi metodi di lotta e di ricostruzione. Non più cieca ammirazione delle usuali teorie rivoluzionarie, ma anzi la più severa critica, ecco quello di cui abbiamo bisogno ora che la rivoluzione e i partiti socialisti attraversano una crisi profonda, nella quale i diversi metodi avranno opportunità di misurarsi tra loro. Il successo della rivoluzione dipenderà in gran parte dal fatto, che il giusto metodo riesca a trionfare nel proletariato. Oggi il nostro più alto dovere è appunto questo: vagliare i nostri metodi. Il còmpito di questo scritto è quello di concorrere a questa revisione e così promuovere la rivoluzione.
Charlottenburg, giugno 1919.
K. KAUTSKY.


I. — Rivoluzione e terrorismo.
Prima della guerra in una grande parte della democrazia sociale s'era fissato il concetto, che l’èra delle rivoluzioni non solo per l'Europa occidentale, ma anche per la Germania e l'Austria, fosse chiusa per sempre. Chi altrimenti pensasse, era schernito come un romantico della rivoluzione.
Adesso la rivoluzione è un fatto, ed essa prende forma di tale brutalità, quale neppure il più fantastico dei romantici fra noi si sarebbe aspettato.
Ogni socialista considerava l'abolizione della pena di morte come un'esigenza morale, che non à bisogno di dimostrazione. Ma la rivoluzione ci presenta il più sanguinoso terrorismo esercitato da governi socialisti. I bolscevichi della Russia stanno alla testa, appunto per ciò aspramente criticati dagli altri socialisti, che non si pongono dal loro punto di vista, e tra questi anche dai maggioritari tedeschi. Ma ecco che appena costoro si vedono minacciati nel loro predominio, si afferrano allo stesso mezzo del terrore che avevano poco prima bollato a fuoco in oriente. Noske cammina arditamente sulle pedate di Trotzky, con questa sola differenza, ch'egli non presenta la sua come una dittatura del proletariato. L'uno e l'altro però giustificano la loro opera di sangue in nome della rivoluzione.
E' di fatti un'opinione largamente diffusa, che il terrorismo appartenga all'essenza di ogni rivoluzione: chi vuole questa, deve fare i conti con quello. E come prova, sempre di nuovo si adduce la grande Rivoluzione francese, che è pur sempre la rivoluzione a “ par excellence ”.
Un'indagine del terrorismo, delle sue condizioni e delle sue conseguenze, deve quindi iniziarsi con uno studio intorno alle caratteristiche del governo del terrore dei Sanculotti. Con questi vogliamo incominciare. Ciò ci condurrà un po' lungi dal presente, ma ci servirà a meglio comprenderlo. Colpisce il vedere quante coincidenze vi siano tra la grande Rivoluzione francese e le rivoluzioni del giorno d'oggi, sopratutto quella russa. E' vero però che le rivoluzioni dei nostri tempi sono fondamentalmente diverse da quella del diciottesimo secolo, e basterebbe a provarlo il paragone del nostro proletariato, della nostra industria, del nostro commercio coi corrispondenti fatti di quell'età.

2. - Parigi.
L'attuale rivoluzione tedesca non ha centro, quella francese invece fu dominata da Parigi. Nè si può comprenderla, nè spiegare in essa il governo del Terrore, senza tener conto del significato economico e politico, che Parigi aveva per la Francia. Nessuna altra città esercitò nel 18° secolo e anche nel 19° una potenza così grande come quella. Ciò dipende anche dall'importanza, che in un moderno stato burocratico ed accentratore possiede la residenza e il centro del governo, finchè non si introduce quel decentramento economico, che il capitalismo industriale svolgendosi, porta con sè attraverso lo sviluppo della vita commerciale.
Nello stato feudale scarseggia il potere dell'autorità centrale, ossia del monarca, le sue funzioni sono ancora ristrette, e corrispondentemente debole l'apparato di governo. Questo può essere trasportato da una città o da un borgo in un altro, e il sovrano tanto più è costretto a far ciò, quanto meno sono sviluppati i mezzi di trasporto, quanto meno una singola località, ridotta alle sue proprie risorse, è sufficiente a mantenere stabilmente il seguito del monarca, e quanto più egli ha occasione di mostrarsi personalmente nelle diverse parti del suo dominio, poichè solo così egli può mantenerle nella fedeltà e nell'obbedienza. Così in quel tempo il principale còmpito del sovrano è quello di andare girovagando; come fa il nomade, il monarca va a cercare l'un dopo l'altro i grassi pascoli e li abbandona quando non c'è più nulla da divorare sopra. Ma col corso del tempo si sviluppa l'apparecchio di governo, sopratutto in conseguenza dell'incremento della produzione industriale, che il denaro ha fatto sorgere; invece dei tributi in natura, che si trasportano difficilmente, sorge l'imposta, la quale sborsata in danaro è facilmente trasportabile. Col reddito delle imposte cresce la potenza del monarca, ma cresce anche il congegno statale sotto forma di burocrazia e di esercito permanente. Lo spostamento non è più tollerabile, il monarca deve fissarsi. E come già si erano formate quelle speciali più grandi città nei punti di incrocio del commercio, nel centro del regno, più ricche che non le piccole città di provincia, ed erano diventate capoluoghi, che il monarca sceglieva come sue residenze; così ora una di esse diventa la sede stabile del governo, la capitale. Tutto qui omai si raccoglie quello che ha da fare collo Stato, confluiscono qui le imposte di tutto il regno, di cui poi solo una parte refluisce verso la periferia. Qui anche vengono a stanziarsi i fornitori dello, Stato e della Corte così come gli uomini d'affari che, come appaltatori dell'imposta o banchieri, hanno relazioni di danaro collo Stato.
Nello stesso tempo cresce la potenza del re sulla nobiltà, la cui indipendenza viene infranta. Il monarca non voleva tollerare più a lungo che la grande nobiltà vivesse lontana da lui ne' suoi castelli: essa doveva vivere alla sua corte sotto la sua personale sorveglianza, addetta esclusivamente al servizio del sovrano, ridotta alla vacua e sterile vita dei cortigiani. Le furono tolte le funzioni, che esercitava nell'amministrazione della comunità, omai affidate ad impiegati instituiti e pagati dal re. Sempre più i nobili diventarono parassiti, il cui còmpito era solo quello di consumare alla corte le rendite delle loro terre. Ciò che prima spendevano nei loro borghi e castelli in mezzo ai loro valvassori, fluì verso la capitale e ne accrebbe la ricchezza; là essi costrussero nuovi palazzi intorno alla reggia, là essi scialacquarono il loro reddito in una vita di solo piacere, poichè era stata loro tolta ogni seria funzione. E i “ parvenus ”capitalisti sorti loro accanto cercavano di pareggiarli nelle spese.
Così le capitali vennero in contrasto colla campagna e colle città secondarie, ossia colla provincia, non solo come centro di tutta la ricchezza dello Stato, ma anche come centro della vita di piacere, che esercitava una potente forza d'attrazione dentro e fuori del paese su tutti quelli che disponevano di mezzi per divertirsi, o che avevano inclinazione e capacità a sfruttare i gaudenti, in qualità di servi o serve dei loro piaceri.
Ma anche furono attratti dalla capitale più seri elementi. Mentre il nobile nel suo castello non aveva a sua disposizione che rozzi modi di passatempo, mangiare, bere, andare a caccia, correr dietro alle ragazze dei dintorni; invece la città produceva più fini costumi e raffinati piaceri. Il nobile prese interesse alle arti ed alle scienze, il mecenatismo venne di moda; per ciò accorsero alla capitale artisti e letterati, che potevano sperare là migliori compensi. Quanto più la borghesia si rinforzava nella capitale, tanto più gli scrittori e gli artisti trovavano in essa, come nella nobiltà, uno sbocco pei loro prodotti.
Che quindi numerosi industriali e commercianti vi fossero anche attratti, per provvedere ai bisogni di tutti questi elementi, è troppo chiaro. In nessun altro luogo uno poteva proporsi di fare fortuna come nella capitale. Qui si affollò da tutto il paese ciò che v'era di spirito, di iniziativa e di energia. Non tutti però raggiungevano lo scopo; numerose erano le esistenze fallite. Ed esse davano una fisionomia caratteristica alla capitale, formando quella massa di miserabili che vi cercavano i mezzi di sussistenza; potendo qui meglio un povero diavolo trovar scampo ed aspettarvi un colpo di fortuna di cui approfittare audacemente; fortuna che non raramente esso stesso sapeva far sorgere come quel tale Riccaut de la Marlinière. Non soltanto arte e scienza, ma anche godimento sfrenato accanto alla più dura miseria e alla copiosa delinquenza costituiscono i tratti caratteristici della capitale. A queste sue peculiarità di vita corrisponde una propria forma di spirito, che anima la sua popolazione. Naturalmente però non identica in ogni capitale. Anche qui la quantità si cambia in qualità.
In un piccolo Stato o in una comunità economicamente arretrata, la capitale doveva essere una piccola città, dove quei tratti distintivi sopraccennati poco potevano svolgersi. Qui si metteva in luce sopratutto una dipendenza della popolazione dalla corte e non soltanto economica e politica, ma anche spirituale. I sentimenti del cortigiano vi diventavano in una forma più grossolana, più rozza, più ingenua, quelli della borghesia. Ciò reagiva anche sugli abitanti della provincia, alla quale la luce viene dalla capitale. Di qui quel sentimento fortemente monarchico e servile, che presenta la Germania ne' suoi piccoli staterelli. Sentimento, che ai bei tempi della democrazia cittadina, sconcertò i suoi propugnatori.
Esso indusse Borne a prorompere nel suo grido: « Gli altri popoli sono servi, ma i Tedeschi lacchè », pensiero che Heine espresse ironicamente nella frase: « La Germania, questa quieta stanza di bambini non è davvero una romana spelonca di banditi ».
Ben diversamente si presenta lo spirito di una grande capitale: tanto più una città cresce tanto più diminuisce la popolazione di corte come numero e come importanza di fronte agli altri elementi, che sono andati là a cercare fortuna, e tanto più grande è il numero dei disillusi e dei malcontenti, tanto più grande è la loro massa e perciò' la loro forza. Ciò dà loro non soltanto coraggio, ma aiuta anche l'opposizione di quelli, ché, senza essere personalmente malcontenti, chiaramente scorgono i mali dello Stato e della società. Da per tutto v'è una simile opposizione, ma si nasconde nelle piccole capitali, mentre nelle grandi essa osa manifestarsi.
Tra le grandi capitali del continente europeo, nel 17° e 18° secolo la maggiore era Parigi, centro dello Stato più potente, che vi fosse allora in Europa. Essa contava sulla fine del 18° secolo circa 600.000 abitanti. Weimar, anch'essa capitale e allora focolare della vita spirituale tedesca, press'a poco 10.000. Già da tempo la popolazione parigina si era rivelata per il suo spirito di ribellione, per esempio nel 1648 nel movimento della Fronda, che fu occasionato dal fatto che il governo era venuto in conflitto col parlamento di Parigi, il più alto organo di giustizia in Francia. Si costrussero barricate e il re fu costretto ad uscire da Parigi (1649), proprio in quell'anno in cui Carlo I d'Inghilterra era decapitato.
La lotta durò fino al 1652 quando la monarchia dovette accontentarsi di una pace di compromesso, che però portò presto con sè un rafforzamento dell'assolutismo. La capitale s'era in quella lotta alleata coll'alta nobiltà, alleanza però di elementi eterogenei. In nessun luogo l'alta nobiltà poteva più con successo affermarsi contro la corona. Parigi non possedeva allora di fronte a Luigi la stessa forza di ribellione che Londra contro Carlo. La lotta della Fronda accadde nella giovinezza di Luigi XIV. L'insurrezione di Parigi e la fuga, cui fu costretto, fecero una profonda impressione sopra di lui. Per non provare una seconda volta una simile umiliazione, egli pose la sua residenza fuori di quella città. Lasciò naturalmente in Parigi gli organi del governo, ma come sede della corte scelse un luogo abbastanza vicino per mantenersi in stretta relazione col governo, ma anche abbastanza lontano da essere garantito da una insurrezione di piazza.
Nell'anno 1672 egli intraprese la costruzione in Versailles, a 18 km. da Parigi, della nuova residenza, che doveva costare a lui, o meglio al suo popolo, un miliardo di lire. Più d'una volta nei secoli successivi doveva vedersi che Versailles, era stata costrutta appunto per opporla alla ribelle Parigi.
Per quanto la capitale procedesse risoluta di fronte al potere centrale dello Stato, spesso però la sua azione rispetto ad esso mancò di unità. Per un lato Parigi tendeva ad affermare la propria indipendenza e a sciogliersi dal potere pubblico, mentre poi la sua ricchezza e la sua forza si basavano sulla ricchezza del paese e sulla forza dell'autorità statale nel regno. Parigi doveva aspirare all'autonomia comunale, nello stesso tempo trarre il maggior profitto dall'accentramento, che le era necessario per la sua propria esistenza.
Nel corso del secolo XVIII° ciò che delle diverse provincie della Francia riunite dalla conquista, fece una salda unità nazionale, fu sopratutto la posizione di Parigi, che sovrastava alle varie parti del regno. Nulla infatti avrebbe potuto unire un alsaziano con un bretone o un fiammingo di Dunkerque con un guascone. Ma essi tutti avevano rapporti con Parigi. I loro migliori figli vi dimoravano, mescolandosi colà in una unità nazionale. Questa contraddizione, per cui Parigi rappresenta ad un tempo il più forte appoggio dell'accentratrice forza statale e la più potente opposizione ad essa, si rispecchia nella sua situazione di fronte alla provincia. A Parigi si denunziano essenzialmente i guai e gli abusi, di cui soffre tutto il regno. Parigi per la prima trova il coraggio di metterli a nudo e di bollarli a fuoco. Qui solo si ha la forza di andare a fondo delle questioni, per modo che la capitale è quella, che lotta in nome dell'intera Francia sofferente.
I provinciali dispersi per l'ampio territorio, intellettualmente arretrati, pavidi ed impotenti, si abituavano a vedere in Parigi la loro difesa, la loro salvezza, e ne seguivano spesso la condotta con entusiasmo. Non sempre però. Chè questa stessa Parigi ingrandiva e si rafforzava non solo col lavoro de' suoi abitanti, ma anche collo sfruttamento delle provincie, per modo che del « plus valore » creato in queste, la parte del leone era accaparrata dalla metropoli, dove o era scialacquata in piaceri, od era accumulata in capitale per il maggiore arricchimento, e la potenza degli svaligiatori del paese.
Così accanto alla fiducia verso la Parigi del progresso si formava anche l'odio verso la Parigi dello sfruttamento, ossia il dissidio tra la capitale e la provincia. E secondo la situazione storica or l'una or l'altra delle due opposte tendenze prendeva il sopravvento. Il contrasto economico s'inaspriva per il contrasto delle idee, che emergevano dalla differenza sociale dell'ambiente. Nella campagna e nella provincia c'era stagnazione economica, quindi conservatorismo, rigida fedeltà ai principii della morale tradizionale; anche chi non vi credesse, doveva affettarli, chè nella angusta cerchia del villaggio o della cittaduzza ognuno era sotto il controllo dell'intera comunità. Questo controllo veniva invece del tutto meno in una grande metropoli, dove era possibile farsi beffe pubblicamente dei costumi, che imperavano. Dall'alto come dal basso essi erano infatti presi di mira, tanto dalla nobiltà superba e gaudente e dai gruppi capitalistici, che la scimmiottavano, quanto dalla massa degli infimi strati, che nella loro miseria e nella costante incertezza dell'esistenza, non si arrestavano dinanzi alla barriera della proprietà, nè rispettavano i vincoli di famiglia. Tra i due estremi stavano larghe zone grigie di avventurieri e di intellettuali, anch'essi spesso piombati nella stessa miseria, nella stessa precarietà di esistenza della plebaglia, ma ammessi a partecipare alla vita sensuale dei nobili e della gente d'affari.
Nessuna meraviglia che gli onesti cittadini della provincia e i contadini aborrissero l'immoralità sfacciata della Babele parigina, come gli abitatori di essa deridevano il filisteismo tedioso e i vieti pregiudizi dei provinciali. Lo stesso contrasto dal campo morale passava al religioso. Per il contadino, che viveva fuori del mondo, il prete era il solo intellettuale, che di lui si curasse, che gli facesse da mediatore col resto della società e gli comunicasse qualche nozione di un sapere trascendente il cerchio dell'orizzonte campanilistico.
Che poi questo sapere fosse omai di gran lunga superato dallo sviluppo scientifico, gli analfabeti della campagna non potevano neppure averne il sospetto. Essi si attaccavano alla Chiesa e alla religione, ma mostravano di rispettare di quella solo i beni spirituali, e non ebbero, come si sa, scrupolo di mettere le mani sulle sue terre. Pei Parigini all'incontro avevano minor importanza i beni della Chiesa, che non la sua dominazione e le dottrine religiose. Se nel medio-evo la Chiesa era stata lo strumento della coltura, omai dalla Rinascita la scienza laica, formatasi nelle città, s'era di gran lunga lasciata indietro quella ecclesiastica. Agli occhi dei cittadini la Chiesa anzichè servire all'allargamento del sapere, ne era diventata il maggior ostacolo. L'antagonismo si acuì, perchè gl'intellettuali ecclesiastici tentavano di difendersi mediante coercizioni statali dalla concorrenza degl'intellettuali laici, da cui si sentivano mano mano distanziare. E i laici rispondevano colle più affilate armi dello spirito, collo scherno implacabile da un lato, e dall'altro coll'indagine scientifica a fondo, conducendo la lotta contro la Chiesa tanto più vigorosamente, in quanto, procedendo cauti, riuscivano in talune circostanze a guadagnare l'appoggio o almeno la neutralità dei nobili preminenti e dei più alti funzionari. Questi non solo deridevano le dottrine della religione tradizionale, ma spesso trovavano incomoda la Chiesa cattolica, che non senza resistenze consentiva ad inquadrarsi nell'organismo politico. Perciò la lotta contro di essa era meno pericolosa di quella contro l'assolutismo, e fu prima intrapresa nello Stato dall'opposizione insorgente. Però anche qui troviamo un certo dissidio: le classi dirigenti si opponevano alla Chiesa là, dove questa voleva agire come un organismo autonomo, ma la consideravano come uno strumento indispensabile per dominare le classi inferiori. Anche nell'opposizione intellettuale si può notare la stessa distinzione; Voltaire coniò il motto: « écrasez l'infame » (la Chiesa), ma trovava che occorreva conservare la religione al popolo. Negli strati inferiori della popolazione parigina si trova il medesimo contrasto, che vale anche pei loro portavoce. Tutti, è vero, combattono la Chiesa e non vogliono più saperne; ma corrispondentemente alla situazione di classe del proletariato, la quale mai sempre spinge a trarre audacemente le conseguenze estreme e le soluzioni radicali, alcuni si facevano banditori dell'ateismo e del materialismo assoluto, altri invece si sentivano urtati da questo modo di vedere, perchè era poi anche quello degli sfruttatori dell'aristocrazia e del capitalismo — s'intende bene nel periodo prerivoluzionario. Il contrasto tra socialisti credenti e socialisti atei si mantenne in Francia fino al XIX° secolo.
Luigi Blanc nella sua « Storia della Rivoluzione francese » si schiera ancora con Rousseau e Robespierre contro Diderot e Anacharsis Clootz per la difesa della fede in Dio; « Essi comprendevano che l'ateismo santifica il disordine tra gli uomini, perchè presuppone l'anarchia nel cielo ». (Edizione di Bruxelles 1847. I. 124). Luigi Blanc dimentica che per gli atei il cielo esiste tanto poco quanto Dio. Come i diretti contrasti di classe anche tutte queste contraddizioni e questi dissidi dovevano condurre attraverso quella gigantesca scossa, che fu la grande Rivoluzione, ai più aspri conflitti.

3. La grande Rivoluzione.
Luigi XIV, quello stesso, che per paura dei Parigini aveva scelto come sua residenza Versailles, poteva spezzare le ultime velleità d'indipendenza dei nobili e diventava forte abbastanza per ingrandire in una serie di lotte coi suoi vicini il suo regno, facendone il più potente Stato d'Europa. Però raggiungeva ciò solo a prezzo di molte guerre, che spossavano completamente la Francia e la portavano all'orlo dell'abisso.
L'ultima sua guerra, quella per la successione di Spagna, che durò dal 1701 fino al 1714 e non portò alla Francia nessun frutto, avrebbe già potuto provocare una rivoluzione, se vi fosse stata fin d'allora una forte classe rivoluzionaria. L'amarezza contro il re era enorme. Lo si vide alla sua morte nel 1715. « Per risparmiare spese e tempo il suo convoglio funebre fu allestito nel modo più semplice; il popolo di Parigi, che si credeva liberato da un insopportabile giogo, perseguitò la bara del gran Re lungo le strade non solo con insulti e maledizioni ma con pietre e lordure. In tutta la provincia si levò un grido di gioia misto ad imprecazioni contro il defunto.
Dovunque si cantavano « Te Deum »; la gioia d'essersi liberati da questo despota si mostrava apertamente e senza ritegno. Tutti speravano dal Reggente pace, libertà, alleggerimento delle imposte. (M. Philippson: « I tempi di Luigi XIV », pag. 518).
Il popolo di Francia doveva fare altre amare esperienze coi successori del re Sole prima di giungere a prendere nel proprio pugno il suo destino nella grande Rivoluzione. Appena incominciava il paese a rimettersi alquanto, che fu precipitato in nuove guerre. Dal 1733 al 1735 vi fu guerra coll'Austria a causa della Polonia e della Lorena, dal 1740 al 1748 la Francia prese parte alla guerra per la successione d'Austria a fianco della Prussia contro Maria Teresa e l'Inghilterra, poi lottò dal 1756 al 1763 nella guerra dei 7 anni a fianco di Maria Teresa contro la Prussia e l'Inghilterra e dal 1778 al 1783 contro l'Inghilterra per appoggiare l'insurrezione degli Stati Uniti. Queste guerre non solo rovinarono il paese, ma furono anche condotte sciaguratamente, e certo non procacciarono gloria militare alla Francia. (Rossbach!).
L'assolutismo aveva prostrato coll'aiuto della borghesia, che si sforzava d'elevarsi, la nobiltà, ma con questo non intendeva estirparla, bensì dominarla senza controllo. Il re del resto si considerava come il capo di essa; la nobiltà gli era indispensabile; egli sceglieva di preferenza tra i nobili di corte a lui devoti, ministri e generali, ma nello stesso tempo rapiva alla nobiltà la sua indipendenza, la degradava in una vita di puro piacere, la faceva decadere moralmente e spiritualmente e l'avviava alla sua rovina economica.
E mentre cresceva il fallimento morale, intellettuale ed economico della nobiltà, crescevano anche le sue pretese sui contadini, le vessazioni senza misura e il loro impoverimento, donde la rovina dell'economia rurale, che era il fondamento della ricchezza dello Stato. Anche le pretese di questo sui disgraziati abitanti della campagna, che erano poi i principali contribuenti, crescevano nello stesso tempo, mentre i nobili, non contenti di rovinare lo Stato colla loro insipienza diplomatica e militare, cercavano di riparare alla decadenza economica dei loro possessi col saccheggio della ricchezza pubblica, e trovavano in ciò appoggio nella monarchia e nella Chiesa, che rappresentava nello Stato la maggior proprietà fondiaria.
Parigi stava di fronte a questa disgraziata situazione colla sua forte ed ambiziosa borghesia, con una numerosa classe d'intellettuali, che vedeva acutamente i mali dello Stato e dell'ordine sociale, li bollava a fuoco senza pietà, li flagellava a sangue molto più di quello che non potessero fare gl'intellettuali di ogni altra grande città europea, mentre al disotto stava una piccola borghesia, la più forte e la più cosciente dell'Europa, e un proletariato così compatto ed esasperato, quale non era possibile trovare in nessun altro luogo.
Un terribile conflitto diventava inevitabile non appena che questi contrasti si ripercuotessero l'uno sull'altro. E infatti proruppe quando la monarchia si trovò a non poter più andare avanti, perchè il suo indebitamento era tanto cresciuto che nessun banchiere voleva farle più credito e il fallimento batteva alle porte.
Gli Stati generali, che non si erano più convocati dal 1614, e che costituivano una rappresentanza per classi della nobiltà, del clero e della borghesia, dovevano, si pensò, venire in soccorso, votare nuove imposte e prestiti, e così rialzare il credito dell'assolutismo in procinto di fallire e prolungargli l'esistenza. Le elezioni per ogni classe furono indette nel 1789 e gli eletti convocati presso il re a Versailles.
Ma tutte le classi, ad eccezion fatta dei cortigiani, erano troppo irritate contro il sistema dominante; perciò gli Stati generali, dopo la loro convocazione del 5 maggio 1789, invece di votare imposte e crediti pretesero di riformarlo. Certamente nobiltà e clero vedevano la cosa un po' diversamente dalla borghesia, ma questa nell'urto delle classi finì per vincere. Gli Stati generali si cambiarono in Assemblea nazionale Costituente, che diede alla Francia un nuovo assetto.
Sulle prime la forza dell'Assemblea nazionale era soltanto morale e poggiava sulla coscienza, che dietro ad essa stesse l'immensa maggioranza della nazione. Questo però non la proteggeva abbastanza contro la forza materiale di un colpo di stato, e di questa forza la monarchia disponeva ancora, poiché era padrona dell'esercito e intendeva servirsene. Ma essa si ricordava della Fronda e di quell'altra forza materiale, di cui disponeva Parigi. Solo venendo a capo di Parigi, c'era la speranza di poter disperdere l'Assemblea o quanto meno piegarla. Vennero perciò raccolte numerose truppe in Parigi, e quando si credette di essere sicuri, si compì il colpo di Stato col congedo del ministro Necker, che l'Assemblea nazionale aveva imposto al re (12 luglio 1789).
Ora se Parigi stava queta ovvero scesa in campo era battuta dalle truppe, il destino della rivoluzione era pel momento segnato. Ma Parigi insorse, le truppe del re cedettero, le masse proletarie e quelle piccolo-borghesi forzarono gli Invalidi, vi presero 30.000 fucili ed abbatterono la Bastiglia, fortezza che dominava i sobborghi in rivoluzione (14 luglio 1789). Re e Corte erano insieme schiacciati, tanto più che anche il contadiname insorgeva in tutto il paese. Già altre volte si erano avute parziali agitazioni agrarie che facilmente erano state represse. Ma nessuna forza poteva ora resistere alla generale tempesta che si scatenava. Parigi salvò allora la rivoluzione e le diede il suo carattere universale. Però a poco a poco sembrò che l'uragano quietasse. Il re con i suoi devoti riprese coraggio, e cominciò ad osteggiare le decisioni dell'Assemblea ed a circondarsi di nuove truppe. I Parigini allora si convinsero, che non sarebbero mai stati sicuri finchè le due teste dello Stato: re ed Assemblea, restavano a Versailles. Essi li vollero direttamente sotto la loro sorveglianza e sotto la loro azione. Il 5 ottobre 1789, grandi masse di popolo uscirono dalla capitale dirette su Versailles e si portarono via il re.
Ora il popolo sperava di avere pace e di potersi dedicare indisturbato all'elaborazione della costituzione e ad un lavoro pratico, dal quale era atteso un sicuro benessere entro i nuovi rapporti politici. Il 14 luglio del 1790 Luigi XVI giurò fede alla nuova costituzione, sebbene con molte intime riluttanze. Egli si sentiva prigioniero nelle Tuilleries; tutti gli atti del suo governo gli dispiacevano in fondo all'animo.
E non era ancor trascorso un anno dal suo giuramento, ch'egli fuggiva segretamente (21 giugno 1791) ed era così imprudente, che prima di trovarsi in luogo sicuro, aveva voluto confessarsi al popolo. Infatti s'era lasciato dietro uno scritto, dove dichiarava che tutte le concessioni fatte dall'ottobre 1789 in poi gli erano state estorte, e quindi non avevano valore. Ciò era per parte sua prematuro, poichè fu riconosciuto nella fuga, arrestato e ricondotto a Parigi.
Già d'allora una gran parte del popolo irritato domandava la deposizione del re; ma la tradizione monarchica era ancora troppo profonda nella maggioranza, perchè questo potesse riuscire. Eppure ciò avrebbe salvato Luigi, chè allora gli sovrastava solamente il pericolo della deposizione.
Peggiorò la sua sorte quando la Francia venne in guerra colla coalizione monarchica europea (aprile 1792). Questa guerra, diversa dalle precedenti, non era sorta per acquistare più o meno di territorio. Era una guerra fatta dalla nobiltà feudale e dall'assolutismo europeo contro un popolo, che si era affrancato e che avrebbe dovuto essere riposto sotto il giogo, una vera guerra civile con tutti gli orrori, che tal sorta di lotte comporta. Il nemico esterno minacciava lo sterminio del popolo rivoluzionario, e l'alleato del nemico era lo stesso re.
In questa situazione l'idea monarchica perdette presto ogni forza, sebbene l'assemblea non sapesse decidersi ad abbandonarla; e furono di nuovo i Parigini che forzarono all'imprigionamento di Luigi e alla convocazione di una nuova Assemblea, la Convenzione, che doveva dare alla Francia una costituzione repubblicana (10 agosto 1792). Nella sua prima seduta la Convenzione decretò ad unanimità l'abolizione della monarchia (21 settembre 1792). Ma i Parigini credevano che la repubblica non fosse sicura, finché viveva Luigi XVI. E pretesero che gli fosse fatto il processo per tradimento contro lo Stato. Indietreggiava spaventata la maggioranza della Convenzione, ma l'ira dei Parigini diventò irrefrenabile, quando essi seppero che era stato scoperto un armadio segreto nelle Tuilleries, in cui il re Luigi aveva nascosto un pacco di documenti, che dimostravano come il re avesse corrotto con denaro molti parlamentari, tra i quali Mirabeau, com'egli mantenesse rapporti col nemico e come una parte delle sue guardie, che ormai combattevano contro la Francia nelle schiere degli Austriaci, fossero state al suo soldo, anche durante la guerra. Ciò non ostante una parte della Convenzione cercava di salvare il re: essa voleva l'appello al popolo: il destino di Luigi sarebbe stato deciso da un plebiscito. Questo tentativo di mettere la provincia contro la capitale incontrò la più fiera opposizione dei Parigini. La paura di essi ebbe finalmente il sopravvento nella Convenzione: l'appello al popolo fu respinto con 423 voti contro 276, e il destino del re fu deciso. Il 21 gennaio 1793 egli saliva il patibolo.
Quella parte dei repubblicani che avevano tenuto più per il re, erano i Girondini, così detti perché i deputati, che costituivano il nocciolo di questo partito, erano stati eletti nel dipartimento della Gironda. Essi diventarono i più furibondi contro Parigi, il cui predominio volevano abbattere. Per loro la Francia doveva essere una federazione. « Quattro giorni dopo l'apertura della Convenzione, il girondino Lasource tra gli applausi dei suoi compagni esclamava: Non voglio che Parigi, guidata dagl'intriganti, diventi per la Francia ciò che fu già Roma per l'impero romano. L'influenza di Parigi dev'essere ridotta ad 1/83°, cioè alla quota di ogni altro dipartimento » (Cunow: « I partiti della grande rivoluzione francese », pag. 349).
Il contrasto tra i girondini e Parigi finì per prendere la forma più aspra; nelle sommosse dal 31 maggio al 2 giugno 1793 i Parigini ottennero dalla Convenzione l'espulsione e l'arresto di 34 girondini. La risposta fu l'assassinio di Marat per opera della girondina normanna Carlotta Corday (13 luglio), e quindi il tentativo dei girondini di sollevare la Normandia, la Bretagna e la Francia meridionale contro la Convenzione. Al che i Parigini rispondevano colla esecuzione capitale dei girondini rimasti in Parigi (31 ottobre).

4. — La prima Comune di Parigi.
a) Il proletariato parigino e i suoi mezzi di lotta. — Fin qui sempre abbiamo parlato dei Parigini. Naturalmente non abbracciamo sotto questa espressione l'intera popolazione della capitale, la quale si spezzava in classi apertamente contrastanti. Col nome di Parigini si deve intendere la grande massa della popolazione della capitale, piccola borghesia e proletariato. Certo quest'ultimo non è da pensarsi col concetto che abbiamo del proletariato moderno, frutto della grande industria. V'erano bensì in Parigi alcune manifatture, ma la maggior parte della sua popolazione operaia o era occupata in mestieri di varia specie, come manovali e facchini, o era costituita di artigiani inscritti nelle rispettive corporazioni, che aspiravano a diventare lavoratori liberi. V'erano inoltre molti piccoli rappresentanti dell'industria domestica e rivenduglioli di ogni specie, che vivevano nella più grande miseria e nella più tormentosa incertezza. Ciò che creava loro una condizione sociale di proletari era appunto questa miseria e questa precarietà; mentre, giudicati come classe, ossia giudicati sulle fonti del loro reddito, essi erano dei piccoli borghesi, il loro ideale era quello di una comoda esistenza da borghesucci. Non c'è maggior errore che il confondere la situazione di reddito colla situazione di classe, come fece Lassalle, e come fanno ora quei nostri compagni russi, quando credono che il contadino povero abbia interessi di classe diversi da quelli del contadino benestante, anzi abbia gli stessi interessi di classe del salariato urbano. Ciò è tanto falso come il ragionamento di quelli che credono che i piccoli capitalisti abbiano un interesse diverso dai grandi e il loro contrasto col capitale bancario coincida col contrasto di classe del proletariato di fronte al capitale. I piccoli capitalisti vogliono diventare grandi; i piccoli contadini vogliono aumentare i loro possedimenti, questo e non una società socialista è il loro scopo. Gli uni come gli altri vogliono aumentare le loro entrate alle spalle dei lavoratori: quelli con bassi salari e lunghi orari, questi coll'alto prezzo delle derrate.
Così erano i bassi strati di Parigi, al tempo della rivoluzione, dal punto di vista della classe, piccoli borghesi non ostante le proletarie condizioni della loro esistenza. Queste non suggerivano loro nessun scopo sostanzialmente diverso da quello degli altri borghesi più fortunati, soltanto consigliavano loro dei mezzi di lotta, che erano poco simpatici ai benestanti. Quello che ha fame non può aspettare, disperato com'è non riflette sulla scelta dei mezzi, poco gl'importa della vita, nulla ha da perdere se non le sue catene, tutto osa in un tempo di crisi, quando egli crede di poter conquistare il mondo. Così i proletari, la grande massa della popolazione di Parigi, diventarono la forza, che spinse innanzi nella via della rivoluzione. La audacia della disperazione li fece padroni di Parigi, fece Parigi padrona della Francia, e condusse la Francia a trionfare dell'Europa.
L'insurrezione armata fu il suo strumento, e se queste sommosse non sgorgavano dalle circostanze stesse, non erano però senza qualche preparazione. Chè anzi risultavano da una organizzazione, pur venendo fuori dagli spontanei impulsi della massa, non dalla volontà dei suoi capi, ed è per questo che ebbero talvolta una violenza irresistibile. Una rivolta, che per scoppiare dev'essere provocata dai capi, e che non sorge dal basso, manca per ciò solo dello slancio necessario ed è votata all'insuccesso. Finchè la rivoluzione fu nel suo periodo di ascensione, furono le masse, quelle che sospinsero, e i capi quelli che furono sospinti, e per tutto quel tempo si andò innanzi. Quando accadde l'opposto, e i capi sentirono il bisogno di spronare le masse alla lotta, allora la rivoluzione entrò nel periodo decrescente.
Ma se una rivolta può contare sul successo soltanto, quando s'inizi spontaneamente, e non venga occasionata dai suoi pretesi capi, ciò non vuol dire ch'essa possa avere la speranza di vincere, se non si organizza. Le insurrezioni parigine di quell'età poggiavano sopra l'organizzazione delle masse. Già nella prima sommossa, l'assalto alla Bastiglia, si palesarono elementi di organizzazione, che divennero in seguito più stretti e durevoli. Nella rivoluzione ogni Comune pretese alla propria maggiore indipendenza. La Costituente colla legge del 22 dicembre 1789 consolidò quella situazione, che si era creata da per tutto in seguito all'improvviso esautoramento del potere statale.
I Municipi ottennero un alto grado di autonomia, tutta quanta la polizia locale ed anche il comando della milizia cittadina, la guardia nazionale, che si era formata nelle città. Però nello stesso tempo la borghesia faceva in modo da escludere dal potere le classi inferiori. L'Assemblea nazionale operava una sottile distinzione tra cittadini attivi e passivi. Attivi erano quelli che pagavano un'imposta diretta pari ad almeno tre giornate di salario, conteggiato secondo gli usi locali. Solo questi avevano il diritto di voto per la elezione della rappresentanza comunale e all'Assemblea nazionale. Solo tra questi si reclutava la guardia nazionale. Questi corpi politici si svolsero quindi nel senso di diventare rappresentanze dei possidenti. Ma in Parigi anche i cittadini passivi si organizzarono come pure gli amici, che contavano nelle file dei cittadini attivi, accanto alle ufficiali rappresentanze dei Comuni, armandosi anche per proprio conto.
Le elezioni agli Stati generali s'erano fatte per la borghesia il più delle volte indirettamente, ma con un suffragio quasi universale. « Per le elezioni, la città di Parigi era stata divisa in 60 distretti, che dovevano scegliere gli elettori. Dopo che questi fossero stati nominati dovevano i distretti scomparire. Ma essi si mantennero, organizzandosi di propria iniziativa come organi permanenti dell'amministrazione cittadina. Essi non si lasciarono rimovere e in quel momento, in cui prima del 14 luglio ( assalto della Bastiglia) tutta Parigi era in subbuglio, cominciarono ad armare il popolo e a mettersi innanzi come indipendenti... Dopo la presa della Bastiglia, i distretti si presentarono già come organi riconosciuti della municipalità. Per intendersi fra di loro, costituirono un ufficio centrale dove si raccoglievano speciali delegati e si facevano reciproche comunicazioni. Così dal basso in alto, attraverso la rete delle organizzazioni distrettuali, le quali erano sorte in modo rivoluzionario dall'iniziativa popolare, si costituì il primo tentativo della Comune... Mentre l'assemblea nazionale scalza a poco a poco il potere del re, i distretti, e quindi anche le sezioni, allargano via via la sfera dei loro poteri nel popolo; esse rappresentano il legame tra Parigi e le provincie e preparano il terreno per la Comune rivoluzionaria del 10 agosto ». (Krapotkin, « La Rivoluzione francese n, I, pag. 174-79. Corrispondentemente al suo punto di vista anarchico, Krapotkin ha specialmente messo in rilievo la storia della Comune nella rivoluzione. La si può quindi meglio studiare nella sua opera, oltre che in altri scritti speciali. Deficiente è invece in Krapotkin la parte relativa all'attività parlamentare).
L'Assemblea nazionale cercò di porre termine alle assemblee distrettuali. Colla legge del 27 maggio 1790 furono mutate le circoscrizioni elettorali di Parigi. Al posto dei 6o distretti si misero 48 sezioni. Solo i cittadini attivi potevano partecipare alle loro riunioni. Ma i cittadini passivi non si tennero al divieto. Le sezioni diventarono il centro dell'attività rivoluzionaria, e presto non vi fu questione comunale o statale, di cui esse non si occupassero, e alla cui soluzione non concorressero efficacemente. Quindi attrassero sempre più a sè l'amministrazione comunale, di cui si presero cura o direttamente o per mezzo di delegati e deputazioni. Da ciò dipendeva che la generale riunione delle sezioni funzionasse ininterrottamente. Soltanto colla sua permanenza essa poteva esplicare una così intensa attività.
Il 10 agosto del 1792 le sezioni rimossero la municipalità omai diventata impotente e ne formarono una nuova, la Comune rivoluzionaria, cui ogni sezione inviò tre commissari. Di qui s'inizia quella Comune parigina, la quale appoggiata alle sezioni, determina il corso della rivoluzione.
La storiografia usuale non ha apprezzato le sezioni come meritano. Il lavoro di esse era quello della folla anonima. I grandi nomi della rivoluzione brillano più nel Club dei Giacobini che non nelle sezioni. Ma ciò che il club ha compiuto, lo ha fatto attraverso di quelle, e per di più esso ebbe spesso l'ufficio di trattenere e di ritardare. Solo i proletari, che non hanno nulla da perdere, potevano precipitarsi senza indugio audacemente verso l'incognito.
b) Le cause del Terrore. — Il proletariato parigino, per mezzo della Comune, aveva acquistata una posizione predominante nella Francia rivoluzionaria. Però essa implicava un contrasto, come la posizione di Parigi nella nazione, come quella degli stessi proletari nella società.
Piccoli borghesi, secondo la loro coscienza di classe, essi stavano per la proprietà privata dei mezzi produttivi e non potevano superare questa posizione, perchè avevano bisogno della proprietà per sviluppare la produzione e conservarsi in vita; ma come poveri diavoli stavano con animo ostile di fronte alla proprietà dei ricchi, il cui benessere li offendeva e la cui ricchezza scaturiva dalla loro miseria. Ed era appunto questa loro avversione contro le grandi fortune feudali e capitalistiche, che avevan fornito loro quell'energia per combattere i contro-rivoluzionari; energia, che in grazia della preminente posizione di Parigi aveva fatto di essi i campioni della rivoluzione nell'interesse della grande maggioranza della nazione. Nelle forti lotte contro il feudalismo e la monarchia in Francia, e contro l'intera Europa monarchica, il proletariato rivoluzionario di Parigi aveva dietro di sè la forza totale della nazione più potente del mondo. Con questa poteva sfidare i potentati dell'intero continente. La forza di quella era la sua forza. In quel tempo si formò la potente coscienza rivoluzionaria del lavoratore parigino, che fece di lui fino ai giorni della seconda Comune, fino agli ultimi decenni del secolo passato, il meraviglioso modello di tutto il combattivo proletariato internazionale.
Ma la stessa classe era formata dai più poveri consumatori di Parigi, che bramavano sopratutto i viveri a buon mercato. E questo ancor più nei giorni della rivoluzione, che fu una rivolta della fame nel senso letterale della parola.
In ciò stavano i Parigini poveri in pieno contrasto coi contadini, coi mercanti, coi finanzieri, con tutti quegli elementi, che allora erano massimamente favoriti dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, e la cui abolizione non era possibile per il predominio della piccola impresa, cosicchè non fu mai tentata, e appena se ne fece qualche propaganda. Allorchè i proletari anche in questo campo di contrasto vollero far valere la loro potenza in Parigi e la potenza di Parigi sulla provincia, furono costretti a sentire che alla lunga non potevano affermarsi come minoranza contro la maggioranza. L'opera loro falliva non ostante i loro precedenti trionfi. I proletari erano entrati nella rivoluzione colla speranza ch'essa avrebbe spazzato via colla miseria feudale ogni forma di miseria, come aveva promesso e creduto la borghesia. Ora essi avevano guadagnato libertà politica e forza, ma soltanto il borghese e il contadino erano giunti al benessere. La povertà dei grandi centri non diminuiva, anzi essa era diventata in certi momenti spaventevolmente acuta. La fame e il rincaro sono le stigmati di tutto il periodo della rivoluzione. Per lo più si spiegano col fatto, che si seguirono allora molti anni di cattivi raccolti. Mi pare però che la fame durante la rivoluzione, non si possa ricondurre soltanto a quella coincidenza, ma dipenda strettamente dalla rivoluzione stessa.
La produzione agricola era ancora in quel tempo più che sufficiente; il contadino all'infuori degli articoli di lusso non aveva quasi bisogno dei prodotti industriali della città. Non solo egli produceva i propri mezzi di sostentamento, ma anche rozzi tessuti, che da sè fabbricava. Come pure erano di fabbricazione domestica i suoi semplici mobili ed arredi, e qualche artiere di villaggio gli procacciava il resto. Ciò che lo costringeva a vendere derrate alimentari alla città, non era tanto il suo bisogno di prodotti industriali, quanto quello di aver danaro per pagare le imposte, che lo Stato esigeva da lui. Non le poteva pagare, se appunto non portava al mercato cereali, bestiame, vino, od altri prodotti della terra. Oltre a ciò egli doveva ai signori feudali tributi in natura e « corvées » sui fondi signorili. La massa di questi prodotti, che in tal modo si raccoglievano nelle mani dei feudatari, in parte erano da questi consumati e per la più parte venduti per procacciarsi danaro da spendere nella vita di piacere della città. Così tasse e carichi feudali fornivano per una parte il danaro che rifluiva verso Parigi e là veniva speso, e per un'altra parte i prodotti che, comperati con questo denaro, servivano a nutrire i Parigini. La rivoluzione pose un termine ai gravami feudali e transitoriamente anche alle tasse, perchè lo Stato mancava d'ogni forza per poterle esigere. I contadini perciò non erano più come per lo innanzi costretti in così alta misura a vendere. Essi approfittavano della nuova libertà per saziarsi e porre così fine a quel lungo affamamento, a cui Stato e feudalità li avevano condannati. Quanto a ciò che lor sopravvanzava di prodotti da vendere, pensavano ora di rimetterli a più alto prezzo. Poichè niente li costringeva al buon mercato. Così doveva sorgere un rincaro e un contrasto tra Parigi e la provincia, che assunse talvolta forme asprissime. Nell'anno 1793 la Convenzione formò un esercito rivoluzionario di 6000 uomini, i quali dovevano percorrere i villaggi e requisire i viveri per conto di Parigi, proprio come testè è accaduto in Russia e presso a poco collo stesso insuccesso. E' questo uno dei molti tratti che fanno l'attuale rivoluzione russa così simile anche nel lato esteriore alla grande rivoluzione borghese del XVIII secolo. Il contrasto si acuì a causa della guerra, la quale portava al blocco della Francia ed impediva che alla mancanza dei viveri si riparasse coll'importazione dall'estero. Ciò aumentò l'affamamento dei Parigini, ma portò anche al popolo delle campagne i gravi pesi della guerra e sopratutto il servizio militare obbligatorio.
I Parigini erano massimamente interessati alla vittoria, perchè una sconfitta avrebbe prima di ogni altra cosa colpito la capitale, come centro della rivoluzione. Ma qui anche, il sentimento nazionale toccava il suo apice. La grandezza e la forza di Parigi erano inseparabili da quelle dello
Stato.
I Montagnardi, che formavano l'estrema sinistra della Convenzione, coniarono la formula della Repubblica una ed indivisibile, e la parola patriota ebbe lo stesso significato di rivoluzionario estremo. Ben diverso era il contegno dei contadini di fronte alla guerra: certo quelli che stavano sui confini volevano liberarsi dall'invasione nemica, tanto più che sentivano la minaccia di una restaurazione dei diritti feudali in caso di vittoria dello straniero. Per questo essi erano tanto patrioti quanto i Parigini, come si vede sopratutto in Alsazia. Ma quelli che erano lontani dalla frontiera, sentivano diversamente, poichè nessuna invasione li minacciava. Questi non comprendevano il significato politico della guerra, ma ne sentivano solo il peso, imposto loro dai Parigini regicidi ed atei. Alcune regioni, come la Vandea, la Normandia e la Brettagna, potevano, nel loro contrasto con Parigi, essere spinte talvolta così innanzi da precipitare nella sollevazione aperta, quando trovassero una guida. E questa fu loro talvolta offerta dai nobili retrivi. Ma già anche la borghesia rivoluzionaria, incarnata nel partito girondino, aveva tentato una simile rivolta della provincia contro Parigi, come si è visto. Gli uomini di finanza si mettevano, come i contadini, in contrasto coi proletari e coi piccoli borghesi, anzi il loro contrasto si faceva anche più aspramente ed immediatamente sentire. Non era già quello odierno dei lavoratori coi capitalisti industriali, che allora non rappresentavano nessuna parte importante. Anche dopo la rivoluzione Saint-Simon annoverava questi ultimi tra le classi lavoratrici. Era invece l'opposizione contro il capitale monetario e commerciale, contro gli usurai, gl'incettatori, gli speculatori, i mercanti. Non è che questi creassero la carestia dei viveri, ma la sfruttavano, acuendo il disagio. E non c'è bisogno che noi ci soffermiamo a descriverlo, poichè una condizione simile la esperimentiamo noi stessi da circa 5 anni. In piena miseria, i guadagni fatti sul rincaro della vita, provocavano un'indignazione particolare. Ad essi si accompagnavano anche, dal 1792, i profitti dei fornitori militari e per di più quelli degli speculatori sui terreni. L'Assemblea nazionale aveva incamerato i beni della Chiesa, all'incirca un terzo della proprietà terriera in Francia. Poi vennero quelli degli emigrati, che esulavano per andare a combattere dal di fuori la rivoluzione. Anche le loro proprietà erano state confiscate; ma tutta questa immensa massa di beni non rimase proprietà pubblica, nè venne ripartita tra i contadini poveri, bensì messa in vendita. Questo si fece a causa del dissesto della finanza, quello stesso che aveva dato l'ultima spinta alla rivoluzione, che però non era riuscita a ripararvi, ché anzi sempre più si accresceva, in quanto i contadini non pagavano più nessuna imposta. Il profitto della alienazione delle terre confiscate toccò a quelli, che con poco danaro se ne accaparrarono grandi porzioni, spesso allo scopo di dividerle e di rivenderle in lotti a prezzi sempre più alti. Il disavanzo dello Stato venne di poco diminuito, ma la speculazione sulle terre allignò largamente. Allo Stato in quel disagio rimaneva ancora il comodo rimedio della carta moneta. L'emissione degli assegnati cominciò, e prese ben presto una proporzione enorme, il che diventò una nuova causa del rincaro, nonchè delle oscillazioni più fantastiche della valuta e dei prezzi, ciò che non tardò ad essere sfruttato a lor talento dagli speculatori e dagli usurai.
Così sulle rovine della vecchia proprietà feudale ne crebbe una nuova, la capitalistica, e il suo sviluppo fu parallelo a quello della miseria e crebbe nella misura stessa in cui sempre più
si faceva sentire il predominio dei proletari.
Questa bizzarra situazione mostrava chiaramente come poco il nudo possesso del potere politico sia in grado di sopprimere l'azione delle leggi economiche, quando a tal effetto non sussistano le necessarie condizioni sociali. Ma i proletari parigini erano affamati e « in uno stomaco affamato trovano adito soltanto la logica della minestra e gli argomenti della pietanza ».
Essi non tenevan conto di ciò che è possibile sotto determinate condizioni economiche e di ciò che è inevitabile. Essi possedevano la forza ed erano decisi di servirsene per raggiungere quel regno della uguaglianza, della fratellanza e del generale benessere, che i filosofi della borghesia avevan loro promesso; e poichè non era lor consentito di cambiare il processo di produzione, tentavano coll'aiuto dei loro mezzi politici di mutare almeno la partizione dei prodotti di questo processo con dei sistemi, che pur troppo i nostri giorni ci hanno di nuovo fatto conoscere a sazietà: calmieri, prestiti forzati, che corrispondono all'incirca ai nostri contributi di guerra e simili violenze, le quali tutte allora ancor peggio d'adesso riuscivano a fronteggiare la miseria, dato il grande frazionamento della produzione di quei tempi, la deficienza della statistica, l'impotenza dello Stato di fronte ai Comuni. Sempre più stridente si mostrava la contraddizione tra la forza politica del proletariato e la sua situazione economica. Ed oltre a ciò sempre più aumentava la tribolazione a causa della guerra. Questo spingeva i mandatari del proletariato nella loro disperazione ad afferrarsi ai mezzi estremi, alle misure di sangue, al terrore.
c) L'insuccesso del terrorismo. — I piccoli borghesi rivoluzionari e i proletari di Parigi dominavano per mezzo della Comune tutta la Francia. Essi però si guardavano bene dall'esercitare direttamente questa potenza e dar la parola d'ordine: ogni potere alla Comune. Essi sapevano che lo Stato si poteva tenere insieme e governare soltanto mediante un'Assemblea che rappresentasse l'intero paese, quindi si guardavano dall'attentare all'Assemblea nazionale, alla Convenzione. Dominavano non senza o contro di essa, bensì per mezzo di essa.
Anche Lenin deve avere progettato una simile politica, altrimenti non si capirebbe perchè egli avesse lasciato fare le elezioni per la Costituente e l'avesse convocata. Ma la Comune fu più felice di lui; essa seppe rendersi utile questo importante strumento, che Lenin fin dal primo giorno sdegnosamente gettò via.
E' vero che nella Convenzione il partito della Montagna, che andava a braccetto colla Comune, si trovava in minoranza, ma la maggioranza non era solo formata di uomini politici dotati di carattere e di forti convinzioni. Molti di essi si mostravano instabili e mal sicuri. Essi si lasciavano impressionare dall'ambiente parigino, e quando questo non fosse sufficiente ad indurli a votare colla Montagna, bastava che si esercitasse sopra di loro un'energica pressione per strappare ad essi il voto desiderato. Coll'aiuto di questi molluschi della « Palude » la Montagna disponeva della maggioranza nella Convenzione. Però nell'incalzare delle vicende, che spesso esigevano misure urgenti, il potere legislativo della Convenzione non sempre bastava. Le sue stesse leggi apparivano impotenti ad ovviare ai mali e ai bisogni della società. Ogni legge oppressiva, per quanto sia forte, per il fatto stesso che prescrive determinate regole, pone alla propria efficacia certi limiti e offre con ciò agli oppressi il destro di potersene servire a proprio talento. Ogni politica d'oppressione, che va contro fatti, i quali hanno la loro profonda ragion d'essere nelle condizioni reali, e perciò non sono eliminabili, si vede prima o poi costretta a sciogliersi dai vincoli legali, ch'essa stessa ha creato per trasformarsi in un'oppressione illegale, in una Dittatura.
Questo, e non altro, è il significato della Dittatura, quando s'intenda per essa non un solo stato di fatto, ma una forma di governo.
E' un puro fatto d'arbitrio, che naturalmente può essere esercitato soltanto da un piccolissimo gruppo, il quale vi si adatta senza vincoli formali, ovvero da un solo. Ogni più ampia cerchia abbisogna per la sua cooperazione di regole determinate, di un ordine sociale, e perciò dev'essere tenuta insieme da leggi.
Il tipo della Dittatura come forma di governo è quella personale. Una Dittatura di classe è un non senso, non essendo possibile pensare dominio di classe senza leggi.
Poichè le leggi repressive contro usurai, speculatori e retrivi fallivano, i proletari si afferrarono alla Dittatura.
Già dal 25 marzo 1793 la Convenzione creava un « Comitato di salute pubblica e di difesa generale », il quale di giorno in giorno acquistò i diritti di un potere assoluto, e i cui membri furono in numero ristrettissimo: prima 25 e poi ridotti a 9. Le deliberazioni erano segrete. Il Comitato controllava ministri e generali, nominava e destituiva impiegati ed ufficiali, spediva commissari con pieni poteri, e prendeva tutte le disposizioni, che ritenesse necessarie. I ministri le dovevano eseguire senza ritardo. Certo il Comitato era responsabile de' suoi atti all'Assemblea, ma ciò diventava una pura formalità, poichè l'Assemblea tremava dinanzi ad esso. Per mettere qualche freno alla sua onnipotenza, si decise che esso si rinnovasse ogni mese, e che non potesse competergli alcuna disposizione sull'erario. Il Comitato di salute pubblica non tardò a diventare un organo esclusivo della Montagna. E quanto più s'accrebbero i suoi poteri dittatoriali, tanto più in esso si accentuò l'onnipotenza dittatoria di una sola persona: Robespierre.
Come strumenti della Dittatura sorsero due maggiori istituzioni, che potevano agire quasi arbitrariamente, un ufficio di polizia, « Comitato di sicurezza generale », e il « Tribunale rivoluzionario », che giudicava su tutti gli attentati controrivoluzionari e tutte le offese alla libertà, uguaglianza e incolumità della patria. Bastava essere sospettati e denunciati da un « patriota » per essere da questo tribunale condannati a morte, senza possibilità d'appello. Luigi Blanc descrive nella sua « Storia della Rivoluzione francese » l'organizzazione del governo del Terrore nel modo seguente:
« Noi troviamo un infaticabile club, quello dei giacobini, che del suo soffio vivifica Parigi: Parigi che divisa in una serie di assemblee popolari, chiamate sezioni, esprime attraverso di esse il suo pensiero. La Comune, centro delle sezioni, trasmette all'Assemblea nazionale la volontà di Parigi. E l'Assemblea traduce in leggi queste volontà. Il Comitato di salute pubblica dà ad esse vita in ogni campo; nell'amministrazione, nella scelta degl'impiegati, nell'esercito, nella provincia per mezzo di commissari; in ogni parte della repubblica per mezzo di comitati rivoluzionari.
Il Comitato di sicurezza pubblica ha il còmpito di rintracciare ogni velleità di resistenza.
Il tribunale straordinario rivoluzionario si affretta a colpirla. Tale era il meccanismo rivoluzionario (« Histoire de la Révolution française », Bruxelles, 1856, II - 519).
Il terribile apparecchio entrò in funzione senza scrupoli. Si sperava di finirla col contrabbando, coll' usura e colla speculazione, decapitando contrabbandieri, usurai e speculatori. Ma la situazione economica men che mai era tale da alimentare la fede che i mestieri ed i lavori manuali d'altri tempi potessero rifiorire. Chè anzi più che mai ognuno, che non disponesse di danaro, di molto danaro, precipitava nella più squallida miseria, almeno nelle grandi città. Il Terrore non scoraggiò la corsa al danaro, ma spinse soltanto l'acquisto di esso sulla via della frode e creò una nuova fonte di arricchimento e di corruzione nella malversazione. Quanto più diventò pericoloso farsi sorprendere, tanto più quelli, che erano colti, furono proclivi a comperare il silenzio dei denunciatori dei loro imbrogli, colla cessione di una parte del loro bottino e, crescendo la miseria, cresceva anche la tentazione per ogni funzionario dell'amministrazione di procacciarsi, chiudendo un occhio, qualche risorsa. Così non ostante ogni infuriare della ghigliottina, sempre nuove fortune si formavano, spuntavano nuovi capitalisti al posto di quelli decapitati, nè per questo diminuiva la fame. I nuovi capitalisti derivavano spesso direttamente dalla piccola borghesia e dal proletariato, dalle schiere rivoluzionarie, in cui essi avevano contato tra i più destri ed arditi. Non però tra i più saldi di carattere. Chè i migliori tra i rivoluzionari, i più altruisti e devoti, erano stati distrutti nelle lunghe lotte, sia nella difesa della frontiera, sia nella guerra civile. Perciò le file del proletariato rivoluzionario erano state doppiamente assottigliate colla morte dei migliori e coll'ascensione dei più scaltriti alla classe degli sfruttatori, perdendo così da due parti i suoi elementi più attivi. Il resto diventava sempre più disanimato ed apatico. La rivoluzione durava già da quattro anni; essa aveva portato ai contadini ed ai finanzieri profitti e talvolta ricchezza, ma pei proletari, i quali avevano combattuto senza riposo e colla maggior devozione, e che erano anche finalmente riusciti a riunire in sè la forza della Francia, essa non solo non aveva fatto cessare la fame, ma anzi molto più accresciuta.
Nè migliorò la loro situazione il sanguinario governo del Terrore. Qual vantaggio potevano ancora aspettare dalla politica? Incertezza, scoraggiamento, stanchezza cominciavano a serpeggiare tra essi. Inoltre, il potere della Comune di Parigi esigeva da essi le più gravi incombenze. Abbiamo visto che la forza delle sezioni riposava sul fatto, che tutti i cittadini partecipassero continuamente alla loro azione, e che le sezioni sedessero senza interruzione e sbrigassero tutte le faccende dell' amministrazione e della politica. Alla lunga ciò diventava impossibile. I proletari e i piccoli borghesi delle sezioni dovevano pure anche lavorare e produrre, altrimenti di che avrebbero potuto vivere ? Con un lavoro saltuario sempre interrotto, essi non potevano andare avanti. Finchè il sacro fuoco della rivoluzione li accese, finchè essi sperarono il benessere economico dal movimento politico, poterono rassegnarsi alla rovina che li minacciava. Ma quanto più cominciarono a dubitare, tanto più anche ritornarono a cercare la loro salvezza nel lavoro produttivo, invece che nella politica. Essi si lasciarono ognor più e più facilmente strappare, una dopo l'altra, le funzioni, che spettavano alle sezioni, e permisero ch'esse passassero ad impiegati stipendiati dallo Stato; donde si iniziò l'ulteriore accentramento burocratico dell'Impero. Nel contempo accadde, che nelle sezioni i benestanti e i loro dipendenti, in una o in un'altra forma da essi stipendiati, prevalessero in numero, poiché disponevano di tempo sufficiente, laddove i proletari e i piccoli borghesi, obbligati al lavoro, diventavano sempre più rari, col pericolo che i primi finissero per guadagnare la maggioranza.
Un sintomo del regresso dell'attività rivoluzionaria nelle sezioni si ha nella deliberazione della Convenzione (9 settembre 1793), che ridusse il numero delle adunanze a due per settimana e accordò ad ognuno, che vivesse del proprio lavoro manuale, due franchi per seduta. Ciò non impedì che la stanchezza di queste assemblee aumentasse. Intanto mutavasi anche il rapporto tra la massa ed i suoi capi. Nel periodo ascendente della rivoluzione la massa aveva spinto innanzi i suoi timidi duci, infondendo ad essi la propria energia e fede nella vittoria. E questo è il vero rapporto tra la massa e i suoi capi, là dove un movimento popolare è impostato con successo. I capi sono sempre più tardi che la massa, perchè essi meglio di questa considerano tutte le possibilità e vedono più chiaramente tutte le difficoltà. Ma ora i dirigenti si trovavano in tal situazione, che per potersi mantenere, per non precipitare abbisognavano di sempre rinnovati impulsi della massa, mentre appunto questa cominciava a diventare ognor più stanca ed incerta. Ora dovevano i capi studiarsi di eccitare ed infiammare il popolo. Questo rapporto mostra in un movimento popolare che ad esso manca la forza interiore, sia che non la possieda ancora, sia che l'abbia già perduta.
Il governo per riscaldare le masse doveva darsi l'apparenza della forza, doveva ubriacarle ed illuderle sul fallimento dei risultati sociali ed economici. La furia sanguinaria poteva produrre questo effetto. E questo fu l'incentivo per spingere innanzi il Terrore e farlo salire al più alto grado. Agiva infine nella stessa direzione la crescente nervosità dei dirigenti, che si sentivano vacillare il terreno sotto i piedi. Colla disperazione cresceva l'amarezza non soltanto contro gli avversari di classe, ma anche contro gli affini, ed anche aumentavano le divergenze e gli screzi nel proprio campo. I dirigenti sentivano che ogni errore, ogni imprudenza potrebbe diventare fatale.
Sempre si commettono sciocchezze, ma in una rivoluzione ancor più che nei tempi ordinari, perchè le passioni sono più eccitate, e i rapporti nuovi ammucchiano improvvisamente difficoltà straordinarie. E' un segno caratteristico del momento ascendente di una rivoluzione, ch'essa. continui il suo corso irresistibile non ostante ogni errore. Al contrario nel periodo di regresso, la più piccola deficienza può diventare esiziale. I dirigenti, sentendo sempre più la precarietà della loro situazione, ancor più acerbamente avversavano l'un l'altro le loro differenti direttive tattiche, e per salvare la rivoluzione tanto più ad ognuno d'essi sembrava urgente di opprimere colla forza gli altri.
Tra i Montagnardi fin dal principio c'erano stati contrasti di credenti (se anche non cattolici) ed atei, tra puritani pedanti e sfacciati gaudenti, tra radicali e moderati. Ma ciò non aveva impedito una azione collettiva concorde. Quando però queste tendenze cominciarono a combattersi con tal furore reciprocamente da mettere l'una contro l'altra in opera i mezzi terroristici, ne derivò la decadenza rapida della rivoluzione. Il suo destino fu segnato, quando la frazione di Robespierre portò quella degli Hebertisti come ultra-rivoluzionari, e quella dei Dantonisti come corrotti e moderati, davanti al tribunale rivoluzionario, e ottenne che essi dividessero sul patibolo (marzo 1794) la sorte, alcuni mesi prima da essi apprestata ai girondini. Essendo questi mezzi terroristici un segno della fine della rivoluzione, a lor volta poi essi l'accelerarono in quanto scissero le masse nella Comune di Parigi, e spinsero gli aderenti dei ghigliottinati tra gli avversari del governo. Questo intanto approfittò della crescente apatia delle masse per togliere alle sezioni, l'una dopo l'altra, quelle funzioni, che prima esse avevano esercitato, ed affidarle a' suoi funzionari. La polizia, soprattutto quella politica, cadde ora nelle mani dei due organi centrali, ch'ebbero in pugno il reale potere dello Stato, cioè il Comitato di salute pubblica e di sicurezza generale. La polizia diventò lo strumento onnipotente di un governo assoluto, e in pari tempo si cangiò, da una funzione esercitata pubblicamente nelle sezioni, in funzione segreta. Questa polizia segreta era come un'invisibile potenza sospesa sopra ciascuno nello Stato.
Ma invano con tutti questi mezzi di terrore cercavano di salvarsi i dirigenti. Sempre più debole diventava la base, su cui poggiavano. Non sapevano più sostenersi, se non aumentando il Terrore e l'onnipotenza poliziesca, ma con ciò non raggiungevano altro effetto che questo: sentendosi tutti minacciati, tutti si riunivano per una disperata difesa contro i dominatori, la quale raggiunse il suo scopo, quando ad un momento dato mancò ai dominanti ogni seguito. Krapotkin, che non è certo un avversario, ma anzi un ammiratore entusiasta della Comune, ha molto ben descritto questo fatale cammino del Terrore. Nel 67° capitolo del suo libro sulla Rivoluzione francese intitolato il « Terrore », tra l'altro dice: « Il punto più oscuro, accanto alla guerra esterna, era lo stato d'animo nella provincia e specialmente nel sud. Gli eccidi in massa, commessi sui capi contro-rivoluzionari e sui loro seguaci dai giacobini locali e dai delegati della Convenzione dopo la vittoria, avevano seminato un così profondo odio da spingere dovunque ad una guerra senza quartiere; e la situazione peggiorava sempre, perchè nè sul posto nè a Parigi ad altro si sapeva provvedere se non ai mezzi della vendetta ».
E dopo aver citato alcuni fatti in tal senso, l'autore dimostra, che Robespierre si sentì costretto a spingere il Terrore agli estremi. Luigi Blanc crede che Robespierre stesso volesse uscire dal sistema del Terrore, le cui ruinose conseguenze avvertiva. Ma non seppe trovare altra via d'uscita per venire a capo degli uomini del Terrore, che quella di combatterli colle loro stesse armi. Blanc scrive: « Robespierre voleva far tremare quelli che facevano tremare tutto il mondo. Egli aveva concepito l'audace progetto di abbatterli colla loro stessa clava, di uccidere il Terrore con il Terrore » (Histoire de la Rév. Fr., 11, 748). E' discutibile se questi erano i veri motivi di Robespierre. Certo è, che egli propose la legge del 22 pratile (10 giugno 94), che aboliva le ultime garanzie giuridiche per tutti gli accusati politici. Ad essi si toglieva, dinanzi al tribunale rivoluzionario, il difensore, la procedura era obbligata a rispettare solo i principii del buon senso, la sentenza era rimessa alla coscienza del giudice e a quelle informazioni, che egli potesse procacciarsi.
Già dal 24 febbraio '94 Robespierre aveva dichiarato: « Si vorrebbe governare la rivoluzione con sottigliezze giuridiche. Si trattano le cospirazioni contro la repubblica come fossero processi tra privati. La tirannide uccide, e la libertà piatisce. E la legge penale, che gli stessi cospiratori hanno fabbricato, diventa la regola, secondo la quale essi sono giudicati ».
L'unica pena ormai che si poteva sentenziare era quella di morte. Essa colpiva anche coloro che diffondevano « false notizie allo scopo di scindere il popolo e di turbarlo o corrompere i costumi o avvelenare la coscienza pubblica ». Ogni governo con tali qualificazioni colpisce qualsiasi manifestazione, che abbia l'aria d'opposizione. Krapotkin osserva: « Emanare questa legge non vuol dire altro se non dichiarare la bancarotta del governo rivoluzionario, e tale fu l'effetto della legge del 22 pratile, che in sei settimane la contro-rivoluzione fu matura ".
Immediatamente in base ad essa 54 persone furono giustiziate in una sol volta. « Così la nuova legge, che veniva chiamata di Robespierre, cominciò la sua opera. Essa fece ben tosto odiare il governo del Terrore in Parigi ». Quindi si ebbe un processo in massa contro 150 accusati, che furono suppliziati in tre gruppi. « E' inutile occuparsi più a lungo di queste esecuzioni. Basti il dire che dal 17 aprile '93, giorno dell'istituzione del tribunale rivoluzionario, al 22 pratile dell'anno IV (10 giugno 1794), cioè nel corso di 14 mesi il tribunale fece giustiziare in Parigi 2607 persone, mentre dal giorno della legge nuova lo stesso tribunale in soli 46 giorni (22 pratile - 9 termidoro, 27 luglio '94) ne mandò a morte 1351. Il popolo di Parigi sentiva orrore allo spettacolo di tutte quelle carrette su cui i condannati erano trasportati alla ghigliottina, e che ben 5 carnefici ogni giorno riuscivano a vuotare a mala pena. Non si trovavano più cimiteri per seppellirvi le vittime, perchè violenti proteste si levavano, ogni qual volta si apriva a questo scopo un nuovo cimitero in uno dei quartieri popolari. Le simpatie della popolazione operaia di Parigi andavano verso le vittime, e ciò tanto più in quanto i ricchi erano emigrati ovvero si tenevano nascosti nella Francia, e la ghigliottina colpiva sopratutto i poveri. Infatti tra i 2750 suppliziati, di cui Luigi Blanc potè controllare la condizione, solo 650 appartenevano alla classe dei possidenti. Si andava perciò sussurrando nell'orecchio che un realista, un agente di Batz, sedesse nel Comitato di Sicurezza e ch'esso incitasse a quelle esecuzioni per rendere odiosa la Repubblica. Certo è che ogni nuova esecuzione in massa di tal genere accelerava la caduta del governo giacobino ».
Ognuno si sentiva minacciato da Robespierre e da' suoi, tutti i cittadini si stringevano insieme, ultra-rivoluzionari e moderati, girondini e montatagnardi, partigiani del Terrore e partigiani della clemenza, proletari e borghesi. La tirannide di Robespierre s'infranse al primo tentativo, che quelli che erano da lui minacciati, fecero di mostrargli i denti. Il suo appello alle masse il 9 termidoro non trovò che debole eco. Egli precipitò, ma nello stesso tempo anche la Comune di Parigi perdette fin l'ultima traccia del potere, così a lungo esercitato. La rivoluzione ritornò al fondamento posto dalle condizioni economiche, ossia al dominio della borghesia.


5. - La tradizione del Terrore.
La caduta di Robespierre significava la peggiore rovina; una rovina morale prodotta dal fatto che i proletari e i piccoli borghesi piantarono in asso il partito, che intendeva di rappresentarli, e si rifiutarono di combattere per lui, anzi al suo crollo respirarono, come se fossero liberati da una dura pressione, quando finalmente lo spaventevole sterminio ebbe fine.
Ma quel torbido epilogo fu presto dimenticato, e ciò che negli animi dei proletari e piccoli borghesi della 'Rivoluzione, e non soltanto in Parigi, sopravvisse, fu il ricordo di quei tempi, in cui essi colle loro insurrezioni dominavano la Convenzione e mediante la Convenzione la Francia, la maggior potenza d'allora, che era in grado di sfidar tutta l'Europa e alla fin fine, almeno in via transitoria, anche di sottometterla. Man mano che pei proletari e piccoli borghesi e rivoluzionari i tempi diventarono più tristi, in ispecie sotto il governo militare di Napoleone, e poi anche dopo la sua caduta sotto il governo dei rurali e dei banchieri, quella grande tradizione fu più intensamente coltivata.
Pochi uomini soltanto, studiano la storia con finalità e con spirito scientifico, cioè per stabilire i nessi di dipendenza causale nello sviluppo dell'umanità, per coglierne il rapporto di connessione coll'insieme degli altri fatti conosciuti, o come può dirsi, per approfondire la concezione del mondo, per giungere ad una più chiara conoscenza di esso e a più saldi principi.
Ogni scienza parte da scopi pratici e non dal bisogno di conoscenza filosofica, come tra l'altro ce lo dimostra col suo nome la stessa geometria, la quale, non ostante la sua astrattezza, non fu in origine che l'arte di misurare i terreni. Anche la storia ebbe un punto di partenza nella pratica: i panegirici degli antenati per incoraggiare le nuove generazioni ad imitarli. E poich'essa non mirava alla conoscenza, ma a risultati politici e morali, non si tenne per necessario di osservare strettamente la verità, si esagerò volontieri per accrescere l'effetto, e non s'indietreggiò dinanzi all'invenzione. La falsificazione è tanto vecchia quanto la storiografia stessa. E ben si sa, questo modo di esporre la storia è praticato ancor oggi; che anzi lo si tiene in gran conto come una produzione particolarmente pregevole, come una fioritura del sentimento patriottico.
La letteratura storica raggiunge poi un maggior scopo pratico, quando diventa il mezzo, per cui le pretese di uno Stato o di singole località di uno Stato, o di ceti o di famiglie, vengono fondate, adducendo consuetudini, stipulazioni e contratti del passato. Anche questo ramo degli studi storici diede alla falsificazione vivo incremento. Cosi gran parte del potere temporale e dei diritti della Chiesa cattolica, tanto dei papi come dei vescovi, ordini religiosi e monasteri,è stata giustificata per mezzo di documenti apocrifi.
Dal giorno che il leggere e lo scrivere non fu più ristretto ad una cerchia di pochi eletti, la produzione di falsi documenti non fu più di moda. Che però la cosiddetta scienza storica sia tuttora pronta a produrre, quando occorra, per ogni preteso diritto, argomenti a piacere, ce lo dimostra la facilità, colla quale negli ultimi anni i diritti storici dei diversi paesi, che hanno condotto la guerra, vennero dimostrati scientificamente in corrispondenza dei loro appetiti.
Ma l'applicazione pratica più importante della storia non è l'edificazione e l'entusiasmo per mezzo delle gesta degli antenati, nè la dimostrazione delle pretese giuridiche, ma l'incremento della forza, di cui viene a partecipare colui che si fa un sostegno dell'esperienza del passato. E questo incremento di forza può essere di doppia natura; da un lato può il singolo accrescere le sue forze intellettuali per ciò che dalla storia impara, ossia in quanto vi studia i successi e gli insuccessi de' suoi predecessori, e sa quindi ciò che egli stesso avrebbe fatto o non fatto in quelle circostanze. In particolar modo nell'arte della guerra ha la conoscenza storica maturato grandi e pratici risultati, tanto che non vi è forse nessun condottiero di vaglia, che non si sia impratichito di storia militare, mettendosi alla scuola de' suoi predecessori.
Più difficile è apprendere qualche cosa dalla storia nella politica. Qui entrano in gioco masse assai più imponenti che non nella guerra, soprattutto in quella del passato. E ancora queste masse non sono passivi strumenti in mano di una guida onnipotente, bensì elementi autonomi e non facilmente apprezzabili. E infine i rapporti, che tratta l'uomo politico, sono molto più complicati e variabili di quelli della vita militare, dove pure, non ostante la maggior semplicità e perspicuità dei fatti, che essa abbraccia, può essere pericolosissimo che le conoscenze apprese dalla storia, portino ad' una inintelligente imitazione del passato, invece che ad un conveniente adattamento di principi generali, desunti dall'esperienza di esso alle circostanze particolari di un caso determinato. In politica poi le differenze nelle condizioni sociali e situazioni dei singoli paesi e delle diverse età diventano così grandi ed anche così difficili a riconoscersi, che l'imitazione schematica dei fatti passati, fondata sulle simiglianze puramente esteriori di date circostanze, assai più spesso nuoce che non giovi, molto più vela che non acuisca lo sguardo per la conoscenza del reale stato di cose e dei relativi bisogni. E per questo nella politica gli uomini ben poco hanno realmente imparato e compreso. Cosicchè la più parte degli uomini di Stato, che si occupano di storia, sono ben lontani dal farlo per imparare; il loro scopo è tutt'altro.
Veniamo così alla seconda specie d'incremento di forza per mezzo della storia. Ogni classe o partito del giorno d'oggi trova qualche analogia nel passato, che anch'esso conobbe, simili alle nostre, le sue lotte di sfruttati e sfruttatori, possidenti e proletari, aristocratici e democratici, monarchici e repubblicani. Certo quelle classi e quei partiti dei tempi passati sorsero in condizioni molto differenti da quelle del presente, anzi ebbero spesso significati diametralmente opposti a quelli delle corrispondenti manifestazioni posteriori. E' naturale però che in politica i fatti d'oggi siano misurati su quelli del passato, giudicati in base ai successi ed agli insuccessi correlativi. Per la propaganda di un determinato programma può essere una grande forza il poter addurre in proprio favore la prova dei rilevanti successi ottenuti dai propri predecessori. E non è meno importante il poter dimostrare agli avversari che, viceversa, i loro antecessori hanno fatto fiasco.
Si capisce che ciò ravvivi l'interesse nello studio della storia, ma non dimostra alcun interesse per la verità, chè anzi ci troviamo in presenza di un nuovo movente alla falsificazione. Gli scrittori d'ogni partito si studiano di mettere massimamente in luce i loro antesignani, mentre lasciano quanto più possono nell'ombra i loro avversari.
In mezzo alle necessità pratiche, donde la ricerca storica scaturisce, sono esenti dalla tendenza a falsare i fatti solo quelli, che inspira il desiderio d'imparare. Un tal desiderio spinge a veder chiaramente le cause, non solo dei successi, ma anche degl'insuccessi dei predecessori del proprio partito, e ad esercitare su di loro una libera critica. Qui sorge il desiderio della verità scientifica, della ricerca storica, compiuta allo scopo di renderci ragione dei fatti. Ogni altro bisogno pratico, che spinga allo studio della storia, sviluppa la tendenza ad abbassarla al livello della leggenda.
Reagisce a ciò fortunatamente oggi il fatto, che la critica del partito avverso tiene gli occhi aperti su ogni tentativo di tal genere. E certo la cosa non può andare così liscia come al tempo della composizione degli Evangeli, fuorchè nel regime dello stato d'assedio e della censura. Però anche nel più alto grado di coltura e di piena libertà di stampa, non c'è difetto di esposizioni storiche false ed unilaterali. Non si creda con questo che sempre vi sia uno sforzo cosciente per ingannare il lettore. Nella più parte dei casi è anzi lo stesso storico ingannato dal suo fanatismo e dalla unilateralità partigiana, che gli impedisce di vedere le cose quali sono. E ciò è tanto più possibile, in quanto le fonti storiche stesse corrispondono alle lotte dei partiti, mentre poi le relazioni sociali sono sempre straordinariamente complicate, e anche il critico più spregiudicato non si orienta facilmente e deve sempre domandarsi, dov'è la verità. Giustamente Lissagaray nella prefazione della sua storia della « Comune » dice: « Chi racconta al popolo false leggende di rivoluzione e lo inganna a bella posta o senza saperlo con ditirambi storici, è tanto colpevole quanto il geografo, che fornisce ai naviganti false carte ».
Con tutto ciò io conosco molti compagni di partito, coraggiosi ed onesti compagni, i quali tengono per lor sacro dovere di rivoluzionari di ingannare il popolo con fallaci ditirambi, storici sopra il bolscevismo. Ma d'altra parte quanto è mai difficile, anche per uno scrupolosissimo descrittore, segnare in mezzo alla tempesta su una carta tutti gli scogli, accanto ai quali si passa veleggiando! Le rivoluzioni, che scatenano ogni passione, e in cui si lotta per la vita e per la morte, soggiacciono naturalmente più che ogni altro avvenimento storico alla sorte di esposizioni e di interpretazioni partigiane. Ed è ovvio che sempre sia oggetto di ardente discussione quella Comune col suo governo del Terrore che, in mezzo alla Rivoluzione francese, ne rappresentò la maggior forza impulsiva, e l'espressione più appassionata. I contro-rivoluzionari su di essa richiamano l'attenzione per segnalare e stigmatizzare l'orrore della rivoluzione. I rivoluzionari per conto loro si tengono obbligati a difenderla, e non si contentano di considerare il Terrore come una manifestazione speciale della rivoluzione, che appartiene al passato e non può ripetersi nell'avvenire. Non si contentano nemmeno di spiegare quel governo per mezzo delle condizioni particolari, che lo produssero. No, essi si sentono spinti a contrapporre alla condanna l'apologia, ed a vedere nel Terrore un mezzo, terribile è vero, ma indispensabile per la liberazione delle classi soggette. Marx stesso contava ancora nel 1848 sulla forza vittoriosa del terrorismo rivoluzionario, quantunque egli già d'allora con ragione si opponesse criticamente alle tradizioni del 1793. Nella « Neue Rheinische Zeitung » egli si esprime ripetutamente in favore del Terrore. Nel numero del 13 gennaio 1849 scriveva intorno alla sollevazione dell'Ungheria, di cui esagerava l'importanza rivoluzionaria: « Per la prima volta in un moto rivoluzionario del 1848, per la prima volta dal 1793, una nazione, circondata dalle forze superiori della contro-rivoluzione, osa contrapporre al vile furore dei retrivi la passione rivoluzionaria, al Terrore bianco il Terrore rosso. Per la prima volta dopo tanto tempo, noi troviamo un vero carattere rivoluzionario, un uomo, che osa raccogliere in nome del suo popolo il guanto di una lotta disperata, e che è per la sua nazione Danton e Carnot in una persona sola: Luigi Kossuth ».
Già prima, nel numero del 7 novembre 1848 Marx in occasione della caduta di Vienna scriveva: « In Parigi si ripercuoterà il contraccolpo fatale della rivoluzione di giugno. Colla vittoria della repubblica «rossa » a Parigi, gli eserciti saranno cacciati dall'interno dei paesi verso e al di sopra delle frontiere e la vera forza del partito di lotta si mostrerà chiaramente. Allora ci ricorderemo delle giornate di giugno e di ottobre (repressione di Vienna per opera di Windischgrátz) e anche noi grideremo: « vae victis! ».* *Nell'originale, queste parole sono stampate in carattere grasso.
« Le inutili stragi compiute dal giugno all'ottobre, lo stucchevole olocausto dal febbraio e dal marzo, il cannibalismo stesso della contro-rivoluzione convincerà i popoli che vi è un solo mezzo per abbreviare, per semplificare, per concentrare l'agonia omicida della vecchia società e le sanguinose doglie della nuova, un solo mezzo: il terrorismo rivoluzionario ».
Non si venne però in quel caso all'esperimento pratico; che anzi troviamo in quei rivoluzionari una crescente intima contraddizione. Lo studio del passato li spingeva a difendere il terrorismo, mentre le condizioni del presente, come vedremo, favorivano l'incremento dei loro sensi d'umanità e dell'orrore a far soffrire gli uomini, o peggio ancora distruggerne le vite. E questo spirito di umanità agiva sulla pratica ancor più fortemente che non le dichiarazioni terroristiche attinte dalla letteratura.
Bórne nella sesta delle sue « Lettere parigine scriveva sui rivoluzionari del luglio 1830: « Essi hanno presto vinto ed ancor più presto perdonato. Con quanta mitezza il popolo ha ripagato le umiliazioni patite, quanto le ha presto dimenticate! Solo nella lotta aperta, solo sul campo di battaglia, ha colpito i propri avversari. Ma i prigionieri inermi non sono stati massacrati, i fuggiaschi non perseguitati, non ricercati quelli che si nascondevano, non molestati i sospetti. Cosi si comporta un popolo ».
Non meno magnanima fu la condotta dei rivoluzionari parigini nel febbraio del 1848, e anche nelle terribili giornate di giugno dello stesso anno spiegarono gli operai nella lotta certo il più alto eroismo e la più tenace resistenza, ma si mantennero alieni da ogni crudeltà. Questa piuttosto misero in luce i loro vincitori e nel modo più spaventevole. E non soltanto i soldati, di cui s'era eccitata l'ira al più alto grado, con false voci di supposte crudeltà compiute dagl'insorti, ma anche gl'intellettuali. Vi furono medici, che rifiutarono di prestare le loro cure ai rivoluzionari feriti. E Marx nel suo celebre articolo sulle giornate di giugno nella « Neue Rhelnische Zeitung » osserva: « La scienza non esiste per il plebeo, il quale commette l'inaudito, l'indicibile delitto, di battersi nelle trincee una buona volta per la propria esistenza invece che per Luigi Filippo o il Signor Marrast ».
Era dunque l'indignazione provocata da quelle vergogne, che aveva indotto Marx a scrivere le dichiarazioni sopra citate intorno al terrorismo.
Sopravviveva ancora l'amaro ricordo di quella lotta del giugno '48, quando i lavoratori di Parigi s'impossessarono del potere politico nella seconda Comune. Non pochi tra di loro vi avevano preso una parte diretta. Si sarebbe potuto credere che ora il giorno della vendetta spuntasse, il giorno del Terrore annunziato da Marx. Ma questi deve constatare nel suo scritto sopra la Comune (La Guerra civile in Francia 1870: « Dal 18 marzo fino all'ingresso delle truppe versagliesi in Parigi la rivoluzione proletaria è rimasta pura da ogni violenza, di cui pur troppo abbondano le rivoluzioni in genere ed ancor più le contro-rivoluzioni delle più alte classi » (III edizione, 38). Qui troviamo che Marx decisamente sconfessa il Terrorismo, che anzi viene presentato come una caratteristica delle rivoluzioni delle più alte classi in contrapposto alla rivoluzione proletaria.
Or non è molto, fu giudicato il mio atteggiamento di fronte al bolscevismo come un tradimento fatto a Marx, il cui spirito rivoluzionario l'avrebbe senza dubbio spinto al bolscevismo. Come testimonianza di ciò si citavano alcune espressioni marxistiche del 1848 sul Terrorismo. Ora si vede che il tradimento a Marx, che io avrei fatto, lo aveva già compiuto egli verso se stesso dal 1871. Tra la sua prima e la sua seconda concezione erano trascorsi due decenni del più potente lavoro intellettuale, ch'ebbe per frutto il « Capitale ». Chi dunque sulla questione del Terrorismo si appella a Marx, non ha diritto di arrestarsi alla sua dichiarazione del 1848, trascurando quella del 1871. E come Marx, così anche Engels si mostra nel 1870 assai poco entusiasta del Terrorismo. Il 4 settembre di quell'anno egli scriveva a Marx: « Sotto il nome dì governo del Terrore noi intendiamo il governo di quella gente, che inspira il Terrore. Viceversa è il governo della gente, che è essa stessa terrorizzata. La « Terreur » è soltanto un complesso di crudeltà per la più parte inutili, che quelli stessi, che hanno paura, mettono in opera per rassicurarsi. Sono convinto che la colpa del Terrorismo nel 1793 ricade quasi esclusivamente su quei borghesi più impauriti mascherati da patrioti, sui borghesucci nonchè sulla ciurmaglia, che all'ombra del Terrore faceva il proprio interesse » (Carteggio tra Marx ed Engels, IV, pagine 379-380).
Marx aveva pienamente ragione allorchè con soddisfazione notava che la seconda Comune parigina era rimasta immune da tutte le violenze, di cui la prima aveva pur troppo abusato. Ciò che durante la sua esistenza in Parigi accadde di violenza, non deve esserle imputato; con questo non può dirsi che il pensiero del Terrorismo non abbia avuto nessuna parte nella Comune e che tutti i suoi membri l'abbian respinto, ciò che non sarebbe il caso. Vogliamo perciò esaminare più da vicino le cose e instituire un parallelo tra la Comune del 1871 e la Repubblica dei Soviet. Questa, si sa, si appella spesso a quella, come suo modello e giustificazione. Federico Engels ha nella prefazione alla terza edizione della « Guerra civile in Francia » di Marx, dichiarato che la Comune di Parigi è stata la dittatura del proletariato. Mette conto di vedere che cosa sia stato questa dittatura.


6. - La seconda Comune di Parigi.
a) L'origine della Comune. — La repubblica dei Soviet del 1917, come la Comune di Parigi del 1871, sono conseguenze della guerra, conseguenze della disfatta militare, ed entrambe vengono sostenute dal proletariato rivoluzionario. Ma a ciò si limita presso a poco la coincidenza dei due fatti. I bolscevichi acquistarono la forza di attirare a sè il potere politico, in quanto essi erano stati tra i partiti della Russia quello che aveva domandato la pace ad ogni costo, la pace separata senza curarsi di sapere quale sarebbe stata in seguito a ciò, la situazione internazionale, se essa avrebbe assicurato o no la vittoria e l'egemonia mondiale alla monarchia militare tedesca, tra i cui protetti essi a lungo si annoverarono, come i ribelli dell'India e dell'Irlanda e come gli anarchici dell'Italia.
Affatto diversa fu la condotta del radicalismo francese nella guerra del 1870 dopo la caduta. di Napoleone e la proclamazione della Repubblica, quando vennero fuori le pretese tedesche all'annessione dell'Alsazia-Lorena. Nella lotta della terza Repubblica contro le monarchie alleate della Germania sembrò risorgere la situazione del 1795, colla sua lotta della prima Repubblica contro le monarchie alleate dell'Europa. Le tradizioni di quell'epoca si risvegliarono, e proprio come allora, fu la Parigi proletaria l'elemento guerresco che sostenne più tenacemente ed energicamente il proseguimento della guerra per la salvezza della Repubblica, una ed indivisibile. Invece i contadini del 1870 non erano più quelli del 1793. Questi avevano bensì odiato Parigi e sopportato di mala voglia la sua dominazione; però la necessità li aveva animati a respingere lo straniero, perchè la sua vittoria minacciava di ricondurre lo sfruttamento feudale e di togliere loro i beni degli emigrati e della Chiesa, che, lottando, avevano ottenuto.
I contadini del 1870 non avevano nulla di simile da temere dalla vittoria dei prussiani. Per questo lo spirito di campanile prese sopra di essi il sopravvento, la perdita dell'Alsazia-Lorena sembrò loro un male minore della devastazione e dei pesi della guerra. Eccezione fatta dell'Alsazia e Lorena, che disperatamente fino all'ultimo resistettero alla separazione, durante la guerra il pensiero della pace guadagnò presto terreno tra i contadini e le piccole città della Francia. In contrasto colla radicale e bellicosa Parigi, questo proposito di pace diventò la parola d'ordine dei reazionari e dei monarchici.
Come nel 1917 in Russia, così in Francia nel 1871, il partito della pace, il partito di quelli che erano stanchi della guerra, prese il sopravvento su quelli ch'erano fautori della sua continuazione; ma il pacifismo non rinforzò nel 1871 i più radicali tra i radicali, bensì i più reazionari tra i reazionari. L'8 febbraio 1871 fu eletta un'Assemblea nazionale per conchiudere la pace. Essa contava solo 200 repubblicani contro 400 monarchici. « Quasi tutta la provincia domandava pace ad ogni costo. Parigi invece esclamava: Guerra ad oltranza. Essa non elesse che uomini che avevano il mandato di pronunciarsi pel proseguimento della guerra, e di non permettere in nessun modo che la pace venisse comperata a prezzo dell'integrità del territorio » (Luigi Dubreuihl, « La Commune », 264). Il 12 febbraio l'Assemblea Nazionale si riunì a Bordeaux, il 1° marzo essa approvò il trattato di pace con 516 voti contro 107. Quasi la metà di questi 107 erano deputati di Parigi.
L'Assemblea nazionale era stata eletta solo per concludere la pace; con queste intenzioni gli elettori avevano votato. La grande maggioranza dei reazionari, che in essa erano, non doveva ascriversi ad avversione contro la Repubblica, ma a prepotente bisogno di pace. Il mandato dell'Assemblea nazionale con questa conclusione era esaurito. Al suo posto doveva eleggersene un'altra, che avrebbe deliberato intorno alla Costituzione. E le elezioni avrebbero avuto un altro esito che quelle per l'Assemblea di Bordeaux, poichè la Repubblica non incontrava così grande avversione, come il proseguimento della guerra. Infatti le elezioni municipali, che ebbero luogo in tutta la Francia il 30 aprile 1871, diedero una grande maggioranza repubblicana. Ma appunto perchè i rurali dell'Assemblea nazionale temevano questo, essi si attaccarono ai loro mandati. Comportandosi come un'Assemblea costituente, essi avrebbero senza dubbio restaurata la monarchia, se non fossero stati profondamente divisi. Una metà di loro era legittimista, ossia sosteneva la dinastia, che aveva governato la Francia fino al 1830; l'altra metà orleanista, sosteneva la dinastia, che era stata dalla rivoluzione del 1830 sostituita alla stirpe legittima. Questo dissidio salvò la Repubblica, ma non protesse Parigi dall'odio comune delle due fazioni. La Repubblica francese non aveva nessun altro valido appoggio fuor di Parigi, ma la forza di essa s'era mostrata più di una volta dal 1789. Nè certo si poteva pensare alla restaurazione monarchica, finchè Parigi non. fosse stata abbattuta.
Sempre e sempre più i provinciali tempestavano contro Parigi, l'immorale, l'atea, la bellicosa, la repubblicana Parigi, per non dir nulla. del suo socialismo. Dall'inizio delle sue sedute l'Assemblea nazionale diede aperto sfogo a questo orrore. La eroica Parigi, che per cinque mesi aveva sostenuto un grave assedio per la causa della difesa nazionale, era ora nella maniera più odiosa coperta di ingiurie da quei nobili padri della. patria. Prostrare Parigi, strapparle ogni autonomia, toglierle il suo grado di capitale e infine disarmarla, per osare in piena sicurezza il colpo di Stato monarchico, questa era la maggior preoccupazione dell'Assemblea e di Thiers, ch'essa aveva nominato capo del potere esecutivo. A questa situazione corrisponde il conflitto, che conduce all'insurrezione di Parigi. Ben si vede che questa fu di tutt'altra natura che il colpo di Stato del bolscevismo, il quale traeva la sua forza dalla necessità della pace, il. quale aveva dietro di sè i contadini e non aveva nell'Assemblea contro di sè dei monarchici, bensì dei socialisti rivoluzionari e dei menscevichi.
E come diversi i punti di partenza. della rivoluzione bolscevica e della seconda Comune, così anche le cause occasionali d'entrambe. I bolscevichi vennero al potere per mezzo d'un'insurrezione, che diede loro di colpo nelle mani l'intero meccanismo dello Stato, ch'essi applicarono subito, nella maniera più energica e spietata, allo spossessamento politico ed economico di tutti i loro avversari, fossero pur anche proletari.
All'opposto i più sorpresi dinanzi all'insurrezione della Comune furono gli stessi rivoluzionari. A molti d'essi il conflitto giungeva non solo inatteso, ma sgradito. Ben aveva in Parigi, come conseguenza della tradizione rivoluzionaria, la tattica dell'insurrezione armata un forte seguito I Blanquisti erano tra i socialisti i principali rappresentanti di questa tendenza, e più d'una volta durante l'assedio, essi ed altri elementi di tendenza giacobina avevano tentato la sommossa, senza però trovare sufficiente appoggio, tantochè i loro tentativi erano sempre falliti. Così sotto l'impressione della capitolazione di Metz, il 31 ottobre essi si sollevarono per domandare l'elezione di una rappresentanza comunale, la, Comune, non per ragioni socialiste, ma patriottiche, allo scopo di condurre più energicamente la guerra, così come aveva fatto l'altra Comune dal 1792 al 1794. Ma quella parte della guardia nazionale, ch'era fedele al governo, venne a capo della sollevazione senza spargimento di sangue, tanto poca fu la resistenza opposta alle truppe. Per rafforzare la sua posizione, il governo il 3 novembre provocò un plebiscito in Parigi, che diede 558.000 voti favorevoli e meno di 63.000 contrari.
Nè meglio riuscirono gli uomini dell'azione ad ogni costo, il 22 gennaio, sebbene essi anche allora sostenessero la patriottica causa, così popolare in Parigi, del proseguimento della guerra. Il governo aveva annunciato l'inevitabile capitolazione e questo fu causa dell'esplosione di sdegno dei rivoluzionari, più sanguinosa di quella del 31 ottobre, però anche questa senza fatica repressa. Tali insuccessi scoraggiarono gli uomini d'azione omai disillusi e snervati, tanto che al 18 marzo essi non erano certo preparati a provocare una nuova insurrezione. Dal canto loro i socialisti internazionali già da prima s'erano dichiarati contrari ad ogni tentativo di rivolta. Appunto dopo la caduta di Napoleone in seguito alla rivoluzione di settembre, Marx scriveva ad Engels (6 settembre 1870): « Mi ero testè seduto per scriverti, quando Seraillier giunge e mi significa ch'egli lascia domani Londra per Parigi per trattenersi colà un paio di giorni. Scopo principale; aggiustare colà le cose coll' Internazionale (Consiglio federale di Parigi). E questo tanto è più necessario che oggi tutta la sezione francese leva il campo verso Parigi per fare là delle bestialità in nome dell'Internazionale. Essi vogliono abbattere il governo provvisorio, stabilire la Comune di Parigi, riconoscere Pyat come ambasciatore francese a Londra etc. Ho ricevuto oggi dal Consiglio federale di Parigi una proclamazione al popolo tedesco (te la mando domani), unitamente alla pressante preghiera al Consiglio generale di pubblicare un nuovo manifesto ai tedeschi. Io avevo da presentarlo prima di questa sera. Sii così buono di mandarmi al più presto possibile, in inglese, le necessarie note militari utilizzabili per il manifesto, intorno all'Alsazia-Lorena. Al Consiglio federale in Parigi ho già risposto oggi ampiamente, e in pari tempo mi sono assunto lo sgradevole lavoro di aprir loro gli occhi sul reale stato delle cose » (Carteggio tra Engels e Marx, IV, 330).
Mi si è rinfacciato di essere un epigone degenerato di Marx, che certo la sua natura rivoluzionaria e il suo temperamento vulcanico avrebbero spinto senz'altro nel campo dei bolscevichi. Vedemmo qui come questo temperamento vulcanico, nel tempo della rivoluzione, tenesse per suo primo dovere il poco gradevole ufficio di aprire gli occhi sul reale stato delle cose ai propri compagni, e che questo stesso temperamento, non ostante tutto il vulcanismo, poteva in certe circostanze battezzare col nome tutt'altro che eccitante di « bestialità » progetti di azioni rivoluzionarie.
Engels rispondeva a Marx il 9 settembre: « E' partito poco fa Dupont. Fu qui la sera, ed è furibondo contro la bella proclamazione di Parigi. Che Seraillier vi vada e che prima abbia parlato con te, ciò lo tranquillizza. Le sue vedute sul caso sono chiarissime e giuste: usare della libertà, che indubbiamente darà la Repubblica per l'organizzazione del partito in Francia, agire quando se ne offra l'occasione, dopo conseguita l'organizzazione, tenere indietro l'Internazionale in Francia, finchè si sia raggiunta la pace ».
Al che Marx rispondeva il 10 settembre: « Di' a Dupont ch'io divido perfettamente le sue vedute ».
Dunque non azione, ma organizzazione sembrava il meglio a quel temperamento vulcanico. L'Internazionale anche in Francia agiva nel senso di servire da freno, e non certo di spingere verso un'azione precipitata; e basti questo esempio: Il 22 febbraio in una seduta del Consiglio federale di Parigi un membro propose una dimostrazione pacifica per il 24 febbraio, anniversario della rivoluzione del 1848. Ma alla maggioranza del Consiglio federale anche questa pacifica dimostrazione apparve, in considerazione della situazione assai tesa, molto intempestiva. Sopratutto vi si oppose Frankel, il quale domandò che pel momento tutte le forze fossero dirette all'organizzazione del proletariato e allo studio delle più urgenti questioni economiche, e in ispecie a quella del pagamento delle pigioni, prorogate durante l'assedio, e della disoccupazione. I rappresentanti dell'Internazionale nell'Assemblea, Malon e Tolain, avrebbero dovuto far nota la volontà degli operai. Su proposta di Frankel, il Consiglio federale decise di non preparare alcuna dimostrazione, ma di permettere ai singoli membri di parteciparvi, se lo volessero. Ciò attesta che non si sentiva nessuna necessità d'insurrezione.
E questa infatti fu provocata non dai rivoluzionari, ma dai loro nemici. Per i bisogni della guerra il proletariato parigino era stato chiamato nella guardia nazionale ed armato. Questa circostanza sembrava ora ai rurali, banchieri e caporioni della burocrazia e dell'esercito, che circondavano Thiers, un immenso pericolo. Niente essi ritenevano così urgente, dopo la sottoscrizione della pace, quanto il disarmo della parte proletaria della guardia nazionale. E per cominciare si dovevan prendere loro i cannoni. Che questa guardia, nazionale di Parigi fosse in possesso di cannoni era dipeso dalle autorità tedesche, la cui condotta « fu la scintilla che diede fuoco alle polveri » come dice Bourgin (Giorgio Bourgin, « Histoire de la Commune », Paris 1907, 43).
L'abuso immoderato della vittoria è dell'essenza stessa del mestiere delle armi. Un generale non ha il compito solo di vincere, ma anche quello di perseguitare il nemico battuto e ridurlo senza pietà all'estrema demoralizzazione e prostrazione. Ben diverso è il compito dell'uomo di Stato, il quale ha in vista oltre la vittoria, le condizioni di futura convivenza col nemico di oggi. Queste due concezioni si urtano fra loro in ogni guerra, e le conseguenze ne sono nefaste, quando il punto di vista militare prende il sopravvento sulla politica nella condotta della guerra. Nel 1866 Bismarck dominò non senza fatica l'opinione dei militari. Ma i successi di quell'anno inalzarono il prestigio dello stato maggiore prussiano, e questo fu ancor più accresciuto dalle vittorie del '70. Bismarck non potè più avere successo; egli dovette cedere all'opinione militare non solo, ma tutto il suo intelletto politico ne rimase turbato ed accecato. Di qui l'esigenza dell'annessione dell'Alsazia-Lorena, che prolungò di mesi la guerra, gettò la Francia nelle braccia della Russia e preparò il presente sfacelo della Germania.
E ancora l'Alsazia-Lorena era pur sempre, almeno a prima vista, dal punto economico e strategico un vantaggio palpabile. Pure questo non bastò. Si voleva aggiungervi l'umiliazione di Parigi, di quel centro della resistenza contro i loro eserciti, così odiato dai tedeschi, e il 26 febbraio s'impose ai francesi la clausola, per cui le truppe tedesche sarebbero il 1° marzo entrate in Parigi, ed avrebbero occupato i Champs-Elysées. Quando il 27 febbraio questa notizia fu conosciuta dai Parigini, si levò un grido generale d'indignazione e l'appello alle armi per respingere colla forza il nemico. Quasi tutti i battaglioni della guardia nazionale si dichiararono pronti a rispondere all'appello. Solo gl'internazionalisti mantennero il sangue freddo. Essi vedevano che una insurrezione contro il nemico esterno non era meno nefasta che quella contro il nemico interno.
Scongiurarono perciò il Comitato centrale della guardia nazionale di desistere dal tentativo E una resistenza armata, che avrebbe avuto per unica conseguenza la ripetizione della strage di giugno e l'affogamento della Repubblica nel sangue dei lavoratori parigini. Essi proposero che la guardia nazionale dovesse, invece di preparare la resistenza colle armi, circondare i tedeschi con un cordone militare, che li avrebbe completamente isolati dalla popolazione di Parigi. Il Comitato si lasciò in ultimo persuadere e si deve all'Internazionale, se la vuota alterigia dei vincitori tedeschi non provocò uno dei più terribili combattimenti di strada, che la storia ricordi. Dovevano essere non soldati tedeschi, ma francesi, quelli che alcune settimane dopo avrebbero fatto la temuta strage del proletariato parigino.
Secondo la capitolazione di Parigi del 28 gennaio, tutto il materiale bellico delle truppe della città doveva essere consegnato al vincitore, eccezion fatta per le armi della guardia nazionale. E non solo i loro fucili, ma anche i cannoni, che erano stati procacciati non dallo Stato, ma dalla città di Parigi. Entrando ora i tedeschi nella capitale, il governo non s'era dato alcun pensiero di mettere al sicuro quella parte di cannoni, che erano posti entro il circuito occupato dai vincitori. Probabilmente il governo desiderava che il nemico se ne impadronisse, il che sarebbe stato un mezzo per indebolire il proprio avversario. Ma le guardie nazionali vigilavano, e trasportarono in tempo i cannoni, circa 400, nei quartieri, cui i tedeschi non avevano accesso. Impadronirsi di quei cannoni era per il governo, dopo la conclusione della pace, la preoccupazione più grave. Con ciò doveva iniziarsi il disarmo della parte proletaria delle guardie nazionali.
L'Assemblea aveva minacciato di « décapiter et décapitaliser » Parigi. A stento Thiers riuscì a persuaderla e l'indusse a fissare la sua residenza, che era stata fino allora a Bordeaux, a Versailles vicino alla capitale.
Il 20 marzo essa doveva radunarvisi. Ma prima voleva esser sicura di non aver nulla da temere per parte di Parigi. Si stabilì quindi per il 18 il sequestro dei cannoni. A Thiers parve più prudente sottrarli segretamente, che non portarli via colla forza. Alle 3 del mattino, mentre tutta la città dormiva, alcuni reggimenti occuparono Montmartre, dove i cannoni stavano incustoditi, e cercarono di trasportarli. Ma, cosa singolare, s'era trascurato di provvedersi dei cavalli necessari.
Si dovette mandarli a prendere, ma intanto i Parigini ne ebbero sentore, tosto una folla, di minuto in minuto crescente, si raccolse e scongiurò i soldati di abbandonare quei cannoni.
E vi riuscì; chè i soldati, i quali avevano vissuto insieme ai Parigini, e insieme lottato contro il nemico esterno, e diviso con quelli il disprezzo pei loro inetti generali, non tardarono a fraternizzare col popolo e colla guardia nazionale. Il generale Lecomte comandò alle truppe di sparare su quella folla inerme, ma i suoi soldati si voltarono contro di lui, lo arrestarono, lo fucilarono. Questa uccisione fa parte delle crudeltà terrorìstiche, che si addebitano alla Comune. Come anche l'uccisione del generale Thomas, che fu sorpreso in quella stessa mattina del 18 marzo, vestito da borghese mentre in mezzo alla moltitudine prendeva appunti. Egli fu giustiziato come spione. Già il 28 febbraio un agente di polizia, sorpreso in flagrante spionaggio, era stato gettato nella Senna e miseramente annegato.
Quelli però, che mettono sul conto della Comune questi fatti, dimenticano ch'essi accaddero quando la Comune non esisteva ancora. Nè da altra parte si possono addossare alla popolazione di Parigi, perché tutti quegli eccidi non sono stati commessi dalla popolazione borghese, bensì dai soldati, e caratterizzano non l'indole del proletariato, ma quella del militarismo, che non fa della vita umana gran conto. Quei filantropi, che s'indignano sui soldati, che hanno ucciso il loro spietato generale, non avrebbero avuto nulla da dire qualora quei fucilati fossero stati donne e fanciulli. « Invece di fucilare donne e fanciulli, i suoi propri soldati fucilarono lui (il generale Lecomte). Le inveterate abitudini, che i soldati acquistano sotto la disciplina dei nemici dei lavoratori, si capisce che non le possano perdere nel momento, in cui essi passano dalla parte dei lavoratori ». (Marx, « Guerra civile in, Francia », 38).
Per quello che è della guardia nazionale, essa si intromise in questo incidente solo per impedire effusione di sangue, e vi riuscì, non senza proprio pericolo, ottenendo che degli ufficiali, fatti prigionieri, tranne i due sopraddetti rimasti uccisi, gli altri fossero rilasciati. Il 19 marzo il Comitato centrale della guardia nazionale protestò di non aver partecipato ai fatti di sangue menzionati. La sua dichiarazione pubblicata nel « Journal officiel » della Comune il giorno 20 fra l'altro dice: « Noi lo diciamo con indignazione: il fango sanguinoso, col quale si vuol macchiare il nostro onore è una ignobile infamia. Mai un ordine di morte è stato firmato da noi, mai la guardia nazionale ha preso parte all'esecuzione di un delitto ». In ciò era contenuta un'energica condanna non solo degli accusatori, ma anche di quel fatto, la cui responsabilità la guardia scartava da sè.
Di fronte alla diserzione delle truppe, ch'erano passate al popolo, al governo restavano due vie: o far concessioni alle masse sollevate e trattar con esse, ovvero fuggire. Thiers di trattative non voleva saperne, e fuggì da Parigi col suo governo a rompicollo, affrettandosi a portar via tutte le truppe, che non erano ancora inquinate dallo spirito di rivolta. Anche i forti di Parigi abbandonò, e tra questi quello più importante del Mont-Valérienne. Se i Parigini si fossero messi alle calcagne di Thiers, forse riuscivano ad impadronirsi del governo. Le truppe, che si ritiravano, non avrebbero opposto la minima resistenza. I loro comandanti l'hanno confessato più tardi. Allora ci sarebbe stata la possibilità di costituire un nuovo governo, che certo non avrebbe fatto il socialismo, perchè le condizioni non lo permettevano ancora. Però sarebbe stata disciolta l'Assemblea, un'altra ne sarebbe stata eletta col programma: assodamento della Repubblica, autonomia dei Municipi, Parigi inclusa, sostituzione dell' esercito permanente con una milizia nazionale. La Comune allora non esigeva di più. E questo programma era attuabile, date le condizioni della Francia.
Ma Thiers partì indisturbato; gli si permise di portare con sè le sue truppe, di riorganizzarle a Versailles, di rafforzarle, e di instillar loro altri spiriti. Nessuno era più sorpreso della fuga dei ministri degli stessi cittadini. Nella capitale non c'era organizzazione, che potesse assumere la direzione degli affari al posto dei capi, che fuggivano. Il mattino del 19 Parigi era ancora senza governo, e il Comitato centrale della guardia nazionale fu dalla forza delle cose spinto ad assumerlo, sebbene fosse un corpo senza un programma determinato e senza chiara tattica. Esso si sbarazzò subito d'ogni responsabilità, affidando il potere a Lullier, cui consegnò il comando supremo di Parigi. Lullier era l'uomo meno adatto, che si potesse pensare, un ubriacone, di cui non si sa « se fosse più pazzo che traditore, o viceversa... Quest'uomo accatastò in 48 ore tutto ciò che in fatto di spropositi ed errori irreparabili poteva farsi. Ma questa scelta infelice di Lullier è essenzialmente un indice rivelatore di una situazione». (Dubreuilh, « La Commune », 283).
Il 3 aprile fu decisa una sortita contro Versailles. Ma quello, che il 19 marzo avrebbe potuto ottenere un sicuro effetto, diventava il 3 aprile causa di rovina. L'aspettativa, che i soldati facessero come il 18 marzo causa comune coi Parigini, fu amaramente delusa. La guardia nazionale urtò contro una tenace resistenza, che la obbligò a retrocedere. Da questo momento essa dovette mettersi sulla difensiva, una difensiva contro l'intera Francia. Può dirsi che la sua sconfitta fosse già segnata. Ma anche solo da questo momento la sollevazione di Parigi diventò esclusivamente proletaria. Sino allora gran parte della borghesia era rimasta tentennante, se dovesse o no mettersi cogli insorti. Adesso essa lasciava il proletariato solo a sostenere la lotta.
Affatto diversa di quella di Parigi del 18 marzo '71 è stata l'insurrezione di Pietrogrado del 7 novembre 1917. Quest'ultima fu preparata da un comitato rivoluzionario, che organizzò le forze dei lavoratori e dei soldati per lanciarle all'assalto del governo, che non aveva in Pietrogrado più forza alle sue spalle di quel che ne avesse Thiers in Parigi nel 1871. E' vero che la rapida occupazione di tutti i poteri nella capitale non avrebbe deciso della vittoria dei bolscevichi, se nell'intero paese per essi le condizioni di forza non fossero state molto più favorevoli che per Parigi nel 1871. Quando Kerenski fuggì a Gatschina, come già Thiers a Versailles, egli non poteva contare sopra l'appoggio dei contadini. La massa paesana, e con essa l'esercito, passò in Russia dalla parte dei rivoluzionari, che si erano resi padroni della capitale. E questo diede al loro governo una forza ed una durata, che mancò affatto alla sollevazione di Parigi. Ma esso inserì anche nel sistema bolscevico un elemento economicamente reazionario, da cui la Comune di Parigi rimase esente; perchè la sua dittatura del proletariato non si appoggiò mai ai Consigli di contadini.
b) Consiglio degli operai e Convitalo Centrale. - La Comune di Parigi e la Repubblica dei Soviet sono state profondamente diverse nel loro punto d'origine. E non meno anche nei loro organi e metodi. Certo anche la Comune ebbe un'organizzazione, la quale può esser messa a raffronto col consiglio degli operai e dei soldati. Essa presentava una certa analogia colla rivoluzione russa, in quanto l'una e l'altra seguivano ad un governo dispotico, che aveva impedito fino al giorno della sua rovina ogni organizzazione politica delle masse, non meno che le leghe di mestiere. Gli operai francesi dopo il 4 settembre 1870, come i russi del 1905 e '17, non possedevano organizzazioni politiche ed economiche, che li potessero aiutare nella lotta intrapresa. E questa, come abbiam visto, era una delle ragioni, per cui Marx desiderava che i lavoratori si servissero della nuova Repubblica prima di tutto per organizzarsi e disciplinarsi, per rendersi atti al potere, e non sperperassero le loro forze in tafferugli intempestivi, che nel migliore dei casi non promettevano loro un potere durevole.
Ma poichè erano giunti ad acquistarlo, non attraverso un subbuglio, ma in seguito ad un cimento, cui erano stati costretti, ora dovevano procacciare di riparare ai difetti dell'organizzazione politica e sindacale con quei mezzi, che avessero a disposizione.
Un tal mezzo era per gli operai russi l'organizzazione della grande impresa. « L'industria moderna ha mutato la piccola bottega del patriarcale maestro d'arte nella grande fabbrica del capitalista. Grandi masse di lavoratori, spinte e raccolte nella fabbrica, vengono militarmente organizzate; vengono come comuni soldati dell'industria posti sotto la sorveglianza d'una completa gerarchia di ufficiali e sotto-ufficiali ». (Engels-Marx, « Manifesto dei comunisti »). A questi soldati della fabbrica basta che si sostituiscano i sottufficiali ed ufficiali imposti dai capitalisti con altri di propria scelta, perchè l'organizzazione di fabbrica diventi un'organizzazione di classe dei lavoratori nella fabbrica. Per tal via i proletari russi arrivarono all'istituzione dei Consigli degli operai. Questa non rappresenta, di fronte all'organizzazione del partito e a quella sindacale dei paesi più evoluti, una più alta forma d'organizzazione proletaria, ma soltanto un ripiego sorto dalla loro immaturità.
Gli operai parigini non disponevano di questo ripiego. La loro era in gran parte industria di lusso, non grande industria manifatturiera. Al tempo della seconda Comune prevaleva ancora la piccola bottega del patriarcale maestro d'arte, e mancava quasi affatto la grande fabbrica del capitalista, condizione opposta a quella dell'industria in Russia, sopratutto a Pietrogrado. L'impero russo mostra la sua inferiorità economica nel difetto dell'industria e nel piccolo numero degli operai industriali di fronte ai contadini. Ma quel che vi esiste in fatto di industria capitalistica, porta l'impronta più moderna della grande impresa. Gli operai di Parigi dovevano afferrarsi ad un altro espediente in mancanza di organizzazione politica ed economica, e lo trovarono nella guardia nazionale.
La rivoluzione dell'89 aveva avuto per effetto che dovunque in Francia, ma sopratutto nella capitale, il popolo si armasse. Quest'armamento raggiungeva un doppio scopo. Le classi inferiori, proletari e borghesi più poveri, si armavano ed organizzavano per l'insurrezione. La rivoluzione non aveva loro procacciato ciò, di cui abbisognavano, e veramente, dato lo stato delle cose, non poteva. Di qui la tendenza per mezzo della rivolta armata di spingere sempre più avanti la rivoluzione.
Diversa era la situazione della borghesia, dei capitalisti, dei piccoli benestanti e degl'intellettuali, che si trovavano in condizione discreta. A questi la rivoluzione aveva di fatto giovato, ed essi ora si armavano ed organizzavano per difendere la conquista fatta, e difenderla da due parti, contro le forze reazionarie, che volessero restaurare il vecchio assolutismo feudale, e contro gli strati inferiori, che premevano impazientemente dal basso. La guardia nazionale fu la loro organizzazione armata. La borghesia rimase vincitrice nella lotta rivoluzionaria. Insieme ad essa si affermò l'istituzione della guardia nazionale, come un esercito della classe possidente, che sceglieva essa stessa i suoi ufficiali, e possedeva una certa indipendenza di fronte al governo. L'apogeo della sua importanza fu raggiunto dalla guardia nazionale sotto la monarchia di luglio 1830-1848. Essa ad ogni modo non fu in grado di salvarla, e si mostrò nel 1848 assai malfida. Napoleone III, dopo il colpo di Stato, le tolse l'indipendenza e sopratutto il diritto di eleggere i proprii ufficiali. Non osò, però abolirla del tutto.
Venne poi la guerra del '70; vennero le prime sconfitte. Per una seconda volta la patria era in pericolo; si ridestavano gli spiriti del '93, le tradizioni della lotta vittoriosa contro l'Europa per mezzo della leva in massa, della sollevazione armata di tutto il popolo. Di fronte a questa situazione il Corpo legislativo approvò in Parigi, su proposta di Jules Favre, una legge, che trasformava la guardia nazionale da un esercito di borghesi in un esercito di tutto il popolo. Ai 60 vecchi battaglioni, che erano reclutati tra le classi possidenti, se ne aggiunsero ora altri 200, formati dalle classi più povere, e anche questi ebbero il diritto di scegliersi i proprii ufficiali. E questi nuovi battaglioni diventarono così la vera organizzazione del proletariato.
L'intera legge sopra l'ampliamento della guardia nazionale fu più il prodotto d'un improvviso sgomento, che d'una matura riflessione. E ben presto i creatori dovettero spaventarsi della loro stessa creatura, cosicchè fecero tutto il possibile perchè non si fortificasse. Non si poteva più impedire che i proletari parigini fossero armati, ma le autorità militari della capitale sotto il comando di Trochu trascurarono tutto quanto sarebbe stato necessario per trasformare la guardia nazionale in una truppa utilizzabile. Con ciò tradirono la patria, ma essi temevano più i lavoratori parigini che i soldati di Guglielmo. Al principio dell'assedio c'erano in Parigi 100.000 soldati di fanteria e 100.000 guardie mobili. Supponendo che su più di 300.000 guardie nazionali almeno 200.000 fossero idonee al servizio di guerra, l'intero esercito diventava di 400.000 uomini, ai quali i tedeschi davanti a Parigi non potevano opporne più che la metà, distribuita sopra un largo circuito; nè mancava il tempo necessario per ammaestrare queste guardie, a partire dall'agosto.
Il comandante di Parigi aveva dunque a sua disposizione di fronte ai tedeschi una forza prevalente. Se gli fosse riuscito di spezzare in qualche punto l'anello di ferro, che cingeva Parigi, poche sarebbero state le probabilità per l'esercito tedesco di vincere ancora la guerra. Ma tutto ciò presupponeva che subito s'istruisse la guardia nazionale, ed ecco appunto quello di cui si aveva paura. Piuttosto perdere la guerra, e consegnare l'Alsazia-Lorena al nemico! Ben lo sentivano i Parigini, quindi il loro furore contro i capi che tradivano la Francia.
Quando Parigi ebbe capitolato, e fu eletta l'Assemblea, e il suo odio contro la Repubblica e la capitale si rivelò nel modo più provocante, i Parigini capirono di andare incontro ad un duro conflitto. L'unica forza, su cui potessero contare, era la guardia nazionale. I battaglioni rivoluzionari già durante l'assedio s'erano tenuti in stretto contatto, ed ora decisero di riunirsi in una lega, detta federazione, donde il loro nome di federati. Il 15 febbraio i delegati dei battaglioni rivoluzionari si raccolsero per decidere sulla federazione. Essi nominarono una commissione per l'elaborazione dello statuto, che fu proposto ad una nuova riunione del 24. Ma questa era allora troppo agitata, per il timore dell'ingresso dei tedeschi, e non potè deliberare. Essa interruppe la seduta per prendere parte ad una dimostrazione nella piazza della Bastiglia. Nei giorni seguenti si formò un Comitato centrale provvisorio della stessa guardia, cosa assolutamente necessaria in vista dell'imminente ingresso dei tedeschi, per prevenire possibili colpi di testa. Il 3 marzo una riunione di delegati provvide all'organizzazione definitiva. Fu deciso di creare un Comitato centrale formato di 3 delegati per ognuno dei 20 « arrondissements » di Parigi. Due di essi dovevano eleggersi dal Consiglio della legione, il terzo dai capi di battaglione di essa. Una legione era formata dai battaglioni di uno stesso « arrondissement »; il 15 marzo gli eletti si raccolsero e formarono il Comitato centrale definitivo, sciogliendo quello, che aveva fino allora provvisoriamente funzionato. Questo Comitato centrale, in quanto eletto dalle guardie, può essere considerato un consiglio di soldati. Esso però era eletto dai proletari e anche dalle guardie nazionali più vicine al proletariato, mentre i battaglioni, formati di possidenti, non vi parteciparono. Secondo i rapporti del Comitato centrale, questo aveva dietro di sè, il 18 marzo, 215 sui 260 battaglioni della guardia nazionale. Era così una specie di Consiglio di lavoratori, e lo si potrebbe paragonare appunto al Consiglio centrale dei Consigli di operai e soldati. Con tutto ciò la Comune di Parigi non è per nulla una Repubblica dei Soviet.
Quando il 18 marzo il governo se la svignò, e lasciò vacante il potere pubblico, questo ricadde naturalmente sul Comitato centrale, ch'era la unica organizzazione in Parigi, che godesse di prestigio, quantunque tutti i suoi membri fossero affatto sconosciuti. Il 19 marzo esso si raccolse per deliberare sul da farsi e, come accade spesso, anche allora il problema fu formulato così: si deve fare questo o quello? mentre sarebbe stato il caso di fare questo e quello insieme. Così i socialisti troppo spesso hanno discusso la questione: riforma o rivoluzione; invece di dirsi che la lotta per le riforme e lo sforzo verso la rivoluzione si debbono condurre nello stesso tempo, in quanto l'uno di questi movimenti non esclude l'altro, ma anzi lo integra.
Il 19 marzo, nel Comitato centrale, alcuni domandavano di marciare su Versailles, altri di appellarsi subito agli elettori, altri infine di pigliar tosto disposizioni rivoluzionarie, come se ognuna di queste misure non fosse stata ugualmente necessaria, o l'una dovesse escludere l'altra. Il Comitato centrale decise di appigliarsi a quella che gli sembrava la più urgente. Egli volle mostrare che la sollevazione di Parigi aveva dietro di sè la maggioranza degli elettori, e dar così all'insurrezione una maggior forza morale. Pensiero giusto, ma sarebbe stato il caso di rafforzare l'autorità morale del suffragio universale per mezzo della forza militare, di fronte ad un avversario, che si appoggiava sull'esercito.
La pronta elezione di una rappresentanza comunale in Parigi sulla base del suffragio universale, che l'Impero aveva rifiutato ai Parigini, era diventata naturalmente indispensabile. Già dopo la caduta dell'Impero, nel settembre 1870, gli operai di Parigi avevano strappato al governo provvisorio l'assicurazione, che tosto si sarebbe fatta l'elezione di una Comune. L'inadempimento di questa promessa aveva non poco contribuito alle agitazioni durante l'assedio. Le insurrezioni del 31 ottobre e del 22 gennaio si fecero al grido: Viva la Comune! Era quindi diventata necessaria la pronta convocazione dei comizi. Essi furono infatti fissati prima il 22 marzo e poi il 26. Il Comitato centrale si considerava come provvisorio, pronto a cedere il posto agli eletti del suffragio universale.
Nel « Journal Officiel de la République Française sous la Commune » del 20 marzo si annunciava ai cittadini di Parigi: « Tra tre giorni sarete chiamati nella più grande libertà ad eleggere la municipalità parigina. Allora quelli, che per necessità urgente occupano il potere, deporranno i loro titoli provvisori nelle mani degli eletti del popolo ».
E non fu solo promessa. Costituita la Comune, il Comitato centrale le trasmise il suo potere il 28 marzo. E volle anche aver l'aria di sciogliersi completamente; ma la Comune nol permise e così egli continuò a funzionare sotto il nuovo governo, come una parte del suo organismo militare. Ciò che non giovò alla semplificazione degli affari e all'unità di condotta della guerra. Però il Comitato centrale non cercò mai d'intaccare il principio, che il potere supremo apparteneva agli eletti del suffragio universale Mai elevò la pretesa che tutto il potere dovesse appartenere ai consigli degli operai e dei soldati, cioè in quel caso al Comitato centrale dei battaglioni formati dai lavoratori. In questo appunto fu la Comune di Parigi proprio l'opposto della Repubblica dei Soviet.
Eppure Federico Engels il 18 marzo del 1891 nel 20° anniversario della Comune scriveva: « Volete voi, o signori, sapere che cosa è la dittatura del proletariato? Ebbene guardate alla Comune di Parigi: quella era la dittatura del proletariato s.
Marx ed Engels, è dunque chiaro, non intesero mai sotto questa espressione la soppressione del diritto di voto eguale per tutti, ossia ciò che in genere si dice: democrazia.
c) I giacobini nella Comune. — Colle elezioni del 26 marzo furono nominati 90 membri della Comune, tra questi 15 partigiani del governo e 6 radicali borghesi che, pur militando nell' opposizione, condannavano l'insurrezione. Una repubblica dei Soviet non avrebbe certo permesso che tali elementi controrivoluzionari si presentassero come candidati, e molto meno che fossero eletti. La Comune in conformità al suo rispetto per la democrazia non oppose il minimo ostacolo alla elezione dei proprii avversari borghesi.
Che se poi l'attività di questi nella Comune ebbe presto fine, questo dipese soltanto da loro. La compagnia in cui erano capitati non andava loro a genio, ed essi si affrettarono a congedarsene. Alcuni prima ancora della riunione degli eletti, gli altri nei primi giorni della Comune. Queste dimissioni, come anche il fatto di alcuni eletti in due collegi, resero necessarie delle elezioni suppletive, che si fecero il 16 aprile.
La grande maggioranza dei membri della Comune stavano per l'insurrezione; però non tutti questi erano socialisti, anzi i più erano dei semplici rivoluzionari, che seguivano i principi del 1793, le tradizioni del giacobinismo. Alcuni avevano nel 1848, come Delescluze e Pyat, partecipato alla contraffazione della Montagna d'allora, e non pochi, attraverso le lotte politiche, abbandonati i loro mestieri, avevano finito per diventare cospiratori e rivoluzionari di professione. I più vecchi vivevano nella tradizione del passato, e non mostravano nessun interesse per i nuovi rapporti sociali e le nuove dottrine. « Gli altri, i giovani, erano per lo più, dei violenti senza carattere, spesso puri retori, che si davano ora il divertimento dell'insurrezione, come pochi mesi prima s'erano dato quello della guerra, empiendosi la bocca di formule e appagandosi di esse. Il rivoluzionarismo degli uni e degli altri era pura apparenza e superficialità, nei migliori di essi non andava al di là dell'intenzione ». Tal giudizio dà di loro il buon rivoluzionario Dubreuilh (« La Commune », 332)•
La più parte d'essi nulla comprendeva di socialismo, non pochi anzi lo vedevano ostilmente, e sopratutto Delescluze. Non si poteva chiamarli uomini politici della borghesia, nel senso che essi rappresentassero gl'interessi degli abbienti. Al contrario; essi si schieravano dalla parte delle classi inferiori, lottando per il loro potere, come avevano fatto gli uomini della Montagna nel '93. E appunto come questi, non sapevano trascendere i principi borghesi della proprietà e del diritto; in questo senso essi rappresentavano un elemento della borghesia, che formava la maggioranza dei rivoluzionari nella Comune. Solo pochi di essi appartenevano alla classe operaia; generalmente erano impiegati, farmacisti, inventori, avvocati e sopratutto pubblicisti.
Distinti dai giacobini erano i blanquisti in numero di 7, tra i quali lo stesso Blanqui, che però non potè assumere il suo posto. E questo dimostra quanto poco i blanquisti si aspettassero l'insurrezione del 18 marzo, tant'è vero che Blanqui, poco prima del suo scoppio, aveva abbandonato Parigi per ragioni di salute, e il 17 fu arrestato a Figeac, nel dipartimento del Lot.
I blanquisti concordavano coi giacobini nel programma di dominare, per mezzo dell'insurrezione delle plebi, Parigi, e attraverso questa la Francia coi metodi e mezzi d'un regime di violenza. Ma essi superavano il giacobinismo, in quanto riconoscevano che questo potere non avrebbe bastato a liberare gli sfruttati, qualora non avesse servito a fondare un nuovo ordine sociale. Perciò erano socialisti, quantunque per loro gl'interessi politici preponderassero sugli economici. Essi non studiavano la vita economica, non si sforzavano d'acquistarne una conoscenza sistematica, e una tal ignoranza nascondevano sotto la comoda scappatoia, spesse volte d'allora in poi ripetuta, che sdegnavano lasciarsi imprigionare in qualsiasi dogma. « Non vogliamo, dicevano, perderci nei pregiudizi e nelle dispute di scuola. Quando il proletariato sarà arrivato al potere, saprà ben esso quello che deve fare. La cosa principale è creargli questa forza ». E come mezzo essi proponevano la insurrezione preordinata.
Essi ebbero soltanto questa disdetta, che tutte le insurrezioni da essi preparate fallirono regolarmente; e l'unica, che riuscì, scoppiò senza essere preparata. Come la dottrina blanquista non esigeva una grande preparazione intellettuale, e prometteva pronti fatti, così essa esercitò un grande ascendente sugli uomini d'azione. Però trovò più successo tra gl'intellettuali, sopratutto gli studenti, che non tra i lavoratori.
Possiamo conoscere la reciproca proporzione di questi elementi nel partito blanquista di quel tempo dal fatto seguente. Il 7 novembre 1866, la polizia in un caffè di Parigi sorprese una riunione segreta del gruppo e ne arrestò i componenti. Erano 41, e di ciascuno si conosce la condizione: 14 operai, 4 commessi, 13 studenti, 6 scrittori, 1 avvocato, 1 principale, 1 « rentier », 1 commerciante. Maggiore sarebbe stato il numero degli studenti, ma il 7 novembre si era ancora nelle vacanze e molti di essi eran lontani da Parigi.
Questo ritrovo è significativo per il blanquismo, non solo per il carattere della sua composizione, ma anche per il suo scopo. Nel settembre '66 era stato tenuto in Ginevra il congresso dell'Internazionale, ed i blanquisti vi furono invitati. Ma Blanqui si oppose alla partecipazione; ciò non ostante 2 dei delegati eletti, l'avvocato Protot e l'impiegato Humbert vi andarono. Di qui grande eccitazione nel campo blanquista, dove era tradizionale non solo la dittatura del proletariato, ma anche quella del capo-partito. Due specie di dittature, che andavano di fatto strettamente unite. Era la prima volta, dalla costituzione del gruppo blanquista, che un comando del capo fosse trasgredito. Fino allora l'ubbidienza era stata cieca, ed anche in seguito il partito vi si tenne strettamente legato. La seduta del 7 novembre era stata tenuta per giudicare Protot. Ma venne disciolta prima di giungere a conclusioni: alcuni riuscirono a fuggire, fra questi lo stesso Protot, gli altri vennero, come abbiamo visto, arrestati. (Confr. Ch. Da Costa, « Les Blanquistes », Paris, 1912, 17-22).
Tra i blanquisti della Comune ritroviamo l'avvocato Protot ed anche due degli arrestati del 7 novembre: l'avvocato Tridon e lo studente Raoul Rigault. Degli altri eletti, Blanqui era giurista e medico, avendo fatto quei due studi, Eudes farmacista, e Ferré contabile. In tutta la frazione blanquista non troviamo che un solo operaio, il calderaio Chardon.
Dei membri dell'Internazionale eletti alla Comune due erano legati coi blanquisti, il fonditore Duval e lo studente Vaillant. Come si vede gl'intellettuali preponderavano di molto. Nel seno della Comune giacobini e blanquisti non si occupavano quasi di questioni economiche. La condotta della guerra contro Versailles, la polizia in Parigi, la lotta contro la Chiesa; ecco i còmpiti, ai quali si dedicavano. Quest'ultima lotta, come quella militare contro Versailles e la poliziesca contro gli amici di Versailles in Parigi, essi la conducevano con gli stessi mezzi di violenza, facendo più che altro questione di manifestazioni esteriori e di persone.
d) GI'internazionalisti nella Comune. — Il terzo gruppo nella Comune era rappresentato da membri dell'Internazionale, in numero di 17, quasi tutti proudhonisti. Il proudhonismo stava in aperto contrasto col blanquismo e col giacobinismo. Per esso il Terrore del '93 non solo non era un esempio da imitare, ma anzi da aborrire. Esso vedeva chiaramente la debolezza di questo metodo di governo e la fatalità del suo insuccesso. Comprendeva che il semplice acquisto del potere politico non mutava la situazione di classe del proletariato, nè rimoveva il suo sfruttamento, poichè questo risultato non si poteva raggiungere attraverso un rivolgimento. politico, ma solo uno economico. E ciò lo faceva diffidente verso il metodo blanquista dell'insurrezione e del terrorismo non meno che verso la democrazia. Nella rivoluzione del 1848 il proletariato s'era bensì impadronito di questo potere, ma che cosa vi aveva guadagnato ?
La dottrina di Proudhon era penetrata da una grande sfiducia di fronte alla lotta politica del proletariato per la libertà e per la partecipazione al potere. Oggi risorgono correnti di pensiero analoghe, che ci si presentano come i più recenti acquisti della dottrina socialista, come prodotti di esperienze, che Marx non conobbe, nè poteva conoscere. Si tratta invece soltanto di nuove variazioni di teorie vecchie di più d'un mezzo secolo, e che lo stesso Marx ha combattute e debellate. La interpretazione odierna di queste concezioni presenta, è vero, qualche piccolo mutamento, ma con ciò non può dirsi ch'esse abbiano acquistato maggior valore. Proudhon affermava l'inutilità della politica per la liberazione del proletariato, che solo può realizzarsi per mezzo d'un rivolgimento economico. Oggi si predica la vanità della democrazia, che è incapace di emancipare il proletariato, finchè questo langue nelle catene del capitalismo. Ma se la liberazione economica deve precedere la politica, allora logicamente diventa anche inutile ogni partecipazione attiva del proletariato alla vita statale, di qualunque specie possa essere.
Mentre il blanquismo aveva esclusivamente di mira la sola lotta politica contro il potere costituito dello Stato, il proudhonismo, non meno unilaterale, cercava i mezzi della liberazione economica del proletariato senza l'appoggio del potere politico; perciò l'accusavano i blanquisti di snervare i lavoratori, distogliendoli dalla lotta contro il secondo Impero, sotto il quale fiorirono le dottrine di Proudhon. Anche Marx ebbe occasione di rimproverargli « di avere civettato con Luigi Bonaparte, sforzandosi di renderlo accetto ai lavoratori francesi » (nel suo necrologio del gennaio 1865, ristampato nell'edizione tedesca della « Miseria della filosofia », pag. XXXII). Con ciò nei proudhonisti, che mettevano in prima linea il momento economico, era molto più spiccata, che non nei blanquisti, la coscienza della lotta di classe tra proletariato e borghesia, e forte e chiaro il pensiero che il proletariato doveva emanciparsi colla propria forza. Se i blanquisti erano sopratutto un partito di studenti, i proudhonisti costituivano il vero partito dei lavoratori in Francia, sotto il secondo Impero.
Quando dopo il '6o il movimento operaio si risvegliò da per tutto dal sonno mortale, in cui l'aveva piombato la reazione del '48, e l'Internazionale si costituì, i proudhonisti in Francia furono quelli che vi si riunirono; ragione sufficiente per Blanqui per proibire ai propri seguaci l'adesione ad essa, come vedemmo. I proudhonisti nell'Internazionale impararono una nuova pratica e una nuova teoria, allontanandosi dalle dottrine del loro maestro, e ciò tanto più che, mentre la Lega internazionale dei lavoratori si formava, moriva Proudhon (19 gennaio 1865), e in Francia sorgevano nuove condizioni per la lotta di classe. Proudhon aveva voluto un puro movimento economico senza politica. Ciò poteva accadere soltanto rinunziando ad ogni lotta, in cui si potesse venire a conflitto colle forze dello Stato. Soltanto mezzi pacifici: cooperative, banche di scambio, casse di sovvenzione, poggiate sulla mutualità, dovevano emancipare i lavoratori. Teorie di tal genere erano possibili in Parigi, la cui industria, già vedemmo, mostrava ancora scarsi i tratti salienti del grande industrialismo, e dove ai lavoratori il capitalista sfruttatore appariva ancora nella figura del banchiere usuraio e del negoziante, che porta al mercato i prodotti del lavoro, e non dell'impresario industriale. Nell'Internazionale i proudhonisti francesi impararono a conoscere il grande capitalismo industriale inglese e il movimento operaio corrispondente, che sul terreno economico mette la sua forza principale nelle organizzazioni per la lotta, nei sindacati e negli scioperi, tutte cose di cui Proudhon non voleva sentire parlare.
E su questa base pratica s'innalzava una teoria fondata esclusivamente sopra la profonda conoscenza delle leggi della società moderna e della sua vita, una teoria, che ancor pochissimi dei membri dell'Internazionale conoscevano, e ancor meno ben comprendevano, ma il cui creatore colla sua indiscutibile superiorità dominava omai tutta l'azione dell'Internazionale, empiendola del proprio genio. Nella dottrina marxista l'unilateralità del proudhonismo e quella del blanquismo erano superate. Marx riconosceva con Proudhon che i rapporti economici sono fondamentali, e che senza il loro spostamento nessun cambiamento politico può emancipare il proletariato. Ma nello stesso tempo riconosceva l'indispensabilità del potere politico per spezzare la tirannide del capitale; ed ottenere per la liberazione del proletariato le necessarie trasformazioni economiche. L'importanza fondamentale del fattore economico acquistava presso Marx tutt'altro significato che presso Proudhon. L'economia a' suoi occhi non rendeva superflua la politica, ma anzi necessaria. Da quella dipendeva il carattere e il risultato della lotta politica e il suo contraccolpo sull'economia. D'altra parte gli stessi rapporti economici erano da lui pensati come un processo continuamente progressivo, che oggi come risultato politico faceva possibile e domani inevitabile, ciò che ieri era ancora impossibile.
Studiare i rapporti e le tendenze economiche, e adattare ad esse gli scopi ed i metodi politici, in ciò consisteva per lui la relazione tra economia e politica. Blanquisti e proudhonisti invece prescindevano pienamente da questa comprensione storica; il loro còmpito non consisteva nel trovare in un momento dato, sulla base di una esatta conoscenza delle condizioni economiche, ciò che fosse possibile e necessario, ma cercare un mezzo che in ogni circostanza, in ogni condizione storica ed economica potesse produrre il risultato da essi desiderato. Trovato che abbiano i socialisti il mezzo adatto, essi sono in grado di impiantare il socialismo, dovunque vogliano. Credevamo che questo modo di pensare fosse stato per sempre superato dal marxismo, ma esso si fa oggi strada più che mai. Di bel nuovo a Mosca e a Budapest, invece di domandarsi quale politica in determinate condizioni economiche sia possibile e necessaria, si parte dal concetto che, sì tosto che il socialismo diventi l'aspirazione del proletariato, i socialisti debbono senz'altro là, dove sono venuti al potere, assumersi il còmpito d'impiantarlo. Loro ufficio non è di cercare se e quando sia possibile, ma piuttosto di rintracciare la pietra filosofale, la panacea che produrrà il socialismo in ogni e qualsiasi circostanza. Ed oggi si crede di aver risolta questa questione, proclamando. la dittatura del proletariato fondata sul sistema dei consigli. Al tempo del secondo Impero in Francia i blanquisti credevano d'aver scoperta la pietra filosofale nell'insurrezione, i proudhonisti nella banca di scambio.
Marx è pur sempre da troppo pochi pienamente compreso, egli, che presupponeva un potente lavoro intellettuale ed una grande subordinazione dei desideri e dei bisogni personali alla conoscenza oggettiva della realtà. Però i mezzi, le vie, gli scopi tracciati da lui e da Engels finiscono in generale per imporsi, perchè la logica delle cose parla in loro favore. Così il pensiero marxista poco a poco, anche tra gl'internazionalisti francesi fece indietreggiare la concezione di Proudhon. Appena in Francia tornò a rinvigorirsi il movimento operaio, anche là divennero inevitabili coalizioni e scioperi. L'Impero cercò di ricondurlo a vie legali ed apolitiche e permise la formazione delle corporazioni, nonchè la pratica degli scioperi, proprio in quell'anno stesso, in cui veniva fondata l'Internazionale (1864); i cui membri proudhonisti non solo furono costretti a partecipare al rinascente movimento, ma quali preminenti rappresentanti degli interessi economici della classe operaia furono portati dalle circostante alla testa delle sue organizzazioni ed agitazioni. Diveniva quindi inevitabile un conflitto colla forza statale, venendo così a trovarsi sul terreno della lotta politica, la lotta contro l'Impero.
In tali circostanze le dottrine degli internazionalisti francesi, che avevano preso le mosse da Proudhon, si penetrarono ognor più dei concetti marxisti. Il che non toglie che allo scoppio della insurrezione della Comune nessuno d'essi potesse chiamarsi ancora marxista. Avevano perduto i loro vecchi principi proudhoniani, ma non avevano ancora trovato un nuovo saldo terreno, onde i loro concetti si manifestavano tutt'ora confusi. Con tutto ciò essi erano, dei membri della Comune, quelli che più studiavano la vita economica e meglio s'erano famigliarizzati co' suoi bisogni. Perciò formavano la vera rappresentanza dei lavoratori, e Lissagaray dice al riguardo: « Si ha l'abitudine di chiamare la Comune un governo della classe lavoratrice. E' questo un grande errore. La classe operaia aveva partecipato alla lotta, aveva partecipato all'amministrazione, e solo il suo soffio aveva fatto potente questo movimento; però essa era nel governo pochissimo rappresentata... La votazione del 26 marzo aveva, su settanta rivoluzionari eletti, dato appena 25 lavoratori ». (« Storia della Comune », 2° Ed. 145).
Ma di questi 25 la maggioranza, 13, apparteneva all'Internazionale, la quale contava solo 17 rappresentanti nella Comune. Appena 4 non erano operai, ed uno, lo studente Vaillant, inclinava verso il blanquismo. Fra i 13 internazionalisti operai troviamo le migliori teste della Comune, il legatore di libri Varlin, il cesellatore Theiss, il tintore Malon, l'orefice Frankel. Corrispondentemente alla loro situazione di partito essi lasciarono ai giacobini e ai blanquisti le opere di violenza, la condotta della guerra, la polizia, e si applicarono alle opere di pace, all'amministrazione comunale e alle riforme economiche. Un solo di essi mostrò attitudini militari, il fonditore Duval, che, come sappiamo, insieme a Vaillant, aderiva al blanquismo. Egli fu uno dei comandanti della sortita del 3 aprile, fatto prigioniero, fu per comando del generale Vinoy fucilato, contando così tra i primi martiri della Comune. I suoi compagni dell'Internazionale si occupavano quasi esclusivamente di questioni economiche e vi riuscivano magnificamente, sopratutto nell'amministrazione: Theiss alle poste, Varlin e Avrial all'intendenza, non ostante le molte difficoltà, che si affacciavano loro, perchè gli alti impiegati si erano allontanati da Parigi o avevano abbandonati i loro uffici e gli operai dovevano a un tratto assumere funzioni direttive in campi a loro affatto estranei. Accanto ai membri dell'Internazionale che sedevano nella Comune ve n'erano altri non meno attivi ed abili, come il bronzista Camélinat, che assunse la Zecca in aprile, e qui, in poche settimane di lavoro, introdusse miglioramenti tali, che furono conservati anche dopo la caduta della Comune.
Ricordiamo anche Bastelica, che ebbe, la direzione del dazio, e Combault, direttore delle imposte indirette; tutti e due operai. Uno dei primi atti della Comune fu ch'essa affidò i diversi rami del potere esecutivo non a singoli ministri, ma a commissioni. La commissione del lavoro, industria e scambio, cioè quella che rappresentava il lato socialistico della Comune, risultò composta degl'internazionalisti Malon, Frankel, Theiss, Dupont (panieraio), Avrial (meccanico), Gerardin e del giacobino Puget, del quale non sappiamo il mestiere. Dei cinque membri della commissione di finanza tre appartenevano all'Internazionale: il tintore Victor Clément, Varlin e il filantropo benestante Beslay, uno dei pochi borghesi dell'Internazionale, e accanto a loro il giacobino Regère, veterinario e vecchio lottatore contro l'Impero, e il cassiere Jourde, che non apparteneva a nessun speciale partito e fu il vero direttore della finanza, nelle cui mani passarono milioni, mentre sua moglie continuava a lavare la biancheria della famiglia nella Senna, ed egli, durante i due mesi del suo ufficio, non spese mai più di L. 1,60 per vivere.
Nelle due commissioni del lavoro e della finanza le cose procedevano ben diversamente che in quelle di guerra e polizia. Mendelsson, nell'appendice alla « Storia della Comune » di Lissagaray (trad. tedesca, 2a ed.), mette in piena luce il contrasto dei due metodi: « Non c'era nell'amministrazione della guerra della Comune la menoma traccia di capacità e serietà. Qui si vedeva soltanto inettitudine, insipienza, vanità e mancanza d'ogni senso di responsabilità. Tutto ciò era il riflesso delle tristi condizioni di disorganizzazione, di cui aveva sofferto il movimento socialista durante l'Impero. E andando da piazza Vendóme alla prefettura di polizia si aveva una seconda copia della stessa situazione. Per riposarsi dalla chiassosa burbanza dei nuovi hebertisti, che scimmiottavano la polizia e lo stato maggiore, bisognava andarsene al ministero del lavoro e dello scambio. Qui il nome palesava l'influsso delle teorie di Proudhon, ma i membri coscienziosi e moderati dell'Internazionale erano così occupati in un lavoro pratico, da rimuovere da sè ogni utopistica fantasticheria. Considerandosi come comitato dei lavoratori, essi non mettevano la loro autorità in galloni e distintivi, ma formavano una commissione d'iniziativa composta dei rappresentanti di maestranze e leghe operale. E questo ministero organizzò il suo lavoro per modo che si potesse dire ch'esso fece, date le circostanze, ciò che potè e non mirò mai ad alcuna cosa, che non fosse fattibile ».
Qui erano concentrati i socialisti, che si avvicinavano più di tutti a Marx; il loro còmpito fu nella Comune veramente rivoluzionario e tuttavia, ciò che sorprende, si mantennero nei limiti di una grande prudenza. La ragione di questa. che fu anche comune al ministero della finanza, fu esposta da Jourde, a proposito del dibattito relativo agl'istituti di pegno. Si era proposto di restituire gratuitamente ai loro proprietari dal 12 maggio, gli abiti impegnati, gli arredi domestici, gli utensili del valore fino a L. 20. I monti di pietà sarebbero indennizzati dallo Stato Nel corso di questa discussione Avrial propose, che al posto dei monti di pietà si fondasse una istituzione, che potesse meglio funzionare. Jourde gli rispose: « Si dice, create un'istituzione. E' presto detto, ma bisogna aver del tempo per studiare prima di crearla. Se uno dicesse ad Avrial: fabbricate affusti, fabbricate cannoni. egli domanderebbe del tempo. Anch'io faccio la stessa domanda ». (Seduta del 6 maggio « Journal officiel », 7 maggio, pag. 493).
La Comune non ebbe tempo di creare nulla di veramente notevole nel campo sociale. Le sue intelligenze migliori non volevano arrischiarsi in nessuna impresa, senza prima averla profondamente studiata. Oggi la più parte dei loro provvedimenti sembrerebbero meschini, come l'abolizione del lavoro notturno dei fornai e il divieto delle multe nelle fabbriche. La decisione più audace, che si voleva prendere, non oltrepassò la fase dell'indagine preliminare. Durante l'assedio e dopo il 18 marzo, molte fabbriche in Parigi erano state abbandonate e chiuse dai loro proprietari, che avevano preso la fuga. Su proposta di Avrial fu decisa un'inchiesta intorno a questa situazione così interessante per gli operai. Il decreto è così concepito:
« Considerando che un buon numero di fabbriche sono state abbandonate da quelli che le dirigevano a fine di sfuggire agli obblighi civici, e senza tener conto degli interessi dei lavoratori;
« Considerando che in seguito di questa vile diserzione, molti lavori essenziali alla vita comunale sono stati interrotti, e l'esistenza dei lavoratori compromessa;
« La Comune di Parigi decreta:
« Le camere sindacali operaie sono convocate allo scopo d'instituire una commissione d'inchiesta che dovrà:
« 1° Compilare una statistica delle fabbriche abbandonate, ed un inventario esatto dello stato in cui si trovano e degli stromenti di lavoro che contengono;
« 2° Presentare un rapporto che fissi le condizioni pratiche della immediata riattivazione di queste fabbriche, non più per opera dei disertori, che le hanno abbandonate, ma dell'associazione cooperativa degli operai, che vi erano impiegati;
« 3° Elaborare un progetto di costituzione di queste società cooperative operaie;
« 4° Costituire un giurì arbitrale che deciderà, al ritorno dei detti padroni, intorno alle condizioni della definitiva cessione delle fabbriche alle società operaie, e intorno all'entità dell'indennizzo da pagarsi dalle società ai padroni. Questa commissione d'inchiesta dovrà dirigere il suo rapporto alla Commissione comunale del lavoro e dello scambio, che sarà in obbligo di presentare alla Comune nel più breve tempo possibile il progetto di decreto diretto a soddisfare gli interessi della Comune e dei lavoratori ».
Questa ordinanza datata dal 16 aprile (« Journal officiel » 17 aprile, pag. 286). La commissione d'inchiesta si riunì il 10 e il 18 maggio. Ma sopraggiunse la caduta della Comune, quindi quella commissione non potè venire a nessuna pratica proposta di socializzazione. Però l'importanza della sua formazione sta in ciò: ch'essa ci lascia intravedere la via che i socialisti della Comune avrebbero seguito, qualora quel governo proletario fosse sopravvissuto. Non è il caso di parlare di una socializzazione assoluta, d'una immediata abolizione di tutto il sistema delle imprese private. Al contrario si rimproverava agli imprenditori di avere abbandonato vilmente le loro fabbriche, cessando così di occupare í loro operai. Contemporaneamente s'intende veniva loro anche fatto un rimprovero opposto. Il Comitato centrale del 20° circondario (da non confondersi col Comitato della guardia nazionale) costituitosi durante l'assedio, si lagnava che gl'imprenditori trattenessero nelle fabbriche i loro operai e con ciò impedissero ad essi di compiere il loro dovere di guardie nazionali.
Secondo il progetto della Comune dovevano essere tosto socializzate solo quelle imprese, che i loro proprietari avevano piantato in asso, e ancora dopo una preparazione accurata. Un altro passo verso la socializzazione fu progettato in riguardo alle forniture per l'esercito, uniformi e artiglierie. Queste forniture dovevano essere affidate a cooperative dal ministero del lavoro. Si conserva il progetto di un ordinamento del lavoro, che fu sottoposto alla Comune dagli operai delle officine del Louvre, che si occupavano di riparare le armi, e nel quale era fissata la giornata di lavoro di dieci ore. Questo regolamento composto di 22 paragrafi è stampato nel « Journal officiel » del 21 maggio (pag. 628-29). Esso manifesta molto bene le tendenze alla socializzazione di questi operai della Comune. Giusta il regolamento gli operai eleggevano il rappresentante delle officine presso la Comune, il capofabbrica e il capo-operaio. Un consiglio di fabbrica era costituito, formato dei predetti, ai quali si aggiungeva anche un operaio per ogni reparto (banc.).
La Comune doveva nominare un consiglio di sorveglianza, che sarebbe stato tenuto al corrente di tutti gli avvenimenti della fabbrica e al quale era consentito l'esame dei registri. Gli operai del resto si mostravano assai solleciti nella tutela degli interessi della Comune; nell'articolo 15 la giornata di lavoro non era fissata come aveva domandato il Congresso dell'Internazionale a Ginevra del 1866 ad 8 ore, bensì a 10. In casi urgenti si permetteva un prolungamento d'orario, qualora il consiglio di fabbrica lo consentisse. Per le ore straordinarie non si pagava una più alta mercede. Oltre ciò i salari erano fissati molto bassi. Il direttore 250 franchi mensili, il capo fabbrica 210, il capo operaio 0,70 per ora, per gli operai ordinari non era fissato il minimo ma il massimo, che non doveva superare 0,60 per ora. Notevole è anche la disposizione dell'articolo 16, esso stabilisce che deve esserci sempre un operaio nella fabbrica di notte per il caso che occorrano armi. Ogni operaio doveva per turno assumersi questo servizio di guardia e come conclusione si dice: « siccome nelle presenti condizioni è strettamente necessario risparmiare il danaro della Comune, questa vigilanza notturna non sarà compensata » (« Journal Officiel », pag. 629). In verità questi operai non consideravano l'avvento della loro dittatura come una favorevole occasione per un aumento di salario. La grande causa comune stava loro più a cuore che l'interesse personale.
e) Il socialismo della Comune. — Non ostante il suo temperamento vulcanico Marx non aveva nulla da ridire dinanzi a questa prudente condotta. Nella « Guerra civile in Francia » (p. 53) egli scriveva : « La grande misura sociale della Comune era la sua stessa esistenza di lavoro. Le sue stesse misure speciali non potevano che indicare la direzione in cui un governo di popolo per mezzo del popolo si muove ».
E dopo avere giudicato come dittatura del proletariato il governo del popolo per mezzo del popolo ossia la democrazia, Marx prosegue e loda le misure finanziarie della Comune come contrassegnate da uno spirito di accortezza e di moderazione (p. 54); e non molto prima nello stesso scritto espone i principi, che debbono guidare il periodo di transizione dal capitalismo al socialismo:
« La classe operaia non ha preteso nessun miracolo dalla Comune. Essa non ha da introdurre utopie fisse e bell'e pronte per mezzo di deliberazioni popolari. Essa sa che, per elaborare la sua stessa emancipazione, e con questa quella forma di vita superiore, alla quale la società presente tende irresistibilmente col proprio sviluppo economico, essa, la classe operaia, ha da sostenere ancora lunghe lotte, traversare un'intera serie di processi storici, in forza dei quali gli uomini non meno delle circostanze saranno completamente trasformati. Essa non ha da realizzare alcun ideale: essa non ha che da porre in libertà gli elementi della società nuova, che si sono già sviluppati in grembo della società borghese in isfacelo » (pag. 50).
Da questa proposizione che la classe operaia non ha da realizzare nessun ideale, si è concluso che Marx non avrebbe proposto nessun scopo al movimento socialista, non avrebbe dato nessun programma determinato. Ma a ciò contraddice il fatto ch'egli stesso ha elaborato più di un programma socialista, dal « Manifesto dei comunisti » del 1847 al « Programma del partito francese dei lavoratori » che fu composto da lui nel 1880 colla collaborazione di Guesde e Lafargue.
Nelle proposizioni qui citate egli espone di già lo scopo del movimento socialista: la liberazione della classe operaia per mezzo della lotta di classe e del suo vittorioso progresso, e l'elaborazione di più alte forme di vita, le quali devono sorgere dal predominio acquistato dai lavoratori sulle basi della tecnica moderna. Ben si potrebbe obbiettare a Marx che questi scopi nient'altro sono in definitiva che ideali.
Vi sono dunque per la classe lavoratrice degli ideali da realizzare. Quando Marx parla d'ideali irrealizzabili certo intende parlare d'ideali trascendenti, che stanno al di là dello spazio e del tempo, come sarebbero un'eterna giustizia e libertà. Gli scopi del movimento operaio per Marx vengono fuori dalla stessa evoluzione economica, e le forme particolari della loro attuazione son da lui concepite in continuo divenire pur esse, subordinatamente allo spazio ed al tempo.
Non è il socialismo per Marx un'utopia fissa e bell'e pronta, bensì un processo, che presuppone un lungo svolgimento dei rapporti economici e della classe operaia, svolgimento che non si chiude colla sua vittoria politica, ma da essa è soltanto messo in grado di render liberi gli elementi della società nuova. Già due decenni prima Marx aveva indicato come condizioni prime della rivoluzione un lungo ammaestramento della classe operaia e la conoscenza delle reali sue condizioni. Dopo lo scoppio della rivoluzione del 1848 egli venne, attraverso lo studio dei rapporti economici, alla convinzione che l'età rivoluzionaria fosse per allora finita; ciò che lo mise in conflitto con molti dei suoi compagni, che vi vedevano un tradimento alla rivoluzione. Le masse avevano il bisogno, la volontà della rivoluzione, dunque essa era inevitabile.
Marx opponeva loro nel settembre 1850: « La minoranza (della lega dei Comunisti) al posto d'una concezione critica, ne pone una dommatica, al posto d'una materialistica, una idealistica. Molla della rivoluzione diventa per essi la pura volontà, invece dei rapporti reali. Mentre noi diciamo ai lavoratori: voi avete per 15, 20, 50 anni sostenuto guerre civili e lotte nazionali, non solo per cangiare lo stato delle cose, ma anche per mutare voi stessi e rendervi idonei al potere politico; voi all'opposto dite: « Noi dobbiamo giungere ad ogni costo al potere, ovvero possiamo andare a dormire ». Mentre noi richiamiamo specialmente l'attenzione dei lavoratori tedeschi sull'immaturità del proletariato tedesco, voi lusingate nel modo più grossolano il sentimento nazionale ed il pregiudizio di classe dell'operaio tedesco, il che è mai sempre popolare. Come i democratici hanno dato alla parola « popolo » un significato sacro, così voi avete fatto della parola « proletariato ». Come i democratici, voi sostituite al processo rivoluzionario la frase della rivoluzione » (Marx, « Rivelazioni sul Congresso dei Comunisti a Colonia », nuova edizione 1885, pag. 21).
Quando Marx si ribellava a che la pura volontà divenisse il propulsore della rivoluzione, naturalmente non intendeva dire che la volontà non ci avesse nulla a fare. Senza volontà non è possibile azione cosciente. Senza la volontà non che la rivoluzione, la storia stessa non vi sarebbe. « Conditio sine qua non » d'un movimento sociale è senza dubbio un forte volere negli strati sociali, e questo deriva da un bisogno profondamente sentito.
Ma colla sola volontà non è tutto fatto. Se il movimento deve aver esito, deve ben altro preesistere che il solo volere, che il solo bisogno. Posso io ben aver la volontà di vivere eternamente, e questa mia volontà può essere anche fortissima, ma non mi proteggerà dalla morte. Se una azione deve avere successo occorre che la volontà si diriga verso il possibile, deve il bisogno trovare i mezzi alla propria soddisfazione. E devono sopratutto, quelli che vogliono, possedere la forza di superare gli ostacoli, che stan loro di fronte. E' un ufficio della critica distinguere mediante acconcio esame dei rapporti reali il possibile dall'impossibile e porre in chiaro l'intreccio delle forze contrarie nonchè agire in modo che le energie degli uomini vengano limitate a ciò, che si può pel momento attuare. Così soltanto si eviterà ogni sciupio di forze, così si utilizzeranno al massimo le energie esistenti. Una critica siffatta non si raggiunge facilmente nelle cose sociali. Poichè la base economica della società è da concepirsi in un continuo processo di evoluzione e mutazione, anche i bisogni di essa, i mezzi ad essi idonei, le forze necessarie per raggiungere ciò che è più opportuno, debbono anche mutare. Diventa quindi la società sempre più ampia, più complessa e più difficile a capirsi.
Ben è vero cresce anche l'intelligenza umana e progrediscono i metodi della conoscenza. Ma non sempre l'intelletto umano serve a conoscere i veri rapporti della realtà. Mosso com'è del continuo a soddisfare i bisogni soggettivi là, dove le condizioni di fatto rendono impossibile questa soddisfazione, lo spirito è troppo spesso inclinato a fabbricar dentro questi rapporti aspetti favorevoli al proprio volere. L'uomo non vuol morire, ma la conoscenza della realtà gli dice che è mortale. Ma l'ingegno dell'uomo ha saputo scoprire in mezzo a questa realtà certi indizi, da cui conclude che noi sopravviveremo dopo la morte. I proletari di Roma antica vivevano nella più obbrobriosa povertà, eppure sentivano acuto il bisogno di una gioconda vita d'ozio e di piacere. Di fatto una tal vita era loro interdetta; tuttavia a dispetto della realtà la fantasia ne prometteva loro una simile nel regno millenario, al quale essi credevano d'andare incontro. Il pensiero della divinità fu allora lo stromento adoperato per far diventar forte quello che è debole, possibile l'impossibile. Essa avrebbe dovuto trasformare in padroni del mondo il miserabile e maltrattato popolo dei Giudei, essa avrebbe dovuto assicurare all'insorte schiere dei miserabili contadini e proletari nell'età della Riforma la vittoria sulle ben equipaggiate e ben esperte schiere dei principi. Nel XIX° Secolo i proletari cessarono dal credere a una siffatta divinità salvatrice; ma l'immagine della grande Rivoluzione francese, durante la quale la plebe parigina aveva talvolta sfidata l'intera Europa, fece sorgere in loro sovente la fede in un nuovo prodigio, quello nelle forze miracolose della rivoluzione e del proletariato rivoluzionario, che diventò per essi una specie di oggetto sacro.
Al popolo bastava soltanto volere, e poi avrebbe ottenuto tutto quanto voleva. Se non aveva ancor nulla raggiunto, questo dipendeva solo dal fatto, che non aveva voluto.
Di fronte a questa concezione idealistica Marx fece valere un'opposta dottrina, quella materialistica, che esigeva si tenesse conto dei reali rapporti delle cose. Queste condizioni di realtà storica dovevano bensì, attraverso l'emancipazione dei lavoratori ed una più alta forma di vita, condurre a quel risultato, verso cui irresistibilmente la presente società nel proprio sviluppo tende, ma questo effetto non era da conseguire come un'utopia fissa e bell'e pronta, non costituiva una forma sociale perfetta e valevole per ogni tempo, ma produceva solamente un nuovo momento del processo e del divenire sociale.
Per questo la classe operaia non è sempre nè in ogni circostanza matura per assumere il potere. Essa deve percorrere un certo sviluppo che a ciò la renda idonea. Con tutto ciò non le è consentito di scegliere il momento dell'ascensione al potere. Quando questo fatto accada, non è suo compito rovesciare senz'altro il sistema produttivo vigente, ma piuttosto allacciarsi ad esso e svilupparlo nel senso del proletariato, liberando le forze della nuova società, il che può in circostanze diverse prendere significati assai diversi. Essa tanto meglio troverà ciò che è opportuno in ogni momento, quanto più chiaramente conosca le reali condizioni delle cose e ne tenga conto.
Quando dopo la rovina di Napoleone, in Parigi emerse la possibilità d'una rivoluzione proletaria, Marx ne fu molto preoccupato. Certamente i Parigini formavano il proletariato più intelligente d'allora. Non per nulla abitavano il cuore del mondo, la culla del progresso e della rivoluzione. Ciò non ostante l'Impero li aveva privati sia di buone scuole, sia di libertà di stampa, come anche di libertà politica, e per molto tempo aveva impedita la loro organizzazione sindacale. A Marx pareva che l'ora presente comandasse di utilizzare la repubblica per una migliore educazione e riorganizzazione delle masse operaie, il cui interesse era quello di difenderla con tutte le forze. Del resto contro la presa di possesso del potere politico per opera dei lavoratori stava anche la circostanza che la più gran parte del paese era ancora agricola e Parigi stessa prevalentemente piccolo-borghese. Ma d'altra parte la storia del mondo non dipende esclusivamente dalla nostra volontà. E l'avvento di una rivoluzione non si può nè ritardare nè affrettare. La sollevazione degli operai di Parigi e la loro vittoria del 18 marzo furono un avvenimento fatale. Ora bisognava rendersi pienamente conto di ciò che la situazione di fatto consentiva di raggiungere al proletariato vittorioso, e concentrare a tale scopo tutte le forze. Marx non credeva che il compito più importante della Comune potesse essere per il momento la soppressione del sistema capitalistico di produzione. Il 12 aprile 1871 egli scriveva a tal proposito a Kugelmann: « Se tu leggi l'ultimo capitolo del mio « diciotto Brumaio » troverai che io considero quale scopo immediato della Rivoluzione francese non più, come s'è fatto fin qui, il trapasso da una mano all'altra dell'apparecchio burocratico-militare, ma piuttosto la sua distruzione; e questa è la condizione preliminare d'ogni efficace rivoluzione sul continente. A ciò appunto mirano i nostri eroici compagni di Parigi ». (Stampato nella « Neue Zeit », XX, i, pag. 709). Non una parola in questa lettera di socialismo. Come compito fondamentale della Comune Marx segnala la distruzione della forza burocratica militare.
Naturalmente non può il proletariato salire al potere senza iniziare accanto ai cangiamenti dell'organizzazione dello Stato anche quegli altri nella organizzazione del processo produttivo, che possono migliorare la propria situazione. Ove vogliansi indicare come socialismo tutte le intromissioni del potere politico dirette a questo scopo, potrà dirsi che vi fu socialismo anche sotto la Comune. Ma era molto lontano da ciò che oggi s'intende con questo nome. In parte ciò dipese dalla mancanza di tempo. L'intero movimento comunista non durò che poche settimane. Ma in gran parte anche perchè esso si limitò alla Parigi della piccola industria. E data questa base economica era difficile che andasse molto più in là dell'aiuto alla trasformazione di laboratori privati in cooperative di produzione. Appena sarebbe stato possibile abbracciare un intero ramo d'industria in un unitario organismo di produzione, che regolasse così l'acquisto delle materie prime come lo smercio dei prodotti. Ciò avrebbe potuto accadere soltanto, quando alla Comune fosse riuscito di attirare a sè su tutto il paese l'intero apparecchio di governo, nonchè compire la statizzazione delle ferrovie e forse anche delle miniere e delle ferriere. Con tutto ciò non sarebbe stato soppresso il capitalismo, nella vicina Germania riforme simili in parte sorgevano o erano già in preparazione; ma la situazione sociale del proletariato si sarebbe pur sempre notevolmente innalzata sotto un regime di democrazia proletaria. Insieme alla brevità del tempo e alla immaturità economica del paese fu anche d'impedimento rilevante alla socializzazione l'impreparazione teorica degli uomini della Comune al riguardo. Giacobini e blanquisti ben poco si curavano di cose economiche. Gl'internazionalisti invece vi annettevano la più alta importanza. Ma erano a quel tempo sprovvisti di principi teorici, essendo in procinto di abbandonare la base del proudhonismo senza essersi ancora così spinti per collocarsi su quella del marxismo con una chiara coscienza. Marx nonostante le loro esitanze approvava il metodo della Comune, che consisteva nell'esplorare i fatti economici prima di volerli cambiare, evitando di provocare, con affrettati decreti, errori, causa di scompiglio e delusione. Per quanto questa prudenza dipendesse più da incertezza teorica che da cosciente sistema, essa coincideva con quello che Marx aveva riconosciuto quale conseguenza della sua concezione materialistica, che cioè in una rivoluzione non la pura volontà, bensì la conoscenza del reale stato delle cose deve servire di guida. Questo lato della sollevazione parigina è acutamente posto in luce da Dubreuilh nella sua « Comune » pag. 419):
« Una politica di espropriazione metodica non era possibile anche per questa perentoria ragione che gli stessi lavoratori salariati, nel loro insieme, non concepivano quasi nemmeno il funzionamento d'una società sopra basi diverse di quelle tradizionali, e non possedevano nessuna delle istituzioni sindacali e cooperative necessarie per assicurare, dopo aver abolito ogni istituzione capitalista, un funzionamento normale della produzione e dello scambio. Un regime nuovo, sopratutto un regime sociale, non s'improvvisa per mezzo di decreti. I decreti, le leggi vengono solo a sanzionare i rapporti già esistenti. Tentando su questo terreno di precorrere i tempi, la Comune non sarebbe riuscita, forse, che a rivolgere contro se stessa una parte delle proprie forze, e proprio la parte migliore, senza con ciò suscitare nei salariati un più vivo slancio e una devozione più attiva. Le era solo consentito di lavorare, sotto la maschera democratica delle istituzioni politiche, all'avviamento d'una generale trasformazione sociale. E questo appunto essa fece ».
Così si effettuava sul terreno sociale questo avvenimento storico del quale disse Engels che esso è l'illustrazione dell'espressione marxista, « La dittatura del proletariato ». Il metodo marxísta della socializzazione, cui si avvicinò la Comune, deve essere il nostro anche oggi. Con ciò non è detto che lo stesso metodo debba portare con sé nella Germania attuale quello stesso spirito di moderazione, che mostrò la Comune del 1871. E' trascorso d'allora un mezzo secolo della più poderosa evoluzione capitalistica. L'enorme progresso fatto si mostra già in ciò che, allora si sollevò solo la capitale, e ancora in un movimento non schiettamente proletario, senza contraccolpo nel paese per guisa che esso fu schiacciato dalla prevalenza del partito agrario, alleato colla burocrazia e l'alta finanza che rappresentava la maggioranza della popolazione (nel 1872 il 53 %). Ma nell'anno 1918 la rivoluzione tedesca scoppiò in tutte le parti dell'Impero e fu dovunque opera del proletariato. Ormai l'agricoltura non rappresentava più che un quarto della popolazione (nel 1907 il 29 %), mentre l'industria è giunta al tipo dell'impresa colossale e alla coalizione sindacale di tutti i suoi rami.
Il proletariato parigino usciva appena nel 1871 dal regime bonapartista, che gli aveva impedito ogni mezzo d'educazione e di organizzazione. Il proletariato tedesco entrò invece nella propria rivoluzione con una preparazione politica e sindacale di mezzo secolo, con un'organizzazione politica ed economica che abbracciava milioni d'individui. E ancora, i socialisti francesi del '71 erano in procinto di abbandonare una dottrina economica dimostratasi insufficiente, senza però essere arrivati a sostituirla con un'altra di maggior validità. Ma l'odierno socialismo tedesco dispone d'una concezione storica ed economica e d'un sicuro metodo, riconosciuti dai socialisti di ogni paese come i più elevati ed efficaci, capaci di fecondare lo stesso pensiero borghese, in grazia della loro preminenza indiscussa sovra ogni altra teoria attuale nel campo economico.
E' naturale che in siffatte condizioni ben si possa ora più rapidamente, più largamente, più energicamente procedere alla socializzazione, di quel che fosse possibile nel 1871.
f) Federalismo e accentramento. — Abbiamo parlato di un metodo economico della Comune, ma anche lasciato capire che non si può credere di trovarlo qui, nel pieno senso del vocabolo. Impossibile discorrere nella Comune d'un procedimento metodico, cosciente e applicato secondo un piano predisposto. Impossibile già per questo: chè in essa collaborarono molte tendenze tra loro contrastanti. Cosicchè la condotta di questo governo fu il risultato degli stessi contrasti e non d'una teoria determinata. I socialisti stessi non ci vedevano molto chiaro, senza contare ch'erano in minoranza. Tuttavia le manifestazioni economiche della Comune portano l'impronta della loro iniziativa, poichè la maggioranza dava poco peso alla economia, e su questo terreno era anche più malsicura che la minoranza.
Le cose andavano ben diversamente nel campo politico. Qui le opposizioni erano molto più forti e vennero più in luce, lacerando quasi la Comune e ostacolandone la capacità di lavoro. Ma la tendenza generale che si determinò sotto la pressione delle circostanze, prese una direttiva mediana, accettata dallo stesso Marx, press'a poco come nel campo economico.
Già sappiamo che la maggioranza della Comune si componeva di giacobini e di blanquisti; se questi s'erano messi dalla sua parte, gli è che la pensavano alla maniera del 1793, come un organismo che dominasse la Francia e le imponesse il proprio volere. Repubblicani, radicali e liberi pensatori volevano distruggere l'intera compagine della monarchia : clero, burocrazia ed esercito permanente; quindi intendevano ricostituire la posizione predominante di Parigi mediante un governo, che mettesse a disposizione di un potere centrale, residente nella capitale, la maggior forza politica. Dimenticavano però che la Comune di Parigi nel '93 appunto coll'accentramento d'ogni autorità, che aveva favorito, aprì anche le porte all'impero napoleonico. Essi attendevano ogni salvezza da un Comitato di salute pubblica, investito di poteri dittatori, senza pensare che una dittatura, che non si appoggi sopra un esercito rigidamente disciplinato ed una buona amministrazione, è soltanto l'ombra di una dittatura. Nella più aperta opposizione coi giacobini accentratori stavano i proudhonisti, che opponevano alle tradizioni del '93 non solo una critica sagace, ma anche un'avversione dichiarata. Essi riconoscevano le illusioni, che avevano condotto al governo del Terrore ed avevano ingannato il proletariato spingendolo ad una sanguinaria depravazione senza per nulla avvantaggiare la sua opera emancipatrice. E non meno dei giacobini avversavano essi anche la democrazia; osservando che il suffragio universale aveva prodotto la reazionaria assemblea del 1848 e aveva servito d'appoggio all'Impero. E di fatto nelle generali condizioni economiche della Francia d'allora l'azione politica, fosse essa diretta alla dittatura o alla democrazia, non aveva mai presentato nessuna prospettiva di diventare un mezzo per l'affrancamento diretto ed immediato della classe proletaria. Ora i socialisti di un tal mezzo si curavano sopra tutto. Naturalmente erano ancora molto lontani dal pensiero di una evoluzione e quindi anche dal riconoscere l'importanza che la democrazia può acquistare per lo sviluppo della concezione politica e della capacità organizzatrice del proletariato, donde dipende la sua definitiva emancipazione. Nè la democrazia nè la dittatura erano certo allora mezzi adeguati ad una tal opera; e i proudhonisti ben lo comprendevano. Non però erano esatte le conseguenze, che ne ricavavano. Fare a meno del resto d'ogni politica, ciò che sarebbe stato loro più caro, non potevano. E allora si appigliavano alla politica municipale, che presentava al proletariato nelle singole comunità industriali ben altri orizzonti che non la politica statale in un paese prevalentemente agricolo.
La democrazia sembrava loro nel municipio tanto utile, quant'era inutile nello Stato. E così gli acuti critici ed i denigratori del parlamentarismo, questa bottega delle chiacchiere, come lo definivano, diventavano accomodanti rispetto ai parlamentini locali, queste altre botteghe di chiacchiere in proporzioni ridotte. L'ideale dei proudhonisti diventava così la sovranità municipale, ciò che corrisponde alle condizioni economiche di una piccola borghesia, della quale essi intendevano tener conto, senza spingersi neppure fino alla soppressione del commercio. Eppure già al loro tempo esistevano rami d'industria, la cui importanza economica superava l'interesse delle singole comunità. Per regolare il loro funzionamento i diversi comuni avrebbero fra di loro conchiuse delle libere federazioni: con questo mezzo speravano i seguaci di Proudhon di affrancare il proletariato industriale anche nella Francia agraria. Trascuravano soltanto di tener conto che lo scioglimento dello Stato in tante comunità sovrane è un programma politico, la cui attuazione presuppone l'abbattimento del potere statale costituito, proprio quello che i proudhonisti non volevano fare. Il pensiero della Comune nel loro concetto era proprio l'opposto di quello giacobino, per questo la Comune di Parigi diventava un mezzo per impadronirsi dell'autorità politica allo scopo di dominare l'intera Francia.
Peri proudhonisti la sovranità d'ogni comune era invece il mezzo per mettere fine ai poteri dello Stato. Questo contrasto delle due tendenze, la giacobina rivoluzionaria e la socialista federale, è molto ben notato da Arturo Arnould nella sua « Histoire populaire et parlementaire de la Commune de Paris ».
« Le stesse parole venivano interpretate in due modi differenti dai diversi membri dell'Assemblea. Per gli uni la Comune di Parigi esprimeva, personificava la prima applicazione del principio anti-governativo, la guerra alle vecchie concezioni dello Stato unitario, accentratore, dispotico. Per questi la Comune rappresentava il trionfo del principio di autonomia, degli aggruppamenti liberamente federati e di un Governo del popolo per mezzo del popolo, nella forma più diretta che fosse possibile. Ai loro occhi la Comune era la prima tappa di una vasta rivoluzione così sociale come politica, che avrebbe fatto « tabula rasa » degli errori passati. Ciò implicava la negazione assoluta dell'idea di dittatura: era l'avvento del popolo stesso al potere e l'annichilimento d'ogni altra autorità fuori e sopra di quella del popolo. Gli uomini che sentivano, che pensavano, che volevano così, formarono ciò che più tardi si disse: il gruppo socialista ossia la minoranza. Per gli altri la Comune di Parigi era invece la continuazione dell'antica Comune del 1793. Essa rappresentava ai loro occhi la Dittatura a nome del popolo, una enorme concentrazione di potere in poche mani, e la distruzione delle antiche istituzioni da farsi prima di tutto colla sostituzione d'uomini nuovi messi alla testa di quelle istituzioni stesse trasformate momentaneamente in armi di guerra e messe al servizio del popolo contro i suoi nemici. Tra gli uomini di questo gruppo autoritario, l'idea d'unità, di accentramento non era del tutto scomparsa. Se accettavano, se inscrivevano nella loro bandiera il principio dell'autonomia comunale e della libera federazione dei gruppi, ciò facevano per imposizione della volontà di Parigi. Del resto, date le loro abitudini spirituali contratte durante una lunga vita di lotte, di rivendicazioni, quando venivano all'atto, ricadevano nella via che così a lungo avevano seguito, e si lasciavano andare, certo in buona fede, a voler applicare vecchi metodi a un'idea nuova. Non comprendevano che in questi casi, la forma prende il sopravvento sul contenuto, e che volendo fondare la libertà coi mezzi della dittatura e dell'arbitrio, la si uccide anche coll'intenzione di salvarla. Questo gruppo, composto del resto d'elementi assai diversi, formò la maggioranza, e s'intitolò dei Rivoluzionari-Giacobini ».
Dubreuilh cita queste conclusioni, osservando però che si possono applicare soltanto alle parti estreme delle due tendenze. E sta bene. Ma questo può dirsi di qualsiasi tendenza si voglia parlare. In ogni partito vi sono molte sfumature. Ma quando lo si vuol ben conoscere, bisogna portare l'attenzione sopra quegli elementi che ne sono la espressione più conseguente e per così dire classica!
I dissidi erano profondi tanto che forse non sarebbero stati superati, se la Comune fosse stata destinata a vincere. Ma essa non era vittoriosa e appunto questo impose al di sopra dei contrasti una direttiva mediana. A partire dal 3 aprile la Comune, che s'era vista astretta alla difensiva, rinunciò ad ogni pensiero di dominare la Francia. Sfuggiva così ai Giacobini la possibilità di attuare il loro programma. Perduta la speranza di dominio per mezzo della Comune, era già molto se si fosse potuto impedire che le libertà di Parigi non venissero schiacciate dalla reazione della provincia. Ancor meno in condizioni siffatte, c'era da pensare di mettere in esecuzione il progetto dei proudhonisti di spezzare lo Stato francese e trasferire nei municipi la piena sovranità.
Giacobini accentratori e proudhonisti federalisti si vedevano dalla forza delle cose spinti a proporsi un medesimo intento, quello che le circostanze del resto rendevano allora abbastanza pratico, anzi poteva considerarsi per la Francia come una vera necessità, tanto che anche non pochi uomini politici della borghesia non vi erano contrari, e cioè l'autonomia municipale realizzata entro i confini posti da uno Stato democratico, la limitazione dell'ingerenza burocratica e la sostituzione dell'esercito permanente con una milizia nazionale.
Anche gli internazionalisti si ridussero a questo riconoscimento dello Stato democratico, tanto più che come vedemmo, negli ultimi anni dell'Impero erano entrati in lotta con esso e avevano perciò adottata l'azione politica, cominciando così a compenetrare d'idee marxiste il rigido formalismo di Proudhon. Il risultato finale fu una politica che Marx doveva accettare di buon grado. Se egli fosse stato a Parigi non avrebbe saputo decidersi nè per l'una nè per l'altra tendenza. E sarebbe rimasto isolato. Ma la forza delle cose e anche l'abilità delle migliori teste tra i comunardi, che tenevano conto anche qui della realtà dei fatti più che della sola volontà, finirono per determinare quella direttiva media, alla quale Marx stesso era più vicino. Su questo terreno più ancora che sull'economico, vale la parola di Mendelsson (nella sua aggiunta a Lissagaray, pag. 525).
« I creatori della Comune non sembra abbiano saputo essi stessi, quello che avevano creato ».
Le loro novità politiche infatti si effettuarono tra le più aspre lotte di tendenza delle due opposte frazioni. Il maggior malanno di questo Governo fu la mancanza di organizzazione, conseguenza naturale dello stesso difetto nelle abitudini ed attitudini del proletariato d'allora, quale era uscito fuori dal secondo Impero.
La Comune fu fin dagli inizi in guerra aperta con Versailles; ora se c'è bisogno assoluto di ordine e disciplina è appunto in guerra. La Comune ne mancò del tutto. I battaglioni comunardi erano al comando di ufficiali, ch'essi stessi avevano eletto. Con ciò questi ufficiali non dipendevano più dal Comando Supremo, bensì dai loro subalterni, che li avevano eletti. Su tale base non si organizza un esercito atto alla guerra; un sistema simile mette la disorganizzazione all' ordine del giorno.
L'han ben visto i bolscevichi in Russia, che sono stati costretti a metter fine al potere dei consigli di soldati e all'elezione degli ufficiali per parte della truppa, appena hanno dovuto fare la guerra sul serio. L'obbedienza dei singoli battaglioni della guardia nazionale agli ordini del Comando supremo, dipendeva dal loro beneplacito. Nessuna meraviglia perciò che il numero dei veri combattenti fosse molto scarso. Sui 162.000 uomini di truppa e 6500 ufficiali, che ricevevano il soldo, dopo la sortita disastrosa del 3 aprile, che andassero al fuoco e combattessero se ne può contare da 20 a 30.000 appena. Questi valorosi sopportarono l'intero peso d'una terribile lotta contro un ben agguerrito e disciplinato esercito che verso la metà di maggio saliva a 120.000 uomini.
Il disordine che veniva dal basso era accresciuto da quello dell'alto. Accanto alla Comune permaneva il Comitato centrale della guardia nazionale, che pur avendo trasmesso a quella ogni autorità, continuava a inframmettersi in ogni disposizione che riflettesse la guardia stessa.
Marx nella lettera a Kugelmann (12 apr. 1871) denuncia questo errore del Comitato d'aver troppo presto abdicato ad ogni potere, per far posto alla Comune (« Neue Zeit », XX, pag. 709), ma non dà nessuna ragione, cosicchè noi non sappiamo in che l'errore consista, secondo lui. E' lecito però supporre, che alluda all'influsso sulla condotta della guerra. Dice infatti che questo fu il secondo errore compiuto dai Parigini; il primo era stato quello di non aver marciato subito, il 18 marzo, su Versailles. Da questi due errori poteva dipendere la loro sconfitta.
Veramente questi due errori fondamentali, donde derivò, che fin da principio la situazione militare fosse disperata, sono stati compiuti prima dell'insediamento della Comune. Nulla dimostra poi che la guerra sarebbe stata più favorevole sotto la direzione del Comitato centrale di quello che fu sotto la Comune. Al contrario quel Comitato si mostrò anche più incerto di essa. Condurre le guerre non è veramente il forte del proletariato. Peggio di tutto fu poi la compresenza di due Comandi supremi autonomi, cui si aggiunse anche una terza autorità, che volle essa pure metterci bocca, il Comitato di Artiglieria.
« Il Comitato d'Artiglieria sorto il 18 marzo aveva delle beghe col ministero della guerra, a proposito dei cannoni. Quest'ultimo aveva quelli del Campo di Marte, mentre il Comitato aveva messo le mani su quelli di Montmartre » (Lissagaray, « Storia della Comune », pag. 205).
Si cercò di riparare a questo stato di disordine, rafforzando il potere governativo. Al posto delle commissioni esecutive, già menzionate, entrò in funzione un Comitato esecutivo, composto di 9 persone, un delegato per ciascuna delle nove Commissioni. Il male era troppo profondo, per esser rimosso da siffatti cangiamenti. Allora i giacobini si ricordarono del '93, e domandarono un Comitato di salute pubblica con poteri dittatori, che sarebbe stato la morte stessa della Comune. L'avanzata irresistibile delle truppe versaglieli diede occasione a Miot, membro della Comune e possessore d'una delle più belle barbe del 1848 (Lissagaray, pag. 223), di domandare il 28 aprile l'istituzione d'un Comitato di salute pubblica, cioè una nuova Commissione, che doveva sovrapporsi alle molte altre esistenti. Sulla necessità d'un potere esecutivo più energico, c'era l'unanimità, ma il dibattito più aspro sorse a proposito del nome. I giacobini credevano che bastasse chiamare la Commissione Comitato di salute pubblica per comunicarle la magica virtù del 1793. Ma era appunto questa tradizione della Repubblica francese e del suo famigerato Comitato, che i proudhonisti, spaventati al ricordo del Terrore, non volevano!
Con 34 voti contro 28 fu decisa la formazione del Comitato il I° di maggio. La più parte della minoranza (23) si asteneva dal votare in questa elezione per il seguente motivo:
« Non abbiamo presentato candidati, non vogliamo votare un'istituzione che ci pare tanto dannosa quanto inutile. In un Comitato di salute pubblica vediamo la negazione dei principi di riforma, sociale, dai quali è nata la rivoluzione comunale del 18 marzo ».
Il Comitato che avrebbe dovuto elevare al più alto livello le energie della Comune e por termine al suo disordine, invece ebbe per primo effetto quello di diminuirle, in quanto le divideva. Già sol per questo esso perdeva d'ogni prestigio: aggiungi che quelli, che quasi soli sostenevano il peso del lavoro positivo in seno alla Comune, cioè gli internazionalisti, se ne tenevano lontani. I suoi membri furono, come dice Lissagaray, dal primo all'ultimo degli sbraitoni di vocazione. Fin dal 9 maggio questo inetto Comitato fu sciolto, per eleggerne un altro. La minoranza partecipò all'elezione, quando vide che dietro al nome tanto temuto, si nascondeva tutt'altro che una effettiva dittatura. S'era però frattanto così acuito il dissidio tra maggioranza e minoranza, che quella commise l'errore di non includere nel Comitato nessun membro di questa.
Il secondo Comitato si mostrò non meno incapace del primo, lo superò soltanto in ciò che procedette assai energicamente contro la minoranza, allontanò molti dei suoi membri dai propri uffici, privando così la Comune delle sue migliori intelligenze.
Ciò condusse alla rottura aperta: il 16 maggio la minoranza pubblicò nei giornali una dichiarazione, dove protestava contro l'abdicazione della Comune a favore d'una dittatura irresponsabile, e annunciava ch'essa non avrebbe più a lungo partecipato ai lavori della Comune, ma si sarebbe ristretta ad agire nei circondari e nella guardia nazionale. Per tal modo, concludeva, sperava risparmiare alla Comune la discordia intestina, che voleva evitare, visto che maggioranza e minoranza lavoravano per gli stessi scopi.
Nonostante la conclusione conciliante, la dichiarazione lasciava trasparire la rottura aperta. La minoranza pertanto, ad onta della sua maggiore capacità nell'amministrazione e la sua comprensione del problema economico, si manifestò nella sua condotta politica poco conseguente e poco risoluta. Aveva protestato contro la dittatura del primo Comitato di salute pubblica, disertando le elezioni del I° maggio, poi riconosciuta questa dittatura il 9, ponendo candidati propri per questo secondo Comitato. Il 15 aveva nuovamente deciso di protestare pubblicamente contro la stessa dittatura sospendendo i propri lavori nella Comune, il 16, giorno della pubblicazione della sua protesta, essa cedette ai suoi amici, cioè al Consiglio federale dell'Internazionale, che la sollecitava a non spezzare l'unità della, Comune di fronte al nemico che avanzava, e il 17, 15 dei 22 sottoscrittori del manifesto, riapparvero nella seduta del Consiglio. La maggioranza però non si placò, nonostante i tentativi di mediazione di alcuni più ragionevoli dei suoi componenti, tra i quali Vaillant. Una soluzione conciliativa venne respinta, e approvata la proposta di Miot che diceva:
« La Comune dimenticherà il contegno di quel membri della minoranza che ritirino le loro firme dalla dichiarazione fatta. Essa disapprova la suddetta dichiarazione ».
Dubreuilh osserva al riguardo (pag. 440):
« Giacobini e federalisti stavano così come fratelli nemici anche davanti all'ultima battaglia sulle barricate, davanti alla morte ».
Il 21 le truppe di Versailles entravano in Parigi. Il 22 ebbe luogo l'ultima seduta della Comune.
La sua politica ci presenta uno spettacolo degno di considerazione: le due tendenze, che vi erano rappresentate, avevano ambedue un tal programma, che preso alla lettera, era inapplicabile e avrebbe condotto i suoi sostenitori a atti assurdi. Sotto la pressione della realtà l'azione reciproca dei due programmi effettuò una politica, che non solo era possibile, ma anzi corrispondeva mirabilmente ai bisogni della Francia, e ha ancor oggi un nocciolo assai fecondo: come l'esigenza dell'autonomia comunale e la soppressione dell'esercito permanente, i due caposaldi che non sono oggi, per la restaurazione della Francia, meno importanti di quel ch'erano ai tempi della Comune.
g) Il pensiero terrorista nella Comune. — Non si può parlare di Comitato di salute pubblica senza pensare al Terrore, di cui fu l'anima nel 1793. Era naturale che il contrasto sulla questione della dittatura del Comitato continuasse nella questione del Terrore. I giacobini come stavano per quella così ammettevano anche questo come mezzo di lotta, gli internazionalisti lo repudiavano.
Fin dalla seduta inaugurale il dissidio si manifestò nella Comune. Un membro aveva proposto l'abolizione della pena di morte; « Egli vuol salvare la testa di Vinoy » (il generale dei versaglieli) gli si gridò.
Il 29 aprile Frankel dinanzi al Consiglio federale dell'Internazionale, ne formulava la politica in questi termini:
« Vogliamo fondare il diritto dei lavoratori, e ciò è possibile soltanto colla persuasione e colla forza morale ».
Dall'altro lato troviamo individui, come il drammaturgo Félix Pyat, il contabile Teofilo Ferré e lo studente Raoul Rigault, che non riuscivano a saziarsi di frasi sanguinarie.
Come principio tutti i giacobini stavano per le misure terroriste. Nella pratica però n'erano affatto alieni. Anche la più parte d'essi non potevano sfuggire a quello spirito d'umanità, che penetrava allora l'intera democrazia borghese e proletaria. Si aggiunga che per la seconda Comune non si presentavano le condizioni che avevano generato il terrorismo della prima. La seconda Comune non ebbe dinanzi l'insolubile compito di fondare un Governo favorevole agli interessi proletari sopra una base borghese. Di più essa limitava la propria azione a Parigi, la cui maggioranza teneva risolutamente dalla sua, così che non le era necessario di intimidire colla forza i propri avversari. Il nemico pericoloso per essa era fuori delle mura della comunità, e non lo si poteva raggiungere coi mezzi del terrore.
Mancava così il movente di rimettere in pratica la tradizione terrorista. Quel che Raoul Rigault e Ferré nell'ufficio di polizia eseguirono in fatto di soppressione di giornali ed arresti, fu più una brutta copia dei metodi dell'Impero che non governo del Terrore; questo aveva proceduto con ben altri mezzi. Lo studente blanquista Rigault aveva raccolti i suoi allori sotto l'Impero in una continua lotta colla polizia, di cui conosceva per filo e per segno ogni intrigo e gherminella. Già dal 9 marzo, prima della rivolta, Lauser dà di lui queste informazioni:
« Le più strane cose mi sono state raccontate da quelli, che lo conoscono, sulle sue stravaganze ed astuzie, per sviare la polizia, intralciarne le sue ricerche e farla per proprio conto da prefetto di polizia di Parigi egli stesso » (« Sotto la Comune di Parigi », Diario, Leipzig, 1878, pag. 18).
Il 18 marzo egli ebbe l'opportunità di far il prefetto di polizia e questa volta sul serio. La prima cosa che fece nella notte dal 3 al 19 fu quella di installarsi alla prefettura. Ma la sua opera sollevò ben presto le proteste d'ogni parte, e sopratutto degli Internazionalisti. Quantunque egli stesse scrivendo una storia della Comune del '93, i suoi procedimenti avevano poco da fare coi principi di quell'epoca famosa. D'altra parte non bisogna imputare alla Comune le fucilazioni dei generali Thomas e Clement; che come vedemmo accaddero, quando essa non esisteva ancora, e nonostante l'opposizione del Comitato centrale. Una misura sola della Comune può dirsi terroristica, diretta ad intimidire il nemico colla violenza a danno di inermi, cioè l'arresto degli ostaggi.
Che il prendere ostaggi sia un procedimento sterile, che raramente impedisce crudeltà, mentre più spesso serve ad accrescere gli orrori di un conflitto, che ha occasionato questa misura, è pur troppo dimostrato da molte esperienze. Però sarebbe stato difficile alla Comune sostituire qualche altro mezzo, se non voleva sopportare senza resistenza che i versagliesi fucilassero i prigionieri fatti, ciò che dal 3 aprile s'era verificato spessissimo.
« Sotto l'impeto dello sdegno provocato dalla fucilazione di Duval (uno dei comandanti della guardia nazionale, catturato dai versagliesi nella sortita del 3 aprile) e dei prigionieri di Puteaux e Chatillon, molti membri della Comune domandarono che si fucilasse subito un gran numero di reazionari, da prendersi sopratutto nel clero parigino. Altri giacobini e in ispecie Delescluze spaventati da queste intemperanze, proposero allora il decreto sugli ostaggi. Esso doveva servire ad arrestare i versagliesi sulla strada sanguinosa nella quale erano ciecamente entrati. Per una specie di tacita convenzione, si intendeva che questo decreto non sarebbe stato messo in esecuzione ». (Fiaux, « Guerre civile de 1871 », pag. 246).
Un tal decreto non scaturiva da un impulso malvagio di distruggere umane vite, ma dal desiderio opposto di salvarne. Da un lato si voleva trattenere i versagliesi dal continuare nelle loro odiose fucilazioni, dall'altro spingerei Parigini a rinunziare a rappresaglie subitanee. Nel proclama della Comune del 5 aprile, si legge:
« Sempre generoso e giusto anche nella sua collera, il popolo aborre dal sangue, come aborre dalla guerra civile; ma esso ha il dovere di proteggersi contro gli attentati selvaggi dei propri nemici, e costi che costi, esso renderà occhio per occhio, dente per dente ». (« Journal officiel », 6 aprile, pag. 169).
Veramente la Comune si mostrò generosa e giusta, appunto perchè non seguì poi il principio: « occhio per occhio, dente per dente! ».
Il decreto sugli ostaggi stabilisce che ogni individuo colpevole di intese segrete con Versailles venga senz'altro posto in istato d'accusa ed arrestato. Una corte marziale è instituita, che deve esaminare gli accusati entro 24 ore e giudicarli entro 48. Nessun condannato sarebbe stato fucilato, ma solo trattenuto in arresto come ostaggio. Anche gli altri prigionieri di guerra sarebbero portati dinanzi alla stessa corte, che avrebbe deciso se si dovessero lasciar liberi ovvero tenerli in ostaggio. Si decretava infine che ad ogni soldato o partigiano della Comune fucilato dai versagliesi si risponderebbe con la fucilazione d'un numero triplo di ostaggi.
Ma quest'ultima terribile disposizione rimase lettera morta, perchè la Comune non ne fece mai uso, sebbene quelli di Versailles, dopo una breve interruzione, riprendessero a fucilare i prigionieri, senza crucciarsi di esporre a pericolo le vite dei loro aderenti ch'erano in ostaggio a Parigi.
Thiers mirava appunto a questo: eccitare i comunardi alla strage, ben sapendo che ogni ostaggio assassinato giovava non alla Comune, ma a se stesso di fronte alla pubblica opinione di tutto il mondo, tiranneggiato ancora dal modo di pensare e di sentire borghese. Esso assisteva bensì con perfetta indifferenza al massacro sistematico dei numerosissimi prigionieri compiuto dai versagliesi, ma si era sollevato d'indignazione alla sola notizia dell'imprigionamento degli ostaggi in Parigi. I suoi bassi sentimenti Thiers li mise bene in luce, in occasione del cambio degli ostaggi.
Dopo il decreto del 5 aprile erano stati arrestati nella capitale alcuni preti, un banchiere Jecker, il fautore della spedizione del Messico, Bonjean, presidente della Cassazione. La Comune propose un cambio. Essa avrebbe liberato i preti prigionieri, l'arcivescovo Darboy, il curato Deguerry, il vicario generale Lagarde e il presidente Bonjean, qualora Versailles mettesse Blanqui in libertà. Anzi per mostrare la propria condiscendenza, spedì il 12 aprile a Versailles il vicario Lagarde con una lettera di Darboy a Thiers. Lagarde aveva giurato di tornare indietro, qualora le trattative fallissero. Già prima, 1'8 aprile, Darboy aveva diretto a Thiers una lettera, supplicandolo di non far più fucilare i prigionieri. Ma Thiers non rispose. Il 13 un giornale di Parigi, « L'Affranchi » pubblicava questa lettera. Solo allora Thiers rispose, dichiarando falsamente che tutte le notizie di fucilazione erano pura calunnia. Quanto alla risposta alla seconda lettera, che aveva portato Lagarde, non venne che alla fine d'aprile. In essa Thiers rifiutava la liberazione di Blanqui, e cercava di consolare l'arcivescovo, assicurandolo che la vita degli ostaggi non correva pericolo. Quanto al vicario generale, non ostante il suo giuramento, si guardò bene di ritornare nella fossa dei leoni. Ulteriori tentativi del nunzio pontificio e dell'ambasciatore americano Washburne per intervenire a favore dello scambio dei prigionieri rimasero infruttuosi. Cosicchè devesi imputare a Thiers se quegli ostaggi, eccettuato Lagarde, si trovavano ancora prigionieri a Mazas
quando la Comune cadde, perdendo così la forza di proteggerli. Thiers aveva avuto ragione affermando che sotto la Comune la vita degli ostaggi non correva pericolo, quantunque questa affermazione implicitamente smentisse le sue calunniose accuse di brutalità lanciate contro quel Governo. Ma egli stesso poi aveva cooperato, abbattendolo, a privare di protezione gli ostaggi ed esporre al maggior rischio le loro vite. I versagliesi entrarono a tradimento in Parigi una domenica, il 21 maggio, all'improvviso, proprio mentre si teneva un concerto popolare nel giardino delle Tuilleries. Mentre questo finiva, un ufficiale di stato maggiore invitava il pubblico a ritrovarsi qui la domenica prossima, soggiungendo: « Thiers aveva promesso di entrare ieri in Parigi. Thiers non è entrato e non entrerà mai ». In quel minuto i versagliesi irrompevano in Parigi. La popolazione era così sopraffatta, le truppe comunarde così spossate, che i versagliesi avrebbero potuto con una rapida decisiva avanzata impadronirsi di tutta la città, senza incontrare seria resistenza. Essi invece avanzarono cautamente, dando così tempo ai soldati comunardi di raccogliersi per la suprema lotta di strada che durò una settimana intera, la rossa settimana di maggio, durante la quale tutte le passioni si scatenarono fino al parossismo, tanto più che i versagliesi non davan quartiere a nessuno, fucilando non solo quelli che eran colti colle armi in pugno, ma massacrando chiunque fosse sospetto. Alcuni storici di questi avvenimenti dubitano, e forse non a torto, che la lenta avanzata dei versagliesi era premeditata, e mirava a prolungare la resistenza e attraverso la resistenza il numero delle vittime e la enormità della carneficina.
« Parigi avrebbe potuto esser occupata in 24 ore, qualora l'esercito fosse venuto su per il « qui » della riva sinistra; esso non avrebbe incontrata altra resistenza che al Ministero della Marina, a Montmartre e Menilmontant. Colla lenta marcia dentro Parigi, dando tempo alla resistenza di organizzarsi, si fece un numero di prigionieri otto e dieci volte maggiore di quel che ci fossero combattenti, si fucilarono più persone di quel che ce ne fossero dietro le barricate, mentre l'esercito ebbe solo 600 morti e 7000 feriti » (G. Bourgin, « Histoire de la Commune », pag. 108).
Il numero dei comunardi uccisi oltrepassò i 20.000; alcuni giungono a 30.000. Il generale Appert, capo della giustizia militare, diede il numero di 17.000 morti. Le vittime, che non vennero a conoscenza dell'autorità militare, non si possono contare, ma certo non furono meno di 3000. Non c'è da stupire se in mezzo a quella furia di sangue in taluni prendesse il sopravvento la sete di vendetta. E questa tanto più selvaggia quanto più impotente, quanto meno poteva scongiurare la disfatta. Solo appena la Comune ebbe cessato di esistere, cominciarono le fucilazioni degli ostaggi. Il 21 i versagliesi entrarono, il 22 s'iniziò il combattimento per le vie, il 24 si ebbero le prime stragi degli ostaggi.
E anche qui, quantunque questi massacri siano più il prodotto della rabbia disperata e della cieca sete di rappresaglia che un procedimento premeditato, è palese il contrasto tra Giacobini e Internazionalisti. Chi diede il segnale della strage fu il blanquista Raoul Rigault; egli fece nella notte dal 23 al 24 uccidere, insieme ad alcuni gendarmi presi il 18 marzo, il redattore Chaudey arrestato verso la metà d'aprile. Chaudey il 22 gennaio aveva fatto sparare sul popolo, e in quella circostanza l'amico di Rigault, Sapia, era caduto al suo fianco.
Il 24 Rigault fu a sua volta catturato e fucilato. Nello stesso tempo il vecchio blanquista Genton domandò la esecuzione di 6 ostaggi, tra questi l'arcivescovo Darboy, il presidente Bonjean, il curato Deguerry, già menzionati. Il blanquista Ferré gli diede al riguardo pieni poteri.
« Il plotone d'esecuzione era quasi tutto formato di adolescenti, meglio ancora bambini. Quelli che parteciparono a questi delitti per la più parte erano ragazzi cresciuti nella viziosa eccitazione della strada, le cui passioni precoci d'impuberi non lasciavan posto ad alcun senso di responsabilità » (Fiaux, « Guerre civile », pagina 528).
Osservazioni analoghe potremmo purtroppo fare ad ogni piè sospinto rispetto a quelli che oggi in Germania mettono in opera la legge marziale.
Il 26 di nuovo il blanquista Ferré dispone che 48 ostaggi per lo più preti, agenti della polizia segreta e gendarmi, che avevano il 18 marzo sparato sul popolo, siano consegnati al comandante in capo Gois, anch'esso un blanquista.
Questi li condusse via, seguito da una turba di individui armati e fuori di sè, che sapevano di non poter sperare quartiere e di essere anch'essi dei condannati a morte. Ebri di disperazione si gettarono sugli ostaggi, massacrandoli l'un dopo l'altro. Invano Varlin e Serailler, dell'Internazionale, tentarono di salvarli. Per poco la folla furibonda non li linciò, colmandoli d'improperi quasi fossero versaglieli. Il 28 lo stesso Varlin, che aveva esposto la sua vita per salvare gli ostaggi, riconosciuto e denunciato da un prete, per la via, fu arrestato e fucilato.
Quei borghesi, che s'indignano del terrorismo comunardo, non hanno però una parola per le innumerevoli vittime sacrificate alla sanguinaria voluttà del vincitore durante e dopo la lotta. Essi, s'intende bene, non hanno frasi sufficienti per condannare l'eccidio di qualche dozzina di ostaggi, che, quando il Governo della Comune era già stato abbattuto, caddero vittime dello spirito di rappresaglia e dell'incosciente disperazione di pochi insorti, i quali ben si sapevano votati al prossimo sterminio per parte dei vincitori. A guardar bene è invece proprio la sorte degli ostaggi che ci dimostra quanto il Terrore fosse estraneo alla Comune. Non c'è nella storia nessun'altra guerra civile, forse nemmeno nessuna guerra nazionale, in cui una parte si sia mantenuta così ligia ai precetti d'umanità e li abbia praticati a dispetto della violenza verbale di qualche esaltato, di fronte alla sanguinaria disumanità della parte opposta, come è stato il caso della guerra civile di Francia del 1871.
Per questo la fine della seconda Comune è tanto diversa da quella della prima, che aveva fatto un così violento uso di mezzi terroristi. Questa precipitò senza che i lavoratori di Parigi sorgessero a difenderla; chè anzi la sua caduta parve a molti una liberazione e fu salutata con plauso. Il 9 Thermidoro del '94 quando le avverse forze dei due partiti in lotta si urtarono, prima ancora che la sorte fosse decisa, i partigiani di Robespierre voltarono le spalle e si dispersero.
Invece alla seconda Comune i parigini rimasero tenacemente fedeli e la difesero fino all'ultimo. Per vincerli si dovette venire alla più accanita battaglia di strada, che durò per una settimana intera. Il numero delle vittime, morti, prigionieri e fuggiaschi, che costò questa lotta suprema, raggiunse un totale di 100.000 (fin dal 1871 si dava il numero di 90.000), (Bourgin, « La Commune », pag. 183).
Anche la Comune aveva presentato i più ampi dissidi; vedemmo con quale spirito d'ostilità le due tendenze impegnarono l'ultimo conflitto. Non mai però l'una parte ha cercato di soverchiare l'altra con mezzi di violenza, ma anzi ad onta di tutto, maggioranza (i bolscevichi d'allora) e minoranza (menscevichi) hanno combattuto insieme fino alla morte.
E questo perchè i socialisti di tutte le tendenze videro nella Comune la rappresentanza generale dell'intero proletariato sceso in lotta. In questo riconoscimento si unificavano Marx e Bakunin, Lassalliani e Eisenachiani.
Così si scolpì nel cuore di quanti aspirano all'emancipazione dell'umanità il ricordo di questo primo Governo proletario; e la potenza suggestiva di questa vera dittatura del proletariato nella gran lotta per l'emancipazione in ogni paese in gran parte derivò dal fatto ch'essa fu compenetrata di quello spirito d'umanità che animava la classe operaia del XIX° secolo.

7. — Mitigazione dei costumi.
a) Bestialità e umanità. — I continuatori della Rivoluzione francese si astengono, come vedemmo, dal ripetere i suoi fasti sanguinari e dal 183o al 1871 anche quei rivoluzionari, che lottano, restando entro l'orbita della tradizione terrorista, mirano nella pratica ad una condotta umanitaria, in contrasto coi loro avversari, i quali hanno sempre nel giugno 1848 come nel maggio 1871 messo in luce la peggiore brutalità. In tutto il secolo XIX° le classi lavoratrici ci presentano una progressiva umanizzazione de' loro costumi. Ma ecco che nel principio del XX° sopraggiungono le rivoluzioni di Russia e di Germania, e nuovamente si scatena lo spirito di violenza, che fa ripensare alle stragi rivoluzionarie del XVIII° secolo. Come spiegare un così brusco cangiamento?
Secondo la comune opinione le tendenze umanitarie sono un prodotto della civiltà. Si suppone dai più che l'uomo sia per natura un essere malvagio e antisociale dotato di istinti di violenza e pronto alla sopraffazione dei propri simili, disposto ad aggredirli, maltrattarli, ucciderli. Solo il progresso dell'educazione e della tecnica, cioè la civiltà, fornì all'uomo sentimenti di socievolezza, di benevolenza e pietà, e inversamente di orrore per la crudeltà e l'assassinio. Un'opinione siffatta ha la sua espressione nello stesso linguaggio, perchè diciamo appunto umanità il complesso delle più recenti qualità morali distinte dalle primitive, che vengono contrassegnate col vocabolo brutalità o bestialità (bestia, brutum). Gran parte dei nostri etnologi si accostano a questo punto di vista, al quale aderisce anche la scuola del Lombroso, che vede nel delitto una forma di atavismo, quasi un ritorno alla vita ed ai sentimenti degli animaleschi antenati dell'uomo. Però gli animali carnivori non sembrano di regola inclinati ad uccidersi reciprocamente. Niente giustifica la supposizione che l'uomo sia per natura un tal essere dotato d'istinti di violenza e di aggressione. Noi non conosciamo gli antenati della specie umana, ma possiamo supporre che le scimmie antropomorfe siano di tutti gli animali viventi quelli che più si accostano all'uomo. In tal caso appunto come quelle scimmie i nostri progenitori debbono essersi nutriti prevalentemente di vegetali, completando questo cibo forse con qualche piccolo animale o bruco o rettile od uccello implume. Però mai sarebbero stati indotti, ad uccidere qualche grosso mammifero. Nessuna scimmia infatti fa qualcosa di simile. A più forte ragione essa non conduce contro i propri simili nessuna guerra a morte; che del resto le farebbero difetto gli organi necessari. Tutt'al più s'impegna tra i singoli individui qualche zuffa o per la preda o per la femmina, ma queste risse, che costano loro qualche ciuffo di peli, non mettono certo a repentaglio la vita.
Cambiano pur troppo le cose per l'uomo, appena la tecnica gli permette di aggiungere agli organi naturali, altri organi artificiali, stromenti ed armi da punta, da taglio. Ecco che allora l'uomo entra in possesso degli organi propri dei carnivori, e si sviluppano parallelamente in lui le corrispondenti funzioni e gli istinti degli animali da preda. La dieta vegetale perde importanza per lui. Caccia e strage diventano la sua cotidiana occupazione.
Ora possono le contese tra individuo ed individuo trasformarsi in ferimenti ed uccisioni. Però l'omicidio collettivo, la guerra, non può spiegarsi ancora mediante la sola invenzione delle armi. Bisogna presupporre a tal uopo un ulteriore progresso della civiltà: l'aggruppamento umano in una società chiusa. Forse questo punto non è stato studiato fin qui abbastanza: io stesso non ho avuto occasione di metterlo sufficientemente in rilievo. Appunto perciò mi si consentano alcune osservazioni, se anche esse debbano allontanarci alquanto dal nostro tema.
Che l'uomo discenda da animali gregari, non può esser dubbio, ma esso se ne distingue essenzialmente per ciò che forma altrettante società chiuse. Gli animali gregari vivono di regola a branchi o strupi, e non hanno tra loro se non vincoli assai vaghi di dipendenza reciproca. Ora, secondo le condizioni di vita, l'abbondanza del cibo, il numero dei loro nemici od altro, gli stessi individui si raggruppano in frotte numerose, ora si disperdono in piccole bande e talvolta perfino si riducono ad un sol paio, salvo in circostanze favorevoli a ricomporsi in mandre numerose. Si capisce. che qui un individuo può passare facilmente da un gruppo ad un altro. Ma nell'uomo abbiamo un fenomeno opposto. Sarebbe qui troppo lungo ricercare il perchè di questo diverso aspetto della vita umana; contentiamoci delle poche osservazioni seguenti.
Gli animali hanno mezzi di comunicazione reciproca, che si fondano essenzialmente sul grido che, come il gesto o la mimica, ha il carattere di una espressione istintiva e naturale, che un individuo non deve imparare da un altro, ma anzi gli é innata, per modo che ogni animale d'una data specie si esprime nella stessa maniera ed è dai suoi congeneri compreso.
Ciò che eleva l'uomo sugli animali è, accanto all'utensile, il linguaggio articolato. Proprio come lo stromento, che non gli è dato dalla natura, ma egli stesso ha creato, e la cui fabbricazione deve imparare dai propri compagni, il mezzo di comunicazione umana, la parola, non è qualche cosa che ogni uomo porti con sè dalla nascita, ma è un prodotto del consorzio, che è stato sviluppato dai membri del suo gruppo e ch'esso deve da questi apprendere. E questo mezzo di comprensione non è dato in comune in identica forma, a tutta quanta la specie, ma anzi è diverso nelle diverse contrade. Una lingua rafforza e rende più intimo il vincolo sociale di un gruppo in quanto agevola ed accresce i mezzi di comunicazione e di cooperazione delle sue unità. Ma anche essa concorre per mezzo delle differenze linguistiche a separare vieppiù e durevolmente tra loro i diversi aggruppamenti degli uomini; costringendo ogni individuo a restare aderente a quella tribù o quell'orda, della quale conosce il linguaggio. Verso le altre, con cui non riesce a farsi capire, egli si sente straniero e a disagio.
Anche un'altra trasformazione si compie: il linguaggio permette di identificare gli individui e la loro reciproca posizione. Esso sopratutto consente di fissare i ricordi. Esso diventa un elemento di conservazione. L'animale adulto dimentica i suoi genitori e consanguinei, che non sa distinguere dagli altri membri della propria specie. L'uomo soltanto può mantenere fissi questi rapporti di parentela per tutto il corso della vita, a lui è dato di riconoscere i genitori dei suoi genitori, i figli dei suoi figli, come anche i figli dei suoi fratelli e via dicendo.
Molti dicono che la famiglia è un prodotto della stessa natura: in essa parla la cosidetta voce del sangue. In realtà solo i termini del linguaggio hanno formato la famiglia. Senza queste espressioni della parentela non vi sarebbe stata la famiglia, come una istituzione permanente. Cessa negli animali la voce del sangue appena i nati son fatti adulti e indipendenti. Diventa tanto più ridicolo perciò il voler oggi cercar la voce del sangue non solo nei rapporti famigliari ma addirittura in quelli nazionali, quando per esempio la tendenza dei tedeschi dell'Austria ad unirsi ai tedeschi dell'Impero è interpretata come il comando di questa voce misteriosa. Chè nell'Austria vivono certo più uomini di stirpe non tedesca, forse tzeca, che non germanica.
Il legame famigliare si rafforza mediante l'economia domestica, e lo sviluppo della proprietà privata sugli utensili, armi, arredi d'ogni maniera, che sopravvive al suo possessore. Dopo la sua morte questa proprietà va a quelli che hanno con lui vissuto in continua unione, e diventa una ragione per prolungare questa comunione di vita fino alla sua morte. Il vincolo della schiatta viene promosso dalla proprietà d'altra natura, dalla proprietà collettiva del territorio.
Anche gli animali prediligono certi territori in cui sono cresciuti e soggiornano, conoscendone le risorse, i nascondigli e i pericoli. Ma i confini di queste loro boscaglie non sono ben determinati, e gli animali che non vi trovassero pascolo sufficiente o vi fossero esposti a gravi pericoli, possono senz'altro oltrepassare quei limiti e andarsene verso altri luoghi che sembrano loro più adatti, aggregandosi facilmente ad un altro branco. La cosa è ben diversa nelle chiuse società degli uomini. Chi allontanandosi dal proprio distretto va verso il territorio straniero s'imbatte in un gruppo di uomini coi quali non gli riesce di entrare in comunicazione. Non può quindi la proporzione tra popolazione e mezzi di sussistenza aver qui luogo in modo che gli individui dei distretti più densi si trasferiscano verso quelli meno popolosi: un fatto simile torna a verificarsi solo in un più alto grado di civiltà, e ancora in modo approssimativo. Il gruppo, la tribù rimangono saldamente uniti, e cercano più largo spazio a spese dei loro confinanti. La guerra e il massacro traggono quindi la loro origine, appena la tecnica delle armi ha raggiunto un certo grado di perfezionamento.
Quello che dunque chiamiamo l'umana bestialità, non caratterizzerebbe l'animalesco progenitore dell'uomo, ma anzi sarebbe un prodotto della sua evoluzione e del suo incivilimento.
Anche i sentimenti morali, i sentimenti di solidarietà, assistenza, compassione cambiano con ciò natura. Negli animali questi sentimenti si dirigono verso ogni individuo della medesima specie; nell'uomo si limita la loro sfera ai membri della propria società. Chi sta al di fuori, diventa per lo più indifferente; esso non è più oggetto di compassione ma più spesso d'inimicizia.
Sviluppandosi il commercio si allarga la società di cui ogni unità si sente parte. Oggi ci avviciniamo di bel nuovo al punto di partenza de l'umano svolgimento; la sfera dei nostri sentimenti morali e sociali comincia ad estendersi a tutti gli individui della nostra specie, all'umanità intera. Questo almeno vale come un ideale, verso il quale lentamente ci accostiamo.
Nello stesso tempo lo sviluppo economico, mediante la divisione del lavoro e la crescente molteplicità dei rapporti sociali, ha prodotto anche quest'altro effetto: ognuna delle società umane ormai chiusa in sè stessa e costituita in forra di Stato, si suddivide in gruppi di diversa specie che tendono a formare altrettanti sistemi sociali più o meno chiusi (clero, famiglia, chiesa, corporazione ecc.). Ed ogni gruppo crea il proprio costume, che vale solo per quelli che ne fan parte. Né mancano occasioni di conflitti tra essi. Ciò che se per un lato determina tra i membri d'un gruppo solidarietà, benevolenza e simpatia, genera anche verso i gruppi rivali sentimenti opposti. Ed ogni individuo appartiene a più sistemi sociali alla volta, legato ad essi da differenti e spesso contrastanti interessi e principi morali; e quanto più aspri sono i dissidi entro la società, tanto maggiori sono anche i contrasti tra i singoli individui. Le gentildonne della nobiltà schiavista negli Stati meridionali si dimostravano le più amabili, più seducenti creature del mondo nei rapporti coi pari, generose e benevole; ma infliggevano i più crudeli tormenti alle donne soggette al loro servizio. Lo stesso uomo può essere d'animo mite nella propria famiglia e mostrarsi negli affari il più spietato creditore e il più esoso padrone.
Il raddolcimento dei costumi, che è il prodotto della civiltà, non è certamente rettilineo. Con ciò non sarebbe meno assurdo il supporre il contrario, l'affermare cioè che lo stato di natura fu un'idillica età dell'oro uscendo dalla quale andiamo via via sprofondandoci in una dura età del ferro !
Meglio è distinguere in questo campo della storia umana due tendenze opposte, delle quali or l'una or l'altra secondo le circostanze, prende il sopravvento.
b) Due tendenze. — L' una di queste tendenze già vedemmo qual sia; essa si svolge col progresso civile e va di pari passo col perfezionarsi delle armi e coll'accrescersi dei contrasti fra gli uomini, sopratutto dei contrasti nazionali, a partire da quello tra contrade di densa e contrade di scarsa popolazione, e venendo via via ad altri conflitti tra popoli ricchi e poveri, tra quelli che accaparrano le ricchezze naturali e quelli che sono respinti verso sterili deserti, tra nazioni industrialmente avvanzate e nazioni arretrate: aggiungi a ciò, entro una stessa gente, i diversi modi di sfruttamento e di soggezione dell'uomo sull'uomo, con tutti gli odi e le ferocie che ne sono il frutto.
Un'opposta tendenza s'inizia colle prime colture dei campi. Nei primi metodi di produzione primeggiano caccia e pastorizia, e a questa non meno di quella necessita l'uso delle armi e la pratica del sangue come mezzo indispensabile di vita, dovendo il pastore proteggere il bestiame contro le insidie dei carnivori. L'agricoltura invece esclude l'esercizio delle armi; il contadino vede spesso negli animali feroci i suoi naturali alleati, in quanto distruggono la selvaggina, che minaccia i luoghi colti. La sua conservazione, che è il grande interesse dei cacciatori, è per la gente di campagna il pericolo più temuto.
E più ancora che nella agricoltura diventano superflue le armi nel processo di produzione, quando veniamo alla vita del lavoratore manuale o quella dell'intellettuale nella città: questi cercano di ridurre al minimo tempo e spesa necessari per la fabbricazione delle armi, che per loro è, economicamente parlando, pura dissipazione, proprio al contrario di ciò che sarebbe per un popolo di cacciatori e di pastori.
Ecco la ragione del pacifismo naturale dei contadini, operai e sopratutto degli intellettuali. Perchè contadini ed operai adoperano la forza muscolare nei loro rispettivi mestieri, e quindi la tengono in onore, e spesso vi ricorrono non solo nel lavoro, ma anche nel gioco, e sopratutto nei loro dibattiti. Ma l'intellettuale non ne abbisogna punto. Quel tempo, che altri consacra all'esercizio del muscolo, egli applica all'incremento del sapere o all'attività del suo spirito; e quale fra essi cerchi di risolvere le proprie contese letterarie con altre armi, che non siano quelle dello spirito, con ciò solo mostra la propria inferiorità, nè ciò è contraddetto dal fatto, che nelle associazioni tedesche di studenti si manifestino talvolta abitudini di attaccabrighe, che sono il prodotto di uno spirito di rozzezza formatosi nelle guerre di religione e sopratutto in quella dei trent'anni. Anche le caste sacerdotali dell'antichità come il clero cristiano, almeno finchè non si trasformò in una classe dominante e sfruttatrice, si dimostrarono in generale aliene dalla violenza e dal sangue. E lo stesso dicasi degli uomini colti nel XVIII° secolo.
Là dove gl'intellettuali diventano sfruttatori non si mantengono fedeli a questo carattere pacifico. Ma dove essi non sono sfruttatori, avviene di loro come dei contadini, operai e proletari. Allora l'uomo non è più considerato come mezzo per il conseguimento di fini estranei, ma come scopo a se stesso o mezzo per gli scopi della comunità, non già per gli scopi di altri individui. L'etica Kantiana esprime per l'appunto questo principio; soltanto essa si presenta non come un'etica di determinate classi od epoche, bensì come una legge morale, posta al di là del mondo fenomenico, alla quale il buon Dio stesso è soggetto, in quanto a lui pure si vieta di servirsi degli uomini come mezzo (conf. Kant, « Critica della Ragion pratica », 2, cap. V: « l'esistenza di Dio come un postulato della Ragion pura pratica »).
Quanto più questo concetto si rafforzò, tanto più forte ne scaturì il rispetto verso la personalità umana, e il carattere sacro della vita e della sorte dell'uomo. Però queste tendenze pacifiste portavano con sè fin dagli inizi dell'economia rurale e della costituzione delle città i loro svantaggi; poichè le classi e le nazioni più pacifiche erano anche le più inermi; e si trovarono esposte ad essere soggiogate e sfruttate dai gruppi meglio armati, che a quelle s'imposero come aristocrazie militari, e che si diedero per conto loro con un esclusivismo anche maggiore di quello dei primitivi popoli cacciatori e pastori, all'esercizio della caccia e della guerra, ossia alle opere di sangue, erigendo così in principio i sistemi e gl'istinti degli animali da preda nelle relazioni coi propri nemici. Per tal modo brutalità ed umanità diventarono i due aspetti di una medesima società civile; dei quali or l'uno or l'altro prevalse secondo il mutar delle circostanze. Nell'antica Roma l'intera popolazione fu spinta sulla via d'una politica conquistatrice. E ai romani riuscì, grazie alla loro superiorità militare, di ridurre al proprio servizio tutte le terre mediterranee. Il popolo intero visse sfruttando quei paesi, e s'entusiasmò della guerra e dei suoi metodi spietati. Le vittorie mettevano a disposizione dei romani innumeri turbe di schiavi a buon mercato, tanto che per lor piacere essi potevano anche destinarne molti ai giochi del circo, dove combattevano e si scannavano mutuamente per la più grande gioia del pubblico. Questi ludi gladiatori, questi massacri umani offerti come passatempo ad una turba di oziosi patrizi e plebei, rappresentano certo l'apice della ferocia collettiva di un popolo. Tanto più ripugnante in quanto non contraddistinguono l'antico Stato romano nel momento della sua barbarie, ma anzi nell'apogeo della sua civiltà. I giochi del circo cessarono infatti quando Roma precipitò dal fastigi della sua potenza per effetto delle invasioni barbariche.
Nel corso dell'evoluzione economica accanto alla nobiltà guerresca si vien formando una classe capitalista con tendenze contrarie. Come sfruttatore, il capitalista considera l'uomo, del cui sfruttamento vive, non come un essere che abbia un proprio fine, ma come mezzo al conseguimento dei propri scopi. E qui si cela il germe dell'inumanità, della crudeltà; dipenderà poi dalle circostanze, che questo germe si svolga e in qual misura. La politica coloniale è quella che dà occasione alle manifestazioni di violenza più sanguinarie e terribili. Ma d'altra parte nelle epoche dì monopolio commerciale si forma un dissidio tra capitale commerciale e capitale industriale. In tali periodi il capitale commerciale si manifesta belligero e senza scrupoli. Esso massacra, saccheggia le popolazioni dell'India, esercita la tratta dei negri, spinge i governi alle più tremende ed estenuatrici guerre commerciali.
Il capitale industriale paga in gran parte le spese di questa politica, ne è ostacolato nel proprio sviluppo, perciò la combatte e se ne mostra sdegnato. E' allora che il suo spirito di simpatia si commuove in favore degli schiavi neri delle Indie occidentali, mentre proprio in Inghilterra le donne bianche e i fanciulli estenuati dall'eccesso di lavoro e compensati con salari di fame sono soggetti nella fabbrica ai peggiori tormenti.
Nemmeno però il proletariato mostra in questa fase una tendenza unitaria. Le sue condizioni di esistenza, vedemmo, lo porterebbero al rispetto della vita umana, visto ch'esso non sfrutta, ma è sfruttato, e che le sue sofferenze provengono sopratutto dal disprezzo in cui la vita umana è tenuta. E fatta qualche eccezione, come per l'antica Roma, la guerra a lui non reca che gravezze e pericoli, mentre successo e preda sono appannaggio dei potenti. Questo rende al proletariato repugnante ogni atto di violenza, ogni opera di sangue.
Ma sulla scena storica non c'è soltanto e dovunque il proletariato industriale. C'è anche stato un altro fenomeno di massa, prima ancora che la moderna grande industria si svolgesse, durante la decadenza della feudalità, che addossando ai contadini sempre più gravi carichi, fece sì che l'industria rurale deperì e decadde la sua produttività.
L'effetto fu che la campagna respinse da sè una crescente quantità di forza di lavoro, mentre cresceva il peso della fatica pei rimanenti. L'industria di quel tempo non poteva assorbire che la parte minima di quell'eccedenza di mano d'opera, in quanto essa stessa era limitata dal corporativismo. Ingenti masse di proletari disoccupati, affamati, esasperati si rovesciarono sul paese; e non potendo vivere di lavoro produttivo cercarono scampo in diverse forme d'espedienti parassitici, dalla questua e dal furto fino al brigantaggio.
Astretta ad una vita di stenti e di obbrobrio, reietta e spregiata dal resto della società e per reazione gonfia d'odio contro di quella, questa turba di paria crebbe ancor più in quanto i governanti o inetti o inerti invece di provvedere a questa piaga con riforme sociali, ricorsero a quell'unico mezzo che l'incapacità e la trascuranza politica consentono, ossia la repressione terrorista. Lo spavento avrebbe dovuto trattenere quella moltitudine d'affamati dall'elemosinare, dal rubare, dal truffare, dal prostituirsi e dal saccheggiare. Si comminarono le più severe pene contro quei miserabili; contro il vagabondaggio fu redatto un codice scritto col sangue, come ebbe a dire Marx, che nel suo « Capitale » ( ed. pop., pag. 664) riporta molti documenti di questa legislazione.
Il risultato fu quello di ogni Governo del terrore, che vuole eliminare i prodotti sociali senza avere la capacità di mutare il terreno, donde essi vengono fuori. Il numero dei delinquenti non diminuì; per quanto se ne potessero mandare in galera o impiccare o arrotare. Ai superstiti non rimaneva altra scelta che continuare ad esercitare i soliti mestieri dei malviventi, mettendosi in una lotta continua colla polizia. Cosicchè l'unico effetto pratico fu l'abbrutimento del proletariato, di cui l'odio e la rabbia, la ferocia e la sete di sangue si acuì al massimo attraverso la spietata crudeltà della repressione penale.
Ciò s'intende per la parte criminale di esso: ma questa era allora così grande, e aderiva per tanti legami di parentela, di vicinanza, di amicizia col salariato nascente, ed anche coi più bassi strati della piccola borghesia e del contadiname, che tutti avevano un piede nel comune stato di miseria, da comunicare anche a quelli i propri sentimenti e pensieri.
Quando adunque scoppiò la rivoluzione francese, i sensi d'umanità erano ristretti alla cerchia degli intellettuali e a quelle parti della piccola borghesia di benestanti ch'erano sotto il loro influsso, nonchè ai capitalisti, sopratutto dell'industria. Nel proletariato e negli strati a lui prossimi la legislazione draconiana aveva provocato uno stato di abbrutimento e di depravazione, che non doveva tardare ad affiorare appena si fosse infranta la forza dello Stato, sotto la cui pressione fin qui agiva solo nascostamente.
c) Stragi e terrorismo. — Educate in tal modo, dalla politica delle classi dominanti, le miserabili masse popolari, non c' è da stupirsi che gli elementi rivoluzionari, una volta scatenati, abbiano dato alle loro lotte così spesso un carattere di violenza selvaggia, rendendo particolarmente sanguinosa la grande rivoluzione. Sarebbe però assurdo mettere in un sol fascio tutti i fatti di sangue che vi sono accaduti. Bisogna invece distinguere due cose ben diverse: gli eccessi, a cui si lasciò indurre una plebaglia abbrutita ed eccitata nell'esasperazione della lotta e della paura, e il sistema terrorista, che fu introdotto nel Governo dai capi nelle forme legali come un mezzo premeditato e regolare per abbattere colla violenza gli elementi di opposizione, ritenuti pericolosi.
Eccessi sanguinosi, prodotto spontaneo della folla, ne troviamo fin dagli inizi della rivoluzione. All'incontro il Terrore ebbe principio soltanto nell'estate del 1793, quando furono arrestati i girondini e mandati al patibolo.
Atti di brutalità. il popolo ne commise fin dal giorno della presa della Bastiglia. Della guarnigione, che aveva capitolato, una parte non solo fu massacrata, ma tagliata la testa agli uccisi, furono quei sanguinosi trofei portati processionalmente per Parigi, infissi sulle picche. E pur troppo questi lugubri cortei di teste recise si sono molte volte ripetuti nel corso della rivoluzione.
Eccidi e ferocie si accrebbero, quando la guerra colle potenze d'Europa scoppiò, quando l'esercito prussiano marciò sulla capitale, e il generalissimo della coalizione il duca di Brunswick minacciò nel famoso manifesto lo sterminio a Parigi, e voci di congiure di aristocratici, che dall'interno appoggiavano lo straniero, circolarono. Parigi si sollevò 'allora in un impeto irrefrenato d'odio e di terrore, gettandosi al massacro dei detenuti politici ch'erano nelle carceri. Queste stragi settembrine costarono la vita a 3000 persone, e rappresentano l'apice degli orrori rivoluzionari. Una vera rabbia omicida s'impadronì della folla, che fattasi essa stessa giustiziera non si accontentò. di uccidere, ma guazzò addirittura nel sangue.
La principessa di Lamballe, il cui solo delitto era quello d'essere amica della Regina, fu non solo uccisa, ma orrendamente mutilata. I particolari rivoltanti ed osceni di questo episodio sono riferiti da Mercier (« Le nouveau Paris », anno VII, pag. 111 ) con tale volgarità di linguaggio, che non osiamo riferirli. Spiccato il capo dal busto e infisso sopra una picca, lo si recò dinanzi alle finestre della regina prigioniera al Tempio, che all'orrendo spettacolo svenne di commozione.
Persino la pietà vestì allora spaventevoli aspetti; come nel caso della Sombreuil, che durante quegli eccidi era detenuta insieme col padre. Già accanto ad esso era stato massacrato un tal Saint Mart, e la stessa sorte stava per toccare al padre della fanciulla, quando questa si getta disperata su di lui, lo copre col suo corpo, e a lungo lotta, finchè le riesce, dopo esser stata ben tre volte ferita, di placare quegli uomini bestiali.
« E allora uno d'essi prende un bicchiere, vi mesce il sangue che sprizzava dal capo di Saint Mart e mescolandovi vino e polvere, le impone di bere brindando alla Nazione, se vuol salvare la vita del padre! La Sombreuil beve senza esitare ed è tosto da quegli stessi uomini carcerata ». (L'aneddoto è stampato nella raccolta di « Lettere della rivoluzione francese », edita da Gustavo Landauer, raccolta che fu composta nella estate precedente alla ultima rivoluzione tedesca. La prefazione, datata dal giugno 1918 si chiude con questo augurio: « Possa la diretta conoscenza dello spirito e della tragedia della rivoluzione, esserci d'aiuto nei gravi tempi che ci sovrastano ». Il disgraziato, non sospettava quanto presto in questi gravi tempi la tragedia. della rivoluzione dovesse compiersi per lui stesso).
Gli orrori compiuti allora dalla massa esasperata e furibonda furono certo spaventevoli. Ma non se ne deve fare un capo d'accusa alla rivoluzione stessa, se pur possono essere oggetto di una qualunque accusa, fatti brutali di tal sorta, che sono nient'altro se non il prodotto fatale dell'educazione, imposta per secoli al popolo dai Governi che l'hanno dominato. A provarlo basti questo esempio: nell'anno 1757 un tal Damiens attentò al re Luigi XV, portandogli un colpo con un coltello, tutt'altro che pericoloso. La giustizia fu implacabile: al regicida fu amputata la mano ed arsa al suo cospetto; nelle braccia, nelle gambe e nel petto gli s'infersero ferite e dentro a quelle si versò olio bollente e piombo fuso; infine legate le quattro membra ad altrettanti cavalli il miserabile venne squartato vivo. A un così orrendo supplizio si diede la maggior pubblicità, dovendo servire d'esempio. Sappiamo adesso in che modo servì d'esempio! E fino all'età rivoluzionaria si continuarono simili scempi: solo allora vi si pose termine. Ancora nell'agosto dell'89 Gaultier de Biauzat c'informa da Versailles:
« Giovedì scorso verso mezzogiorno la popolazione di Versailles ha impedito l'esecuzione capitale di un delinquente, ch'era stato condannato per parricidio ad essere arrotato vivo e bruciato » (Landauer, « Lettere, ecc. », I, pag. 315).
Le brutalità dall'alto hanno aperto la via a quelle dal basso. Però gli eccidi, cui spontaneamente si abbandonavano le masse, non erano approvati dai capi coscienti della rivoluzione, che anzi le disapprovavano profondamente. E questo dicasi anche delle stragi settembrine, che falsamente si attribuisce loro d'aver provocato. L'unico rimprovero che si può far loro, è di non essersi opposti alla furia popolare. Pensando però quanto questa fosse irresistibile e paurosa, si comprende che nessuno abbia osato arrestarla, nemmeno i girondini. I commissari della Repubblica tentarono, anche con proprio pericolo, di salvare la vita alle dame di corte, e vi riuscirono, tranne nel caso della sciagurata principessa di Lamballe (Krapotkin, « La rivoluzione francese », II, pag. 5).
Tra coloro che più inorridirono di quei massacri, troviamo Robespierre. Angosciato, ebbe ad esclamare:
« Sangue, sempre sangue! Ah! i disgraziati finiranno per affogare la rivoluzione nel sangue! » (Louis Blanc, « Révolution française », II, pagina 207).
Lo stesso Marat n'ebbe ribrezzo:
« E' caratteristico il fatto, non ancor, ch'io sappia, rilevato da alcun storico, che Marat sconfessò o almeno deplorò le stragi di settembre, quello stesso Marat, che nel suo numero del 19 agosto le raccomandò e che il 2 settembre ne volle estendere il beneficio all'intera Francia » (Jean Jaurès, « La Convention », I, pag. 75).
D'altronde in Marat erano più considerazioni politiche che rispetti umani, che lo facevano parlare contro quegli assassini. Robespierre invece apparteneva a quegli intellettuali che ripugnavano per istinto dal sangue. Se ne ebbe la prova già nella Costituente, quando in occasione della discussione della nuova legge penale, il 30 maggio 1791, si venne alla decisione sulla pena di morte. Robespierre si unì a quelli che la combattevano energicamente, perché essa non distoglie dal delitto, e soltanto rende più barbaro e più proclive alla violenza un popolo. I suoi sforzi fallirono, la pena di morte rimase, solo furono abolite le più atroci forme di supplizio; non si praticò più che la decapitazione.
Questo decreto offrì a Marat una delle rare occasioni di approvare, per opposizione a Robespierre, la Costituente. Due anni più tardi anche il suo rivale si vide costretto a schierarsi con Marat e ripudiare il suo orrore per la pena di morte, che diventava il suo mezzo preferito nella lotta politica anche di fronte a' suoi propri amici.
Abbiamo già con ciò fatto vedere come non sia possibile confondere un sistema di terrore premeditato e svolto conformemente ad un piano, cogli eccessi d'una moltitudine imbestialita. Questi eccessi corrispondono alla parte più rozza e degradata della popolazione, mentre un Governo terrorista era appunto messo in azione dalla parte più colta, da quegli uomini, che avrebbero dovuto essere inspirati ai più umani sentimenti. Ed anche le condizioni di fatto corrispondenti all'una come all'altra forma di violenza erano diverse. Gli eccidi spontanei potevano considerarsi come la conseguenza della legislazione draconiana, che l'antico regime aveva adoperato contro le plebi miserabili, mentre il Terrore s'impose ai giacobini in quanto essi giunti al Governo e stretti dalle più difficili circostanze in piena guerra e di fronte alla miseria delle masse avevano da risolvere un problema, che di fatto era insolubile: fondare la società borghese e il diritto di proprietà e nello stesso tempo sopprimere la miseria popolare. Si trovarono così in una posizione disperata, dalla quale non seppero uscire altrimenti che coll'applicazione di quella violenza, da cui repugnavano, e che avevano già essi stessi proclamata inutile. L'antico regime era stato spinto alla sua feroce legislazione, al suo terrorismo dalla miseria del popolo. E la stessa miseria produsse anche le feroci leggi, il terrorismo del nuovo regime; con questa differenza però che il vecchio Stato cercava di dominare le plebi miserabili massacrando e maltrattando i poveri, lo Stato nuovo cercò di eliminare la miseria delle masse decapitando i ricchi.
Ma l'un sistema fallì al suo scopo come l'altro: si potrebbe tuttavia ancor segnalare questa distinzione: la conservazione dell' antico regime non dipendeva dal fatto che i suoi mezzi terroristi sopprimessero o no il proletariato. Qui l'insuccesso costituiva al più un inconveniente ma non un pericolo per l'antico Stato, poichè la classe ch'egli voleva abbattere, la plebaglia, non avrebbe in nessun caso colle proprie forze potuto prevalere, ed economicamente parlando era del tutto insignificante. Invece, per il nuovo regime, fu il fallimento e lo sfacelo appena il suo terrorismo venne meno, poichè la classe, ch'egli voleva abbattere, la borghesia, era sotto determinate condizioni capacissima di giungere al dominio ed oltre ciò era anche economicamente necessaria. La sua oppressione impediva lo sviluppo sociale, la produzione e diventava causa di più acuta miseria per quelli stessi, cui il sistema terrorista avrebbe dovuto giovare.
Infine un contrasto anche più importante c'è tra il vecchio e il nuovo terrorismo, quello era pienamente all'unissono coi sentimenti morali di coloro, che lo adoperavano e che non avevano nessun bisogno di mentire a se stessi per praticarlo, tanto lo trovavano una cosa perfettamente naturale. Il nuovo Governo del Terrore fu invece istituito da una classe in aperta contraddizione colla sua educazione morale; per questo i terroristi da principio provarono qualche rimorso di quel che facevano, in seguito fecero tacere la loro coscienza per mezzo di sofismi, ma con ciò distrussero il loro valore morale, fiaccarono le loro fedi, accrebbero la loro eccitazione e la loro incertezza, alcuni addirittura si pervertirono. Dato anche che non ci sia alcuna morale fissa ed assoluta, che stia sopra il nostro capo, dato anche che la morale sia relativa ai tempi, ai luoghi, alle classi, certo è che la norma etica è il più saldo vincolo della società, è il più sicuro punto d'appoggio in tutti i problemi, in tutti i conflitti della vita. Nulla di peggio che dover rinnegare i proprii principii, nulla di peggio che operare in contraddizione di quei precetti morali, che noi stessi ci siamo imposti come imperativo categorico.
Non per nulla si può ascrivere a questo influsso se il Terrore, appena si trovò di fronte ad una energica resistenza, precipitò quasi senza lotta. E quanto rapidamente non cambiarono opinione i superstiti di quel Governo! Napoleone ebbe i suoi peggiori nemici nei realisti borbonici e non negli antichi repubblicani. E questo prova quanto si fossero indeboliti i loro principii morali sotto il Terrore.
d) Mitigazione dei costumi nel XIX° secolo. - La rivoluzione francese appartiene ad una delle epoche più sanguinarie della storia. Da ciò molti hanno conchiuso che la violenza sterminatrice è una delle funzioni indispensabili di ogni vera rivoluzione: non rimane quindi che o condannare la rivoluzione o approvare la strage. Ma in realtà la stessa rivoluzione del 1789 ha eliminato le cause più potenti che le avevano dato il carattere di crudeltà e di violenza, preparando più miti forme di rivoluzione futura. E questo perchè da una parte essa ha, distruggendo il feudalesimo e facilitando l'avvento del capitale industriale, fatto passare le masse proletarie da uno stato di miserabile plebaglia alla condizione di operai salariati, mentre d'altra parte iniziò il movimento che prima o poi deve terminare colla vittoria della democrazia, e finalmente anche perchè attraverso lo studio della rivoluzione e del capitalismo sorse quella teoria, che rese possibile al partito del proletariato di proporsi in ogni momento solo quegli scopi d'azione pratica, che sono raggiungibili, e così facendo quel partito non si trovò più costretto ad appigliarsi ad un Governo terrorista per uscire dal vicolo chiuso, in cui era stato spinto. La rivoluzione liberò il contadino e lo fece padrone della sua terra. L'economia rurale raggiunse così un più alto grado, diede maggiore reddito, di cui i contadini approfittarono. E diminuì anche quell'eccedenza di mano d'opera, che doveva abbandonare la campagna. D'altra parte gli operai, che venivano in città in cerca di lavoro trovavano qui sempre più occupazione. Le corporazioni si erano sciolte, i mestieri potevano svolgersi liberamente. E vero però che questi l'un dopo l'altro venivano schiacciati dall'irrompente capitale industriale, ma questo a sua volta col suo rapido sviluppo determinava una crescente domanda di forza di lavoro. Omai il proletariato industriale costituiva una classe speciale, fornita di coscienza propria e affatto distinta dall'antica plebaglia. Il capitale aveva bensì peggiorato la condizione di questo proletariato industriale rispetto all'artigianato indipendente e alle corporazioni di mestiere dei bei tempi passati; ma l'aveva anche infinitamente migliorato in confronto della miserabile massa plebea dello Stato antico.
Questa era incapace d'ogni lotta di classe, il proletariato industriale mediante la lotta e l'organizzazione ha raggiunto un'elevazione intellettuale e morale veramente meravigliosa. Certo a' suoi inizi esso fu non solo economicamente ma anche moralmente oppresso dal capitale nel più alto grado. Allora per le sue condizioni di vita, per l'indigenza, e l'incertezza dell'esistenza, come anche per lo stato d'incoscienza era di poco superiore alla plebaglia, anzi le restava al di sotto per la monotonia del lavoro, il peso della disciplina nella fabbrica, che gli toglieva ogni libertà, lo spaventoso sfruttamento delle donne e dei fanciulli. La baldanza degli strati più robusti del popolo scomparve, e il salariato presentò un maggior torpore mentale, ma non una rozzezza minore. In tal fase non sarebbe mai stato capace di emanciparsi. Solo lentamente, uno strato dopo l'altro esso cominciò a tirarsi su da quella morta gora, mediante una ostinata lotta. E in questo progresso le tendenze umanitarie proprie della sua stessa classe ebbero modo di affermarsi, favorite anche dalla circostanza che sotto l'influsso della rivoluzione e delle sue conseguenze anche la legislazione penale aveva mitigato in confronto al proletariato la sua antica ferocia.
Ecco le cause del fatto, cui già ci siamo riferiti, che cioè la frazione rivoluzionaria del proletariato si mostra nei moti del XIX° secolo inspirata da uno spirito di umanità, che si allontana sempre più da quella brutale violenza che caratterizza i suoi precursori della rivoluzione francese e che Engels ancor verso il '40 constatava nel proletariato industriale inglese.
Anche venivano meno le cause, che avevano spinto ad un Governo terrorista. I più avveduti amici del proletariato non avevano tardato a riconoscere, dopo il suo fallimento, che non era possibile l'emancipazione di esso sulla base della società borghese, concludendo che un tal risultato si potesse soltanto raggiungere coll'abolizione della proprietà privata dei mezzi produttivi e coll'introduzione d'una produzione sociale. Non trovavano però nè le necessarie condizioni materiali nel capitale nè quelle spirituali nel proletariato. E non vedevano neppure che lo sviluppo economico e la lotta di classe fossero i fatti destinati a creare quelle condizioni. Perciò andavano in cerca di una soluzione della questione sociale, di un piano o di una formula che valesse per ogni circostanza e che si potesse applicare non appena avessero a disposizione la forza sufficiente. Impadronitisi di questa idea i rivoluzionari del proletariato e, cercando questa forza non già in qualche filantropico milionario, ma in una dittatura politica del genere di quella della prima Comune parigina, doveva ogni simile tentativo, quando fosse intrapreso da una minoranza, condurre a un Governo del Terrore, come era stata la dominazione di quella Comune. Ben era qui il tentativo più .razionale, perchè non era più diretto a liberarsi dalle conseguenze della società borghese, conservando questa società, bensì ad eliminare queste conseguenze coll'eliminazione del loro stesso fondamento. Ma anche questa tendenza, quando la si volesse realizzare, era destinata a fallire, finchè mancassero nella società le condizioni preliminari alla eliminazione delle sue basi. Essa equivaleva al tentativo di una minoranza di imporre alla maggioranza una situazione impossibile ed inopportuna, contraria a' suoi interessi, ciò che non si sarebbe potuto ottenere che coll'impiego della forza, che fatalmente avrebbe culminato in un sanguinoso Terrore. Che ciò non sia accaduto dipese non solo dal fatto che la massa dei lavoratori solo lentamente riusciva a comprendere la dottrina socialista, ma anche dal fatto che il proletariato per molti decenni non raggiunse mai più quella posizione predominante, che in unione cogli strati più affini della piccola borghesia aveva tenuto in Parigi dal 1789 al 1794. La seconda Comune gli diede, è vero, il Governo di Parigi ma non quello della Francia, ed anche in Parigi non prevalsero allora i socialisti, e ancora essi non possedevano nessun saldo principio teorico, ciò che li rese molto prudenti e moderati.
I socialisti, questo solido fondamento lo raggiunsero dopo la Comune, quando il marxismo penetrò nelle masse. Marx ed Engels questa concezione materialistica della storia avevano intuita fin dal '40, e l'approfondirono tra il ’50 ed il '60. Essi introdussero il pensiero di evoluzione regolare nella storia e ne condizionarono nella loro interpretazione lo sviluppo a quello dei rapporti economici, constatando, è vero, che il sistema capitalistico di produzione genera condizioni tali che rendono necessario e inevitabile un sistema socialista di produzione, ma anche che sono sterili tutti gli sforzi di sostituire questo secondo al primo, finchè i rapporti di fatto non siano sufficientemente maturi.
I socialisti non hanno, secondo essi, menomamente il compito di trovare un progetto od una formula di socializzazione, capace di instaurare subito e dovunque il socialismo, ma di studiare i rapporti economici e sulla base di questa conoscenza mettere in chiaro, secondo il caso, ciò che è necessario per la società e propugnarlo.
Il compito dei socialisti non consisterebbe quindi solo nel promuovere il socialismo. Essi dovrebbero, là dove quello non è ancor possibile, incastrarsi nei rapporti stessi dell'economia capitalista, ed accelerarne lo sviluppo nel senso proletario.
Ciò non fu affatto subito compreso dai socialisti. nell'Internazionale, molti anni più tardi, alcuni socialisti guardavano con disprezzo fenomeni come il libero scambio e lo sciopero, perchè tali fenomeni non toccavano il sistema del salariato. Marx ed Engels insegnarono ai lavoratori a comprendere l'importanza dei problemi economici e dei conflitti del mondo capitalistico attuale per la lotta d'emancipazione del proletariato.
Il socialismo cessò per il proletariato, ammaestrato da Marx, d'essere qualche cosa che si realizza repentinamente e in ogni qualsivoglia circostanza. Anche là, dove è avvenuta la conquista politica, questa può condurre alla attuazione del socialismo, tostochè, dati certi rapporti, ciò sia possibile, e nelle forme appunto, che a quei particolari rapporti corrispondono. E l'introduzione del socialismo non potrebbe essere, secondo questa concezione, l'effetto d'un colpo di mano, bensì il risultato d'un lungo processo storico. Però i socialisti vengono richiamati a prendere in considerazione in ogni determinato momento soltanto quei compiti che appaiono solubili in determinati rapporti di forza e condizioni materiali. Procedendo sempre conformemente ciò, resterebbe escluso che i socialisti potessero mai fallire in qualche loro intrapresa, o che essi si trovassero posti in così disperata situazione da esser costretti contro lo spirito del proletariato e del socialismo ad un sanguinoso terrorismo.
Infatti, dal giorno che il Marxismo ha preso la direzione del movimento sociale, questo fu fino alla guerra mondiale preservato da grandi disfatte in tutte le più importanti azioni, e il pensiero d'imporsi mediante la violenza venne assolutamente eliminato. Contribuì a questo anche il fatto che, contemporaneamente all' egemonia del marxismo nel campo socialista, la democrazia si affermò nell'Europa occidentale e si trasformò da principio disputato in salda base, della vita politica. Con ciò non soltanto si facilitò la coltura e l'organizzazione delle masse, ma fu accresciuta anche la conoscenza critica delle condizioni economiche e dei rapporti di forza delle classi, quindi evitate le avventure fantastiche e ripudiata la guerra civile come mezzo di lotta di classe.
Nel 1902 nel mio scritto sulla « Rivoluzione sociale » (cap. VI, « La Democrazia »), scrivevo:
« La democrazia è del più alto valore già per questo ch'essa permette le forme più elevate nella lotta rivoluzionaria. Questa non sarà più come nel 1789 e anche nel 1848 una lotta di masse disorganizzate senza alcuna educazione politica, senza conoscenze dei rapporti di forza dei fattori contrastanti, senza una profonda comprensione degli scopi della lotta e dei mezzi per il loro conseguimento, non più un conflitto di masse che si lasciano trascinare e fuorviare da ogni parola od incidente. Ma sarà una lotta di masse organizzate e illuminate, piene di fermezza e di circospezione, che non seguiranno ogni impulso nè esploderanno ad ogni offesa, come d'altra parte non si lasceranno abbattere ad ogni insuccesso. D'altra parte le lotte elettorali servono a contarsi e a contare i nemici, esse garantiscono con ciò una chiara veduta nei rapporti di forza delle classi e dei partiti, dei loro progressi e regressi, trattengono dalle sommosse precipitate come difendono dalle sconfitte, esse assicurano anche la possibilità che l'avversario riconosca da sè l'insostenibilità di alcune posizioni, e quindi volontariamente le abbandoni, quando la loro difesa non sia per lui questione di vita. Ciò rende la lotta meno dolorosa e cruenta, e la sottrae alla balìa del cieco caso ».
All'azione complessiva di tutte queste circostanze, l'educazione di un proletariato industriale e la sua elevazione al disopra d'una semplice plebe, lo sviluppo della dottrina socialista e l'assodamento della democrazia, a tutti questi fattori riuniti si deve, se è stato sempre più spinto indietro quel senso pauroso ed oscuro che Engels ancora esternava nel 1845 nella sua « Condizione della classe operaia in Inghilterra », dove diceva « se la borghesia inglese non si ravvede, e secondo ogni apparenza pare di no, accadrà una rivoluzione, colla quale tutte le precedenti non potranno essere confrontate. I proletari spinti dalla disperazione daran di piglio alla torcia incendiaria, la vendetta del popolo si scatenerà con tale furia che il 1793 non può darcene neppure una pallida immagine. La guerra dei poveri contro i ricchi sarà la più sanguinosa che mai sia stata fatta » (2a ed., pag. 298). Però Engels nutriva queste paure solo pel caso che la rivoluzione dovesse scoppiare immediatamente, come egli aspettava. E ancora erano alquanto esagerate, pur verso il '40, non ostante il rovesciarsi in massa verso l'industria di elementi ancora incolti e troppo vicini agli strati più miserabili, sopratutto nel proletariato irlandese. Lo stesso Engels però sperava che, qualora la rivoluzione non scoppiasse subito e il proletariato avesse tempo di evolversi e di penetrarsi di spirito socialista, la rivoluzione assumerebbe forme più miti: « nello stesso rapporto, in cui il proletariato accoglie in sè elementi socialisti e comunisti, la rivoluzione abbandonerà i mezzi della strage, della vendetta e della ferocia ». La rivoluzione attesa da Engels venne nel 1848, ma non in Inghilterra. Dopo il suo fallimento incominciò in ogni paese d'Europa un periodo di sviluppo capitalistico, accompagnato da un rafforzamento poderoso delle energie economiche, politiche, intellettuali e morali della classe lavoratrice, per modo che negli Stati più progrediti dell'Europa questa cambiò rapidamente aspetto. Già nel 1872, un anno dopo la Comune, Marx poteva esprimere la speranza, che in paesi come l'America, l'Inghilterra, l'Olanda la rivoluzione proletaria potesse assumere forme pacifiche. E d'allora l'ascensione del proletariato ha compiuto anche maggiori progressi. Certo nessun critico non poteva dubitare che una monarchia militare come la tedesca, l'austriaca, la russa potesse essere abbattuta solo colla forza, ma sempre meno si pensava all'uso della sanguinosa violenza armata e sempre più a quello del mezzo specifico, che il proletariato possiede, l'astensione dal lavoro, lo sciopero generale. Ben si doveva comprendere che gli uomini del vecchio regime in Germania come in Russia avrebbero cercato di soffocare nel sangue ogni tentativo diretto ad abbatterli. Ma che la parte eletta del proletariato, una volta raggiunto il potere, precipitasse al sangue, alla vendetta e al furore proprio come sulla fine del XVIII° secolo, non lo si sarebbe potuto credere. Ciò avrebbe capovolta l'intera evoluzione.
In contrasto colla concezione di Engels, l'autore dello scritto, « Lo sviluppo del socialismo dall'utopia alla scienza », che credeva ad una progressiva eliminazione della violenza e della brutalità nelle rivoluzioni proletarie, sta il pensiero espresso recentemente in un opuscolo intitolato lo « Sviluppo del socialismo dalla teoria all'azione », che forma la prefazione allo scritto di N. Bucharin, il « Programma dei comunisti » (Zurigo 1918). In esso si legge: « Quanto più fortemente sviluppato è il capitalismo in un paese, tanto più spietata, tanto più violenta sarà la lotta. per la sua conservazione e tanto anche più sarà sanguinosa la rivoluzione proletaria e terribili le misure, per mezzo delle quali la vittoriosa classe lavoratrice schiaccerà la classe dei capitalisti vinti » (pag. 19). Ecco proprio l'antitesi di quello che Marx e Engels avevano affermato. Ora è falso che la pratica bolscevica di un anno e mezzo possa essere elevata a legge universale dell'intero svolgimento sociale. E' anche falso motivare questa pratica adducendo la brutalità spietata del capitalismo in lotta per la propria conservazione. Nè a Pietroburgo e a Mosca nel novembre 1917 ed ancor meno a Budapest più recentemente, di questa brutalità si ebbe alcuna traccia. Ma che la rivoluzione proletaria abbia nuovamente preso un carattere sanguinario, non c'è dubbio. La ragione del fatto io la trovo, nella mia « caparbietà senile » o nella mia « senile insensatezza » (Bucharin, op. citata, XXII), in ben altri fattori che non la brutalità capitalistica, che nei paesi vinti nella guerra mondiale non fu mai così debole come allo scoppio dell'ultima rivoluzione.
e) Gli effetti della guerra. — La principal causa del regresso nel corso dell'evoluzione dall'umanità verso la brutalità devesi cercare nella guerra mondiale, sebbene anche prima fossero sorte tendenze a contrastare la mitigazione dei costumi. E la più importante di queste fu introdotta dalla stessa rivoluzione francese, mediante il servizio militare obbligatorio, di cui quel Governo rivoluzionario abbisognava per potere colla superiorità numerica e colla continua sostituzione di nuove truppe, pareggiare gli eserciti professionali della coalizione.
Soltanto uno tra gli Stati monarchici conservò ed allargò questa istituzione, quando la Francia stessa vi aveva rinunciato, ossia la Prussia, la più piccola e l'ultima arrivata tra le grandi potenze europee; essa aveva confini poco favorevoli, che esigevano, per la difesa, un esercito tale che risultò, in proporzione della popolazione, assai più grande di quello di ogni altro paese. Oltre ciò la vecchia Prussia era anche di tutti i grandi Stati quello che la natura aveva trattato più da matrigna ed il più povero. Se perciò esso voleva affermarsi tra gli altri, gli conveniva sacrificare ogni altro interesse all'esercito Ecco perchè la Prussia, fin dal suo primo sorgere, accanto alle potenze europee, diventò lo Stato militare per eccellenza!
Nel suo libro sulla Germania « My four years in Germany », London, 1917, 44) l'ambasciatore americano Gerard raccoglie alcuni giudizi, che mettono energicamente in luce la vocazione militarista della Prussia:
« Già più di 125 anni fa il grande oratore Mirabeau, al principio della rivoluzione, diceva: « La guerra è l'industria nazionale della Prussia ». Più tardi Napoleone osservava che « la Prussia era stata fabbricata come una palla di cannone » e poco prima della guerra franco-prussiana del '70, l'addetto militare francese scriveva al suo Governo: « Gli altri paesi posseggono un esercito, in Prussia è l'esercito che possiede il paese! ».
In grazia del servizio militare obbligatorio e del prestigio militarista, la Prussia si conquistò la sua forte posizione nelle guerre del 1866 e del 1870. Queste spinsero i restanti Stati del Continente ad applicare lo stesso principio del servizio obbligatorio. Nello stesso tempo il sistema delle vie ferrate diventò uno dei fattori decisivi nella strategia. Ogni Stato cercò secondo le proprie forze di sviluppare ciò che portasse alla possibilità e quindi anche, nella gara degli armamenti, alla necessità di eserciti sempre più enormi, onde derivò la crescente rigidità nell'applicazione del servizio obbligatorio, finchè si giunse al bel risultato che ogni elemento della popolazione maschile, che non fosse o infermo o storpio, fosse arruolato nell'esercito.
Servizio militare significa abitudine a versare il sangue, anzi emulazione in quest'opera; significa distruzione d'ogni umano sentimento, e allenamento alla brutalità. Nei piccoli eserciti professionali del XVIII° secolo la massa popolare rimaneva estranea a questo tristo influsso, e il suo carattere morale ne restava indenne. Nel corso del XIX° secolo il servizio militare obbligatorio sempre più la sottopose all'azione d'abbrutimento della caserma, e più fortemente e più estesamente in Prussia. Le tendenze umanitarie del XIX° secolo ne rimasero sopraffatte e soffocate. Esse s'erano sopratutto manifestate nella classe intellettuale, che a lungo fu esonerata dalla milizia; anche quando sostituita la leva all'ingaggio, il sistema della coscrizione fu esteso ai contadini, artieri ed operai, i borghesi ed intellettuali furono quasi sempre risparmiati. Ma il servizio militare obbligatorio non poteva far un'eccezione per loro, tanto più che se ne aveva bisogno come ufficiali pei comandi delle riserve. Dopo però, come prima, l'intellettuale rimase in ordine al servizio militare in una posizione eccezionale, quantunque non si trattasse più d'eccezione che lo escludesse dall'esercito, bensì che nell'esercito lo privilegiasse sia come volontario d'un anno, sia come ufficiale della riserva. Ne derivò che gl'intellettuali fossero nei pensieri e nei sentimenti esposti agli influssi del militarismo in più alta misura che le altre classi; visto che esso li metteva in una situazione privilegiata, ed inspirava loro una speciale simpatia per la vita militare. Oltre a ciò agiva sopra di essi per mezzo degli ufficiali. di carriera. Questi ne fanno lo scopo della loro stessa vita; per essi il servizio di guerra non rappresenta un fatto passeggero, e in ogni atto di questa funzione si sforzano di superare in energia e decisione la truppa, portando le caratteristiche del militarismo ad un più alto livello che non l'uomo comune, che sta sotto le armi solo pochi anni e per forza. Più che la restante popolazione, gli intellettuali subiscono fortemente questo spirito militarista anche perchè c'è in questi teorici una innata disposizione mentale a portare ogni modo di pensare od opinione alle conseguenze estreme; spirito di radicalismo che può benissimo disposarsi colle più reazionarie tendenze, mentre l'uomo pratico è trattenuto dai mille cotidiani attriti che per esperienza conosce.
Quegli intellettuali diventavano o volevano diventare ufficiali della riserva, e prendendo gli ufficiali di carriera a modello, non tardavano a superarli ostentando una mentalità militarista più decisa e violenta. E così gli strati intellettuali guadagnati a questo spirito diventarono il tramite di quella rozzezza e prepotenza, che attraverso l'estensione del servizio militare all'intero popolo modellarono l'educazione nazionale. Anche in ciò la Prussia tenne la testa, perchè essa per la prima introdusse il volontariato e il sistema degli ufficiali di complemento, accordando a questi ultimi, più che ogni altro Stato, un posto di privilegio e di considerazione nel paese.
Però, nonostante la vita della caserma, nel proletariato prevalsero le tendenze pacifiste di classe su quelle brutali, mentre negli intellettuali sopratutto prussiani avveniva l'opposto, ciò che non poco contribuiva ad acuire i contrasti di classe.
Quello che si è detto del ceto intellettuale, può ben intendersi anche di quello capitalista, presso il quale gli istinti d'umanità trovavano « a priori » nella sua stessa situazione di classe una forte controspinta.
Quando poi la guerra mondiale scoppiò e per quattro interi anni la totalità della popolazione maschile valida, fu trascinata nel suo vortice, si capisce che le degradanti tendenze del militarismo dovessero salire fino all'apice della insensibilità e della brutalità, e che anche il proletariato non vi si potesse più a lungo sottrarre, rimanendone inquinato in alto grado e ritornandone pervertito sotto ogni rapporto. Il reduce fu dal costume di guerra troppo spesso messo in una disposizione tale, che lo fece pronto a sostenere di fronte ai propri concittadini in piena pace le sue pretese e i suoi interessi colla violenza e colla strage, diventando così un fattore di guerra civile, il che accrebbe ancor più l'abbrutimento della massa. E' vero che gli adulti ritornano, appena sottratti all'influsso della guerra, ai comuni modi di pensare e di sentire della pace. Ma la cosa è ben più grave quando si tratti d'una gioventù, che senza maestri, senza guide, nei quattro anni della guerra mondiale ha dovuto senza resistenza subirne tutta la degradante opera di abbrutimento e riceverne impressioni tali che forse non potranno mai cancellarsi per tutto il corso della vita.
Aggiungasi a ciò un profondo cambiamento nella stratificazione del proletariato. La guerra colpì gravemente la piccola borghesia, e molti de' suoi elementi immiseriti furono respinti nel proletariato. Questi, rimasti fino allora estranei alla lotta di classe, mancano affatto dell'educazione, della disciplina e della capacità organizzatrice, di cui i veri proletari partecipano, iniziati a quella lotta già da tempo sotto la direzione di un partito che ha assunto il compito dell'educazione e del raggruppamento delle masse. D'altra parte si sono prodotti nel proletariato stesso profondi spostamenti. Nella guerra si verificò in più alta misura una riduzione per morti, ferite, malattie, nel numero degli operai più istruiti, nè vi fu mezzo di procurarne il rimpiazzo mediante una nuova generazione, mancando tempo e forze per istruire i giovani, mentre anche difettava a questi l'incentivo ad assumere sopra di sè quest'opera. Al posto delle multiformi industrie di pace si ebbe un'uniforme industria di guerra, che attuò solo alcuni pochi tipi col concorso di lavoratori, ai quali si richiedeva di eseguire tutt'al più un paio di manovre, che anche il più inesperto apprendista impara senza fatica. Così il numero degli operai qualificati, che tanto avevano contribuito alla fioritura industriale tedesca, fu decimato dalla guerra e una massa crescente di rozzi lavoratori prese il loro posto. I primi erano i migliori elementi, i più organizzati e preparati, ed anche quelli che avevano una più chiara coscienza, i secondi invece, i disorganizzati, incoscienti e apatici.
Quanto all'apatia essa scomparve ben presto nella guerra, perchè questo gigantesco movimento colle sue terribili conseguenze non mancò di esaltare anche gli strati più bassi ed arretrati della popolazione, gettandoli in un febbrile eccitamento. Pur troppo però contemporaneamente il numero degli operai socialisticamente educati diminuiva di fronte a quello degli incolti e rimasti indisciplinati sotto ogni rapporto, nonchè dei piccoli borghesi proletarizzati. Il risultato non poteva essere altro che questo, la mite e superiore educazione, che fino allora aveva prevalso, perdette il sopravvento e fu sostituita dalla più cieca passione. Questo tanto più che la guerra si lasciò indietro il più profondo sfacelo economico, la più estesa disoccupazione, il rincaro più sfrenato e la deficienza delle cose più necessarie. E' naturale che le masse esasperate aspirassero ad un mutamento radicale, e non certo per creare una nuova più alta forma di società, cui esse non pensavano nemmeno, ma per sfuggire soltanto alla più crudele miseria. L'eliminazione della miseria è certo per il proletariato la faccenda più seria e più sentita, e forma accanto al bisogno di una conoscenza economica e storica, condizione preliminare per la comprensione del marxismo, la ragione principale, perchè il pensiero marxista non prende facilmente radice nella massa dei lavoratori. Questa preferisce istintivamente una dottrina, che invece di rinviarla ad un processo evolutivo, le offra una formula o un progetto che tradotto in atto senz'altro, dia in ogni circostanza quest'effetto: la cessazione delle sue sofferenze. Un proletario è naturalmente contrario ad accettare una teoria che certo non esige da lui un'attesa inerte, anzi lo sprona verso la più energica forma di lotta di classe, ma che nello stesso tempo fa dipendere la sua decisiva emancipazione da condizioni che sorgeranno attraverso una faticosa evoluzione. Con tutto ciò, per quanto fosse dura la sorte dei proletari, negli ultimi anni dell'ante-guerra s'era la loro situazione, sviluppata per guisa da permetter loro di vivere in modo tale da non far della immediata trasformazione socialista della società una questione di vita o di morte, almeno per quegli operai più educati, che formavano il corpo scelto nella lotta di classe e nel movimento socialista.
Ma oggi questo nucleo di lavoratori è stato superato nelle lotte politiche ed economiche dagli elementi più rozzi. E la miseria loro è così grande ch'essi non possono aspettare. E che mai dovrebbero aspettare, se l'esito della guerra ha posto finalmente nelle loro mani la forza politica ?
La guerra non ha soltanto messo in prima linea nella lotta sociale gli elementi meno evoluti dei lavoratori, ma anche, colla decomposizione degli eserciti, fatto, nei paesi più economicamente arretrati d'Europa, del proletariato la classe dominante nelle città, mentre accanto ad esso un contadiname analfabeta, come accade in Russia, non può rappresentare alcuna forza politica indipendente.
Nessuna classe rinuncia volontariamente al potere, pel cui possesso ha lottato, qualunque siano state le circostanze che l'hanno condotta al Governo. Sarebbe stolto pretendere da parte del proletariato ungarico o russo una simile rinuncia, a motivo degli interessi del loro rispettivo paese. Ma un partito socialista che fosse inspirato al vero concetto marxista, adatterebbe i compiti, che attualmente può imporre al proletariato vittorioso, alle condizioni materiali e spirituali che di fatto constata, e non deciderebbe senz'altro la immediata socializzazione in un paese, come la Russia, di produzione capitalistica embrionale.
Certo si potrebbe domandare se un tal partito potrebbe pretendere alla direzione delle masse. Ai politici realisti sembra più importante dominare momentaneamente, piuttosto che esporsi ad un momentaneo insuccesso colla prospettiva di agire bene in definitiva. Allo statista che s'inspira alla realtà non conviene di agire come una forza, la quale pel fatto che vede chiaro l'inevitabile ruina d'una politica mirante all'impossibile, si sobbarca all'impopolarità nel presente, ma sollevandosi al di sopra di questa ruina, salva il proprio ideale da ogni compromesso.
E', dopo la rivoluzione del 1917 in Russia, risorto l'antico dissidio tra politica reale e politica scientifica, tra Lassalle e Marx. Marx nella lettera a Kugelmann del 23 febbraio 1865 (ch'io pubblicai nel « Sozialist » I° maggio 1918 ), dichiarava che troppo i lavoratori tedeschi erano stati ostacolati nel loro sviluppo dalla reazione del 1849-59, per non « accogliere con entusiasmo un ciarlatanesco redentore (come Lassalle) che assicurava di condurli con un salto nella terra promessa ».
Tali salti e tali redentori Marx non li trovava di suo gusto. Ma come al tempo di Lassalle, così in quello della seconda rivoluzione russa, ancorchè per altre ragioni, la situazione si dimostrò sfavorevole al pensiero marxista.
I lavoratori russi educati a questo pensiero erano morti, o sopraffatti dalle masse arretrate nuovamente venute su, od anche traviati nel loro proprio pensiero. Presero la mano concezioni premarxiste, press'a poco simili a quelle che caratterizzarono un Blanqui, un Weitling, un Bakunin.
Ecco in quali condizioni si compì la rivoluzione prima in Russia, quindi nei paesi vicini. Nessuna meraviglia che essa non solo ridestasse il primitivo modo di pensare, ma che anche le brutali cruenti forme delle lotte politiche ed economiche facesse risorgere, quelle forme che noi avevamo creduto fossero state superate dall'ascensione intellettuale e morale del proletariato.
8. — I Comunisti al lavoro.
a) Espropriazione ed organizzazione. La guerra mondiale degradò moralmente ed intellettualmente la classe lavoratrice non solo perchè abbrutì quasi tutti gli strati della popolazione e mise all'avanguardia del movimento sociale la parte meno evoluta del proletariato, ma sopratutto perchè acuì infinitamente la sua miseria, e sostituì quindi alla sua tranquilla ponderatezza la più veemente esasperazione. Inoltre contribuì a promuovere in esso gli antichi modi di vedere, rafforzando la mentalità militare, che è poi quella che è più vicina all'uomo inconscio e superficiale, persuadendolo che la sola forza è il fattore decisivo nella storia e che tutto si può ottenere quel che si vuole, purchè si disponga della forza necessaria, e si agisca senza riguardo. Marx ed Engels avevano sempre combattuto quest'opinione. Nel classico libro « Sconvolgimento della scienza per opera del signor Eugenio Duhring » tre interi capitoli trattano esclusivamente la teoria della violenza (3a ed., pag. 162-192). Questa teoria è da capo a piedi contraria al marxismo; ed Engels non esita ad opporvisi anche quando essa si presenta in veste rivoluzionaria. Egli non era affatto dell'opinione tante volte oggi sostenuta, non esser conveniente denunziare gli errori d'un movimento rivoluzionario e proletario, poichè ciò può indebolirne lo slancio.
Si capisce da sè che è inutile fare un rigoroso processo ad ogni singolo errore, ad ogni sproposito che si commetta in una rivoluzione. Non c'è situazione storica più difficile di quella di una rivoluzione, nella quale si è posti dinanzi a situazioni affatto nuove ed assolutamente imprevedibili. Sarebbe un fariseismo a buon mercato quello di un osservatore che, essendo lontano o standosene al sicuro, pretendesse censurare acerbamente gli errori commessi da quelli, che invece si trovano nel bel mezzo della lotta e devono sopportare tutti i pesi e tutti i pericoli. Ciò non toglie però che sia strettamente necessario censurare quegli errori che, non da una informazione eventualmente sbagliata od insufficiente, bensì da una concezione essenzialmente falsa nascono e da quella son dedotti per logica necessità. Quegli errori non si possono evitare se non estirpando questa falsa concezione: lasciandoli passare senza critica, o peggio ancora mascherandoli e magnificandoli per un malinteso interesse della rivoluzione, essi finiscono per compromettere ogni movimento futuro. Marx ed Engels non si sono lasciati mai trattenere dal loro vulcanico temperamento rivoluzionario di fronte a questa necessaria critica della rivoluzione; come lo dimostra fra l'altro lo scritto pubblicato da Engels nell'autunno del 1873 nel « Volksstaat » di Lipsia intorno alla sollevazione, che scoppiò in Ispagna dopo la proclamazione della repubblica, il 5 luglio di quell’anno, ma che già il 26 dello stesso mese era pressochè schiacciata, fatte alcune eccezioni, poichè Cartagena resistette fino al gennaio del 1874. Primachè la rivolta fosse completamente domata Engels pubblicava una critica assai aspra su « questa biasimevole insurrezione ad ammonimento dei contemporanei ».
Questa critica egli la fece in una serie di articoli, intitolata « I bakunisti al lavoro » (« Volksstaat », 31 ottobre-2-5 novembre), ristampata nel 1894 nel fascicolo « Internazionales aus dem Volksstaat» di Federico Engels (Berlino, Casa ed. Vorwárts). Raccomandiamo questo scritto allo studio di tutti quelli, che si occupano del bolscevismo. Esso è in molti punti profetico, visto che la situazione della rivoluzione spagnuola offre alcune analogie con quella dei comunisti odierni. Engels comincia coll'accennare che in Ispagna gl'internazionalisti appartenevano nella loro maggioranza all'Alleanza di Bakunin, quindi prosegue:
« Quando nel febbraio del 1873 fu proclamata la Repubblica questi bakunisti di Spagna si trovarono in una situazione assai difficile. La Spagna è un paese così arretrato in fatto d'industria che non era neppure il caso di parlare di una immediata, completa emancipazione della classe lavoratrice. Prima di venire a ciò la Spagna doveva percorrere molte fasi di sviluppo, e sbarazzarsi la strada da molti ostacoli. La Repubblica offriva l'occasione di percorrere nel più breve tempo possibile queste fasi ed eliminare questi impedimenti, ma questa occasione si poteva solo utilizzare mediante un'efficace ingerenza politica della classe lavoratrice spagnuola » (pag. 17-18). Ciò avrebbe richiesto la partecipazione alle elezioni delle Cortes e alla loro attività. I bakunisti invece vollero immediata e piena emancipazione del proletariato. A ciò non era certo un mezzo idoneo nella attuale situazione della Spagna la democrazia parlamentare, mentre essa era un mezzo indispensabile allo sviluppo e alla maturazione del proletariato, pei bakunisti la partecipazione a qualsiasi elezione sembrava un delitto capitale. Ma che cosa intendevano mettere al posto della lotta elettorale? I consigli di operai come mezzo di emancipazione immediata e completa del proletariato non erano ancora stati trovati. I bakunisti proclamarono lo sciopero generale, la dissoluzione della Spagna in un numero infinito di piccoli cantoni, e quindi come conseguenza il frazionamento del moto generale in una serie di movimenti locali e la dichiarazione della « rivoluzione in permanenza ». La morale della favola fu non soltanto il fallimento della rivoluzione, la rovina di tutta la internazionale spagnuola, ma anche la « negazione di quei principi che i bakunisti avevano fino allora predicato » (pag. 32), che essi furono costretti ad abbandonare l'un dopo l'altro sotto la pressione delle circostanze.
Forsechè in Russia non è la stessa cosa? Certamente allo scoppio della rivoluzione attuale tra i lavoratori russi non prevaleva l'anarchismo bensì la dottrina di Marx, la quale in nessun altro paese come qui era stata pienamente riconosciuta. Per molti anni i socialisti russi avevano fatto di necessità virtù e scorto un carattere di vantaggio nella stessa arretrata condizione agricola del loro paese.
Essi credevano che le sopravvivenze del loro comunismo di villaggio potessero facilitare l'introduzione del socialismo moderno. Fu un grande merito dei marxisti nella Russia, sotto la guida di Axelrod e Plechanoff, di fronte a questa opinione, d'essersi sforzati di liberarsene, ed aver fatto riconoscere con lunghe e faticose lotte che nello stato immaturo del proletariato e dell'intera società della Russia, l' imminente rivoluzione non potesse avere che un contenuto borghese, anche quando il proletariato fosse stato chiamato a rappresentare in esso una parte preponderante. Questo modo di vedere prevalse nel socialismo russo finchè la rivoluzione non diede il potere al proletariato, ponendo all'ordine del giorno la sua immediata emancipazione e finchè il socialismo fu rappresentato dagl'intellettuali e dalla parte più scelta dei lavoratori. Il marxismo, che voleva essere conseguente a se stesso, venne a trovarsi in una situazione incredibilmente difficile, allorchè la rivoluzione mise in movimento la grande massa del popolo russo, la quale ebbe solo coscienza dei suoi bisogni e della sua volontà; non curandosi affatto di sapere se quello, cui aspirava, fosse o no nelle condizioni di fatto possibile e socialmente vantaggioso. In tal situazione i bolscevichi lasciarono andare il loro marxismo. Essi erano dominati dallo spirito della massa, e da questa si lasciarono condurre. Nessun dubbio che con ciò essi siano diventati i padroni della Russia; ma che cosa alla fin fine possa e debba nascere da ciò è un'altra faccenda. Avendo fatto della pura volontà popolare la forza motrice della rivoluzione, i bolscevichi dovettero gettare a mare la concezione marxista, ch'essi pure avevano contribuito nel più alto grado a far prima trionfare. Credettero poi di mettersi in pace colla loro coscienza scientifica e colla popolarità del nome di Marx, impadronendosi d'una frase di lui, la frase: « dittatura del proletariato ». Con questa parola d'ordine si sono convinti d'essersi procacciata l'assoluzione di tutti i peccati commessi contro lo spirito del Marxismo.
La rivoluzione fu una conseguenza della guerra. I soldati non volevano combattere più a lungo. I bolscevichi si fecero i più decisi rappresentanti del partito contrario alla continuazione della lotta. Essi accelerarono con ogni mezzo la dissoluzione dell'esercito, senza crucciarsi molto se con ciò procacciassero un vantaggio all'autocrazia militare tedesca. Che se questa non ha in definitiva vinto, ma anzi sia finita nella rivoluzione, veramente, non può dire ch'essi ne abbiano colpa.
Lo sfacelo dell'intero esercito diede la più assoluta libertà alle classi inferiori: i contadini pretesero di dividersi immediatamente i grandi tenimenti, convertendoli in privata proprietà. Che questo accadesse non si poteva evitare, ma si sarebbe, quando l'espropriazione fosse stata condotta sistematicamente, compiuta in forme tali da non scemare i progressi tecnici della grande industria. Ma ciò avrebbe richiesto tempo e ì contadini non volevano aspettare.
I bolscevichi li guadagnarono alla loro causa, mentre producevano l'anarchia nel paese, lasciando ad ogni comune carta bianca, tanto che ne derivò la rovina della terra ricondotta alle forme primitive di sfruttamento, al regresso tecnico accompagnandosi la distruzione di molti mezzi di produzione. A lor volta i contadini lasciavano al governo bolscevico piena libertà di
azione nelle città, dove esso tirava dalla sua la massa lavoratrice assecondandone la volontà e non guardando alle reali necessità delle cose.
Il proletariato era affamato, si sentiva oppresso e sfruttato, esigeva energicamente la pronta abolizione del giogo capitalistico. Per accontentarlo non c'era tempo nè di studiare nè di riflettere.
Con pochi poderosi colpi l'edificio del capitalismo russo fu messo a pezzi.
La sostituzione della produzione capitalista con la socialista comporta due momenti : essa è prima una questione di proprietà e poi di organizzazione. Essa richiede la soppressione della proprietà privata sui mezzi di produzione e il loro passaggio alla proprietà collettiva nella forma di proprietà statale o comunale o corporativa. Ma essa esige anche la sostituzione della organizzazione capitalista dell'industria e delle sue funzioni nella totale concatenazione della vita economica mediante quella sociale.
Delle due trasformazioni la più semplice è quella della proprietà. Nulla di più facile che espropriare un capitalista. E' questa una pura questione di forza, che non si riannoda a nessun peculiare presupposto sociale. Prima assai che vi fosse un vero capitalismo industriale, quando esisteva soltanto un capitale commerciale ed usurario, noi incontriamo siffatte espropriazioni di mercanti, banchieri, usurai, compiute da signori feudali, principi, talvolta dal popolino stesso. Nell'età di mezzo assai spesso gli ebrei sono stati espropriati e non solo essi, ma a dispetto del sentimento di pietà d'allora, anche le ricchezze di una Chiesa o d'un ordine furono colpite di confisca. Così FiIippo IV di Francia sul principio del XIV° secolo espropriò l'ordine ricchissimo dei Templari. Prima ancora che ci fosse un socialismo moderno, le anime semplici vedevano un benefattore dell'umanità nel nobile brigante che rubava ai ricchi per donare ai poveri. Applicare un siffatto socialismo è stata sempre un'operazione semplicissima. Essa corrispondeva a quella condizione immatura del proletariato russo, per cui Bakunin nel 1869 immediatamente prima della guerra e della Comune, in un appello alla gioventù russa la invitava a mettersi su quella via che seguì il capobrigante russo Stenka Rasin, allorchè avendo nel 1667 raccolto intorno a sè una banda armata, per quattro anni infierì con quella nella Russia meridionale, finchè cadde nelle mani del governo e fu mandato a morte.
Quanto all'organizzazione la cosa non è tanto liscia, quanto l'espropriazione. Un'impresa capitalistica è un organismo artificiale, che ha il suo cervello nel capitalista ovvero nel suo rappresentante. Volendo eliminare il capitalismo, bisogna creare un organismo che sia in grado di funzionare senza il cervello del capitalista, altrettanto bene, anzi meglio ancora. E questa non è una faccenda così semplice, come il procedere di Filippo IV o di Stenka Rasin, perchè richiede una serie di condizioni preliminari d'ordine materiale e spirituale, un alto sviluppo d'organizzazione capitalista non solo nel campo della produzione ma anche in quello dello smercio e dell'acquisto delle materie prime, ed esige anche un proletariato che sia conscio dei propri doveri sia verso i suoi compagni più vicini, sia verso l'intera società, che si sia formato l'abitudine di una disciplina volontaria e della responsabilità attraverso un lavoro di più e più anni nelle organizzazioni di mestiere, che sia infine abbastanza intelligente per distinguere il possibile dall'impossibile, la verace guida dotata di carattere ed educata ad uno spirito scientifico, dal demagogo incosciente ed ignorante.
Quando queste condizioni manchino, non può il capitalismo essere abolito dal socialismo con esito positivo e durevole. Ed anche in quei paesi e in quei rami d'industria, in cui queste condizioni sono abbastanza sviluppate, l'organizzazione socialista deve essere accuratamente preparata da un esame minuzioso dei rapporti di fatto, poichè le forme che la nuova organizzazione ha in tal caso da assumere non sono per tutte le branche industriali, per tutte le regioni, per tutti i tempi date in antecedenza, non sono utopie fisse e bell'e pronte o ideali eterni, ma possono invece esser molto differenti secondo le circostanze e debbono quanto è più possibile adattarsi alle condizioni del caso, se vogliono agire efficacemente.
I due momenti della socializzazione, l'espropriazione e la riorganizzazione debbono procedere tra loro in strettissimo rapporto, quando al posto della produzione attuale non si voglia mettere il caos o un arresto definitivo. Un Filippo IV od un Stenka Rasin potevano limitarsi ad una espropriazione pura e semplice, non avendo da preoccuparsi di creare un nuovo sistema produttivo. Il passaggio al socialismo non si instaura in una maniera tanto spiccia.
Ma le masse erano impazienti e non volevano attendere. Per accontentarle, i bolscevichi, giunti al governo, tagliarono in due parti il processo di socializzazione, tennero cioé separati i suoi due momenti, quantunque l'uno non possa crear nulla di vitale senza l'altro. Prima procedettero secondo il modello già sperimentato di Stenka Rasin, e poi si accinsero alla meglio a rimettere l'organizzazione. Ciò che andava strettamente insieme e solo unito poteva agire, fu violentemente separato. Lenin stesso lo riconobbe nell'aprile del 1918 nel suo scritto « I compiti più urgenti del governo dei Soviet »:
« Fin qui stavano in prima linea le misure per l'immediata espropriazione degli espropriatori. Ora si tratta prima di tutto di ordinare il bilancio e il controllo delle imprese in cui già il capitalista è stato espropriato e in ogni altra azienda economica (pag. 14).
« Il nostro lavoro di organizzazione, da compiersi sotto la guida del proletariato, il bilancio e il controllo generale della produzione e della distribuzione dei prodotti sono stati posticipati all'altro nostro lavoro d'espropriazione immediata degli sfruttatori. Nella trasformazione socialista su questo terreno siamo rimasti molto indietro, (ed è pure il terreno più importante) e siamo rimasti indietro precisamente, perchè bilancio e controllo sono tuttora insufficientemente organizzati » (pag. 23).
Imprese e gruppi d'industrie si espropriavano senza esaminare se fosse possibile la loro organizzazione socialista. Anche in campi dove sarebbe stata possibile un'organizzazione simile, non si andava al di là dell'espropriazione, perchè questa si poteva fare senza che fosse necessaria un'opera di preparazione e perchè gli operai non volevano aspettare.
Ben presto se ne videro le conseguenze. La vita economica russa è così arretrata sotto questo aspetto, che la sua industria, in confronto all'agricoltura, occupa solo una minima parte della popolazione. Però in questa industria prevalevano le forme più moderne della grande impresa, che avevano di molto oltrepassato la fase dell'industria parigina del 1871. Per questa infatti, appena si potè parlare di socializzazione, venne in discussione solo la forma della cooperativa di produzione. Le fabbriche russe erano invece imprese così gigantesche che, dopo lo spossessamento del capitale, la prima questione che si presentò fu quella della loro statizzazione.
Nel sistema cooperativo di produzione il guadagno dell'operaio dipende dal suo lavoro e da quello dei suoi compagni. La misura di questo guadagno è determinata dalla quantità dei prodotti, che essi portano sul mercato. Essi medesimi debbono occuparsi dello spaccio come dell'acquisto della materia prima. In una fabbrica statizzata, adesso come prima gli operai ricevono un salario, soltanto non più dai capitalisti ma dallo Stato. L'altezza dei loro guadagni molto meno dipende dalla misura delle loro prestazioni produttrici, che da quella della pressione che possono esercitare sul potere statale. Questo deve oltre a ciò effettuare lo smercio e il rifornimento delle materie prime. Occorrerebbe che ci fosse una maestranza disciplinata e intelligente, la quale si rendesse conto in qual alto grado la prosperità sociale e quindi anche il benessere proprio dipendano dalla produttività del proprio lavoro, per mantenere in queste circostanze la produzione in piena efficienza. E anche con una siffatta maestranza si potrebbe aspettare una produzione abbondante solo quando fossero prese le necessarie misure organizzatrici, che garantissero, oltre che agli operai, anche al governo e al consumatori l'influenza necessaria sopra ogni impresa e sopra l'intero campo industriale, e quando si creassero tali impulsi al lavoro da rimpiazzare sufficientemente l'iniziativa capitalistica.
Ma qui mancava non solo questa organizzazione, ma alle maestranze faceva difetto la necessaria intelligenza e disciplina, tanto più che la guerra, con tutte le sue conseguenze, aveva messo nella più violenta agitazione la parte fino allora più incosciente e ineducata del proletariato. Il lavoratore russo, è vero, si è formato, nella comunità di villaggio, un alto spirito di solidarietà, ma in una sfera assai angusta, com'è appunto la comunità di villaggio stessa. Questo spirito esso lo applica soltanto nella stretta cerchia dei suoi amici personali. La grande comunità sociale gli è indifferente. Gli effetti spiacevoli, che sono il prodotto di tali condizioni, devono lamentarli i bolscevichi stessi. Trotzki nello scritto « Lavoro, disciplina ed ordine salveranno la repubblica socialista dei Soviet », dice:
« La rivoluzione ha risvegliato violentemente la personalità umana, ed è perciò naturale ch'essa abbia dato a questo risveglio nel suo primo momento un carattere superficiale, e se volete, anarchico. Questo risveglio degli istinti elementari della personalità ha preso spesso un carattere grossolanamente egoistico, o, per usare un'espressione filosofica, egocentrico... L'individuo si sente spinto a prendere per sè tutto ciò che può, non pensa che a sè, e non ha alcuna inclinazione a tener conto dell'interesse generale di classe. Quindi il sopravvento di quelle disposizioni alla disorganizzazione, di quelle tendenze individualistiche anarchiche e brigantesche, che osserviamo specialmente entro le vaste zone di quegli elementi che sono nel paese, per così dire, fuori d'ogni classe, in mezzo all'esercito disciolto, e anche in certi gruppi di operai » (pag. 17).
Si tratta di elementi ben diversi di quelli della Comune parigina, che limitavano i propri salari, per aiutare l'avvento del socialismo.
Come in circostanze simili procedesse la produzione nelle industrie espropriate, è chiaro. Le mercedi salirono al massimo, e il lavoro discese al minimo; per agevolar ciò si abolì il cottimo, e l'effetto fu questo che per esempio le officine Putiloff in Pietroburgo costarono allo Stato come sovvenzione in un certo periodo di tempo 96 milioni di rubli e gli fornirono un prodotto del valore complessivo di 15 milioni. La bancarotta, che era fatale, fu evitata soltanto dall'uso senza discrezione del torchio pei biglietti di banca. Lavorandosi meno nelle fabbriche, la prima cosa che fecero gli operai fu quella di sottrarsi ai lavori sgradevoli, sudici e faticosi
Assicurare l'esecuzione di siffatti lavori in una società socialista, è problema, di cui da tempo molti. teorici si sono occupati. Fourier credeva d'averlo risolto affidando le mansioni più ripugnanti ai sudicioni, cioè ai ragazzi che appunto di preferenza grufolano nella sporcizia. Ma questa soluzione umorista non conclude molto. L'unica che vada d'accordo coi principi socialisti e garantisca un risultato è quella fornita dalla tecnica, togliere cioè ai lavori faticosi, ripugnanti e insalubri il loro carattere dannoso e antipatico, e là dove ciò non riesca non rimane che neutralizzare questo carattere con vantaggi particolari, ossia elevazione straordinaria della mercede ovvero abbassamento straordinario dell'orario.
I bolscevichi hanno trovato invece un'altra , soluzione che non corrisponde ai principi del socialismo, bensì alla mentalità collettiva di lavoratori sovreccitati. Essi hanno semplicemente introdotto l'obbligo del lavoro. Non però quest'obbligo per quelli che fin qui sono stati i salariati. A che imporre anche ad essi il principio del lavoro obbligatorio, se a causa della nuova situazione una fabbrica dopo l'altra, per mancanza di materia prima o di combustibile o difficoltà di trasporti, doveva sospendere l'esercizio e cresceva il numero degli operai, che non trovavano lavoro? No, l'obbligo del lavoro venne addossato soltanto a quelli che sotto il pretesto che non lavorano erano stati spogliati d'ogni diritto, i borghesi. Al posto della universale democrazia « formale », la repubblica dei consigli ha posto la democrazia proletaria. Solo quelli che lavorano godono dei diritti politici, solo essi sono sufficientemente nutriti e legalmente protetti. I parassiti debbono essere posti fuori della legge.,
Teoria schiettamente socialista in apparenza, che non ha che un sol torto. La repubblica dei consigli di operai esiste quasi da due anni, essa accorda il diritto elettorale solo ai lavoratori, ma non ha ancora risolto questa sciarada: Chi è un operaio?
I diversi comunisti ci danno risposte diverse.
Ai loro inizi i consigli di operai altro non erano se non le rappresentanze dei salariati delle grandi fabbriche, e come tali formavano ben determinate e limitate organizzazioni, che furono efficaci nella rivoluzione. La teoria dei consigli consistette solo in ciò: sostituire alla assemblea nazionale sorta dal suffragio universale, il consiglio centrale dei consigli di operai. Sarebbe però stata troppo debole la base di questo consiglio, limitandosi soltanto ai consigli operai delle maggiori fabbriche. Non appena però si usciva dalla loro cerchia, e nello stesso tempo si volevano escludere dal diritto di voto i borghesi, ecco si entrava nell'indefinito.
La separazione del borghese dall'operaio è tutt'altro che facile a tracciarsi; essa include sempre qualcosa d'arbitrario, e se questo rende la teoria dei consigli molto adatta a fondare un sistema di dominazione dittatoriale, la rende anche del tutto impropria a costruire un edificio politico ben preciso ed ordinato. Sopratutto in riguardo agli intellettuali, è rimesso esclusivamente al beneplacito delle autorità decidere se essi facciano parte o no della borghesia, il che per essi significa possedere o no l'elettorato, essere costretti o no al lavoro forzato.
Nella repubblica dei Soviet non solo si tolgono ai borghesi i loro mezzi di produzione e di consumo senza indennità, non solo son loro negati tutti i diritti politici, ma essi vengono altresì assoggettati, e essi solamente, al lavoro obbligatorio! Essi sono gli unici in Russia costretti a lavorare, pur essendo anche quelli, che sono stati spogliati d'ogni diritto, perchè non lavorano! Non si è inscritti in Russia nelle categorie degli operai o dei borghesi secondo le funzioni esercitate attualmente, ma secondo quelle esercitate prima della rivoluzione. I borghesi appaiono qui come una specie peculiare di uomini che porta con sè le stimmate indelebili della propria inferiorità. Come un negro rimane un negro, un mongolo un mongolo, sempre e dovunque si mostri e comunque si rivesta, così un borghese resta un borghese, anche se sia diventato un pezzente, anche se viva del proprio lavoro. E come vive!
I borghesi hanno il dovere di lavorare, ma non hanno il diritto di scegliere quei lavori ch'essi conoscono e che lor meglio convengono. Chè anzi vengono loro assegnate le mansioni più abbiette e repugnanti. E non ricevono le più abbondanti, ma anzi le più scarse razioni di nutrimento, tanto scarse che non permettono loro di saziare la fame. Le loro razioni sono appena un quarto di quelle dei soldati e degli operai mantenuti dalla repubblica nelle sue fabbriche. Là dove questi ricevono una libbra di pane, quelli ne hanno 114, dove questi ricevono 16 libbre di patate, quelli 4 soltanto.
In simili ordinamenti non c'è neppur più l'ombra di quello sforzo d'innalzare il proletariato al più alto livello, di instaurare una più elevata forma di vita, ma solo vi traspare la sete di vendetta, nella sua forma più bassa, delle masse che pongono la loro felicità nel poter finalmente calpestare a piacere quanti erano i beniamini della fortuna, i meglio alloggiati, i meglio vestiti, i più educati fino ad oggi!
Scatenatasi questa volontà, come forza motrice della rivoluzione, è naturale che le sue manifestazioni vadano spesso molto al di là di quello che i bolscevichi stessi volessero. Così l'idea che
i borghesi di ieri non siano ormai altro se non bestie da soma fuori della legge e poste al servizio di coloro che prima stavan loro soggetti come lavoratori, ha prodotto il decreto del consiglio operaio di Murzilowka.
« Il Soviet accorda al compagno Gregorio Sareieff pieni poteri di requisire e trasportare nella caserma 60donne e fanciulle della classe borghese, a sua scelta e secondo i suoi ordini, per il servizio della divisione d'artiglieria di guarnigíone in Murzilowka, distretto di Briansk », 16 settembre 1918 (pubblicato dal Dott. Nath. Wintsch-Malcieff, « What are the Bolschevists doing », Lausanne 1919, pag. 10).
Si avrebbe torto di rendere responsabili i bolscevichi d'un decreto simile, che certo ripugna ad essi, come le stragi settembrine ripugnavano agli uomini della Convenzione. Ma si inorridisce al pensare che ci sia stata, sia pure in un sol paese, un'organizzazione sovietista in cui l'odio e lo sprezzo verso il borghese si sia spinto a tal segno da non rispettare in lui non dico i diritti politici, ma nemmeno i semplici diritti umani, nemmeno la dignità della persona.
b) La maturità del proletariato. — E' naturale che gli stessi bolscevichi non potessero assecondare passivamente una mentalità siffatta delle masse, che assumeva forme così pericolose. Dopo avere spogliati e messi al bando i borghesi, dopo aver fatto del proletariato una cosa sacra cercarono di comunicare a lui la maturità necessaria, che avrebbe dovuto essere la condizione preliminare d'ogni socializzazione ed espropriazione.
« Ben sapevamo anche prima, dice Trotzki, (« Lavoro, disciplina, ecc. », pag. 16), che mancavamo della necessaria organizzazione, disciplina e preparazione storica, sapevamo tutto questo, ma ciò non ci ha per nulla impedito di camminare, lo sguardo fisso in avanti verso la conquista del potere. Eravamo convinti di poter tutto imparare e tutto ordinare ».
Ma Trotzki oserebbe salire sopra una locomotiva, e metterla in movimento nella certezza di saper tutto imparare e tutto ordinare durante la sua corsa? Senza dubbio ne sarebbe capace, ma forsechè ne avrebbe il tempo ? Non deraglierebbe o non esploderebbe ben presto la macchina? Occorre aver acquistato le qualità necessarie per dirigere una locomotiva prima di metterla in movimento. Allo stesso modo il proletariato deve avere acquistato prima le qualità, che lo rendano capace di assumere la direzione della produzione, quando si debba accingere a quest'opera. La produzione non comporta il vuoto, l'arresto dell'attività, sopratutto nella presente condizione creata dalla guerra, che ha distrutto tutte le risorse, costringendoci a vivere giorno per giorno, e quando ogni arenamento del processo produttivo ci condannerebbe senz'altro alla fame. Lenin stesso ritiene assolutamente necessario mettere un freno all'espropriazione: « se volessimo continuare l'espropriazione del capitale col ritmo accelerato di prima, andremmo incontro ad una certa sconfitta, essendo chiaro ed evidente per ogni uomo, che sappia pensare, che il nostro lavoro d'organizzazione proletaria è rimasto molto indietro in confronto all'immediata espropriazione degli espropriatori » (« I compiti più urgenti del governo dei Soviet », pag. 14).
Però Lenin non dispera, anzi afferma che malgrado tutto i soviet vinceranno la battaglia contro il capitale, visto che il proletariato russo cammina a passi di gigante verso la sua maturità. Egli scrive: « Lo sviluppo della coltura e della istruzione nella massa popolare è una condizione dell'incremento della produttività del lavoro. Ora lo sviluppo della coltura prosegue con vertiginosa rapidità, grazie allo slancio verso la luce e l'iniziativa, che l'organizzazione soviettista ha saputo provocare negli strati più profondi del popolo» (pag. 33). L'elevazione intellettuale delle masse può essere di due specie. Si può introdurre per mezzo della scuola secondo un piano sistematico. Sotto questo rapporto in Russia c'è quasi tutto da fare. Ma un sistema scolastico sufficiente esige alla sua creazione mezzi poderosi, suppone una fiorente economia, che fornisca una considerevole eccedenza per queste spese. La produzione russa dà risultati così deplorevoli, che la scuola ne deve risentire il doloroso contraccolpo. I bolscevichi si sforzano quanto è loro possibile per il progresso della scienza e dell'arte e per la loro diffusione nelle masse. Ma questo possibile è estremamente limitato dagli ostacoli economici. Non dobbiamo aspettarci da questo lato un'elevazione spirituale rapida che permetta un pronto e bastevole incremento della produzione. Al contrario, bisognerebbe invertire i due termini e mettere lo sviluppo economico come condizione preliminare della evoluzione spirituale.
E' vero però che gli adulti si istruiscono più alla scuola della vita, che in quella istituita dallo Stato o dal Comune. Le migliori condizioni di educarsi sono quelle che offre loro il regime democratico, la cui istituzione caratteristica è l'assoluta libertà di discussione e di comunicazione; il regime democratico che costringe ogni partito e ogni corrente di idee a lottare per la conquista dell'anima collettiva, che mette ogni membro della comunità a controllare il pro e il contro di tutte le tendenze, acquistando per tal via la piena indipendenza del proprio giudizio. Infine la democrazia offre alla lotta delle classi le sue forme più alte, sforzando ogni partito ad indirizzarsi all'intera collettività. Ciascuno difende, è vero, interessi specifici del proprio gruppo, ma è però costretto di mettere in rilievo in questi interessi quegli aspetti che coincidono cogl'interessi generali della società. In tal senso lo Stato democratico moderno supera l'angustia del campanilismo politico della comunità di villaggio, nonchè quello della politica professionale delle corporazioni. In esso l'orizzonte della massa mediante la partecipazione alla vita politica viene straordinariamente allargato.
Tutti questi mezzi d'istruzione popolare vengono senz'altro eliminati, se come accade nella repubblica dei Soviet si elimina la democrazia per sostituirla coi pieni poteri dei consigli operai che privano dei diritti ogni borghese e sopprimono la libertà di stampa. Gli interessi speciali del salariato sono in tal modo separati dagli interessi comuni, mentre all'operaio resta impedita ogni critica relativa ai diversi argomenti, che sono in conflitto nell'urto delle classi e dei partiti. Poichè il giudizio su di essi gli vien fornito da un'autorità prevenuta e ansiosa di allontanare da lui, ogni pensiero, ogni notizia, che possano sollevare nel suo animo qualche dubbio sul carattere pressochè divino del sistema soviettista. Si capisce bene, che questo è fatto soltanto nell'interesse della verità. Il povero popolo ignorante non deve esser ingannato e attossicato dalla stampa borghese, che è il più potente mezzo di dominazione. Dove però si trova nella Russia odierna questo potente apparecchio di dominio, che possa dare ai giornali borghesi una superiorità sulla stampa bolscevica ? E d'altronde, la severa censura sulla stampa esercitata dai bolscevichi, non è diretta soltanto contro quella borghese, ma contro ogni stampa che non sia ciecamente ligia al sistema di governo esistente.
La giustificazione di questo sistema poggia esclusivamente sul puerile concetto, che vi sia una verità assoluta e che proprio i comunisti la posseggano. Ed anche poggia sovra quest'altro concetto che tutti gli scrittori siano mentitori nati, e che soltanto i comunisti siano fanatici della verità. E' invece evidente che vi sono in tutti i campi mentitori e fanatici, di ciò che sembra loro esser vero. Ma la menzogna più alligna là dove non si teme controllo, là dove può sentire la voce la stampa d'un sol partito. Questo privilegio le guarentisce un diritto assoluto alla menzogna, incoraggiando alla falsità tutti gli elementi che vi sono inclinati, e ciò tanto più quanto più diventa disastrosa la posizione del governo, quando più pericolosa diventa la verità.
La veridicità delle notizie non è dunque guarentita affatto dalla soppressione della libertà di stampa, al contrario singolarmente ostacolata.
Che se poi è della verità. delle concezioni che si tratta, allora possiamo ripetere la domanda di Pilato: « Quid veritas? ». Non c'è nessuna verità assoluta, ma solo un processo di formazione della coscienza, e questo, non meno che le stesse facoltà conoscitive dell'uomo, è radicalmente compromesso, qualora una fazione politica usi del proprio potere per imporre la sua propria dottrina come verità universale e soffocare ogni altra opinione. Nessuno dubita della buona fede di quegli idealisti, che si possono trovare tra i capi bolscevichi; convinti di possedere essi solo la verità, è naturale che chi non la pensi a modo loro deve essere uno scellerato. Ma anche gli uomini della santa inquisizione spagnuola erano in perfetta buona fede. L'elevazione intellettuale e morale delle masse non pare che abbia molto guadagnato sotto quel regime. C'è, è vero, una differenza tra quegli inquisitori e i duci della repubblica soviettista: i primi non miravano al progresso materiale e intellettuale del popolo sulla terra; volevano solo salvare le anime. Applicando gli stessi metodi, i bolscevichi pretendono elevare le masse sotto ogni rapporto, e non si accorgono quanto invece le degradino.
Un'alta moralità delle masse congiunta ad una pari istruzione è condizione preliminare del socialismo: una moralità che non si esprima soltanto nella forza dell'istinto sociale, nel sentimento della solidarietà, nello spirito di sacrificio e di devozione, ma anche nell'estensione di tali sentimenti al di là della stretta cerchia dei propri compagni, verso la collettività intera. Una moralítà siffatta trovammo fortemente sviluppata nei proletari della seconda Comune. Questa moralità manca alla massa, il cui spirito informa il proletariato bolscevico. Bisogna crearla ad ogni costo. Trotzki esclama :
« O compagni, è nostro dovere, predicare immediatamente questa morale comunista, sostenerla, svilupparla, fondarla. Ecco il principale compito del nostro partito, in tutti i campi della sua attività» (« Lavoro, disciplina, ecc. », pag. 21).
Sta bene, ma crede forse Trotzki, che si possa su due piedi creare una morale nuova? Essa non si svolge che lentamente. Intanto, il rinnovamento della produzione non ammette indugio. Se la morale comunista non è stata creata prima di iniziare la socializzazione, è troppo tardi per svolgerla ad espropriazione compiuta.
E come la si vorrebbe svolgere? Si dice di predicarla, come se mai si fosse ottenuto qualche risultato nel mondo predicando la morale! Se dei marxisti sono ridotti a fondare le loro speranze in questo, essi fan vedere soltanto in qual via senza uscita abbian finito per cacciarsi. Ma, dicono, non solo predicare, ma anche sostenere si deve la nuova morale.
E come? La morale è il prodotto della nostra vita e della nostra azione, da esse ricava la sua essenza, dalla loro forma dipende. La morale superiore, che il proletariato in lotta sviluppa, dipende da due fattori: essendo i più poveri e deboli nella società, i proletari non possono affermarsi se non mediante la più salda unione. Devozione ed abnegazione dei singoli diventano per loro le virtù supreme, in contrasto colla classe capitalista, dove l'individuo è stimato in base alla ricchezza, qualunque possa essere la sua provenienza. Però i forti sentimenti di solidarietà non bastano a formare la morale socialista, sulla cui base deve costruirsi la società nuova; perchè questi sentimenti possono operare in senso antisociale, se sono limitati ad una angusta cerchia, che vuol guarentire i propri interessi alle spalle della società intera, come è il caso per una nobiltà, una burocrazia, una casta militare. La solidarietà proletaria moderna tocca l'apice di una morale socialista solo in quanto si estende all'intera collettività umana, conformemente alla chiara coscienza del principio che il proletariato non si emancipa, che nell'emancipazione totale del genere umano.
Già Engels nella sua giovinezza, scorgeva in questo fatto il mezzo di elevazione della morale proletaria, concludendone nel suo « Stato delle classi lavoratrici in Inghilterra » (2a edizione, pag. 299):
« La rivoluzione diminuirà in effusione di sangue, in vendetta e furore nella stessa proporzione in cui il proletariato si accrescerà di elementi socialisti e comunisti. In teoria il comunismo sta al disopra della distinzione tra borghesia e proletariato, ne riconosce la funzione storica presente, ma non la giustifica nell'avvenire. Anzi aspira precisamente ad abolirla. Perciò, finchè la distinzione dura, il comunismo tien conto dell'odio del proletariato contro i propri oppressori, come di una necessità, come della più potente leva del movimento operaio ai propri inizi, ma supera quest'odio, essendo la causa dell'umanità e non soltanto dei lavoratori. In ogni caso, a nessun comunista è venuto mai in mente d'esercitare una vendetta sugli individui, o di credere che un borghese potrebbe nelle circostanze attuali agire diversamente da quel che agisce... Quanto più adunque gli operai inglesi si penetreranno d'idee socialiste tanto più il presente odio che restando così violento com'è oggi, non concluderebbe a nulla — diventerà loro inutile, e tanto più i loro atti contro la borghesia perderanno di violenza e brutalità. Ammessa l'ipotesi che il proletariato intero diventasse comunista, prima che la lotta aperta scoppiasse, questa si svolgerebbe nel modo più pacifico. Ma è troppo tardi ormai per poterlo sperare. (Engels credeva nel 1845 vicina una rivoluzione, e infatti venne nel 1848, non però in Inghilterra, bensì nel continente, e non fu punto una rivoluzione proletaria. K.).
« Tuttavia penso, che prima che scoppi una vera guerra aperta e diretta dei poveri contro i ricchi, ormai diventata inevitabile in Inghilterra, si possa diffondere nel proletariato tanta luce relativamente alla questione sociale, che basti, coll'aiuto delle circostanze, a mettere il partito comunista in grado di dominare infine l'elemento brutale della rivoluzione e prevenire il nove termidoro ».
Il nove termidoro fu il giorno della caduta di Robespierre e del governo del Terrore in Parigi. Engels voleva prevenire una catastrofe simile, perciò i comunisti dovevano agire nel senso di spogliare la lotta di classe contro la borghesia della sua violenza e brutalità e mettere in piena luce l'interesse generale dell'umanità.
Come si vede, Engels concepiva il comunismo in modo alquanto diverso dai bolscevichi. Quello che Engels voleva, è proprio quello che si sforzavano di compiere quei socialisti russi, coi quali sono venuti in lotta i bolscevichi. E il bolscevismo ha sconfitto i propri avversari socialisti, facendo precisamente della violenza e brutalità del movimento operaio ai suoi inizi, la forza motrice della propria rivoluzione; esso, degradando il movimento socialista, riducendo la causa della umanità alla causa dei semplici operai, proclamando l'esclusivo potere dei salariati (e dei più indigenti tra i contadini) e inaugurandone la dittatura, spogliando d'ogni diritto e condannando alla più dura miseria quanti dissentissero dalle sue teorie, ha promosso l'abolizione delle classi col fare dei borghesi d'una volta una nuova classe d'iloti. Trasformando la lotta socialista per la liberazione e l'elevazione dell'umanità intera in una esplosione d'odio e di vendetta diretti contro individui singoli che vengono esposti alle peggiori sevizie e torture, il bolscevismo ben lungi dall'elevare il proletariato ad un più alto grado di moralità, ha piuttosto contribuito alla sua degradazione. Anzi ha aggravata questa demoralizzazione in quanto ha separato l'espropriazione degli espropriatori dall'opera riorganizzatrice delle nuove forme sociali colla quale doveva essere intimamente congiunta, formando la loro unità il fondo del socialismo. Presa a parte, l'espropriazione fu estesa ben presto dai mezzi di produzione, agli oggetti di consumo. Da ciò al brigantaggio idealizzato nella figura di Stenka Rasin non c'è che un passo.
« Il programma negativo del bolscevismo fu senza alcuna difficoltà compreso dalle masse; non lotte, non doveri, non si tratta che di andare a cercare, prendere e appropriarsi quanto si può raggiungere, in altri termini, come l'ha detto nella sua mirabile semplicità Lenin, non si tratta che di « svaligiare gli svaligiatori » (D. Gawronsky, « Il Bilancio del bolscevismo russo », Berlino, 1919, pag. 39).
Ammessa questa concezione, è perfettamente logico che la repubblica dei Soviet abbia eretto un monumento al capo brigante Stenka Rasin. E con tali metodi il bolscevismo pretende predicare e fondare la nuova morale comunista, senza cui non si può innalzare una costruzione socialista. In realtà non altro consegue se non la demoralizzazione crescente di gran parte del proletariato russo. Risultato che ha spaventato i più idealisti tra i bolscevichi stessi, senza che, pur riconoscendo il fenomeno, ne scoprissero le cause, ciò che avrebbe significato condannare l'intero sistema. Nella loro disperazione cercarono i mezzi di inoculare alle masse la morale comunista. E non seppero trovare niente di meglio, essi marxisti, essi audaci rivoluzionari e novatori che i soliti miserabili ripieghi, coi quali la vecchia società aveva cercato di sbarazzarsi dei frutti delle sue proprie colpe: tribunali, prigioni, supplizi. In altre parole, il Terrore.
Lenin scrive nel suo opuscolo tante volte ricordato, sui più urgenti compiti della repubblica dei Soviet (pag. 47) :
« Il tribunale è lo stromento dell'educazione alla disciplina. Non si è abbastanza capito questo fatto semplice ed evidente, che se fame e disoccupazione sono i due più grandi flagelli della Russia, essi non possono vincersi dallo sforzo e dall'entusiasmo, ma solo da un'organizzazione ed una disciplina generale che si estenda a tutti i campi; e che per conseguenza è responsabile delle miserie, della fame e della disoccupazione chi in qualsiasi campo economico, in qualsiasi cosa infrange la disciplina del lavoro, e che bisogna saper trovare i colpevoli, tradurli davanti ai tribunali, e punirli senza pietà ».
Per renderlo maturo al socialismo, si deve inculcare col bastone al proletariato russo la morale comunista, di cui difetta. Però i castighi spietati non hanno mai innalzato il livello morale di un popolo, ma piuttosto accentuata la sua decadenza. I castighi senza pietà sono un male integrante del vecchio ordine sociale, che non conosce altro rimedio per mantenersi, essendogli preclusa ogni via che conduca ad un progresso morale per mezzo d'un miglioramento nelle condizioni della vita. Ma un sistema socialista, che non scopra altra via all'ascensione morale del proletariato, che quella d'una spietata penalità, confessa con ciò la propria bancarotta.
c) La dittatura. — In fondo non pare che lo stesso Lenin si aspetti molto dall'opera giudiziaria per un incremento considerevole della moralità, tanto è vero che dopo essersi appellato a quell'opera, fa appello ad un altro mezzo cioè a dire al potere dittatoriale o illimitato dei singoli capi delle imprese (pag. 49).
« Ogni grande industria meccanica, che è quanto dire la sorgente stessa della produzione materiale e il fondamento del socialismo, esige la più assoluta e rigida unità di volere... Ma come può questa guarentirsi? Colla subordinazione della volontà di mille alla volontà d'un solo. Se tutti coloro che partecipano al lavoro sono idealmente coscienti e disciplinati, allora questa subordinazione può più che altro ricordare la blanda direzione d'un maestro d'orchestra; assumerà invece l'aspra forma d'una dittatura, quando facciano difetto la disciplina e la coscienza ideali » (pag. 51 ).
Fino ad oggi era cosa ammessa che la coscienza e la disciplina della classe operaia fossero le condizioni preliminari della maturità proletaria, senza cui non è possibile vero socialismo. Lo stesso. Lenin nell'introduzione al libro citato dice:
« Una rivoluzione siffatta non può attuarsi con successo che a condizione d'un'azione storica indipendente compiuta dalla maggioranza della popolazione, e prima di tutto dalla maggioranza dei lavoratori ».
Dopo aver così affermato che il socialismo non è l'opera d'una minoranza, bensì quella della maggioranza del popolo, e solo, prima di tutto, ma non esclusivamente di quelli che lavorano, e dopo aver con ciò, a contro voglia, giustificato la democrazia, prosegue:
« Solo quando il proletariato e la parte povera del contadiname avranno in se stessi trovato abbastanza coscienza, forza d'idea, spirito di sacrificio e di perseveranza, sarà assicurata la vittoria della rivoluzione ».
Tuttavia bisogna intanto assicurare questa vittoria per mezzo della dittatura dei tribunali e dei capi delle imprese:
« La rivoluzione ha spezzato or ora le più antiche, le più dure, le più pesanti catene, che le masse s'erano lasciate imporre sotto il knut; questa fu l'opera di ieri, ma oggi la stessa rivoluzione, e proprio nell'interesse del socialismo, esige la subordinazione incondizionata all'unica volontà di coloro che dirigono il processo produttivo » (pag. 52).
La libertà conquistata ieri, è lor oggi ritolta, perchè le masse non sono riuscite ancora a trovare in sè abbastanza coscienza, forza d'idea, spirito di sacrificio e perseveranza. Eppure alla pagina 7 si concludeva dalla mancanza di queste qualità all'impossibilità del socialismo; alla pagina 52 invece nell'interesse del socialismo si chiede l'incondizionata sommissione delle masse immature al potere dittatorio dei duci industriali. Queste masse, sono così abbassate ad un livello inferiore, di quello raggiunto sotto il regime capitalistico. Allora erano subordinate al capitale, ma non senza diritto di resistenza.
Lenin è vero, consola sé e il suo pubblico perchè questa dittatura, a differenza del regime capitalista, « è attuata dalla massa dei lavoratori e dagli sfruttati, e oltre a ciò attuata per mezzo di organizzazioni per tal modo costituite che per lor opera le masse siano risvegliate e si innalzino ad una storica funzione. Le organizzazioni soviettiste sono appunto di tal natura » (pag. 51).
Come la soppressione assoluta d'ogni critica contribuisca al risveglio delle masse e alla loro elevazione ad una funzione storica, già lo vedemmo. L'organizzazione soviettista non vi porta nessun mutamento. Ma come quella dittatura di ferro di alcuni individui, e l'incondizionata subordinazione delle masse possono realizzarsi per mezzo dell'organizzazione delle masse stesse in virtù d'una libera attività indipendente?
Quello che la massa elegge, può dalla massa esser deposto o da essa indicato alla rielezione, dipende sempre dalla massa e nulla può fare senza la sua approvazione. Può spezzare la resistenza di taluni membri dell' organizzazione che di rige, qualora quelli si mettano contro la maggioranza, ma si troverà ben presto impotente a ridurre al suo volere la maggioranza recalcitrante. Dittatura personale e democrazia sono termini inconciliabili. E ciò vale, anche per la democrazia soviettista. Lenin afferma, è vero, che questa maniera di vedere è al di sotto d'ogni critica. Ma l'energia dell'espressione nasconde la debolezza dell'argomento, visto che non sa contrapporre se non che:
« Se non siamo anarchici, dobbiamo ammettere la necessità dello Stato, ossia, la coercizione per il passaggio dal capitalismo al socialismo » (pag. 50).
E qui siamo certo d'accordo. Anche la democrazia non esclude la coercizione, ma l'unica forma coattiva ch'essa ammette, è quella che la maggioranza esercita sulla minoranza. La coercizione pel passaggio dal capitalismo al socialismo, è quella della maggioranza dei lavoratori sulla minoranza dei capitalisti. Ma non si tratta di ciò, nella seconda fase della rivoluzione, di cui parla qui Lenin, nella quale il proletariato ha già spezzato le sue catene. Qui si parla della costrizione, che esercitano singoli individui sulle masse dei lavoratori. Che una tal sorta di coazione sia incompatibile colla democrazia, Lenin non riesce a refutare, egli tenta cavarsela con un gioco di prestidigitazione, perchè la costrizione, che la grande massa deve esercitare sui capitalisti per introdurre il socialismo, è del tutto compatibile colla democrazia, senz'altro egli conclude che ogni costrizione che sia da chiunque esercitata in vista d'introdurre il socialismo, è compatibile colla democrazia, ancorchè significhi l'onnipotenza di pochi di fronte all'intera massa. Infatti conclude:
« Ecco perchè non c'è assolutamente differenza di principio tra il democratismo soviettista (ossia socialista) e l'esercizio d'un potere dittatoriale per parte di alcuni individui ».
Ciò può essere, ma prova solamente che la democrazia soviettista è un curioso albero al quale si può innestare qualsivoglia forma di potere dispotico, purchè lo si faccia in nome del socialismo.
Dal momento che per gli operai si tratta di sottomettersi senza restrizioni al capo dell'impresa, questi non può più essere eletto dai lavoratori, ma deve esser loro imposto da una autorità ad essi superiore. Il Soviet (consiglio di fabbrica) non ha più a che fare colla fabbrica. Bisogna che il comitato esecutivo centrale, che è quello che nomina i dittatori, abbia esso stesso raggiunto un potere dittatorio, e i soviet siano diventati puri fantasmi e le masse in essi rappresentate abbiano perduto ogni effettiva potenza.
Come Munchhausen non poteva tirarsi fuori dalla palude attaccandosi alla coda della propria parrucca, così una massa d'operai, cui facciano difetto coscienza, forza d'idee, spirito di sacrificio e perseveranza, è incapace di scegliersi un dittatore, che la innalzi, e di obbedirgli ciecamente, quando questi le imponga atti che esigono appunto quella coscienza, quella forza mentale, quello spirito di sacrificio e di perseveranza.
E donde verranno questi dittatori, che posseggano la necessaria superiorità non solo intellettuale ma anche morale? Ogni potere dispotico ha in sè il germe della corruzione, sia esso esercitato da una sola persona o da una consorteria. Soltanto caratteri eccezionali potrebbero preservarsi da queste fatali conseguenze.
Chi ci garantisce che i dittatori russi siano tempre siffatte ? Lenin afferma che essi debbono essere vagliati accuratamente:
« Vogliamo proseguire il nostro cammino, cercando colla maggior prudenza possibile e colla maggior pazienza di saggiare e riconoscere i veri organizzatori, gli uomini di serio intelletto e di spirito pratico, che congiungano alla devozione al socialismo la dote di raggruppare senza chiasso (anzi ad onta del chiasso e della confusione) un gran numero di persone nei quadri della organizzazione dei soviet in vista d'un lavoro assiduo, unanime e efficace. Solo tali uomini, passati per una dozzina di prove, dopo essersi elevati dalle mansioni più semplici alle più difficili, possono occupare posti di responsabilità, come capi dell'amministrazione. Non l'abbiamo ancora imparato, ma l'impareremo ! (pag. 41-42).
Non ci si dice, chi si debba comprendere sotto quel « noi ». Certo, non la massa ignorante, indisciplinata e confusa; piuttosto l'autorità suprema, il comitato esecutivo centrale. Anche questo non ha però ancora imparata l'arte di sceglier bene i dirigenti del lavoro nazionale. Ma promette d'apprendere questo difficile mestiere. Non è fissato alcun termine. Una sol cosa resta certa, che cioè ancor oggi la scelta dei dirigenti è fatta in una maniera molto imperfetta. Non solo dunque le masse, ma i capi stessi mancano della maturità necessaria. Dopo aver espropriato, quando viene il momento di passare all'organizzazione, ecco che si fa la bella scoperta che c'è ancor tutto da imparare, perfino a far la scelta degli amministratori supremi dell'economia nazionale.
d) La corruzione. — E quali elementi s'impongono al nuovo regime!
« Nessun movimento popolare profondo e potente si è svolto nella storia senza ch'abbia fatto venire a galla molto fango, senza il solito corteo di avventurieri e di scellerati, di fanfaroni e ciarlatani che si attaccano ai novatori inesperti, senza un tramestio insensato, senza assurdità, affaccendamento sterile, senza i tentativi dei singoli capi di metter mano a venti cose alla volta senza condurne a termine nessuna ». (Lenin, op. cit., pag. 40).
Nessun dubbio che ogni grande movimento popolare sia esposto a queste dannose vicende, noi ne sentiamo gli effetti anche in Germania. Ma il regime soviettista presenta certe caratteristiche tutte sue. Prima di tutto in nessun luogo i novatori sono così inesperti, come qui. E ciò era inevitabile. Durante l'assolutismo, agli elementi progressivi fu impedito di conoscere le cose pubbliche e sopratutto di partecipare al governo e all'amministrazione comunale, non meno che a qualsiasi opera d'organizzazione o di gestione di qualche importanza. Ogni interesse dei rivoluzionari e sopratutto degli elementi più impazienti e violenti, si concentrò nella lotta contro la polizia, e nelle cospirazioni clandestine.
Non si può rimproverare loro l' inesperienza, che mostrarono appena raggiunsero improvvisamente il potere. Ma essa dimostra una volta di più quanto ancora immatura pel socialismo fosse la Russia allo scoppio della rivoluzione; tanto meno era possibile che masse ignoranti e indisciplinate lo fondassero, quanto più difettavano d'esperienza i novatori, che dovevan loro aprire la via. Sempre più si conferma che l'educazione delle masse e dei loro capi per mezzo della democrazia è il preambolo del socialismo. Non si passa di colpo dall'assolutismo alla società socialista.
D'altra parte il sistema dei Soviet differisce dai precedenti grandi movimenti popolari in quanto si è privato esso stesso del miglior mezzo di riveder le bucce agli avventurieri, scellerati fanfaroni e ciarlatani: ossia la libertà di stampa. Questi elementi sono stati così garantiti dalla critica di quelli ch'erano competenti, e non ebbero a fare se non con operai e soldati ignoranti o con novatori inesperti. In un campo simile hanno attecchito splendidamente. E' vero che i capi bolscevichi si sono messi a studiare come si faccia a separare il grano dal loglio e i buoni organizzatori dai furfanti e dagli scellerati. Ma intanto prima che si sia imparato ciò, ecco che, dato lo stato arretrato della classe operaia russa, la produzione è rovinata e minaccia una stasi completa. Si pensa rimediare al disastro colla sola dittatura dei capi. Ma si deve affidar loro questo potere supremo senza aver potuto far prima la selezione necessaria.
Così la dittatura, contro la quale già si possono sollevare non poche obbiezioni, non può essere che nefasta. Come s'era espropriato prima ed organizzato soltanto dopo, così adesso si nominano i dittatori prima, e dopo si studiano i metodi per procedere alla loro scelta. Controsensi siffatti erano inevitabili dal momento che si trattava di introdurre il socialismo, tenendo conto soltanto della volontà di farlo e non delle reali condizioni per la sua attuazione.
Però il pericolo che minaccia il regime dei Soviet non sta soltanto nell'afflusso di avventurieri e scellerati, ch'esso non sa distinguere e che ha sottratto ad ogni critica. Esso è non meno minacciato dal fatto di essersi alienato gli elementi di più saldo carattere e d'intelletto più elevato dell'« intelligenza ».
Nello stato attuale della produzione, non si realizza il socialismo senza la cooperazione degli intellettuali. Finchè il socialismo era nella fase della propaganda, finchè importava soltanto condurre il proletariato ad una chiara coscienza della parte, ch'esso rappresenta nella società e del compito storico che gli è in conseguenza assegnato, il socialismo non ebbe bisogno degli intellettuali —fossero questi degli accademici d'origine borghese o degli autodidatti usciti dal proletariato — che per elaborare e volgarizzare la sua teoria. Allora importava non tanto il numero quanto la qualità.
Adesso è tutt'altra cosa, visto che entriamo nel periodo di pratica attuazione del socialismo.
La produzione e lo stato capitalista non possono esistere senza il concorso di molte forze scientificamente preparate, zelanti e sicure; ma queste non sono meno necessarie alla produzione socialista e allo stato governato dalla classe operaia. Il socialismo non è possibile senza queste forze e tanto meno contro di esse.
Perchè esse cooperino praticamente alla fondazione del socialismo, non è necessario, come per lo sviluppo e la propaganda della teoria, dedicarsi con passione alla grande causa dell'emancipazione umana. Ma occorre che almeno una parte considerevole degli intellettuali sia convinta della possibilità e del valore della produzione socialista, per modo che contribuendovi, non sia costretta a sacrificare le proprie idee. Anche nel campo del lavoro manuale una produzione un po' raffinata è incompatibile colla coercizione — a più forte ragione questo è vero nel lavoro intellettuale.
Una delle condizioni preliminari della produzione socialista, una delle condizioni che una società deve realizzare per essere matura al socialismo, è che cessi nella classe degli intellettuali il dubbio che il socialismo sia attuabile, e che questi siano disposti, non appena esso abbia conseguito la potenza necessaria, a prender parte alla sua opera di costruzione. Questa condizione tanto meglio sarà attuata, quanto più saran presenti le altre condizioni del socialismo, per modo che la conoscenza della realtà conduca gl'intellettuali spregiudicati alla convinzione socialista. I bolscevichi non hanno riconosciuto fin dal principio, la parte importante, che rappresentano gli intellettuali, ma si sono serviti soltanto delle cieche forze dei soldati, dei contadini e degli operai urbani.
La classe intellettuale è stata fin dagli inizi contraria ai bolscevichi, compresi anche i socialisti intellettuali, convinti che la Russia non fosse preparata alla socializzazione immediata, che i bolscevichi intraprendevano. Altri poi che non avevano opinioni al riguardo erano allontanati dai mali trattamenti inflitti alle persone intellettuali. Queste erano state cacciate dalla fabbrica dagli operai, che pretendevano dirigere da soli le imprese; furono privati dei diritti politici, visto che l'onnipotenza dei consigli operai non accordava il suffragio che ai lavoratori del braccio. Di più essi furono espropriati di quanto possedevano e privati d'ogni possibilità di condurre una vita civile, infine furono anche costretti ad un lavoro forzato e condannati alla fame. I bolscevichi hanno prima creduto di poter fare a meno d'intellettuali, e di professionisti.
Lo zarismo era stato d'opinione che ogni generale fosse capace senza alcuna preparazione speciale d'assumere qualsiasi posto nello Stato. La repubblica dei Soviet prende ad imprestito dallo zarismo tra le altre cose anche questa concezione, soltanto al posto del generale mette il proletario.
I teoretici del bolscevismo chiamano questo procedimento, l'evoluzione del socialismo dalla scienza all'azione. Meglio lo si sarebbe potuto designare: l'evoluzione del socialismo dalla scienza al dilettantismo.
Come accade di regola nella repubblica dei Soviet, che prende come guida non la conoscenza delle condizioni reali, ma la semplice volontà, a poco a poco s'incominciò a capire quello che era necessario, e si volle per così dire chiudere la stalla quando i buoi erano già fuggiti, ossia attirare gl'intellettuali al lavoro, non più quello forzato, di cui già si parlò. ma quell'altro, che ad essi conveniva, in cui erano competenti. Gl'intellettuali entrati al servizio del governo cessavano d'esser considerati come borghesi, e perciò trattati e maltrattati come tali. Portati al livello della popolazione attiva, che compie un lavoro produttivo ed utile, non furono più espropriati ed ottennero un reddito sufficiente. Siccome però essi erano stati spinti a servire il governo non dalla convinzione, ma dalla paura della miseria e dei mali trattamenti, ne derivò che il loro lavoro fosse poi in realtà poco produttivo e poco utile. Se ne lamenta Trotzki nel già citato scritto « Lavoro, disciplina, ecc. » quando dice: « Il primo periodo della lotta contro il sabotaggio degli intellettuali ha consistito in ciò, che noi abbiamo distrutto senza pietà le organizzazioni dei sabotatori. Era necessario e perciò giusto. Adesso, assicurata la potenza dei Soviet, la lotta contro il sabotaggio deve essere condotta in modo da trasformare i sabotatori di ieri in servitori, in esecutori, in dirigenti tecnici, dovunque lo richieda il nuovo ordinamento » (pag. 13-14). Così Trotzki crede che il mezzo necessario, perciò giusto, di avere negli intellettuali dei servitori e dirigenti della socializzazione, sia quello prima di tutto di schiacciarli senza pietà. Che cosa ne derivi lo dice egli stesso : « Abbiamo soppresso il sabotaggio e spazzato via con una scopa di ferro la più parte degli antichi funzionari. Quelli, che li hanno sostituiti, non si sono mostrati sempre in nessun ramo della amministrazione di prima qualità. Da una parte questi posti furono occupati dai nostri compagni di partito, abituati al lavoro clandestino ed educati alla scuola della rivoluzione : essi furono gli elementi migliori, i più energici, i più onesti, i più disinteressati. Sopraggiunsero d'altra parte gli arrivisti, gl'intriganti, gli spostati, tutti quelli che nel passato governo non avevano trovato un'occupazione. Essendoci bisogno di attirare decine di migliaia di nuovi operai qualificati, d'un colpo solo, non c'è da stupirsi se anche molti furfanti sono riusciti a passare tra le maglie del nuovo sistema. Si aggiunga che molti compagni, che lavorano nei diversi impieghi e nelle diverse istituzioni, si, mostrarono in seguito incapaci di un lavoro organico, assiduo e produttivo. Compagni simili ne incontriamo ad ogni piè sospinto, sopratutto tra i bolscevichi d'ottobre, nei ministeri, dove lavorano quattro o cinque ore senza troppa energia in un momento, in cui tutta la nostra situazione esige un lavoro particolarmente intenso, dettato. non dalla paura ma dalla coscienza del dovere » (pag. 18-19).
Ecco la conseguenza necessaria ma nient'affatto giusta d'una politica, che ha cercato di attirare gl'intellettuali non colla persuasione, bensì a calci e bastonate. Si passò ben presto ad un altro mezzo per raggiungere un lavoro più produttivo. La Comune del 1871 aveva abolito gli onorari elevati dei funzionari di Stato, fissando il massimo a L. 6000. Anche la repubblica dei Soviet fece altrettanto. La cosa però non riuscì, e anche qui bisognò tornare indietro. Lenin osserva a tal proposito: « Dobbiamo ora ricorrere al vecchio metodo borghese, consentire a pagare cari i servizi dei più alti impiegati borghesi... Questa misura ben si vede, è un compromesso, uno scarto dai principi della Comune di Parigi e d'ogni governo proletario. E' evidente che questa misura significa in un certo campo e, fino a un certo punto, non soltanto l'arresto dell'offensiva contro il capitale, ma qualche cosa di più, un passo indietro del nostro potere socialista dei Soviet » (opera citata, pag. 19).
Ma, dice Lenin, non restava nient'altro a fare. Ed ha ragione. La necessità di alti stipendi può avere due cause. Più un'impresa è grande, e più numerosi sono i suoi operai, più è considerevole, « caeteris paribus », la somma del « plus valore », che questa impresa produce. Se un operaio produce 5 marchi di « plus valore » in un giorno, un'impresa con 100 operai ne produrrà 500, un'altra con 1000, 5000. Più un'impresa è vasta, più è difficile a organizzare, a dirigere, più rare sono le forze, che possono bastarvi, ma anche più grandi i mezzi messi a disposizione del proprietario o dei proprietari per comperare queste energie selezionate. Nella misura, in cui si accrescono le grandi imprese, salgono anche gli stipendi di quelli che le dirigono, potendo talvolta raggiungere cifre esorbitanti. Anche lo Stato deve tener conto di queste circostanze. S'egli non eleva gli onorari dei suoi alti impiegati in modo sufficiente, deve aspettarsi di vederseli portar via dall'industria privata, almeno quelli che hanno valore e non occupano semplici sinecure. In questo modo lo Stato s'impoverisce intellettualmente, e non gli riesce di sostenere la concorrenza privata.
Ed è lecito domandarsi se la Comune, qualora avesse continuato a funzionare e in essa si fosse svolta la grande industria capitalistica e non socializzata, ciò che era anche possibile, avrebbe potuto mantenere il massimo degli stipendi fissato in 6000 lire. Il decreto del 2 aprile tradisce il carattere piccolo-borghese dell'industria parigina d'allora, ma mette in luce anche il disinteresse dei membri della Comune, e noi abbiamo già parlato del ben noto esempio del ministro delle finanze Jourde.
E' però impossibile nella Russia soviettista, che la concorrenza d'un'industria privata poderosa e fiorente, possa determinare l'ascensione degli onorari di specialisti eminenti, visto che quest'industria è espropriata o rovinata e non dà più al privato nessun profitto. Gli alti stipendi non possono servire ormai che ad un solo scopo: il loro ufficio è quello di vincere la ripugnanza, che provano gli intellettuali più capaci, di mettersi al servizio della repubblica, e così interessarli al nuovo sistema. Fallito il mezzo della persuasione, e visto che lo stimolo della fame non basta ad ottenere un'attività straordinaria, non c'è altra via che quella di comperare questa gente, ricreando, almeno in suo favore, le condizioni di esistenza capitalistica.
Vediamo ora quali siano gli elementi scelti dal governo dei Soviet per dirigere la produzione socialista. Da un lato qualche vecchio cospiratore, alcuni onesti militanti di sentimenti nobilissmi certo, ma in fatto d'affari, novatori del tutto inesperti. Dall'altra parte molti intellettuali che si mettono a disposizione del nuovo governo contro la propria convinzione, per puro arrivismo, come si sarebbero messi a disposizione di qualunque altro governo — ovvero che vi sono indotti dalla paura della fame e del bastone, o infine perchè sono attratti dagli alti stipendi. Non sono punto, come ammette Trotzki, elementi di prima qualità. Quand'anche abbiano qualche valore intellettuale, certo non rappresentano i caratteri morali migliori della loro classe. Una persona, che sia nello stesso tempo competente ed onesta, qui è una mosca bianca.
E ad elementi di tal sorta, per salvare il socialismo, è rimesso un potere dittatorio, al quale gli operai dovrebbero piegarsi passivamente. Ora, un potere illimitato ha sempre la tendenza di corrompere anche i migliori. Qui poi è affidato alle mani di gente già corrotta in anticipazione.
In faccia alla miseria generale, in mezzo alla espropriazione di tutti, costoro concentrano nelle loro mani gli elementi d'un nuovo capitalismo. Infatti la produzione mercantile continua per la sua strada, e deve continuare, visto che l'economia rurale, in quanto è un'economia privata, è pur essa produzione mercantile, anzi è quella che domina la vita intera. Inoltre, l'agricoltura fornisce sempre meno un'eccedenza di prodotti. La Repubblica dei Soviet consegna nei villaggi ogni autorità ai contadini poveri, che posseggono terre così scarse, da non poter produrre affatto derrate in eccedenza. Quanto ai contadini più ricchi, si costringono a cedere senza compenso ogni prodotto, che non serva al loro sostentamento, perchè lo Stato lo possa raccogliere nei propri depositi. Procedimenti simili, se pur si riesce a metterli in pratica, non si attuano certo una seconda volta. L'anno dopo, il contadino benestante si fa uno scrupolo di produrre più di quanto gli è strettamente necessario. Così il reddito della terra fatalmente diminuisce. E anche quel di più, che il contadino possa aver prodotto nonostante tutto, lo nasconde e lo vende clandestinamente agli speculatori.
Nello stesso tempo l'industria si arresta, e le spese dello Stato non possono essere coperte, se non coll'emissione illimitata di carta-moneta. Questo stato di cose, come accadde ai tempi della rivoluzione francese, e come, per quanto in misura inferiore, si vede in Germania, favorisce le speculazioni, il contrabbando, lo strozzinaggio.
Si è voluto bandire, prematuramente, la forma superiore del capitalismo, quella che dà al lavoro la sua massima capacità produttiva, creando insieme le basi materiali d'un più elevato tenor di vita nelle masse, e poi si lasciano rivivere in tutto il loro rigoglio le forme parassitarie e più arretrate del capitalismo stesso.
Si capisce benissimo che il governo dei Soviet, non altrimenti di quello che faceva il Terrore in Francia, cerchi di vincere questi mali sterminando speculatori, contrabbandieri, accaparratori e via dicendo. Allora si ghigliottinavano, oggi è di moda fucilarli. Ma l'un espediente non val molto più dell'altro. L'unico risultato, che si ottiene oggi come nel 1793, è sempre questo, che essendo più grande il rischio, cui si espone il capitale di questi furfanti, aumentano nella stessa proporzione le somme ch'essi devono sborsare, per comperarne la complicità, ai novelli dittatori, quando abbiano la mala sorte d'incappare nelle loro reti. Anche in tal modo si mettono le basi di nuove fortune, che si vengono accumulando.
Chi volesse veder più da vicino quanto la nuova burocrazia russa sia corruttibile, non ha che da consultare il libro di Gawronsky: « Il bilancio del bolscevismo », che raccoglie a partire dalla pagina 58 molti esempi di queste illecite operazioni finanziarie.
Come mettere un freno a questi nuovi, dittatori, cui la classe degli operai è stata consegnata, mani e piedi legati? Il governo soviettista non conosce per l'educazione morale delle masse, come per l'educazione dei loro capi, che un sol mezzo: il terrore dei tribunali. Se la dittatura del proletariato è subordinata a quella dei suoi organizzatori, la dittatura di questi è a sua volta sottoposta a quella dei tribunali. Per combattere la contro-rivoluzione, la speculazione e l'affarismo degli impiegati, si è composta una fitta rete di tribunali rivoluzionari, di commissioni straordinarie, che giudicano a capriccio quanti sieno loro denunciati, e fucilano a volontà ogni persona che loro non garbi, non soltanto speculatori o commercianti clandestini che cadano nelle loro mani, nonchè funzionari soviettisti lor complici, ma purtroppo molte oneste persone, che non hanno commessa altra colpa che quella di muovere qualche critica a questo assurdo sistema economico! Sotto l'espressione generica di contro-rivoluzione, si mette insieme ogni forma di opposizione, di qualsiasi provenienza e di qualsiasi natura, non importa di qual mezzo si serva, non importa a qual scopo miri.
Disgraziatamente nemmeno questa giustizia sommaria basta; per cui a più riprese i bolscevichi militanti, che sieno onesti, debbono constatare, spaventati, che le stesse commissioni straordinarie, ultima speranza di risanamento della rivoluzione, sono egualmente corrotte. Gawronsky (pag. 61) cita questo grido di dolore del « Bollettino settimanale della commissione straordinaria »: « Riceviamo da ogni parte notizie che elementi non soltanto indegni, ma addirittura criminali, cercano di penetrare nelle commissioni di governo e sopratutto in quelle di distretto ». Lo stesso Gawronsky ha ragione di credere (pagina 62) che non si tratti solo di tentativi, ma anche di fatti compiuti. E riporto questo articolo dalla « Volontà operaia », organo centrale del comunismo rivoluzionario del 10 ottobre 1918: « Tutti ricordano casi, in cui i soviet locali sono stati letteralmente terrorizzati dalle « straordinarie » (s'intenda commissioni). Vi si compiva una selezione naturale: gli elementi migliori restavano nei soviet, mentre si rifugiavano nelle commissioni straordinarie tutti i peggiori avventurieri, capaci d'ogni atto brigantesco ».
In tal modo del programma socialista di rinnovamento umano, il metodo bolscevico non lascia sussistere, alla resa dei conti, se non qualche raro campione onesto, in mezzo ad una marea montante d'ignoranza, di corruzione e di disperazione, che sempre più alta minaccia di sommergerli totalmente.
e) La trasformazione del bolscevismo. - Molti tra i rivoluzionari occidentali fanno trionfalmente valere il fatto, che il bolscevismo si mantiene così a lungo al potere, e rimane almeno esteriormente incrollabile a tutt'oggi. E sì, che i suoi detrattori gli avevano predetto, fin dagli inizi del suo regno, un rapido crollo. E difatti questo crollo sarebbe già avvenuto da un pezzo, se i bolscevichi fossero rimasti al loro programma. Essi si sono mantenuti soltanto, retrocedendo un passo dopo l'altro, per giungere finalmente al polo opposto di quello che avevano preteso conseguire.
Per arrivare al potere, hanno cominciato col gettare a mare i loro principi democratici. E poi per mantenervisi, hanno fatto altrettanto dei loro principi socialisti. In altri termini, si sono affermati come individui, ma hanno sacrificato i loro principi, dimostrando così d'essere dei veri opportunisti. Il bolscevismo ha fin qui trionfato in Russia, appunto perchè il socialismo vi ha toccato una piena disfatta. Per convincercene, guardiamo soltanto le forme sociali, quali si sono fatalmente svolte sotto il regime bolscevico, non sì tosto i suoi metodi ebbero applicazione. Riassumiamo brevemente quanto abbiamo più sopra esposto.
Nell'attuale Russia bolscevica troviamo un contadiname, che poggia, sopra un sistema di proprietà privata senza limiti, e di produzione domestica chiusa. Questa classe conduce un'esistenza a parte, senza collegamento organico coll'industria urbana. Siccome la città non produce un sovrappiù di merci da esportare verso la campagna, questa di più in più cessa di fornire spontaneamente, secondo le prescrizioni legali, alla città i prodotti agricoli. Ne conseguono per un lato requisizioni forzate, saccheggi, senza risarcimenti s'intende, e per un altro, commercio clandestino ed illegale, che toglie alla città, per trasferirli alla campagna, gli ultimi avanzi dei prodotti industriali anteriormente accumulati.
Dopo la ripartizione delle grandi proprietà fondiarie, il bolscevismo non ha più nulla da offrire ai contadini. Le simpatie, ch'esso inspirava loro, si cambiano ormai in odio, odio per l'operaio delle città che non lavora, che non fornisce prodotti industriali all'agricoltura; odio contro i dirigenti, che spediscono soldati nei villaggi per la requisizione dei viveri; disprezzo per gli speculatori e contrabbandieri urbani, che tentano con ogni sorta di manovre fraudolente, di sottrarre ai contadini le loro riserve.
Accanto a questa economia schiettamente piccolo-borghese della campagna, nella città sorge un tipo sociale, che vuol essere socialista. Esso ha preteso abolire ogni differenza di classe, cominciando collo schiacciare e coll'annientare i ceti superiori, ma ha finito per arrivare ad una nuova società di classi. Esso contiene tre classi. L'inferiore comprende quelli ch'erano prima i borghesi, capitalisti piccoli borghesi, intellettuali, per quella parte di essi che è animata di spirito d'opposizione. Privati d'ogni diritto politico, spossessati d'ogni mezzo d'esistenza, essi sono di tempo in tempo costretti ai lavori più repugnanti, ricevendone in cambio scarse razioni di cibo così insufficienti, che meglio si direbbero razioni di fame. L'inferno, in cui vivono questi paria, può appena paragonarsi alle più odiose manifestazioni del regime capitalista. La creazione d'un simile inferno è l'atto di violenza caratteristico del bolscevismo, è il suo primo grande passo verso l'emancipazione dell'umanità.
Al di sopra di questa infima classe, sta quella media degli operai salariati. Essi sono politicamente privilegiati. Essi solo, secondo le disposizioni letterarie della costituzione, dispongono nelle città del diritto elettorale, della libertà di stampa e di associazione. Essi possono scegliere il loro mestiere, e sono largamente rimunerati per il loro lavoro, che da se stessi regolano. O per meglio dire, così si fece dapprima, ma poi diventò evidentissimo, che, dato il livello della gran massa dei salariati russi, l'industria, in tali condizioni, avrebbe cessato di funzionare affatto.
Per salvarla, si dovette sovrapporre agli operai una nuova classe di funzionari, che avocò a sè sempre più il vero potere, e rese illusorie le libertà dei lavoratori. Naturalmente ciò non accadde senza resistenza per parte loro, tanto più che la generale rovina dell'industria e dei trasporti, e il distanziamento sempre più grande tra città e campagna, rendeva la situazione urbana di più in più disperata, dal punto di vista del rifornimento, per modo che anche i più alti salari non bastavano più a nutrire l'operaio. Questo fece sbollire l'entusiasmo pei bolscevichi nelle diverse categorie operaie, ma la loro opposizione restò disordinata, frammentaria e inefficace di fronte alla falange serrata d'una burocrazia relativamente molto più istruita. Gli operai non riuscirono a sollevarsi contro di essa.
Il potere assoluto dei consigli operai si trasformò in quello ben più assoluto d'una nuova burocrazia, in parte uscita fuori da quei consigli, in parte da essi nominata e in parte infine ad essi imposta. Questa burocrazia rappresenta la terza e più alta delle tre classi, la nuova classe dominatrice, costituitasi sotto l'egida dei vecchi idealisti e comunisti militanti.
L'assolutismo dello « Tschin », che caratterizzava l'antica burocrazia, riappare sotto una nuova veste, e come abbiamo visto, nient'affatto migliorata; mentre da esso e accanto ad esso, vengonsi sviluppando, attraverso manovre criminose, i germi d'un capitalismo nuovo, molto inferiore al capitalismo industriale del passato.
Soltanto la vecchia proprietà fondiaria e feudale è scomparsa. Per la sua soppressione erano le condizioni della Russia mature. Non per quella del capitalismo, che infatti. festeggia la sua risurrezione, sotto forme assai più pesanti, disastrose per il proletariato, che non fossero le antiche. Il capitalismo privato, al posto delle superiori forme industriali, veste ora quelle più abbiette del commercio clandestino e della speculazione finanziaria. Il capitalismo industriale, da privato è diventato capitalismo statale. Prima, le due burocrazie, quella pubblica e quella privata, stavano l'una di fronte all'altra in atteggiamento critico, anzi ostile. L'operaio aveva qualche probabilità di spuntarla talvolta sull'una, talvolta sull'altra. Ma adesso la burocrazia statale e quella del capitale formano una cosa sola; ecco il risultato finale della grande trasformazione socialista, apportata dal bolscevismo. Si tratta del dispotismo più oppressivo che mai la Russia abbia conosciuto. La sostituzione della democrazia per mezzo dell'impero arbitrario dei consigli operai, che avrebbe dovuto espropriare gli espropriatori, porta ora alla dominazione arbitraria d'una nuova burocrazia, e riduce a pura lettera morta la democrazia, anche per gli operai, visto che essi cadono in una schiavitù economica anche maggiore di quella, che prima sopportassero.
Si aggiunga che la perdita della libertà non è punto compensata da aumento di benessere. E' vero che la nuova dittatura economica funziona un po' meglio dell'anarchia economica, che la precedette, e che anche più rapidamente avrebbe condotto alla catastrofe. Ma questa catastrofe è soltanto ritardata, non scongiurata dalla dittatura, perchè anche la nuova burocrazia è impotente ad organizzare la vita economica. Fino a qual punto si senta l'insufficienza della nuova organizzazione a funzionare, può desumersi da questo grido di dolore del commissario pei trasporti, Krassin, recentemente pubblicato nella a Pravda ».
Il suo decreto è del seguente tenore: « 1° L'attuale sistema di amministrazione delle ferrovie, unitamente alle difficoltà oggettive create da cinque anni di guerra, ha ridotto i trasporti ad uno stato di ruina totale, che quasi quasi si accosta all'arresto definitivo d'ogni mezzo di comunicazione. — 2° Questo sfacelo deve essere attribuito ad erronee forme di organizzazione e di metodi amministrativi, non solo alla diminuita produttività del personale, ma anche a troppo frequenti modificazioni di forme ed organi amministrativi. — 3° Il compito, che c'incombe, il ristabilimento cioè dei trasporti in una misura, che basti almeno ad assicurare razioni di fame, e combustibile e materie prime all'industria, questo compito non può essere soddisfatto se non a condizione d'uno sforzo eroico di tutte le energie ferroviarie. — 40 Questo lavoro deve esser fatto subito e senza perdere un'ora sola, chè altrimenti tutte le conquiste della rivoluzione sono minacciate di rovina. — 5° L'amministrazione collettiva, che è difatti irresponsabile, deve essere sostituita dal principio d'una amministrazione personale congiunta ad un più alto senso di responsabilità: tutti, dal deviatore fino ai membri del consiglio direttivo, debbono fedelmente ed espressamente seguire tutte le mie istruzioni. Bisogna abrogare le riforme e ristabilire, dovunque sia possibile, lo stato anteriore di cose, ripristinare e sostenere il vecchio apparato tecnico, così al centro come lungo le linee. — 6° L'introduzione del lavoro a cottimo è una necessità ».
Krassin è uno dei pochi organizzatori preeminenti ed intelligenti, praticamente esercitati e teoricamente istruiti, di cui disponga il governo dei soviet. E i ferrovieri formavano la parte scelta degli operai russi; già nel periodo zarista avevano creato una buona organizzazione e dato prova di molta intelligenza. E nonostante tutto, a qual risultato s'era giunti!
Il decreto menzionato mostra chiaramente, che le conseguenze della guerra non sono, come si afferma spesso, le sole cause della disastrosa situazione presente. Esse certo l'hanno aggravata. Ma la mancanza di preparazione, ecco dove sta il vero pericolo che minaccia di estrema rovina tutte le conquiste della rivoluzione. E per salvare questa rivoluzione sembra urgente che cosa ? Abrogare le riforme, ristabilire il vecchio stato di cose, ripristinare l'apparato tecnico, il che vuol dire sopprimere la rivoluzione del sistema e salvare gli uomini della rivoluzione.
S'intende che nemmeno questo decreto cambierà gli uomini, che debbono esplicarlo, come non li hanno cambiati i decreti antecedenti. Questo nuovo capitalismo, non meno dell'antico, è destinato a crearsi i propri becchini. Ma il vecchio capitalismo non si accontentò di creare solo i propri becchini, esso diede anche la vita a nuove vigorose forze di produzione materiale, che permettevano ai propri becchini di creare nuove e superiori forme di vita, destinate a sostituire quelle che stavano per morire. Il comunismo, nello stato attuale della Russia, non può che rovinare le forze della produzione, che trova ancora in piedi. Quelli che lo dovranno a lor volta seppellire, non potranno certo passare a forme superiori di vita; ma dovranno ricominciare tutto da capo, prendendo le mosse da forme nuovamente rimbarbarite.
Anche provvisoriamente un siffatto regime solo può mantenersi, in quanto s'appoggi a potenti mezzi di coercizione, cioè sopra un esercito, che gli obbedisca ciecamente. I bolscevichi si sono appunto creati un esercito di tal natura, e, anche qui, per assicurarsi il potere, hanno preparato la sconfitta dei loro principi. Avevano incominciato collo spezzare il congegno statale così com'era costituito, con tutto il suo apparato militare e burocratico. Ma una volta fatto ciò, ecco che si vedon costretti, per bisogno di conservazione, a ricostruire un altro congegno del tutto simile.
Erano venuti al potere proclamando la dissoluzione dell'esercito, per mezzo dei consigli di soldati, che nominavano e destituivano gli ufficiali a lor talento, e obbedivan quando tornava lor comodo. I consigli di soldati, accanto a quelli di operai erano l'« alfa » e l’« omega » della politica bolscevica. Tutto il potere doveva appartenere ad essi. Ma all'indomani della vittoria, tutto cambiò. Appena i bolscevichi ebbero di fronte un'opposizione, sentirono il bisogno di un esercito pronto a combattere e ligio ai loro comandi, e non più un corpo di truppe disordinate, dove ogni reparto volesse agire a capriccio. Agli inizi, l'entusiasmo poteva tenere posto dell'obbedienza « perinde ac cadaver ». Ma che fare quando l'entusiasmo degli operai cominciò a sbollire, e i volontari si presentarono sempre più scarsi, e i diversi corpi di truppa diedero manifesti segni di insubordinazione ?
Nell'industria, la fabbrica, sia pur retta a principi democratici, vuole il concorso di certe condizioni materiali e morali. Un esercito, che debba svolgere una forza combattiva, esclude per la stessa natura delle sue funzioni, ogni spirito di democrazia. Sempre la guerra fu la tomba della democrazia. E lo stesso dicasi della guerra civile, quando dura a lungo. Il bolscevismo ha prodotto necessariamente la guerra civile, e non meno necessariamente la soppressione dei consigli di soldati. La dittatura bolscevica ha ridotto i consigli operai a semplici fantasmi, avendovi soppresso le rielezioni ed escluso ogni opposizione. Quanto ai consigli di soldati, ha lor tolto ogni funzione importante, e tra l'altro il diritto di eleggere gli ufficiali. Essi sono, come pel passato, nominati dal governo. E non bastando il volontariato, si ricorse, proprio come prima del bolscevismo, al reclutamento forzato. Il che provocò una nuova causa di lotta tra popolazione e governo. Di qui numerose sedizioni tra i contadini, che a lor volta necessitarono nuovi aumenti delle forze armate. Le diserzioni in massa sono all'ordine del giorno, e sono combattute colle esecuzioni in massa. .
L'« Humanité » del 29 maggio 1919 pubblica un rapporto molto favorevole ai bolscevichi, basato sopra osservazioni e testimonianze oculari raccolte in Russia sotto questo titolo: « Les principes communistes et leur application ». La conclusione contiene questo brano: « L'esercito rosso è l'opera dell'Intesa. Il governo bolscevico s'è, a più riprese, dichiarato antimilitarista. Il popolo russo, per natura pacifico, detesta la guerra oggi come ieri, come sempre. Esso fa al reclutamento un'opposizione accanita. Ci sono tanti disertori nell'esercito rosso, quanti ce n'erano nell'esercito dello Zar. Capita che un reggimento perda per via tutti i suoi uomini, prima di giungere alla tappa che gli è assegnata ».
L'esercito rosso, come si vede, manifesta in un modo abbastanza originale il suo entusiasmo per i principi bolscevichi! Se restiamo ai fatti nudi e crudi, senza volerne fare l'apologia, è chiaro che nel militare riappaiono proprio le vecchie forme zariste, con questo soltanto che sono un po' peggiorate; perchè il militarismo nuovo, ad onta dei suoi conclamati principi antimilitaristi, sviluppa senza alcun dubbio una energia maggiore dell'antico. Si ripetono qui quelle stesse condizioni che, all'epoca della grande Rivoluzione francese, avevano preparato la trasformazione della repubblica nell'impero napoleonico.
Ma Lenin non è destinato a diventare un Napoleone russo. Il Còrso si guadagnò il cuore dei francesi, portando vittoriosamente attraverso tutta l'Europa le bandiere della Francia. Il che dava agli uni la soddisfazione di vedere i principi della rivoluzione conquistare il continente; agli altri quella forse più viva di veder gli eserciti francesi saccheggiare l'Europa ed arricchire la Francia col loro bottino. Ma la Russia non è forte che nella guerra difensiva. Le stesse difficoltà di trasporto che arrestano un esercito d'invasione, impediscono agli stessi eserciti russi di passare vittoriosamente le frontiere. Anche Lenin avrebbe ben voluto portare attraverso l'Europa le bandiere vittoriose della rivoluzione, ma ha poca probabilità di riuscirvi. Il militarismo rivoluzionario dei bolscevichi non arricchirà la Russia; ma sarà soltanto per essa nuova fonte di miseria. In questo momento l'industria russa, per quel tanto che è stata messa in azione, lavora esclusivamente per l'esercito, e non per scopi produttivi. Il comunismo russo è diventato così, sotto ogni aspetto, un socialismo da caserma.
L'insuccesso economico e quindi anche morale del metodo bolscevico è inevitabile. E solo Potrebbe essere dissimulato, se andasse a naufragare in un disastro militare. Nè saprebbero impedirne il fallimento economico la rivoluzione mondiale od un soccorso esteriore. Il compito del socialismo europeo, riguardo al comunismo, è ben altro: esso deve vigilare affinchè la catastrofe morale d'un certo metodo del socialismo, non si trasformi nella catastrofe generale di tutto il socialismo, affinchè si faccia una distinzione netta tra questo metodo e quello del marxismo, e si presenti chiara alla coscienza delle masse questa essenziale distinzione. E mal comprende gli interessi della rivoluzione sociale, quella stampa, socialista radicale, che crede di servirli. predicando alle masse l'identità del bolscevismo e del socialismo, e mantenendole nella fede che l'attuale forma della repubblica soviettista, sol perchè inalbera lo stendardo della dittatura del proletariato e del socialismo, ne rappresenti la vera attuazione.
f) Il Terrore. — I risultati da noi più sopra esposti, non corrispondono naturalmente alla volontà dei bolscevichi, anzi sono appunto il contrario di quello ch'essi volevan, tanto è vero che hanno con ogni mezzo cercato d'evitarli, mezzi, che alla resa dei conti si riassumono nella stessa identica ricetta, della quale i bolscevichi fin da principio s'eran serviti, ossia nella violenza, violenza arbitraria di pochi dittatori, di fronte ai quali la memoma critica diventava impossibile. Il governo terrorista diventava quindi la inevitabile conseguenza dei metodi comunisti. Esso rappresenta il disperato tentativo di arrestarne gli effetti.
Tra i fenomeni prodotti dal bolscevismo, il terrore, che comincia colla soppressione della libertà di stampa, e culmina nelle esecuzioni in massa, è certo il fatto più sagliente e più repugnante, ed è anche quello che solleva contro i bolscevichi il maggior odo. Fatalità tragica e non delitto per lor parte, se pur in generale, in presenza di un così enorme fenomeno storico collettivo, si può parlare di colpa, che in fondo è solo sempre personale. Chi vuol risolvere la questione di colpa deve esaminare la trasgressione dei precetti morali fatta da individui, poichè a parlar esattamente, non c'è altra volontà che quella degli individui. Una massa, una classe, una nazione non può realmente volere, ad essa manca per far ciò l'organo necessario, essa non può quindi nemmeno peccare. Una massa o un'organizzazione può agire di comun accordo, ma i motivi di ciascun agente possono essere molto diversi. Eppure solo i motivi determinano la colpevolezza morale.
Certo i motivi dei bolscevichi erano buonissimi. All'inizio del loro impero essi si mostrarono pieni di quell'idealismo umanitario, che scaturisce dalla situazione di classe del proletariato. Il primo lor decreto fu l'abolizione della pena di morte. Eppure, se si volesse parlare della loro colpa, essa data proprio dal momento di questo decreto, quando essi, per conservare il potere, decisero di derogare ai principi della democrazia e del materialismo storico, in nome dei quali per decenni avevano ostinatamente lottato. La loro colpa data dal momento ch'essi, come i bakunisti spagnuoli del 1873, proclamarono l'emancipazione totale ed immediata della classe operaia, senza tener conto dello stato arretrato della Russia, e, non potendo contare sulla democrazia, stabilirono per arrivare allo scopo proclamato, la lor propria dittatura sotto l'insegna di quella del proletariato.
Qui soltanto si può cercare la lor colpa. Entrati per questa via, non potevano sfuggire al terrorismo. L' idea d'una dittatura che sia efficace, ma si eserciti pacificamente e senza violenza, è pura illusione. Strumenti del terrore furono i tribunali rivoluzionari e le commissioni straordinarie, di cui già facemmo parola. Le une come le altre imperversarono, senza tener conto delle spedizioni militari punitive, che fecero innumeri vittime. E' difficilissimo calcolare il numero di quelle delle commissioni straordinarie: certo ascende a molte migliaia. Il calcolo più modesto raggiunge la cifra di 6000. Altre testimonianze la porterebbero al, doppio o al triplo. Aggiungansi le altre moltissime persone arbitrariamente arrestate, maltrattate o torturate fino alla morte.
I difensori del bolscevismo ci dicono che i suoi avversari, le guardie bianche finlandesi, i baroni baltici, i generali, gli ammiragli contro-rivoluzionari e zaristi non si comportavano certo meglio. Ma un furto è forse giustificato pel fatto che anche altri rubano? Gli altri del resto non oltraggiano almeno i propri principi, quando sacrificano volontariamente delle vite umane, collo scopo di mantenersi al potere; i bolscevichi invece non possono far ciò se non tradendo quel principio di rispetto della vita umana, ch'essi stessi avevano proclamato, in nome del quale s'erano sollevati, e per mezzo del quale giustificano la loro opera.
Non combattiamo noi tutti questi baroni, questi generali, appunto perchè hanno fatto così poco conto delle vite umane, che per essi non furon altro che un mezzo al conseguimento dei loro scopi di brutale dominazione?
Si dice, è vero, che la differenza consiste precisamente nello scopo. Un fine nobile giustifica quel mezzo, che gli scopi infami dei governanti avevano reso criminale. In realtà lo scopo non può giustificare qualsiasi mezzo, ma solo quello che è in armonia collo scopo medesimo. Un mezzo repugnante al fine, non sarà santificato da questo. E come non si difende l'esistenza, sacrificando ciò che ne forma il valore e lo scopo, così è impossibile lottare in nome di principi, sacrificandoli. La buona intenzione può essere una scusa per coloro che si servono di cattivi mezzi, ma questi mezzi non cessano di essere condannabili, e ciò tanto più quanto maggiore è il danno che arrecano.
Ma lo scopo stesso, che il terrorismo bolscevico persegue, non è esente da taccia. Il suo compito immediato è di mantenere al potere quel sistema di dominazione militare e burocratica, che i bolscevichi hanno creato. Per giungervi occorrerebbe combattere la corruzione insita nel Sistema stesso. Nella « Pravda » del 10 aprile 1919, il professore Dukelski ha domandato che il bolscevismo e i suoi organi ufficiali siano sbarazzati da tutti gli arrivisti, banditi, avventurieri, che si sono attaccati al comunismo col solo scopo di sfruttarlo pei loro criminosi interessi. A ciò Lenin ha risposto: « L'autore della lettera pretende che noi sbarazziamo il nostro partito dagli avventurieri e briganti che lo infestano — pretesa fondatissima, da noi stessi da gran tempo enunciata, e che cerchiamo di realizzare. — I banditi e gli avventurieri noi li fuciliamo e continueremo a fucilarli. Ma perchè più presto si possa venire a questa generale epurazione, abbiamo bisogno dell'aiuto degli intellettuali sinceri, che non appartengono a nessun partito ».
Fucilare: ecco l’« alfa » e l’« omega » della saggezza amministrativa dei comunisti. Non domanda tuttavia Lenin agli intellettuali, che lo aiutino in questa lotta contro i banditi e gli avventurieri? Sì, ma nello stesso tempo priva questi stessi intellettuali dell'unico mezzo col quale la potrebbero sostenere: la libertà di stampa. Solo una illimitata libertà di stampa potrebbe porre un freno a questi banditi ed avventurieri, che sono il fatale corteo d'ogni governo assoluto e senza controllo, e rende audaci l'assenza di libertà. Invece la stampa russa è esclusivamente in mano di quegli stessi organi di governo, dove banditi ed avventurieri si sono annidati. E allora che garanzia può avere Lenin che essi non s'insinuino anche nei tribunali rivoluzionari e nelle commissioni straordinarie, e una volta qui insediati non se ne servano per far fucilare proprio quegli intellettuali sinceri ed estranei ad ogni partito, che potrebbero riveder loro le bucce?
Sono appunto le commissioni straordinarie instituite per combattere la corruzione quelle, che posseggono i più estesi poteri, mentre poi non sono sottoposte ad alcun controllo, il che vuol dire, ch'esse lavorano nelle condizioni più favorevoli per lo sviluppo della corruzione stessa. Il tribunale rivoluzionario del 1793 possedeva già un potere arbitrario inaudito. Le garanzie legali degli accusati vi erano ridotte al minimo. Ma almeno funzionava pubblicamente, era dunque possibile un certo controllo de' suoi atti. Le commissioni straordinarie della repubblica dei soviet funzionano segretamente, senza alcuna garanzia legale per gli accusati. Non è nemmeno assolutamente necessario ch'essi siano interrogati, e molto meno che siano escussi i testi. Una semplice denuncia, un semplice sospetto, basta, per la loro condanna capitale.
Questo deplorevole stato di cose ha preso tali proporzioni, che si è deriso di porvi rimedio. E si stabilì che le commissioni non potessero ordinare esecuzioni senza inchiesta e sentenza. Ma l'arbitrario è così intimamente congiunto colla dittatura, che non si può sopprimere l'uno conservando l'altra. La miglior decisione è annullata « eo ipso », non appena si ammette un'eccezione in caso di sedicente complotto manifestamente contro-rivoluzionario. Ciò basta ad aprire il più vasto campo ad ogni esecuzione arbitraria. Ed anche se si segue alla lettera la decisione presa, questa protegge soltanto i briganti e i banditi e non quei tali intellettuali sinceri ed estranei ai partiti, il cui intervento dovrebbe epurare gli organi di governo. Questa epurazione che cosa potrebbe essere di diverso da una contro-rivoluzione?
Le minime manifestazioni di malcontento sono minacciate degli stessi rigori che gli atti di brigantaggio. E una tal minaccia non è punto attenuata da influenze contrarie, perchè su questo terreno i comunisti onesti e i peggiori ribaldi sono congiunti da eguali interessi. Gli uni e gli altri sono pienamente d'accordo per impedire ogni critica del regime soviettista; si capisce quindi che qui non sia il caso di indulgenza. Così la Commissione straordinaria panrussa, per combattere la contro-rivoluzione e la malversazione degli impiegati, ha recentemente dichiarato :
« Una serie di sedizioni, ultimamente scoppiate, dimostrano che gli allori di Krasnoff turbano i sonni dei socialisti rivoluzionari di sinistra e dei menscevichi. Tutta la loro attività tende esclusivamente a decomporre il nostro esercito (Briansk, Samara, Smolensk), a scuotere la nostra industria (Pietrogrado, Tula), i nostri mezzi di, trasporto e di vettovagliamento (sciopero dei ferrovieri). La Commissione straordinaria panrussa dichiara qui che essa non farà alcuna differenza tra le guardie bianche delle truppe di Krasnoff e le guardie bianche dei partiti dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari di sinistra.
Il castigo della Commissione straordinaria colpirà collo stesso rigore gli uni e gli altri. I socialisti rivoluzionari di sinistra e i menscevichi, che sono stati arrestati, saranno mantenuti come ostaggi, la cui sorte dipenderà dall'attitudine dei loro partiti.
Il presidente della Commissione straordinaria panrussa: F. Dzersckinski. (Estratto dalla Iswestija » del comitato esecutivo centrale panrusso, N. 59, 1o marzo 1919).
Così, se sintomi di decomposizione si manifestano nell'esercito, se il malcontento cresce tra gli operai industriali e i ferrovieri, i capi dei socialisti non bolscevichi sono imprigionati, per farli fucilare al primo segno d'una nuova opposizione proletaria. Abbattere il proletariato malcontento, ecco lo scopo sublime, che deve oggi santificare in Russia il nefando spediente della fucilazione in massa. Un tale spediente non convertirà in successo lo scacco economico del bolscevismo.
Il suo risultato unico sarà, che il crollo dei bolscevichi verrà accolto dalle masse russe non già, come fu accolta la caduta della seconda Comune parigina da tutto il proletariato socialista, ma piuttosto come fu salutato il crollo di Robespierre, il 9 termidoro, da tutta la Francia; cioè come la liberazione da un pesante giogo, e non come una sconfitta dolorosamente risentita.
g) Le prospettive della Repubblica dei Soviet. — Il governo di Lenin è minacciato da un 9 termidoro. Ma le cose possono anche andare in modo diverso. La storia non si ripete. Un governo che si propone uno scopo, che non è conseguibile, date certe circostanze, può giungere a due opposti risultati: finisce per cadere, se mantiene il proprio programma e questo cade con esso; ovvero può consolidarsi modificando il suo programma e anche rinunciandovi definitivamente. Per quel che è della cosa in sè, il risultato è lo stesso tanto nell'uno come nell'altro caso, ossia è sempre l'insuccesso. Ma per quello che è delle persone, che vi prendono parte, non è certo lo stesso, conservare nelle proprie mani il potere ovvero, precipitando dai fastigi, cadere in balìa dei propri nemici.
Robespierre cadde il 9 termidoro. Non tutti i giacobini divisero con lui la stessa sorte. Alcuni anzi si sono inalzati di molto, saviamente adattandosi alle circostanze. Napoleone stesso aveva simpatizzato cogli uomini del Terrore ed era stato in intimità coi due fratelli Robespierre. La sorella loro Maria diceva più tardi: « Bonaparte era repubblicano, dirò di più, egli apparteneva alla Montagna. La sua ammirazione per mio fratello maggiore, la sua amicizia per mio fratello minore e forse anche la simpatia che gli aveva ispirato la mia sventura, mi valsero sotto il Consolato una pensione di 3600 lire» (Citato da I. H. Rose, « Napoleone I », Stuttgart, 1906, I, pag. 50).
Non solamente individui singoli, ma interi partiti possono trasmutarsi e per tal modo non solo scamparla liscia da una insostenibile posizione, ma anzi venirne fuori con nuova forza e prestigio. E non è escluso che la bancarotta degli esperimenti comunisti nella Russia, trasformi il bolscevismo e lo salvi come partito di governo. La via è aperta in questo senso. Da veri politici realisti, i bolscevichi hanno, nel corso della loro dominazione, molto sviluppato l'arte di adattarsi alle circostanze.
Al principio essi furono difensori convinti dell'Assemblea Nazionale, eletta a suffragio universale ed eguale, ma appena essa fu loro d'inciampo, l'hanno senz'altro soppressa. Sono stati convinti avversari della pena di morte, eppure hanno esercitato una cruenta tirannide. Dopo aver rinunciato al principio democratico nello Stato, furono ardenti sostenitori della democrazia in seno al proletariato. Ma anche a questa rinunciano di giorno in giorno di più, e mettono al suo posto la dittatura personale. Prima hanno abolito il lavoro a cottimo, poi l'hanno di nuovo introdotto. All'inizio del loro regime, s'imposero l'assunto di spezzare il congegno burocratico del vecchio governo. Poi ne hanno fabbricato un altro al suo posto. Pervenuti al potere, dopo aver distrutto la disciplina nell'esercito, anzi l'esercito stesso, hanno creato un altro esercito, rigorosamente disciplinato. Hanno voluto equiparare le classi, e hanno poi finito per creare nuove distinzioni di classi, e tra queste una inferiore al proletariato, e, mentre facevano di questo una casta privilegiata, gli hanno poi sovrapposto una classe nuova, che possiede i maggiori redditi e più alti privilegi. Essi avevano voluto paralizzare nei villaggi i contadini benestanti, e riserbare solo ai contadini poveri i diritti politici. Hanno invece nuovamente accordato una rappresentanza ai contadini ricchi. E dopo aver cominciato con una espropriazione spietata del capitale, ora sono disposti, per avere il suo appoggio, a consegnare ai capitalisti americani le ricchezze naturali di mezza Russia, e a favorire con ogni mezzo il capitale straniero.
Il corrispondente di guerra francese Lodovico Naudeau ha riferito nel « Temps » la sua intervista con Lenin, in cui questi espose tra l'altro, le sue intenzioni, tutt'altro che ostili, riguardo al capitale: « Noi potremmo volontieri proporre ai riconoscere che dobbiamo pagare gli interessi dei prestiti esteri, e in mancanza di numerario, noi li pagheremo in grano, petrolio, e ogni altra sorta di materie prime, che certamente non ci faranno difetto appena in Russia il lavoro potrà esser ripreso in tutta la sua efficienza. Siamo anche decisi, mediante trattati, che occorrerebbe prima diplomaticamente fissare, ad accordare concessionì forestali e minerarie ai cittadini delle potenze dell'Intesa, a condizione però, che i principi essenziali della Russia soviettista siano rispettati. Sappiamo che capitalisti inglesi, giapponesi e americani desiderano vivamente siffatte concessioni ».
Le interviste non sono documenti sui quali si possa prestar giuramento. Ma le intenzioni della repubblica dei soviet, a cui qui si allude, sono confermate da numerose altre testimonianze, degne di fede. Esse fan prova di un grande intuito delle condizioni reali, ma implicano anche la rinuncia al programma socialista, di cui la realizzazione viene notevolmente procrastinata, dal momento che un pezzo di Russia è ceduto in appalto al capitale straniero per 80 anni. Il comunismo, in quanto sia considerato come mezzo d'emancipazione immediata del proletariato russo, è ormai finito, l'unica cosa, che ora si tratta di vedere, è, se il governo di Lenin annuncierà velatamente il fallimento del metodo bolscevico, riuscendo così a rafforzarsi, ovvero una forza contro-rivoluzionaria rovescerà questo governo, proclamandone brutalmente la bancarotta. Noi preferiremmo la prima soluzione, quella per cui il bolscevismo ritornasse scientemente sul terreno dell'evoluzionismo marxista, che sa come non sia possibile saltare a piè pari le fasi normali dello sviluppo storico. Questa sarebbe la strada meno dolorosa e più utile pel proletariato internazionale. Purtroppo però il corso della storia mondiale non va secondo i nostri desideri.
Il peccato originale del bolscevismo è stato quello di aver soppressa la democrazia a favore della forma dittatoriale di governo: e la dittatura è concepibile soltanto come dominio assoluto e violento d'una sola persona o d'un piccolo gruppo saldamente riunito. Gli è della dittatura come della guerra, e potrebbero ben persuadersene in Germania coloro che oggi giocano, sotto l'influsso della moda russa, col concetto di dittatura, senza averlo ben meditato a fondo. La dittatura, come la guerra, si può facilmente far sorgere là, dove si dispone del potere statale; ma una volta iniziatala, non è facile porre a volontà un termine nè all'una nè all'altra. Un dilemma s'impone : o vincere o precipitare alla catastrofe.
La Russia ha un bisogno assoluto di capitale straniero. Ma la repubblica dei soviet non potrà procacciarselo se essa non garantisce un'assemblea nazionale e la libertà di stampa. Non che i capitalisti siano cultori di ideali democratici. Essi non hanno esitato a prestare miliardi allo zarismo. Ma in fatto di affari non accordano fiducia ad un governo rivoluzionario, dubitano della sua solidità, in quanto esso non ammette critica per mezzo della stampa, e non ha evidentemente alle spalle la maggioranza della popolazione. Il governo dei soviet vorrà e potrà accordare la libertà di stampa e convocare una Costituente? Molti bolscevichi affermano che essi non avrebbero nulla da temere nè dall'una nè dall'altra. Ma allora perchè non l'accordano? Perchè sdegnano un mezzo, che, qualora lo adottassero, accrescerebbe enormemente la loro forza morale e la fiducia ch'essi ispirano? Nella già citata prefazione al « Programma dei Comunisti » di Bucharin, si dice: «La condizione, che Kautsky e Compagnia mettono ad una rivoluzione, consiste in ciò che questa ha bensì il diritto di dettare la sua volontà alla borghesia, ma ha nello stesso tempo il dovere di accordare alla borghesia la possibilità di far sentire le sue proteste per mezzo della libera stampa e della tribuna parlamentare, in una assemblea costituente. Questa geniale rivendicazione di un brontolone di professione, che poco si cura d'aver ragione, purchè possa rimettere la sua querela a chi di diritto, potrebbe, a rigor di termini, essere ammessa « in abstracto », senza che la rivoluzione corresse rischio. Ma l'essenza d'una rivoluzione è precisamente quella di essere una guerra civile, e le classi che lottano coi cannoni, colle mitragliatrici, non hanno niente a che fare cogli omerici duelli d'eloquenza. La rivoluzione non discute coi propri nemici, essa li schiaccia, e la controrivoluzione agisce allo stesso modo, e tanto l'una che l'altra sapranno sopportare il rimprovero di non aver rispettato l'ordine del giorno del Reichstag germanico » (pag. 23).
Questa giustificazione delle più sanguinose infamie, non escluse quelle della contro-rivoluzione, diviene tanto più suggestiva, confrontandola con quello che l'autore dice della rivoluzione un po' prima: « La rivoluzione socialista è un lungo processo, che comincia coll'abbattimento della classe capitalista, ma finisce solo quando l'economia capitalista è stata trasformata in una comunità di lavoro. Questo processo domanderà in ogni paese almeno la durata d'una generazione, e questo lasso di tempo è appunto il periodo della dittatura del proletariato, periodo durante il quale il proletariato deve servirsi d'una mano per deprimere sempre più la classe capitalista, mentre deve conservare libera l'altra mano per l'opera di ricostruzione socialista » (pag. XVIII).
La rivoluzione dunque equivale ad una guerra civile, una guerra senza quartiere, in cui l'una parte mira a schiacciare l'altra, senza tuttavia possibilità di vittoria duratura, perchè questo piacevole processo necessita almeno la durata d'una intera generazione. Una terribile guerra civile, che condotta con mitragliatrici e gas asfissianti, deve devastare un paese ben più crudelmente di quel che non abbia già fatto la guerra dei trenta anni, che decima la popolazione, accentua la brutalità fino ai limiti estremi della più selvaggia barbarie, ed esaurisce del tutto le fonti della produzione: ecco quale sarebbe il cammino verso l'elaborazione di più alte forme di vita, che il socialismo rappresenta!
Questa geniale concezione della rivoluzione sociale non è certo quella d'un brontolone di professione, ma d'un rivoluzionario per vocazione, agli occhi del quale insurrezione e rivoluzione si equivalgono, e la cui vita perde ogni significato, quando la rivoluzione debba rivestire le forme della democrazia e non della guerra civile. Ma una cosa rimane sicura; non ci sono che queste due possibilità: democrazia o guerra civile. Chi rinuncia all'una, deve accettare l'altra. Una dittatura gli riescirà tutt'al più là, dove essa ha da fare con un popolo assolutamente disilluso ed apatico, il che rappresenta il materiale umano peggiore per la costruzione d'una società socialista.
Visto che non c'è altra alternativa possibile che questa: democrazia o guerra civile, ne concludo che là dove il socialismo non è ancor possibile su basi democratiche, là dove la maggioranza della popolazione gli è contraria, la sua ora non è ancor giunta; mentre il bolscevismo crede che il socialismo debba da per tutto essere imposto alla maggioranza da una minoranza, e questo sia possibile soltanto per mezzo della dittatura e della guerra civile. Il bolscevismo si sente in minoranza nel popolo, e questo spiega perchè esso si opponga così energicamente alla democrazia, pur affermando ch'essa non può nuocere alla rivoluzione. Se sentisse d'aver con sè la maggioranza, non avrebbe bisogno di rinunciare alla democrazia, pur considerando la lotta coi cannoni e le mitragliatrici come la sola veramente rivoluzionaria. Questa stessa lotta sarebbe stata facilitata al bolscevismo, come fu facilitata ai rivoluzionari parigini del 1793, se gli stesse alle spalle una Convenzione rivoluzionaria.
Gli è che i bolscevichi precisamente questa maggioranza dietro di loro non l'avrebbero. Quando essi giunsero al potere, essi avevano toccato l'apogeo del loro ascendente sulle masse, operai, soldati e gran parte dei contadini. Eppure nemmeno allora osarono appellarsi al suffragio universale. Invece di sciogliere la Costituente ed ordinare nuove elezioni, essi la dispersero. D'allora in poi l'opposizione contro il bolscevismo è cresciuta di giorno in giorno, come cresceva la irritazione dei suoi aderenti contro tutta la stampa non ufficiale, e lo prova l'esclusione. dell'opposizione socialista dai soviet e l'avvento del governo terrorista.
In condizioni siffatte come è possibile una dittatura per ritornare poco a poco alla democrazia? Fin qui ogni tentativo simile è fallito. Per mantenersi, i bolscevichi sono pronti ad accordare tutte le concessioni possibili alla burocrazia, al militarismo, al capitalismo. Ma una concessione alla democrazia sembra loro una specie di suicidio. Eppure sarebbe ancora la sola possibilità di mettere fine alla guerra civile e rimettere la Russia sulla via d'una restaurazione economica e d'una feconda evoluzione verso più alte forme di vita.
Senza democrazia, la causa della Russia è perduta. Ma colla democrazia, è perduta la causa del bolscevismo. E' facile prevedere la conclusione: non sarà forse proprio un altro 9 termidoro, ma qualche cosa di non molto diverso.
h) Le prospettive della rivoluzione mondiale. — I bolscevichi stessi non mostrano d'aver molta fiducia nella loro vittoria finale. Però essi ripongono tutte le loro speranze in un'àncora di salvezza. Se la Russia cessa d'essere il popolo eletto della rivoluzione, la rivoluzione mondiale deve diventare il Messia, che salva il popolo russo. Ma che cosa è la rivoluzione mondiale? Si può concepire in due modi distinti: in primo luogo si può comprenderla come un tale sviluppo dell'idea socialista nel mondo, accompagnato da un simultaneo rafforzamento del proletariato e un crescente antagonismo di classi, da trasformare il socialismo nella forza motrice destinata a determinare sempre più la vita di tutti gli stati. In secondo luogo si può concepire la rivoluzione mondiale come un totale sconvolgimento del mondo nel senso bolscevico, la conquista del potere politico per opera del proletariato in tutti i grandi Stati, conquista compiuta nel tempo più breve, senza di che questa rivoluzione non potrebbe salvare la repubblica russa dei soviet, l'introduzione del regime soviettista integrale, la soppressione dei diritti a danno di tutti gli elementi non comunisti, la dittatura del partito comunista, lo scatenamento della guerra civile nel mondo intero per la durata d'una generazione.
Una propaganda assidua è messa in opera, a questo scopo. Essa però non riuscirà a provocare una rivoluzione mondiale nel senso bolscevico. Però, se le riesce di esercitare un'efficace azione nell' Europa occidentale, essa potrebbe seriamente attivare la rivoluzione mondiale nell'altro senso di questa parola.
Poichè il compito principale degli apostoli della rivoluzione mondiale nel senso russo, è lo scatenamento d'una lotta fratricida tra i proletariati. Il bolscevismo, che è nato, nelle sue origini, da una scissione del partito, una volta arrivato al potere lottando contro gli altri gruppi socialisti del proprio paese, ha cercato di mantenersi in Russia per mezzo della guerra civile, che ha trasformato in guerra fratricida. Come ultimo spediente del suo dominio, cerca inoltre di spezzare tutti gli altri partiti socialisti rimasti fin qui uniti, in quanto non abbiano una maggioranza bolscevica. Questo è l'ufficio della terza Internazionale. Con questo mezzo essa aspira a provocare la rivoluzione mondiale. Il che dipende non da una particolare disposizione di spirito, o dalla malignità dei bolscevichi, ma dall'essenza della loro dottrina, incompatibile colle forme superiori di vita, che sono già preparate nell'Europa occidentale.
Qui la democrazia non è nata ieri, come in Russia. Essa vi è stata conquistata da una serie di rivoluzioni, ed è un prodotto di lotte secolari, che è diventato carne e sangue delle masse stesse. Qui è assolutamente impossibile che intere classi sociali siano private dei diritti politici. In Francia il contadino è una forza, che non si può trascurare, e che veglia gelosamente sulla proprietà privata. La borghesia in Francia, ed ancor più in Inghilterra, è una classe abituata alla lotta. Certo il proletariato è più debole in Russia, che nell'Europa occidentale, ma ancor più debole è la borghesia nello stato russo. Là, come in genere nei paesi di potente autocrazia militare, la borghesia è stata tirata su nella servile paura dello Stato, e nello stesso tempo nella cieca fiducia del suo valido appoggio. Perciò lo spirito di libertà in quel paese è così povero. Il crollo del potere statale, la caduta del baluardo militare, il trapasso dell'autorità politica nelle mani del proletariato, hanno talmente terrorizzato la borghesia, non abituata a condurre da sè una lotta politica energica, ch'essa si è sfasciata completamente, ed ha senza resistenza abbandonato il terreno al nemico.
Nell'Europa occidentale le classi inferiori, attraverso una lotta di più secoli, hanno fatto non solo la propria, ma anche l'educazione delle classi superiori.
Queste hanno bensì imparato a rispettare il proletariato, ma sono anche diventate maestre nell'arte di prevenire i suoi attacchi con tempestive concessioni, evitando così le catastrofi. Inoltre la borghesia nei paesi anglo-sassoni già da tempo ha saputo fare i propri interessi, senza bisogno d'un potente esercito permanente; essa ha imparato, sia di fronte allo Stato sia di fronte al proletariato, a contare sulle sue proprie forze, e perciò non si lascia facilmente intimidire dalla minaccia d'un pericolo.
Ora questi paesi sono quelli che escono vittoriosi dalla guerra. Essa non ha inquinato e decomposto i loro eserciti, come è accaduto di quelli delle potenze centrali e della Russia. Nell'Europa orientale, al momento della dissoluzione dell'esercito, i soldati, a qualsiasi classe appartenessero, divennero elementi di disordine. Una simile forza, che può efficacemente accelerare la rivoluzione, e che può anche concorrere a portare prematuramente al potere coefficienti rivoluzionari, ponendoli così di fronte a problemi, che oltrepassano le loro forze, manca ai paesi vincitori. Il socialismo non potrà conquistarvi il potere, se non quando sarà abbastanza forte per guarentirsi entro i quadri della democrazia il sopravvento sopra gli altri partiti; per questo esso non ha la menoma ragione di ripudiare la democrazia, e saranno proprio gli strati più elevati del proletariato, che non consentiranno certo a sostituire la democrazia con una dittatura, che in realtà finisce poi per esser sempre quella di una persona.
E' vero che oggi in Francia tra i socialisti sono vive le simpatie pei bolscevichi. Ma esse provengono solo da una opposizione legittima a tutti i tentativi che il lor governo capitalista fa per rovesciare colla forza il governo socialista di un paese straniero. Senza contare che molti
credono che i metodi bolscevichi siano adattati alle condizioni della Russia. Con ciò sono alieni dal voler introdurre gli stessi metodi in Francia. Del resto non sono ancor del tutto spente colà le tradizioni blanquiste della sommossa, né quelle proudhoniane dell'antiparlamentarismo: e questi due opposti elementi hanno ripreso nuova vita, bizzarramente mescolati in seno al sindacalismo. Tutto ciò può offrire al bolscevismo un terreno favorevole.
Ma è assolutamente impossibile che esso guadagni tutto il proletariato francese, e sopratutto l'inglese e l'americano. Il progresso del bolscevismo in questi paesi non potrebbe che dividere il proletariato, proprio nel momento in cui questo deve combattere le sue grandi e decisive lotte, dalle quali può uscir vittorioso soltanto, se raggiunge la più assoluta unità. La propaganda bolscevica della rivoluzione mondiale non può dunque accelerare, come già abbiamo detto, lo scoppio della rivoluzione mondiale che realmente si sta preparando. Anzi la propaganda bolscevica non può che comprometterla.
Già il comunismo colle sue tendenze disgregatrici mette in pericolo la rivoluzione tedesca. La democrazia sociale tedesca era prima della guerra il più robusto partito socialista del mondo. Solidamente unito sul terreno d'una concezione sociale unica, esso era in procinto di abbracciare la maggioranza della popolazione, non appena gli fosse riuscito di guadagnare alla sua causa gli operai cattolici, che seguivano la bandiera del centro. Una volta raggiunta la maggioranza, la lotta per la democrazia, sopratutto la lotta pel suffragio in Prussia, diventava una vera lotta per il potere politico. Vittorioso su questo punto, il proletariato avrebbe tosto raccolto i più bei frutti, tenuto conto della ricchezza, che il capitalismo tedesco aveva sviluppato ed accumulato, e che permetteva di migliorare subito e sensibilmente la condizione delle masse.
La guerra mondiale ha fatto « tabula rasa » di questa ricchezza. La pace trova la Germania in una situazione disperata, che esclude ogni possibilità di dare il benessere immediato alle masse, qualunque sia la forma di produzione, che prenderà il sopravvento. Ma la stessa guerra mondiale, portando lo sfacelo e la dissoluzione dell'esercito, ha anche prodotto questo fatto che cioè la democrazia sociale sia giunta al potere non per l'accrescimento delle sue forze, ma per la rovina di quelle avversarie, e in un momento nel quale essa stessa era notevolmente indebolita dalla scissione, che la guerra mondiale aveva portato nelle sue file. Se la democrazia sociale voleva affermarsi come partito di governo, era una suprema necessità ch'essa tosto ridivenisse unita. E c'era tanto più da sperare la realizzazione di questa unità, imposta dall'ora presente, che la causa del dissidio, ossia l'attitudine di fronte alla guerra, era colla guerra stessa scomparsa.
Disgraziatamente, dopo l'avvento della repubblica dei soviet, la propaganda bolscevica aveva introdotto nei circoli socialisti tedeschi un nuovo elemento di discordia. Questa propaganda voleva che il nostro partito rinunciasse alle rivendicazioni essenziali della democrazia, ed attuasse la dittatura dei consigli operai, come forma di Stato. Per mascherare che con ciò si abbandonava una rivendicazione inseparabile dall'essenza del nostro partito, i bolscevichi cessarono di chiamarsi social-democratici, e presero il nome di comunisti, evidentemente per riattaccarsi al vero marxismo esposto nel manifesto comunista. Dimenticavano però che Marx ed Engels, dopo avere sulla fine del 1847 scritto questo manifesto, pubblicarono qualche mese dopo la « Neue Rheinische Zeitung » che per loro era anche « Organo. della democrazia », tanto poco ai loro occhi democrazia e comunismo erano termini contrari.
Il contrasto tra democrazia e dittatura ha fatto nascere in Germania, accanto ai due partiti, che già esistevano, quando scoppiò la rivoluzione, un terzo partito, quello dei comunisti; inoltre esso ha introdotto nella politica di ciascuno degli altri due un'intima dissensione ed incertezza; negli indipendenti ha fatto sorgere delle forti tendenze bolsceviche, mentre ha creato in una parte dei socialisti di destra uno spirito di reazione contro quelle tendenze. Questa reazione poi, oltrepassando a sua volta il segno, si è spinta fino ad un riaccostamento coi partiti borghesi, verso i quali del resto i socialisti maggioritari avevano fatto più d'un passo colla loro politica di pacificazione civile durante la guerra. La rivoluzione del 9 novembre aveva messo fine a questa coalizione colla borghesia per far posto ad una collaborazione cogli indipendenti. Purtroppo però poco durevole!
Tanto poco quanto nell'Europa occidentale, la parola d'ordine di dittatura può condurre in Germania una vera dittatura, durevole, efficace, fattiva e capace d'estendersi a tutto il paese. La popolazione è troppo progredita per questo. Tutti i tentativi fatti da elementi isolati del proletariato, per giungere alla dittatura, non possono ottenere che un successo passeggero e locale, congiunto a questo risultato comune: l'aggravamento della rovina economica e politica dello Stato e il rafforzamento delle tendenze verso una dittatura militare controrivoluzionaria. Ma nemmeno questa può raggiungere un potere duraturo e generale. Non è più possibile in Germania governare, in modo durevole, contro gli operai. Gli eccessi delle guardie di Noske a Berlino, le loro furie sanguinarie in Monaco non dimostrano punto la forza dittatoria del governo, ma piuttosto la sua impotenza di fronte agli spiriti, ch'esso fece sorgere, e che per loro conto sono abbastanza forti per esercitare impunemente atroci atti di vendetta, ma non già per condurre essi lo Stato. Lo sforzo verso la dittatura di sinistra o di destra non può condurre a nessuna dittatura positiva, bensì alla anarchia e alla rovina estrema, che, quando si arresti ogni produzione e tutti i mezzi d'esistenza siano esausti, c'imporrà come forma superiore di vita elaborata in questa direzione, nè più nè meno che il cannibalismo. Ed anche prima di spingerci a tal segno, tutti i tentativi fatti per fondare una dittatura, possono produrre questo solo effetto, un aumento di rozzezza e di brutalità nel combattere le lotte economiche e politiche, un accrescimento nel numero delle loro vittime, e l'impossibilità d'ogni azione creatrice e positiva. E questo tanto nel caso del governo sanguinario di Noske, quanto in quella della dittatura dei soviet.
Per il momento la dittatura di cui si fa propaganda, dovrebbe essere di corta durata e si eserciterebbe senza violenza. E' questa la peggiore illusione. In un paese, dove tutte le classi si sono risvegliate ad una vivace vita politica, non può nessun partito, che voglia esercitare la dittatura, pervenirvi senza violenza. Per quanto possano essere pacifiche le sue intenzioni, per quanto sia grande la sua volontà di conseguire per mezzo della dittatura, solo la forza necessaria ad un lavoro positivo, presto un partito, appena abbia inaugurato il regime dittatorio, non conserverà de' suoi attributi che la violenza. L'unica via per evitare questa violenza e giungere ad un'opera positiva e serena, è offerta da quella democrazia, che al presente è bistrattata teoricamente dall'ala sinistra e praticamente da quella destra del socialismo. L'Assemblea nazionale per sè non è ancora democrazia. Ma naturalmente non c'è democrazia senza una rappresentanza nazionale, che sia fondata sopra il suffragio universale e uguale per tutti.
L'unica istituzione, che oggi possa ancora abbracciare la totalità del paese, non è certo il sistema dei consigli operai, e nemmeno un governo dittatorio, ma soltanto un'assemblea nazionale, che venga fuori da tutti gli elementi del paese. Certo, la Costituente odierna presenta uno spettacolo antipatico nel più alto grado, ma chi ha eletta in essa la maggioranza? Proprio la popolazione lavoratrice, quella che dovrebbe eleggere i consigli operai, qualora questi dovessero essere costituiti in sistema. I voti dei socialisti indipendenti non sono nemmeno il decimo dell'Assemblea. E le classi operaie sono i nove decimi della nazione intera.
I consigli operai dànno un quadro essenzialmente diverso da quello dell'assemblea nazionale, solamente quando essi abbracciano i soli salariati della grande industria. Come tali, essi potrebbero diventare un coefficiente propulsivo della politica, e sono indispensabili per la socializzazione. Essi da soli non possono sostituire però l'opera dell'assemblea nazionale. Quanto più il sistema dei consigli si estende al di là del campo dei lavoratori della grande industria, quanto più esso abbraccia l'intera popolazione dei lavoratori, tanto più il suo Consiglio centrale deve, nella sua natura, avvicinarsi alla assemblea nazionale, senza però che la sua maggioranza possa acquistare quel prestigio, che possiede una maggioranza in un'assemblea, dove essa in modo manifesto appare come la maggioranza della nazione.
Niente di più erroneo che l'affermazione, che di nuovo torna a far bella mostra di sé nelle tesi, che furono formulate dall'ultimo congresso della Terza Internazionale di Mosca, che cioè il parlamentarismo e la democrazia, per la loro stessa essenza siano istituzioni borghesi. Esse sono forme, che possono avere diversissimo contenuto, secondo l'indole e la stratificazione del popolo. Se in un parlamento prevalgono i partiti borghesi, allora il parlamentarismo è borghese. E se questi partiti non valgono nulla, si capisce che anche il loro parlamentarismo non valga nulla. Ma tutto ciò deve cambiare radicalmente appena nel parlamento penetra una maggioranza socialista.
Ma allora si dice: ciò non accadrà mai, nemmeno col suffragio assolutamente libero e segreto, perchè i capitalisti dominano la stampa e comprano i lavoratori. Ma se essi debbono essere in grado, anche dopo una rivoluzione come la presente, di comperare in tal modo gli operai, allora ad essi dovrebbe anche esser possibile di influire non meno sulle elezioni ai consigli operai. L'affermazione che ai socialisti sia preclusa la conquista della maggioranza parlamentare, anche in un sistema di libero suffragio segreto, anche quando i salariati abbiano la preponderanza numerica nella popolazione, e ciò per causa della corruzione che colla forza del danaro i capitalisti esercitano sui proletari, equivale a dichiarare questi ultimi come una banda vile e inetta di analfabeti, equivale a proclamare la bancarotta della causa proletaria. Se il proletariato fosse effettivamente una tal miserabile genia, nessuna istituzione, per quanto nobile la si volesse pensare, lo potrebbe aiutare ad assicurarsi la vittoria ad onta della propria impotenza intellettuale e morale.
Se oggi l'assemblea nazionale tedesca presenta un carattere borghese, non poca colpa ne ha la propaganda bolscevica, che inspirò in molti circoli di lavoratori, anche tra gli indipendenti, la sfiducia contro l'assemblea nazionale, diminuì il loro interesse per la lotta elettorale, e che inoltre ha respinto, per riconsegnarli all'azione dirigente della borghesia, certi gruppi operai, sopratutto cattolici, che stavano per emanciparsi dal giogo della borghesia.
Certo l'assemblea nazionale tedesca attuale non saprà sanare nulla. Ma il processo di risanamento non è accelerato, ma ostacolato, quando si trasforma la lotta contro l'assemblea esistente in una lotta contro la democrazia, il suffragio universale, e in generale contro l'istituzione d'una assemblea nazionale. Così si impedisce la concentrazione della lotta in quell'unico punto donde potrebbe scaturire la salvezza; l'elezione d'una assemblea nazionale, in cui avessero la maggioranza i rappresentanti del proletariato, decisi a metter mano energicamente, nella misura di ciò che è possibile immediatamente, alla socializzazione e a realizzare la democratizzazione appena fin qui abbozzata, della Germania, e sopratutto della sua amministrazione.
Questo e non la dittatura avrebbe dovuto essere il programma d'ogni governo puramente socialista che fosse pervenuto al potere. Un tal programma avrebbe guadagnato a sè anche le masse degli operai cattolici, nonchè larghe zone borghesi, che vi vedrebbero l'unico mezzo per far uscire la repubblica dalla crisi, onde la minaccia la guerra civile scatenata tra le diverse tendenze dittatoriali.
Quando i comunisti affermano essere la democrazia un metodo della dominazione borghese, bisogna rispondere loro, che ciò ch'essi oppongono alla democrazia, la dittatura, non può ad altro condurre se non ad un metodo del diritto anteriore all'ordine borghese, il diritto del più forte. La democrazia, col suo suffragio universale ed eguale, non è la caratteristica del sistema borghese. Questa, durante la sua fase rivoluzionaria, aveva introdotto non il suffragio universale, ma il suffragio censitario, come in Francia, in Inghilterra, nel Belgio, ecc. Solo a prezzo di lunghe e faticose lotte, il proletariato ha conquistato il suffragio universale, fatto questo d'evidenza assoluta, che però i comunisti e i loro amici sembrano aver totalmente dimenticato.
La democrazia col suo suffragio universale ed uguale è il mezzo, che trasforma la lotta di classe da una volgare rissa corpo a corpo in una nobile gara d'idee, in cui una classe non può esser vittoriosa, ove non abbia moralmente ed intellettualmente superato il proprio avversario. La democrazia è il solo metodo, mediante il quale possano essere elaborate quelle più alte forme di vita, che un uomo colto comprende sotto la parola di socialismo. La dittatura conduce unicamente a quel genere di socialismo che si dice « asiatico ». E ancora ingiustamente, perchè l'Asia è la patria di Confucio e del Budda. Meglio perciò si dovrebbe dire: « socialismo tartaro! ».
Astrazion fatta delle conseguenze orribili della guerra mondiale, che ne sono le cause principali, il poco profitto, che fin qui la classe operaia tedesca ha tratto della sua vittoria, deve attribuirsi in molta parte all'azione disgregatrice e dissolvente dei comunisti, che dissipano in avventure sterili le forze proletarie, e lo stesso deve dirsi dello scarso uso, che essa ha saputo fare della democrazia come arma della propria emancipazione.
Assai migliori appaiono le prospettive socialiste della democrazia nell'Europa occidentale e in America. Queste contrade. particolarmente i paesi anglo-sassoni, escono dalla guerra mondiale assai meno indeboliti dal lato economico. Ogni progresso, ogni conquista del proletariato deve qui apportargli un miglioramento immediato di condizioni, deve elaborare per lui più alte forme di vita. Ma nello stesso tempo, la lotta del proletariato contro il mondo borghese deve assumere qui forme più intense che nel periodo anteriore alla guerra. Il periodo d'esaltazione patriottica, da questa prima e poi dalla vittoria generato, è ormai prossimo alla fine. Già è incominciato il riflusso, che continuerà con ritmo irresistibilmente crescente, una volta conclusa la pace, la pace, la quale, checchè si possa imporre ai vinti, non potrà sensibilmente attenuare i sacrifici dei vincitori. D'altra parte i problemi della politica interna ritorneranno ad essere oggetto d'interesse superiore di fronte a quelli della politica estera.
L'opposizione del proletariato prenderà forme tanto più energiche, in quanto si è accresciuta la coscienza delle sue forze. Sotto questo rapporto la rivoluzione tedesca, e più ancora la russa, hanno prodotto un'azione incendiaria del più alto grado. Comunque si giudichino i metodi bolscévichi, il fatto che in uno Stato di prim'ordine un governo proletario, non solo abbia potuto arrivare al potere, ma vi si mantenga da ormai quasi due anni, e in mezzo alle più ardue condizioni, esalta straordinariamente nei proletari di tutti i paesi il sentimento della loro forza. I bolscevichi hanno potentemente contribuito alla vera rivoluzione mondiale più con questo fatto, che non coi loro emissari, la cui azione, per la causa proletaria, è stata piuttosto nefasta che rivoluzionaria.
Il proletariato del mondo intero si mette in movimento e la sua pressione internazionale è destinata a diventar forte abbastanza, perchè d'ora in poi ogni progresso economico si realizzi nella direttiva non più capitalistica, ma socialista.
Così la guerra mondiale avrà inaugurata un'epoca, che sarà la fine dell'evoluzione capitalista, e il principio dell'evoluzione socialista. Certo non ci sarà dato passare di colpo dall'un mondo all'altro. Il socialismo non è un meccanismo che si possa costruire secondo un piano preconcetto, e che una volta messo in azione, proceda sempre avanti nello stesso modo; esso è piuttosto un processo di cooperazione sociale, che ha le sue leggi definite, come ogni aspetto di attività sociale, ma che può nei limiti di queste leggi, assumere le forme più diverse e svilupparsi in un senso che non sapremmo, adesso nemmeno prevedere.
Anche oggi non è compito nostro fondare per decisione popolare utopie bell'e fatte. Quello che accade sotto i nostri occhi è lo scatenamento degli elementi, che dovranno attuare l'inizio della nuova evoluzione sociale. Se vogliamo chiamare questo fatto la rivoluzione mondiale, perchè esso si estende a tutto il mondo, allora può dirsi che noi ci troviamo in faccia alla rivoluzione mondiale. Ma questa si compirà, non già nella direttiva della dittatura, non per mezzo di cannoni e mitragliatrici, non coll'annientamento degli avversari politici e sociali, ma per mezzo della democrazia e dello spirito d'umanità. Soltanto per questa via raggiungeremo quelle superiori forme di vita, elaborare le quali costituisce il compito storico del proletariato.