Biblioteca Multimediale Marxista


RELAZIONE POLITICA


LO SCONTRO DI CLASSE IN ITALIA

 

SULLA TENDENZA DEL MOVIMENTO DI LOTTA


Il centro di una discussione sulla situazione di classe, sui nostri compiti, non può essere che uno: la condizione reale del movimento di alasse, la sua forza, l'indicazione di fondo che esso esprime, e che noi dobbiamo saper riconoscere, sostenere e orientare.
Lo sviluppo della crisi, di nuovi e più profondi strappi che il programma dei padroni provoca nell'attacco alla classe operaia, non vedono oggi una compiuta risposta generale. Ma questo non vuol dire né che il movimento di classe sia fermo, né, tanto meno, che si stia ritirando; e nemmeno che il dato dominante della situazione attuale sia, come in altri momenti di difficoltà, di attesa, di preparazione, l'accumularsi di una tensione che non riesce a trovare gli spazi per esprimersi.
Un dato dominante della situazione sta nel fatto che una enorme accumulazione di tensione, che attraversa in modo via via più omogeneo l'insieme della classe operaia e dei settori proletarizzati, sviluppa dal basso una iniziativa diffusa e articolata, i cui punti di applicazione sono diversi e parziali, ma che ha dovunque un carattere offensivo nuovo. Non c'è una lotta generale, c'è una tendenza generale nelle lotte, che ne annuncia e ne prepara uno sbocco nuovo.
Sarebbe un irrimediabile errore vedere in questo ritorno della lotta all'iniziativa dal basso, all'articolazione e alla diversificazione di obiettivi e di forme, una retrocessione rispetto alla tendenza principale degli ultimi anni. In questi anni, è cresciuta - ed è diventata impetuosa in alcuni momenti, nello sciopero lungo di febbraio, nella risposta a Brescia - una spinta della lotta verso una dimensione generale, una spinta a unificare e a far convergere la forza proletaria verso il centro, verso il potere complessivo dei padroni, la loro « politica economica », il loro apparato di dominio, verso il governo e lo stato.

La risposta operaia alla crisi

Unificazione della lotta, costruzione di un programma generale, rivendicazione di potere politico: l'intreccio di questi aspetti ha dominato la risposta operaia alla crisi, ha dato un segno nuovo all'arma dello sciopero generale, ha imposto in alcuni momenti alla direzione sindacale la propria forza. L un itinerario che va dalla lotta operaia contro Andreotti nel '72, dagli scioperi contrattuali trasformati in una lotta generale contro il carovita, contro il fascismo, contro la DC, fino allo sciopero lungo e allo sciopero generale dello scorso 27 febbraio, fino al referendum, alla risposta a Brescia, e fino allo sciopero dei fischi di luglio, dove si fa manifesta la contrapposizione tra un sindacato che ha deciso, dopo averne pericolosamente subito la forza, di abrogare la dimensione generale della lotta, il suo contenuto di programma e di potere, e una classe operaia che non accetta di ritirarsi, e si prepara a dare con le sue forze continuità alla propria iniziativa.
Sta qui, nell'antagonismo con una direzione riformista che accetta teorizza l'uso capitalista della crisi, e nella nuova e profonda precipitazione dell'attacco padronale e governativo, la radice della tendenza nuova della lotta. Essa non è un ritorno all'indietro, un riflusso corporativo e difensivo; non ha il segno dell'abbandono dei contenuti di programma e di potere. Noi riconosciamo, nella tendenza generale delle lotte proletarie in questo periodo, la volontà di esercizio di realizzazione dal basso dei programma e la volontà di esercizio dal basso della rivendicazione di potere politico come le condizioni nuove di un più profondo e maturo sbocco generale.
È questo l'insegnamento preciso che ci viene dalle lotte. Noi rifiutiamo lo schema idillico di chi, nella speranza di allontanare o esorcizzare í momenti inevitabili di precipitazione della crisi e dello scontro di classe, non vede altro, nelle lotte di questa fase, se non l'articolazione, la frantumazione della risposta proletaria in tante puntuali e ordinate risposte. In questo schema, il carattere prolungato della crisi del capitale viene trasformato in un carattere gradualista della crisi, per far da alibi a una interpretazione e a una azione gradualista nella lotta di massa.

Questi ultimi mesi

Basta ripercorrere questi mesi ultimi, che non sono stati segnati né dalla tregua, né dalla vertenza sindacale, che pure c'è stata, ma svuotata di ogni credibilità materiale e politica nella coscienza delle masse e soltanto usata nelle occasioni che il sindacato doveva e deve offrire all'unità e alla manifestazione della volontà della classe, fino al 4 Dicembre, all'unica parola d'ordine - « È ora, il potere a chi lavora; il potere dev'essere operaio » - scandita a Palermo e a Torino, a Napoli e Bologna da centinaia di migliaia di proletari. Sono stati segnati, questi mesi dalle lotte operaie delle piccole fabbriche, dalle lotte dei disoccupati, dalle lotte sui trasporti, dalle lotte per la casa, dall'autoriduzione, dall'iniziativa di avanguardie di massa contro la ristrutturazione nelle grandi fabbriche, dalle lotte proletarie degli studenti, e anche dalle caratteristiche nuove della mobilitazione antifascista, dalla risposta popolare di Savona, dallo sviluppo dell'attenzione e dell'unità proletaria col movimento dei soldati, dalla manifestazione iniziale, ma significativa e istruttiva, dell'impegno nella vigilanza antigolpista di massa.
È, solo a partire dal nostro rapporto con queste esperienze che noi siamo chiamati a giudicare della forza e della debolezza della nostra organizzazione e della sua stessa natura. Ogni altro punto di vista, pur essenziale, è tuttavia secondario e subordinato a questo. Allo stesso modo, è nel rapporto con queste esperienze di lotta, con 1a tendenza che in esse si esprime, col loro sbocco più avanzato, la chiave di volta dell'indicazione dei nostri compiti nella prossima fase.
E' possibile riconoscere questa tendenza generale e comune? E' possibile vedere le linee di sviluppo?

L'esercizio dal basso del programma

È utile guardare al modo in cui alcuni aspetti di fondo riemergono in queste esperienze di lotta, definendone il segno, l'esercizio dal basso del programma, e, legato ad esso, la costruzione di organizzazione e di forza. È quello che avviene nell'occupazione di case, a Roma o a Torino o a ]Milano, un terreno di lotta sempre più rigorosamente operaio, che la crisi allarga agli strati proletari dei servizi, del pubblico impiego, del cosiddetto lavoro indipendente. Unità proletaria, esercizio del programma, esercizio del contenuto di potere del programma, come esemplarmente a San Basilio, dove la possibilità della rivincita militare dello stato è frustrata e rovesciata prima di tutto dalla forza politica dei proletari. L'attacco della crisi allarga il fronte diretto e la forza politica della lotta per la casa, del movimento dell'occupazione, fino all'obiettivo della requisizione diretta degli appartamenti delle grandi immobiliari, fino allo sciopero degli affitti, la principale e più consolidata forma di autoriduzione e questo non è vero solo per Roma, dove l'anno santo promette di centuplicare l'iniziativa proletaria. Al tempo stesso, si radicalizza la necessità di una risposta repressiva della borghesia e dello stato, mentre è sempre più svuotata la mediazione legalitaria revisionista. Si parla, a Torino, di una possibile risposta poliziesca all'occupazione della Falchera e ciascuno di noi capisce che cosa vorrebbe dire. Esistono, ed esisteranno ancora di più, tutte le condizioni per un'iniziativa dell'avanguardia che rovesci i tentativi di isolamento e di divisione, che organizzi la forza politica della lotta per la casa come forza materiale, che stabilisca nella propria iniziativa autonoma di massa i rapporti di forza sui quali piegare a vantaggio de] proletariato la contraddizione fra revisionismo e bisogni delle masse. Gli stessi aspetti caratterizzano la lotta per l'autoriduzione. Una lotta che, alla sua origine, ha mostrato gravi errori della nostra organizzazione. Errori di schematismo e di debolezza dell'analisi, cioè, in sostanza, del nostro rapporto con le masse: è stato così per la preoccupazione, che abbiamo avuto, di una contrapposizione deviante fra ripresa dell'iniziativa operaia in fabbrica, contro la ristrutturazione e per il salario, e autoriduzione; abbiamo così mancato di iniziativa, abbiamo dato un'indicazione generale debole al nostro lavoro, e siamo stati meno efficaci di altri, come la sinistra sindacale e le forze politiche che ad essa fanno capo, che pur ambiguamente promuovevano l'estensione di questa lotta. (Gli errori sono inutili da denunciare se non se ne individuano le cause: e una, importante, che occorre richiamare a questo proposito come per altri e ricorrenti esempi di lentezza e di ritardo nella nostra capacità di iniziativa e di direzione, sta in una debolezza della nostra struttura, nel fatto che una linea di massa stenta ad attraversare naturalmente l'organizzazione, con una strozzatura, fino a una direzione nazionale che diventa, spesso, un collo di imbuto. È un problema che i lavori del congresso hanno all'ordine del giorno).

L'autoriduzione non é finita

Qual'è il destino dell'autoriduzione nella prossima fase? Non si può ignorare il fatto che l'accordo firmato dai sindacati con l'ENEL e il governo ha tentato di retrocedere definitivamente l'autoriduzione da pratica autonoma del programma proletario a strumento provvisorio (e largamente vituperato) di trattativa. La firma dell'accordo chiude provvisoriamente gli spazi aperti dalle contraddizioni interne al sindacato, e soprattutto dà al governo una copertura per reprimere con maggiore sicurezza un'azione proletaria illegale non solo rispetto allo stato ma allo stesso sindacato. Già si moltiplicano i tentativi repressivi in alcuni punti, trovando del resto un'adeguata risposta di massa, come in questi giorni in alcune zone di Napoli. Più difficile appare, per queste ragioni, una generalizzazione rapida di questa azione di lotta. Ma è presente, con una grossa forza potenziale, anche la tendenza opposta.
L'autoriduzione ha dimostrato di poter essere un terreno preciso di iniziativa diretta dell'avanguardia, di costruzione dell'organizzazione, di esercizio della forza; un terreno, anche, di unità delle avanguardie, che deve raccogliere ogni forza disposta a sostenere la pratica della lotta, senza limitarsi alla pressione nei confronti del sindacato. La forma che questa iniziativa può assumere è la più diversa, come ha dimostrato una esperienza che va dalla copertura sindacale alla promozione diretta della lotta da parte dei nostri compagni. Tanto maggiore è la forza politica di questa lotta - e anche questo è già apparso chiaramente a Napoli come a Torino - per la capacità che essa ha, dando concretezza e unificazione permanente all'unità generale cresciuta intorno alla parola d'ordine dei prezzi politici, di raccogliere i settori più ampi del proletariato, fino a settori di quelli che si considerano « ceti medi », e che ritrovano qui materialmente il significato della direzione operaia. C'è un modo di guardare all'autoriduzione che ne fa una lotta precisa, graduale legata a una copertura istituzionale, sia pure quella dei consigli di fabbrica, e che la contrappone perciò ad altre forme di lotta, arrivando a teorizzare la superiorità del suo carattere « costruito » rispetto al carattere « spontaneo » o « rivoltoso » di altre forme di lotta. Questo è il segno di una pesante incomprensione. Un filo comune lega la lotta per l'autoriduzione dei prezzi dei trasporti organizzata dai consigli di fabbrica, alla lotta sui trasporti che nasce dall'occupazione delle ferrovie e sviluppa una capillare rete organizzativa, alle dieci giornate di lotta in piazza degli studenti di Palermo, con la loro dinamica esemplare di costruzione impetuosa dell'iniziativa di massa. Un filo comune che vede percorrere l'articolazione e l'organizzazione « costruita » della lotta dalla tensione a uno sbocco impetuoso e generale, e allo scontro aperto. Non c'è una Palermo della rivolta, e una Torino dei consigli; e i binari occupati della stazione di Napoli non sono altra cosa da quelli di Treviglio d'Adda. La tendenza alla costruzione dal basso della lotta e dell'organizzazione ha dentro di sé, dovunque, la stessa tensione alla rottura generale. La lotta degli studenti di Palermo, degli studenti di Trapani, dei cinquecento studenti professionali di San Giovanni Teduccío che occupano per tre giorni e tre notti il municipio, non sono che anticipazioni e manifestazioni di un contenuto generale fondamentale della lotta degli studenti, del suo rapporto con la crisi, con l'attacco all'occupazione e al reddito proletario, con la classe operaia e con i settori proletari o semiproletari che la crisi colpisce più spietatamente. Una tendenza comune, e un intersecarsi del deposito politico e del risultato organizzativo delle lotte diverse: del comitato dei pendolari e del consiglio di fabbrica, della ronda operaia contro gli straordinari e del comitato per l'autoriduzione, del comitato di lotta per la casa e del comitato antifascista. Questo equivale a dire che lo sbocco generale della lotta non potrà coincidere con l'estensione e la generalizzazione di una singola forma di lotta attuale; che uno sviluppo generale dell'organizzazione di massa non potrà coincidere con la generalizzazione di una singola forma di organizzazione attuale. Essi, viceversa, non potranno che rappresentare la convergenza e lo sviluppo, dentro uno sbocco generale del movimento, dell'accumulazione di coscienza, di iniziativa, di organizzazione e di forza che oggi si va realizzando. In essa, ha un peso grande l'iniziativa antifascista. Sono le condizioni politiche di questa fase a galvanizzare lo squadrismo fascista - la serie intollerabile di aggressioni omicide di Roma è l'esempio più evidente - e a indurre il partito fascista a ricercare uno spazio rinnovato di presenza pubblica. I fatti di Monteverde insegnano. Su questo terreno, dobbiamo assumere con molta maggior forza la nostra responsabilità di avanguardia rispetto alla pratica antifascista, senza di che assai debole sarebbe una campagna per il MSI fuorilegge, che è certo uno strumento importante di organizzazione di massa, di risposta alla contraddizione fra linea revisionista e volontà di massa, di acutizzazione delle contraddizioni interne alla borghesia e allo stato. La forza dell'iniziativa di lotta sul terreno sociale riflette il carattere generale dell'offensiva capitalista. Un posto fondamentale assume in essa la lotta dei disoccupati, nella quale siamo presenti e attivi a volte in modo positivo, come di recente a Siracusa, ma in generale in modo inadeguato ed episodico. Gli esempi di Napoli mostrano quale forza di continuità e di organizzazione, oltre che di iniziativa offensiva sta nella lotta dei disoccupati. Non è un caso che i sindacati abbiano appena recuperato nella loro piattaforma l'indennità di disoccupazione. La forza della lotta degli studenti, il legame con l'iniziativa operaia contro la ristrutturazione e la smobilitazione, rendono enormemente più forte un'iniziativa sul salario dei disoccupati, per l'abolizione delle discriminazioni contro i lavoratori stagionali, per la estensione dell'indennità di disoccupazione ai giovani in cerca di primo impiego, i più brutalmente colpiti dall'uso padronale della crisi. La lotta su questo fronte è un aspetto fondamentale della lotta per l'unità del proletariato, e lo è oggi, tanto più precisamente, di fronte a un progetto padronale di divisione e isolamento attraverso una caricatura provocatoria della garanzia del salario. Non l'agitazione generale delle parole d'ordine sulla disoccupazione, che pure è stata ed è importante, ma l'organizzazione pratica della lotta, nelle diverse situazioni, contro l'articolazione locale del potere dello stato e de] governo, è possibile e necessaria.

La forza degli studenti...

Abbiamo visto quale fondamentale punto di forza dello schieramento proletario è rappresentato dagli studenti La partecipazione degli studenti alle scadenze generali della lotta operaia è stata ovunque plebiscitaria la loro disponibilità a darsi scadenze proprie di lotta generale sia sul piano della mobilitazione antimperialista, antifascista, antidemocristiana, come il 5 novembre per la venuta di Kissinger e poi per l'assassinio di Argada, sia sul terreno specifico della scuola, come nello sciopero nazionale del 28 novembre, ha ricevuto quest'anno una conferma superiore alle aspettative. Questa forza straordinaria degli studenti, che in molte situazioni, nelle scadenze generali della lotta operaia, sono arrivati a costituire persino la componente maggioritaria dei proletari scesi in piazza, si è fin dall'inizio dell'anno intrecciata con continuità alla mobilitazione su temi specifici AI movimento, su piattaforme di istituto, di città, di zona a partire dal problema dell'edilizia e dei turni, e della lotta sugli obiettivi sociali che vedevano impegnato il resto del proletariato, come l'autoriduzione, la lotta per i trasporti, ecc. In molte situazioni questo ha messo di fatto la direzione del movimento in mano alla componente più direttamente legata alla vita e ai bisogni del proletariato: gli studenti tecnici e professionali. In molte situazioni ciò ha comportato di fatto l'emergere di un modo nuovo di far politica e di organizzarsi; un modo che mette al centro la meticolosità del lavoro politico, la concretezza degli obiettivi di lotta e l'attenzione per la maggioranza dei propri compagni, in forma assai vicina al modo di operare delle avanguardie di fabbrica; in altre situazioni la spinta alla lotta ha reso di fatto gli studenti protagonisti ed interpreti della tendenza allo scontro frontale e della volontà di arrivare a una resa dei conti che caratterizzano sempre più, in questa fase, tutto il proletariato: se di questo aspetto si sono avute manifestazioni inequivocabili in molte città, da Napoli a Roma, a Milano, sia nelle scadenze di lotta generale, sia nella prontezza della risposta di massa al terrorismo fascista, i dieci giorni di lotta generale a Palermo contro l'aumento del prezzo dei trasporti costituiscono senza dubbio la riprova maggiore sia del ruolo degli studenti e del loro rapporto con il resto del proletariato, sia di una tendenza generale della lotta di massa in questa fase. Non un'eccezione, dunque, ma l'anticipazione di una situazione generale. È significativo che, nelle nuove avanguardie studentesche, il problema della crisi venga messo al centro della discussione e della lotta a partire dalla disoccupazione giovanile, e dall'attacco borghese alla scolarizzazione di massa, che è uno dei tanti mezzi che si affiancano alla ristrutturazione, all'attacco al pubblico impiego al blocco delle assunzioni per tornare a rendere « fluido » il mercato del lavoro.

...e il loro programma

Il modo in cui si articola il programma di lotta degli studenti parte da queste constatazioni e lega alla lotta generale contro la ristrutturazione gli altri contenuti, da quelli contro i costi della scuola, a quelli contro la selezione, a quelli per la democrazia e la libertà di sperimentazione e di insegnamento. Non si tratta di una proiezione meccanica e schematica dei contenuti del programma operaio, come rischiava di accadere ancora negli scorsi anni nel modo in cui certi temi di lotta contro i costi o per la difesa del salario venivano proposti al movimento. Si tratta di una impostazione che si radica direttamente e materialmente nella condizione degli studenti, nella loro provenienza o collocazione sociale, molto spesso operaia, e proletaria, ma, ancor più, nella loro destinazione sociale di disoccupati, sottoccupati, sottosalariati, che la crisi smaschera, accentua e rende generale. Questo fatto evidenzia il rapporto che intercorre tra movimento degli studenti e classe operaia; un rapporto che non è di « alleanza », non è cioè di compagni che percorrono un tratto di strada insieme, sacrificando ciascuno qualcosa del proprio programma e dei propri interessi all'altro, ma è di progressiva omogeneizzazione e di unificazione intorno al programma operaio.

Movimento degli studenti e proletariato

Alla radice di questo rapporto c'è senza dubbio il fatto che la scolarizzazione di massa ha fatto coincidere in modo sempre più ampio la figura dei proletario giovane con quella dello studente (oggi gli studenti della scuola media secondaria sono la maggioranza assoluta dei giovani delle corrispondenti classi di età) e, ancor più, il fatto che le prospettive occupazionali sono tali da declassare in modo sensibile anche i figli di quegli strati « intermedi » che avevano trovato finora un elemento per sentirsi diversi dal proletariato.
Ma il rapporto tra proletariato e movimento degli studenti non è un fatto puramente meccanico. Se il rapporto tra movimento e lotte operaie si radica nella condizione e nella provenienza sociale di una componente decisiva degli studenti, la forza di attrazione del movimento, della sua direzione rivoluzionaria, e il fatto decisivo della giovane età degli studenti, che li rende aperti a scelte radicali, fa sì che l'unità dei movimento si estenda ben aldilà di questa prima componente, coinvolgendo, intorno ai contenuti e ai temi dei programma operaio 1a grande maggioranza dei figli dei ceti impiegatizi, degli strati intermedi, dei lavoratori terziari, dei produttori più o meno indipendenti, e arrivando persino ad influenzare politicamente e ideologicamente una componente della borghesia media e alta.
La forza disgregatrice del movimento degli studenti - soprattutto là, come nei piccoli centri e in molte zone del meridione, dove esso rappresenta la maggiore forza sociale in lotta - nei confronti dell'unità corporativa interclassista su cui si reggono l'ideologia e la coesione sociale e politica dei cosiddetti ceti medi - non sarà mai sottolineata abbastanza. Essa rappresenta di fatto il principale strumento nelle mani del proletariato - e della sua direzione rivoluzionaria - per esercitare la sua direzione politica in un campo su cui altrimenti avrebbe poche occasioni di intervento. Non si può capire la crisi della D.C., dell'interclassismo cattolico, dell'egemonia culturale e politica della borghesia sulle forze sociali non operaie, né si può lavorare ad uno sbocco rivoluzionario e non reazionario di questa crisi senza contare a fondo sul ruolo e sulle. potenzialità del movimento degli studenti.

Studenti e soldati

Vogliamo fare alcune annotazioni particolari sul rapporto fra studenti e soldati. Quando diciamo che la maggioranza dei giovani sta nelle scuole, diciamo che nelle scuole sta la forza sociale più consistente, più sensibile materialmente e politicamente alla questione complessiva delle Forze Armate, del servizio di leva, delle sue condizioni, della sua funzione ecc. Ogni ulteriore ritardo nel raccogliere questa straordinaria forza è una gravissima responsabilità della nostra organizzazione. In particolare, il movimento dei soldati vive un fondamentale passaggio dalla prima fase, quella di una costruzione di presenza, di collegamenti, di iniziative sostanzialmente chiuse nell'« istituzione », e articolate verticalmente - coi soldati, per intenderci, che riuscivano a sapere cosa facevano altri soldati da un'altra parte, ma non che cosa facevano i proletari nella città in cui stavano; e, corrispondentemente, con una struttura «separata » del nostro lavoro esterno - alla fase dell'incontro, e della comunicazione, dell'iniziativa comune col proletariato del luogo in cui sono di stanza, cioè con la presenza diretta, anche fisica, nella lotta di classe proletaria - e, corrispondentemente, a un nostro lavoro che è, e deve essere, sempre meno « separato » e sempre più integrato nella vita complessiva dell'organizzazione. In questa direzione la forza sociale degli studenti può avere un peso gigantesco, che oggi non viene raccolto, e può rappresentare, oltre e prima delle specifiche occasioni di collegamento politico, la possibilità di un fondamentale rapporto umano fra i giovani proletari in divisa e i giovani che vanno a scuola. Questa possibilità riguarda non ristrette avanguardie, ma la massa degli studenti e la massa dei soldati. Essa deve essere attentamente e creativamente considerata.
In ultimo luogo, il rapporto fra soldati e studenti può offrire una leva formidabile per allargare la coscienza politica degli studenti, per ricollegare nella loro composizione, e nella loro mobilitazione, gli aspetti complessivi di un'operazione imperialista che si presenta loro direttamente nell'attacco alla scolarizzazione e nella chiusura degli sbocchi di lavoro, e che si lega alla ristrutturazione produttiva, all'attacco di fabbrica, e alla ristrutturazione militare (anche qui, nei termini più elementari, l'attacco alla base proletaria, alla « rigidità » dei soldati di leva, per la « mobilità » e la professionalizzazione, per un salto nell'organizzazione tecnico-militare e nel suo impiego).
Proporre, nelle loro articolazioni concrete, i temi generali dell'internazionalizzazione della ristrutturazione, della militarizzazione del potere, alle avanguardie di massa degli studenti, è un compito possibile, ed una condizione feconda per il loro armamento politico, perché giochino il ruolo che possono giocare nell'impegno internazionale, nella lotta alla guerra (pensiamo all'eventualità della guerra in Medio Oriente), nella coscienza antigolpista.

La fabbrica

Ma il cuore dei rapporti di forza tra le classi, e la posta ultima dello scontro, è la fabbrica. Rimodellare la fabbrica, e rimodellare lo stato sulla misura della ristrutturazione della fabbrica, questa è la sostanza del programma padronale. Il grande capitale ha imparato la lezione di sei anni di lotta, e cerca di voltare pagina. Deve farlo in Italia con maggiore urgenza, ma anche nella stragrande maggioranza dei paesi industrializzati. Il grande capitale riconosce la vittoria della classe operaia di linea, dei senza mestiere, degli immigrati, e sceglie di liquidare un ciclo storico del proprio sviluppo, e di aprire una nuova fase dello scontro di classe.
1 borghesi parlano di crisi di mercato, di crisi dell'auto, di un ciclo che doveva in ogni caso finire. Sono argomenti ripresi anche dalla sinistra revisionista, che riconosce ai movimenti del capitale nella crisi un carattere di ineluttabilità e di oggettività, e confina al suo interno gli spazi della lotta. A smascherare questi argomenti bastano le cifre degli investimenti e dei profitti delle maggiori aziende automobilistiche europee e americane in questi ultimi anni. Calano i profitti, sotto la spinta salariale, sono drasticamente ridotti gli investimenti in tutti i paesi industrializzati. 1 grandi padroni lavorano a trasformare il loro capitale in capitale finanziario, a dirottare investimenti e profitti al di là dei confini nazionali, ad appropriarsi sempre più direttamente degli strumenti dello stato, a recuperare le proprie sconfitte con la rapina dell'inflazione. Le linee principali della ristrutturazione sono determinate così: da una parte si trasferisce la produzione nei paesi non industrializzati, e nei quali comunque la classe operaia è più debole per ripercorrere in quei paesi il cammino di accumulazione compiuto in patria; dall'altra parte si modifica la struttura produttiva, e si riduce pesantemente la base produttiva, e in sostanza la classe operaia, per cambiare la faccia della classe operaia. Per ottenere, col licenziamento, la mobilità, il blocco delle assunzioni, la riduzione delle commesse, che si sgretolino le basi della unificazione del proletariato, a partire dalla forza dell'autonomia nei reparti, e per provocare isole corporative e soprattutto ricatto, paura, lavoro precario, lavoro nero.
Non si ha la forza di uccidere il pesce, e si cerca di togliergli l'acqua. E' un progetto che, dopo aver attraversato alcuni settori industriali, dai tessili ai chimici, è diventato generale, ha investito i rapporti complessivi fra capitale e lavoro. E' la scelta chiara che Agnelli guida in Italia, e che sta investendo nel mondo tutti i grandi monopoli dell'auto. La Volkswagen di cui i giornali scrivono che « è costretta a licenziare », ha prodotto nell'ultimo anno il numero più alto di « maggiolini » di tutta la sua storia. Solo che li produce tutti in Brasile, dove un operaio costa 29.000 lire al mese per 10 ore al giorno, con sette giorni di ferie all'anno e gli scioperi vietati.
1 profitti ricavati in Brasile non li investe nell'auto, ma nell'allevamento del bestiame, sempre in Brasile. E in Germania gli operai turchi e jugoslavi e italiani sono espulsi in nome di una crisi che deve permettere domani di sfruttare meglio chi resta, gli operai tedeschi. Partono anche gli operai portoghesi, marocchini, algerini delle grandi fabbriche francesi - e per loro non vale il salario garantito di Giscard -. Il padrone ha riconosciuto l'antagonismo irriducibile che lo oppone all'operaio di linea, e su questa lezione spinge a fondo il suo uso della crisi. Per chi a questo antagonismo non ha mai creduto, o voluto credere, è d'obbligo la ricerca affannosa di soluzione alla crisi: maggiore professionalità diversificazione produttiva, investimenti al Sud, nuovi modelli e via dicendo.
E di questo passo basta qualche balla raccontata da Agnelli, e si scatena il core, trionfale della fine del taylorismo, della grande vittoria operaia del nuovo modo di produrre; e poi basta qualche misero investimento al sud finanziato per di più dallo stato, per immaginare e decantare la fine del divario fra nord e sud. Sono le cose che sentivamo appena un anno fa! Alla scelta che il grande capitale oggi spinge a fondo si oppongono contraddizioni insuperabili. Molti dei paesi che dovevano essere al riparo della forza operaia diventano, al contrario, i paesi più investiti dalla lotta operaia: è così per l'Argentina, per la Spagna. In ltalia si tratta di fare i conti con la classe operaia più forte del mondo.

I compagni guardano alla FIAT

Alla FIAT l'attacco mosso con la cassa integrazione e con la drastica riduzione delle commesse a tutto il ciclo dei fornitori, mirava e mira, in primo luogo, a spezzare l'unità della classe operaia. Le mobilitazioni generali di novembre e poi dello sciopero generale dei 4 dicembre hanno mostrato il grado più alto di unità e di tensione politica di tutti gli ultimi anni. Da questa coscienza di unità e di forza nascono le innumerevoli lotte operaie che nelle condizioni nuove di maturazione ripropongono non obiettivi di difesa corporativa, ma la linea del 69, la linea dell'egualitarismo e del rifiuto del modo di produzione capitalista.
A fronte di questo, sta una politica sindacale che segna, questa sì, una vittoria dei grande capitale, l'approdo di una svolta nel ruolo del sindacato verso ciò che vogliono farne i grandi padroni e lo stato. Il sindacato legittima la crisi, accetta di trattare l'uso della crisi, di contare le macchine sui piazzali o le lavatrici nei magazzini, di trasformare i delegati in caricature di amministratori delegati. A che cosa miri la manovra padronale verso il sindacato è chiaro: da una parte all'abbandono del terreno di fabbrica, che il sindacato era stato costretto a occupare dalla forza dell'autonomia operaia; dall'altra alla complicità con le scelte imperialiste delle grandi multinazionali. E vengono le approvazioni agli scorpori di società, e gli accordi sui ponti.
La fine del processo sarebbe la corporativizzazione più subalterna del sindacato In cambio di che cosa, quando nessuno più può prendere sul serio la speranza, per ora come in futuro, di « nuovi meccanismi di sviluppo »?

«Bisogna rifare come nel '69»

Quale deterrente continui tuttavia a costituire l'autonomia operaia, lo mostra lo stesso andamento dell'attacco di Agnelli, teso a non superare, né con forti riduzioni di salariato, né con misure clamorose contro l'occupazione la soglia della rivolta operaia. E' un gioco pericoloso che ottiene dei risultati parziali tua pesanti, ma che ha spazi sempre più ridotti. Un gioco che dovrà presto smettere le vesti della trattativa continua che ancora oggi, con le fabbriche vuote, ostenta, per indossare quelle dello scontro frontale. Uno scontro le cui caratteristiche stanno simbolicamente nella frase operaia: « bisogna rifare come nel '69 ».
Soprattutto nell'ultimo anno dopo l'accelerazione prodotta dalla crisi de] petrolio, l'attacco all'occupazione operaia si è manifestato in Italia con due tendenze, apparentemente contraddittorie: da un lato la smobilitazione di piccole fabbriche e il blocco delle assunzioni nelle maggiori concentrazioni industriali, che ha portato a una riduzione netta degli occupati, specialmente se si considerano oltre agli operai che se ne vanno, quelli che non hanno la possibilità di entrare, in particolare le donne e i giovani; dall'altro lato, un aumento pauroso de] lavoro « nero », dell'appalto, del lavoro a domicilio, non solo nei settori tradizionali, ma anche in quello meccanico, elettronico, ecc., e perfino in strati di impiegati. La deflazione, la stretta del credito, la riduzione delle commesse delle grandi industrie, colpisce più direttamente la piccola industria, cioè la classe operaia della piccola industria che è la grande maggioranza della classe operaia italiana.
Questa classe operaia aveva sviluppato da pochi anni una gigantesca forza di lotta, favorita dalla condizione del mercato del lavoro e soprattutto dallo scambio continuo, anche diretto, con le grandi fabbriche, con i loro obiettivi e le loro forme di lotta e di organizzazione (nel marzo 73 sull'onda di Mirafiori sono decine di piccole fabbriche torinesi che vengono occupate simultaneamente).

Nelle piccole fabbriche come nelle grandi: una dimensione generale

La continuità di questo interscambio è ancora oggi una condizione determinante (e si consideri la linea di abbandono del sindacato verso le piccole fabbriche!) La risposta all'attacco padronale c'è, ed è in molti punti fortissima. Sono innumerevoli le occupazioni di piccole fabbriche contro i licenziamenti, le lotte aperte contro la ristrutturazione — in molti casi vincenti — le lotte per il salario. Dovunque gli operai delle piccole fabbriche sono i protagonisti in ogni occasione di lotta e di mobilitazione generale, ma soprattutto, nella lotta di fabbrica, sono il centro di un'iniziativa che si rovescia all'esterno, che suscita energie, collegamenti, organizzazione, che trasforma una debolezza strutturale in forza politica. Le piccole fabbriche sono un anello determinante della risposta alla ristrutturazione e della stessa ripresa generale della lotta operaia. Gran parte dei nuovi operai che entrano nelle nostre file in questa fase sono delle piccole fabbriche. Ma questo dato è solo in alcuni casi il risultato di una nostra azione efficace: in altri casi, è il risultato di un rapporto parassitario fra la nostra organizzazione e la crescita autonoma di lotta e di politicizzazione delle piccole fabbriche. L'insufficienza del nostro impegno è tanto più grave nelle zone, e sono molte, in cui più ridotte sono le condizioni materiali e politiche della risposta operaia. Nelle grandi fabbriche, i trasferimenti, il blocco delle assunzioni, le trasformazioni tecniche e organizzative tese a ridurre gli organici, hanno inciso sulle condizioni di partenza e di propagazione della lotta interna. E vanno di pari passo l'aumento selvaggio della repressione e dello sfruttamento e un ulteriore processo di dequalificazione e degradazione del lavoro. Cresce, spesso esplode, nei reparti e nelle officine, la tensione contro le condizioni di lavoro, contro la gerarchia di fabbrica, e più in generale per la difesa del salario e contro la restaurazione della dittatura padronale sull'uso della forza-lavoro. La coscienza della necessità, contro il carovita come contro la stessa dimensione generale della ristrutturazione, della lotta generale è un patrimonio profondo della classe operaia, e sta dietro l'impegno nella lotta sociale. Essa mette all'ordine del giorno obiettivi generali, dalla rivendicazione della riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario e di occupazione a quella di forti aumenti salariali egualitari, a quelle legate alla difesa della « rigidità » operaia obiettivi che sono già presenti in molte situazioni (nei chimici, nella siderurgia e che si saldano con la rivendicazione dell'anticipazione di tutti i contratti di lavoro. Ma è fondamentale, in questa fase, far vivere quegli obiettivi e quella rivendicazione generale nella lotta interna, nella mobilitazione e nell'iniziativa diretta dei settori operai di avanguardia nella sconfessione pratica, con la lotta, della linea della cogestione della crisi: sarebbe un grave errore abbandonare la lotta politica sui e nei consigli, nel momento in cui sul loro esautoramento politico totale si vuole far passare perfino formalmente una definitiva normalizzazione burocratica: ma certo i consigli di fabbrica non hanno oggi, nelle situazioni decisive, la forza di dirigere la lotta di fabbrica, e tanto meno di far da tramite alla generalizzazione della lotta. È significativa e feconda la spinta, che va diffondendosi e precisandosi, alla ricostruzione nei reparti della rappresentanza operaia, in funzione dell'iniziativa diretta di lotta e di una nuova comunicazione di direzione in fabbrica a partire dalle avanguardie reali.
La crescita di questa tendenza, il suo scontro con i consigli e gli esecutivi e il suo legame con ciò che è vitale nell'organizzazione dei delegati è un obiettivo preciso di questa fase. Gli esempi iniziali di un intervento organizzato delle avanguardie operaie a partire dai picchetti contro gli straordinari (che sono oggi insieme alla reintroduzione massiccia delle paghe « nere », lo strumento fondamentale di divisione operaia all'esterno della fabbrica e con un collegamento tra fabbriche diverse, costituiscono una importante indicazione.

Vertenza sindacale e governo

L'andamento della vertenza sindacale è messo in forse: dalle tensioni dentro il governo e i partiti della maggioranza. La promessa di Lama - « chiuderemo entro Natale » - è finita in soffitta. Nelle posizioni assunte dal governo, nessuna soluzione è stata proposta sulla « garanzia del salario », sulle pensioni e sulla contingenza. Tutto è fermo alla richiesta governativa del blocco dei salari. Queste posizioni hanno praticamente obbligato alla convocazione dello sciopero un sindacato che avverte con paura la tensione nel movimento di massa. L'irrigidimento dell'attacco padronale - sostituzione della trattativa sulla contingenza con quella sugli assegni familiari, che spettano solo agli operai stabilmente occupati; liquidazione degli scatti di anzianità, ormai diventati da strumento dell'« affezione » operaia, intralcio alla mobilità -, la manovra di drastica divisione salariale tra nord e sud, la pesante riduzione del salario nel pubblico impiego, sono altrettanti elementi di aggravamento delle tensioni. Il governo Moro unifica, nella sua composizione e nella sua pratica, i tratti dell'offensiva del grande capitale con quelli espliciti e provocatori della reazione.

La natura del governo Moro

La sua natura ambiguamente reazionaria sta sotto a gli occhi di tutti, ed esige una risposta aperta. Siamo di fronte alla mostruosa possibilità che Freda e Ventura siano scarcerati, mentre è una possibilità imminente la scarcerazione di Miceli. Avocazione (e affossamento) delle inchieste antigolpiste; accelerazione della ristrutturazione delle FF.AA. e spaventosi aumenti del bilancio militare, su ordine diretto degli americani; realizzazione del fermo di polizia sotto le mentite spoglie del decreto sulle armi improprie: non sono che alcuni anelli di una catena impressionante che salda attacco antioperaio e attacco antidemocratico. Si tratta, per la D.C., di prendersi la rivincita sui risultati della mobilitazione antifascista degli ultimi anni, e di restaurare il controllo e la compattezza dell'apparato centrale dello stato - dall'uso della cassazione di Colli alla magistratura romana; dal rilancio delle revisioni costituzionali alle regalie provocatorie a una ristretta cerchia di superburocrati; dai poteri di polizia alle spese militari.
Abbiamo detto « ambiguamente reazionario » e in realtà il governo Moro nasce su questa ambiguità e su essa si appoggia. Immaginato come il governo di una D.C. sbilanciata a sinistra, costretto a scegliere un rapporto esclusivo col PSI, il governo Moro diventa subito quello della astensione dei liberali, dei ricatti di Tanassi, delle firme democristiane per il fermo di polizia. Si mescolano in questo governo i tratti di componenti, dal PSDI al centro della DC, apertamente reazionarie con quelli di componenti, come il PSI, ridotte a ostaggio non più solo della DC, ma della manovra reazionaria della DC. II giudizio che noi stessi abbiamo dato sul personaggio Moro ne esce confermato e precisato: non un democratico ma un manipolatore di democrazia, nemico infastidito e spaventato delle ingerenze popolari sugli affari dello stato, servitore devoto della solidità e dell'autorità di uno stato nei cui corpi va ricondotta e sciolta ogni contraddizione. Come il vecchio Giolitti, al quale gli piace di assomigliare, mescola malavita e lusinghe mediatrici, teme le «forze inorganiche » - la lotta di classe - e ama quelle organiche come i sindacati su cui inventa costruzioni pluralistiche alle quali il governatore della Banca d'Italia s'incarica di dare il solido contenuto corporativo che occorre. Che questa ambiguità minacci costantemente il governo dal suo interno è un fatto: bolle la destra democristiana, e i socialisti, bontà loro, devono ricominciare a brontolare. La rissa nei corpi separati è assopita, ma cova furibonda. Il « compromesso storico » a Venezia, la giunta di sinistra a Mantova e il minaccioso approssimarsi delle elezioni regionali (che molti, nella DC, vorrebbero sostituire con quelle politiche, dove, in termini di potere materiale, contano di perdere di meno) sono altrettanti fattori di fragilità del governo. I sindacati - e anche il Corriere della Sera - hanno le maggiori ragioni per essere preoccupati. Da una parte c'è la paura di una situazione sociale vista come una polveriera (nell'ultima riunione confederale arriva un burocrate della CISL e dice: « le federazioni dei pensionati stanno discutendo il blocco dei nodi ferroviari »; quello dei ferrovieri dice che tutti vogliono lo sciopero di 24 ore, e così via); dall'altra, la sensazione di un tradimento - « il governo ha una posizione imprevista », dice la CISL - che rischia di mandare a carte 48 gli ambiziosi progetti di ridistribuzione dei poteri interni e di accordi quadro E' una riprova, più rapida delle previsioni ,dell'acutezza della crisi democristiana e della pesante inerzia delle contraddizioni nel regime con cui il programma di ristrutturazione si scontra. Scricchiola il controllo sugli enti locali, sui dipendenti pubblici; e le conseguenze sul sud della politica economica fanno temere l'esplosione.

Governo Moro e centralità democristiana

La crisi del 5° governo Rumor era stata salutata dal grande capitale con l'annuncio della cassa integrazione alla FIAT; la nascita del governo Moro con l'accordo sul ponte e sullo stoccaggio. In queste date è sintetizzata in modo emblematico la natura del governo Moro. Esso ha potuto fare suo non il programma di un « rilancio » della economia, per impegnarsi in una donchisciottesca battaglia contro i mulini a vento della crisi mondiale, ma il programma di assecondare la crisi fino in fondo, perché il grande capitale era ormai pronto ad affrontarla con una ristrutturazione generale. Il governo Moro è il governo della Confindustria; il suo programma è quello di imprimere pienamente alla bestione della crisi il segno del grande capitale. Ma il governo Moro è, anche, il governo della difesa e del rilancio della centralità democristiana, perché il grande capitale ha dimostrato, e dichiarato, di non saper gestire la crisi senza la DC. Ristrutturazione della DC e ristrutturazione economica dovrebbero così marciare di pari passo nelle scelte pratiche come nelle linee programmatiche del governo: in questa operazione, tesa a riunificare gli strumenti del regime democristiano con la Confindustria, il fascismo di stato con il grande capitale, che la crisi e la lotta di classe avevano rischiato di dividere, stanno la forza ed insieme la fragilità del governo Moro. La forza è la rete di ricatti e di minacce fatte pesare sui vertici del PCI e sul movimento sindacale per costringerli ad assistere impotenti o a rendersi conto di una operazione di ridimensionamento, anche istituzionale, del peso dell'opposizione, cui Moro lavora da tempo con la sua « strategia dell'attenzione ». La debolezza sta nel fatto che le sorti di una gestione capitalistica della crisi sono sempre più strettamente e irreversibilmente legate alle sorti della DC. Questo vuol dire innanzitutto che oggi il governo Moro, la sua pratica scopertamente reazionaria come il suo programma apertamente padronale, rappresentano nella loro sostanza non una scelta di breve respiro per tirare a campare qualche mese in più, ma una scelta generale, a cui sono legate le sorti della gestione capitalistica della crisi. Che questo governo sia debole e minato al suo stesso interno è un segno della forza operaia e della acutezza a cui è giunto lo scontro di classe, ma questo non toglie che esso oggi rappresenti il nemico principale con cui la forza operaia si trova a dover fare i conti. Senza il soccorso del grande capitale italiano e internazionale la crisi della DC sarebbe ormai esplosa in una aperta spaccatura al suo interno. Senza l'unità e la adesione della DC e del suo regime, ristrutturare, cioè colpire al cuore, innanzitutto dentro la fabbrica, la forza della classe operaia, sarebbe, per il grande capitale impossibile. Per questo le scadenze che la DC si trova di fronte, dalle elezioni regionali alla tesa dei conti tra le sue componenti, sono questioni centrali per la lotta di classe e per la lotta operaia. In particolare, se è vero che le elezioni sono un terreno impegnativo di verifica della misura in cui Moro, o chi gli succedesse in un ennesimo riaggiustamento, sarà riuscito ad arginare la crisi democristiana, non va dimenticato che i risultati elettorali non sono che il riflesso, certamente non meccanico, della misura in cui lo scontro di classe è arrivato a colpire e disarticolare il regime democristiano. In particolare, di fronte a queste scadenze, la questione decisiva sarà se la DC ci arriva sconfitta dal movimento di massa, o comunque impegnata a fare i conti in campo aperto con la forza della classe, o se ci arriverà avendo segnato dei punti decisivi sul terreno della ristrutturazione, dell'attacco al salario e all'occupazione E' la lotta insomma che decide, e decide anche del voto.

La sconfitta della D.C.

Quali sbocchi si possono aprire sul terreno istituzionale di fronte alla possibilità che la crisi della DC vada verso una precipitazione?
Su questo problema, più che mai, dobbiamo evitare di ragionare come se questi sbocchi dipendessero da noi, dalle nostre scelte, o addirittura dalle nostre preferenze, e non invece dalla dinamica della lotta di massa, dalle tendenze di un movimento che a noi spetta riconoscere, assecondare e cercare di dirigere, perché sia più forte, perché vada fino in fondo, perché sia vincente. Quello che ormai da più di un anno noi dibattiamo come il problema del governo, o anche, molto più spesso, come il problema del PCI al governo, si pone esattamente in questi termini. La verità è che il governo Moro, e dietro ad esso la DC, e con la DC tutto il regime che ha dominato l'Italia per conto del grande capitale negli ultimi 30 anni, si trovano stretti tra la crisi generale del capitalismo e la forza di un movimento di massa capaci di determinarne il tracollo. Questa prospettiva non è affatto certa, ma è necessario riconoscere che la sua possibilità sta nella realtà del movimento, e che adesso dobbiamo lavorare perché il fatto che non si realizzi non può ormai che coincidere con una sconfitta storica della classe operaia.
La consumazione della crisi della DC come perno dell'attuale regime segnerebbe in modo drastico il passaggio ad una nuova fase della lotta di classe in Italia, mentre esso costituisce l'obiettivo politico centrale di questa fase. La crisi e il collasso della DC non mettono all'ordine de] giorno la presa del potere. Nelle nostre tesi abbiamo riportato - una delle poche - una vecchia frase di Mao che dice: « La possibilità di aprire un processo rivoluzionario nei paesi europei vi sarà quando la borghesia sarà veramente ridotta all'impotenza, e quando la maggioranza del proletariato sarà decisa a condurre l'insurrezione armata ed una guerra ». Noi siamo convinti che la crisi della DC inibisca, in misura certo non definitiva, ma sostanziale, le possibilità di gestione capitalistica della crisi, ma questo non significa certo che la borghesia è ridotta all'impotenza. Si può e si deve mettere all'ordine del giorno questa sconfitta storica della DC, e sull'onda di una lotta di massa di cui oggi distinguiamo i segni premonitori, ma questo non significa che la maggioranza del proletariato sia preparata a condurre un'insurrezione armata e la guerra. Stanno in questi limiti i compiti della lotta di massa e della sua direzione rivoluzionaria nella prossima fase: ridurre la borghesia all'impotenza, conquistare, materialmente e non solo ideologicamente, la maggioranza del proletariato alla prospettiva della rivoluzione.

Crisi della D.C. e situazione internazionale

È questa una prospettiva resa concreta dalla situazione storica in cui si sta consumando la crisi della DC. Questa situazione è caratterizzata da una crisi mondiale del capitale che porta al pettine i nodi accumulati nei 30 anni dello sviluppo postbellico sotto l'egemonia dell'imperialismo USA. Una crisi che ha nella forza della classe operaia il risvolto costante e che con molta probabilità, già a partire da quest'anno, arriverà ad intaccare quello che finora è stato il principale baluardo della stabilità economica, della presenza Nord americana e della identità politica della borghesia europea: la Germania. Una crisi destinata ad acutizzare al massimo l'aggressività e la tendenza alla guerra dell'imperialismo, come già oggi e siamo solo agli inizi, possiamo constatare per il medio oriente, e che deve vedere i rivoluzionari e i proletari di tutto il mondo impegnati a mobilitarsi ed a lottare per fermare la mano dell'imperialismo, dei suoi servi, per sottrarsi con la forza alla prospettiva altrimenti certa di subire questa logica di guerra. Una crisi infine che tra recessione e inflazione ha già provocato nel Mediterraneo, in Grecia e in Portogallo, il crollo di due regimi una volta ritenuti tanto solidi quanto reazionari, ed ha messo in moto in Portogallo un processo che, pur traendo origine da fenomeni come il colonialismo, estranei alla situazione italiana, mostra però in modo esemplare quali sono le condizioni attraverso cui è necessario passare perché la borghesia sia ridotta all'impotenza ed il proletariato conquistato ad una prospettiva concreta di lotta armata: 1a disgregazione dell'apparato statale, fino al suo nucleo centrale costituito dalle Forze Armate, sotto la spinta della lotta di massa. Di fronte al collasso della DC, le prospettive aperte sul piano istituzionale non sarebbero molte: una svolta reazionaria, golpista o comunque apertamente reazionaria, che si appoggi sa quello che è il nucleo del regime e dello stato, le forze armate, che la crisi della DC coinvolge e al tempo stesso rende progressivamente autonome; oppure un mutamento di regime, che abbia nel PCI l'asse di un nuovo schieramento governativo. Noi riteniamo che, ad onta di un processo di adeguamento « tecnico » e politico delle Forze Armate ai loro « nuovi compiti » che procede a tappe forzate, una risposta generale di massa, che metta in campo la forza e la maturità politica e organizzativa del proletariato, ha la possibilità di sventare o battere un, colpo di stato in Italia o il tentativo di una svolta apertamente autoritaria. Noi diciamo che il colpo di stato può essere battuto, e non che esso non è possibile. La differenza è decisiva. La prima cosa è un impegno a mettere questo problema all'ordine del giorno, per affrontarlo politicamente nella vera sede dove deve essere affrontato: con le masse, dentro il lavoro di massa. Le parole d'ordine di carattere generale sulla messa fuorilegge dell'MSI, sull'organizzazione democratica dei soldati ecc. e la loro articolazione pratica, sono strumenti precisi di orientamento c di armamento politico delle masse su questo terreno. L'esperienza dei primi giorni di novembre, ricca di lezioni, ha fatto emergere la divergenza fra un modo di affrontare la possibilità del colpo di forza reazionario (magari proclamando demagogicamente che è impossibile) dandone per scontata la vittoria e preoccupandosi di salvaguardare la sopravvivenza dell'organizzazione, e un modo di affrontarla offensivo, che chiami all'azione le masse, la loro coscienza, la loro conoscenza.

Il mutamento di regime

Un cambiamento di regime che abbia il suo asse nella presenza del PCI al governo significherebbe, per il processo stesso di cui sarebbe lo sbocco, una riduzione drastica della possibilità di una gestione capitalistica della crisi. Questo è il modo in cui noi guardiamo ad una simile prospettiva, riconoscendovi una accresciuta possibilità della gestione operaia della crisi, di una lotta diretta a ridurre la borghesia all'impotenza e a conquistare il proletariato all'insurrezione.
Opposta evidentemente sarebbe la prospettiva di una borghesia costretta dalla forza delle masse e dall'inadeguatezza delle alternative politiche a consegnare nelle mani del PCI alcune leve del governo, in attesa di ripristinare le condizioni per mettere in moto la macchina della ristrutturazione e per riassumere in prima persona la repressione. E opposta sarebbe anche la prospettiva del PCI stesso.
Nel dibattito su questi temi, molti, fuori da noi, sembrano temere Che prevalgano in una situazione di questo genere i pericoli insiti nel ruolo repressivo del PCI. Un ruolo indubbio e ineliminabile di repressione connaturato all'organizzazione revisionista non riesce a prevalere oggi nei confronti dell'autonomia delle masse, e ben difficilmente potrebbe imporsi su un movimento di massa uscito da una offensiva vittoriosa. Questa è la nostra opinione, che non sottovaluta la natura revisionista ma si rifiuta di sottovalutare la forza delle masse; e tuttavia il problema non è questo. Il problema è che se pensiamo che la crisi della DC non possa avere un esito diverso (se non per una sconfitta storica del movimento, come nel caso di una vittoria reazionaria) allora - per i rivoluzionari - si tratta di lavorare perché l'autonomia delle masse dalla direzione riformista e revisionista sia la più forte possibile.
Noi non vediamo la validità e la possibilità di altre ipotesi. Le formulazioni su un « governo delle sinistre » in cui sembra affiorare un riequilibrio di forze fra uno schieramento composito - fra socialisti, e certe forze cattoliche, e certi settori della sinistra rivoluzionaria - hanno tutti i connotati di un'operazione (che ha d'occhio soprattutto il sindacato) candidata a sostituire, possibilmente senza troppe scosse, la DC nella gestione della crisi e della ristrutturazione. È comunque una velleità stretta fra la forza della crisi e quella della classe, senza alcuna possibilità di successo. Così com'è una velleità, oltre che una profonda mistificazione della natura della direzione revisionista, la formula della « nuova opposizione », buona solo fintantoché il regime democristiano tiene, senza di che non si capisce di quale governo le sinistre, dal PSI in giù, vorrebbero essere opposizioni.

Sulle altre organizzazioni della sinistra

C'è un aspetto nel processo in atto nelle forze della sinistra rivoluzionaria, comprese alcune minori di natura locale, che dev'essere considerato positivamente, come un frutto — ben più maturo in Italia che in altri paesi europei — della forza e della ricchezza politica del proletariato. È la progressiva caduta di demarcazioni astratte e ideologiche, e la corrispondente tendenza al confronto con la realtà e i problemi che dalla realtà nascono. Questo processo costituisce il fondamento di un rapporto nuovo e positivo fra noi e queste forze, che superi le chiusure o l'empirismo tradizionale. Io credo che dobbiamo dare importanza a questo processo, e alle occasioni che obiettivamente offre, più che alle soluzioni che esso riceve e che sono spesso delle più negative. L'unificazione fra PDUP e Manifesto sembra aver sommato le debolezze complementari di queste formazioni, mettendo in moto una dinamica accelerata verso la parlamentarizzazione, sempre più organica e indiscussa, di una linea riformista sulla crisi. In Avanguardia operaia sembra dominante un vuoto pesante di indicazioni di linea che, se non è nuovo, esprime tuttavia una disponibilità nuova di fronte al crollo dell'impalcatura dottrinario-burocratica che tradizionalmente, in questa organizzazione, aveva avuto il ruolo di mascherare e colmare quel vuoto. Non affrontare organicamente il rapporto con queste forze, che non stanno, nel loro corpo sociale, fuori dal movimento di classe, ma al suo interno, equivale a subire questo rapporto. Noi abbiamo fino ad oggi in alcune occasioni sviluppato la battaglia politica con queste forze; in altre occasioni realizzato forme di unità d'azione. La verità è che nella maggior parte dei casi abbiamo fastidiosamente subito sia la necessità di condurre una battaglia politica, sia un'unità d'azione povera, casuale logorante. Non può continuare così. Le divergenze di fondo che ci separano da queste organizzazioni escludono dal nostro orizzonte ogni possibilità di accettare una linea di aggregazione di partito. Questa indiscutibile convinzione non chiude tuttavia il problema reale di questa fase, che è quello di sollecitare metodicamente queste forze a una positiva unità d'azione. La battaglia politica contro queste forze sui temi più generali della autonomia operaia, del programma, del partito, del processo rivoluzionario non deve essere il surrogato, ma lo strumento di una costante proposta positiva di unità nella lotta. L'egemonia nella lotta su queste forze è un compito che ci spetta, e che dobbiamo curare con un'attenzione specifica, senza considerarlo un risultato meccanico della nostra iniziativa, e senza ritenere, peggio ancora, che la sua assenza sia un bene, che le scelte sbagliate di queste forze siano un bene. Queste forze non sono destinate a scomparire, né noi possiamo lavorare sull'ipotesi di una loro scomparsa. Queste forze sono destinate a sopravvivere, perché sono espressione di tendenze, posizioni parziali e domande presenti nel movimento. Non è nemmeno discutibile, per noi, la possibilità di subordinare il nostro lavoro di massa all'unità con queste forze. Il problema è il grado di intelligenza politica e di impegno pratico che dedichiamo a perseguire un'egemonia, che non può che andare a vantaggio del nostro stesso lavoro di massa. Questo è possibile, è reso possibile proprio dall'opportunismo e dalla fragilità politica di queste forze, oltreché dal fatto che molti loro militanti sono sensibili, per la loro stessa collocazione nelle masse, alla pressione delle masse. Esperienze recenti, dai decreti delegati (per una mancanza di iniziativa nostra, dovuta al ritardo con cui abbiamo sciolto questo nodo) alle lotte per la casa, all'autoriduzione, all'antifascismo, mostrano una grossa debolezza nella nostra capacità di egemonia, e ne mostrano anche le conseguenze non positive. Su problemi importanti come il lavoro nelle forze armate la nostra capacità di egemonia è rilevante, ma dovrebbe e potrebbe essere maggiore, se più attenzione le venisse dedicata. Su temi di mobilitazione generale antifascista, com'è oggi per la mobilitazione contro le avocazioni delle inchieste, contro la Cassazione, contro la legge sulle armi ecc., l'unità con queste forze è un obiettivo utile e possibile. Così è per campagne specifiche come quella per l'aborto, sulla quale c'è un preciso consenso. In generale, noi dobbiamo alzare il tiro della battaglia politica per alzare il tiro dell'unità di azione, e armare meglio, nel rapporto con i militanti di queste forze, tutti i nostri militanti. Nella battaglia politica, non dobbiamo trascurare l'utilità del nostro intervento sulle contraddizioni che si aprono all'interno di queste forze, per contribuire a indebolire o a impedire scelte che consideriamo sbagliate e dannose. La discussione sulla presentazione elettorale è un esempio attuale, ma non il solo.
Noi abbiamo fiducia nelle masse, abbiamo fiducia nella nostra linea politica: queste sono ottime ragioni per impegnare ogni militante di Lotta Continua nella battaglia politica e nella proposta di unità d'azione verso i militanti delle altre organizzazioni, comprese quelle minori di natura locale; per impegnarci senza reticenze, e senza superbie.

Le elezioni

Nell'affrontare la questione delle scadenze elettorali il punto di partenza non può essere che la riaffermazione del fatto che la partecipazione, diretta o indiretta, o l'astensione elettorale non costituiscono per noi delle discriminanti di principio, bensì scelte tattiche subordinate a un giudizio determinato in ciascun momento.
In questa fase, noi siamo contrari all'ipotesi, proposta invece da altre organizzazioni, di una presentazione elettorale da parte della sinistra rivoluzionaria. Non si oppone a questo, lo ripetiamo, né una ragione di principio, né la considerazione, pur fondata ma superabile, delle forti differenze e divergenze tra organizzazioni della sinistra rivoluzionaria. La nostra posizione dipende dal giudizio sulla fase attuale. In una scadenza elettorale, che ci vedrà pienamente impegnati, come e più che nel referendum, noi metteremo al primo posto due obiettivi principali fra loro saldamente legati: il rafforzamento dell'unità e dell'autonomia della classe sul programma dei bisogni proletari contro la crisi, e la sconfitta della DC e del suo regime. Sul primo aspetto noi fondiamo l'autonomia del nostro impegno in una scadenza elettorale, facendone un'occasione importante per la generalizzazione e l'articolazione della direzione operaia, facendone il terreno fondamentale del nostro rafforzamento di partito e di scontro con il programma revisionista. Al secondo aspetto leghiamo la scelta di indicare il voto al PCI, nella convinzione che essa raccolga nel modo più favorevole l'unità del movimento di massa, che è la garanzia maggiore contro ogni scioglimento a destra della contraddizione istituzionale che in questa fase continua a opporre la DC al PCI. Le ragioni addotte in favore di un uso della scadenza elettorale che allarghi il riconoscimento della nostra presenza attraverso il voto sono, a nostro parere, largamente inferiori alle ragioni di una azione che faccia crescere nella lotta, nell'organizzazione, nel programma delle masse la nostra presenza, e su quella assicuri al tempo stesso l'uso della contraddizione tra borghesia e revisionismo, e l'autonomia strategica dal revisionismo.
Questa nostra posizione - come è ampiamente detto nelle tesi - deriva da un giudizio preciso sul partito revisionista. Noi non facciamo dipendere la opportunità di indicare un voto per il PCI dall'evoluzione della linea politica del PCI. A differenza di altri, noi non nutriamo illusioni sulla linea politica del PCI, che l'approfondirsi della crisi e della radicalità dello scontro di classe influenza necessariamente nel senso di un crescente cedimento alla gestione capitalistica della crisi, di una crescente, e spesso brusca, divaricazione dai bisogni e dalla volontà politica delle masse. Le contraddizioni tattiche, pur presenti e probabilmente destinate ad accentuarsi, nel gruppo dirigente e nella linea revisionista non costituiscono affatto- per noi, il fondamento di una tattica nei confronti del PCI. La crisi, dal luglio '70 al compromesso storico, all'attuale tentativo di sistemazione di una linea autorizzata dagli equilibri imperialisti, non ha fatto che provocare una serie di strappi a destra nella linea del PCI, spingendola verso una compiuta socialdemocratizzazione, sciogliendo progressivamente le mediazioni fra gli elementi piccolo-borghesi, medio-borghesi e grandi-borghesi nel senso di una subordinazione esplicita della « politica delle alleanze » al programma del grande capitale. Era prevedibile che ciò avvenisse, e noi l'abbiamo costantemente previsto. La crisi è sempre il banco di prova fondamentale per le forze del movimento operaio, lo è fino alle ultime conseguenze, quando la forza dell'autonomia di classe, l'indipendenza della lotta di classe dall'evoluzione del ciclo economico rivela, come è oggi, e da cinque anni, la natura e la profondità nuova della crisi sul piano internazionale come su quello nazionale. (Questo vale oggi, fra l'altro, per il giudizio su altre forze politiche minori, contraddittoriamente schierate in questi anni all'interno dell'area rivoluzionaria, nelle quali sempre più forte si fa la spinta all'opportunismo e alla liquidazione dell'ipotesi rivoluzionaria).

Le contraddizioni del revisionismo

Ma il revisionismo non può essere definito solo per la sua linea politica, o per la sua ideologia, bensì anche per la sua base sociale (intesa nel senso più ampio, e non nella sola accezione di partito). Se il revisionismo fosse solo la sua linea politica, non esisterebbe come tale; e non esisterebbe come tale se fosse solo la sua base operaia e proletaria. Qualunque analisi del revisionismo che abolisca uno dei due termini abolisce in realtà la contraddizione, e non è capace di fondare materialmente sulla contraddizione il confronto col revisionismo. Si capisce così che chi ignori o sottovaluti questa contraddizione, sia portato o a identificare strategia e tattica, o a definire la tattica come rapporto fra rivoluzionari e classe, quasi che la classe fosse una lavagna bianca, e che nella classe non ci fosse il peso complesso della composizione strutturale, della composizione politica, dello scontro e dell'incontro fra il nuovo e il vecchio.
Che cosa, se non il carattere specifico di questa contraddizione in Italia ha costituito l'ostacolo principale a una socialdemocratizzazione del PCI compiuta e riconosciuta dalla borghesia; che cosa, se non la diversa composizione, il diverso patrimonio storico, e soprattutto la diversa forza dell'autonomia della classe operaia italiana rispetto a quella della Germania, rendono diverso il PCI dall'SPD, che pure ha una base operaia?
1 rivoluzionari non possono fare affidamento su una trasformazione della strategia revisionista; non possono fare affidamento sull'ipotesi e sull'attesa di scissioni verticali nel PCI; e non possono fare affidamento a un passaggio rapido e permanente della base sociale influenzata dal riformismo e dal revisionismo nelle loro file.
Queste sono le premesse con cui i rivoluzionari fanno i conti, per assolvere al loro ruolo, battendosi contro ogni tendenza minoritaria e immobilista, contro ogni tendenza a rinviare al futuro il loro impegno di direzione generale. 1 rivoluzionari sanno che è nel rapporto di forza realizzato nella classe, nella sua lotta, la condizione per affrontare il revisionismo. Ma se La sconfitta della direzione revisionista sulle masse è il problema di tutta una fase della lotta di classe; se, in ogni occasione di lotta, dalla più particolare alla più generale, questo problema si ripropone, e l'espressione dell'interesse autonomo di classe riesce a imporsi al revisionismo, ma non lo espelle definitivamente dalla scena, bensì lo vede permanere e ricomparire, dentro e al di là della lotta; se tutto questo è vero il problema è esattamente quello del costo che il revisionismo paga a questa contraddizione in termini di controllo reale delle masse, di unità delle masse, di autonomia di programma delle masse, di rafforzamento dell'egemonia e della conquista diretta di avanguardie del partito rivoluzionario. La crisi rafforza la divaricazione fra direzione revisionista e bisogni e coscienza autonoma della classe, e questa è la tendenza fondamentale la base materiale dei nostri compiti e della nostra crescita. Ma non è la sola tendenza. Nel revisionismo non c'è solo il rapporto di fiducia e di identificazione strategica, che pure c'è, ma si riduce sempre di più nello sviluppo della lotta fra settori operai e proletari e direzione revisionista; c'è il rapporto, rafforzato dalla crescente coscienza proletaria della natura generale dello scontro, col carattere generale dell'organizzazione revisionista, e l'assenza sostanziale di un'organizzazione generale alternativa, il che equivale a dire che agli occhi della maggioranza del proletariato lo sbocco istituzionale della lotta anche più radicale contro la crisi e il regime governativo della crisi si identifica con la prospettiva della sconfitta democristiana, e di un governo col PCI; c'è il rapporto legato alla coscienza di massa della portata generale dell'antifascismo, che porta non alla subalternità, ma certo alla utilizzazione della contraddizione reale fra reazione borghese e revisionismo; c'è il rapporto alimentato nei comportamenti sociali, nei modi di pensare, nella spinta alla democratizzazione, dalla liberazione di consistenti forze sociali dal controllo clericale e democristiano - c'è tutto questo. E tutto questo significa che il ruolo maggioritario del PCI si fa più contraddittorio e vulnerabile, ma che non tende puramente e semplicemente a scomparire. E un governo col PCI non scioglierebbe meccanicamente questa duplice tendenza, ma al contrario la esalterebbe, radicalizzando la contraddizione fra PCI e programma dei bisogni proletari da una parte, e la contraddizione fra PCI e reazione borghese dall'altra.
La tragica frase dell'operaio cileno (« È un governo di merda, ma è il mio governo ») varrebbe anche nella nostra situazione, anche se altri sono da noi i rapporti di forza e la maturità raggiunta dall'autonomia operaia. Il problema è di non restare imprigionati in questa contraddizione, fino a consentire che si compia il destino di disarmo e di disfatta che il revisionismo assicura alla classe operaia. È un problema al quale sfugge chi semplicemente lo ignora.

La forza del partito

E' questo il problema del partito. E' il problema di radicarsi nei punti più alti dell'antagonismo di classe, di conquistare lì la maggioranza, di far leva sull'iniziativa dei punti più alti per conquistare nella lotta la maggioranza del proletariato, di rovesciare contro la direzione revisionista e riformista, che è forte dell'isolamento delle lotte, il suo rapporto generale con la classe. E' solo confusione una certa abituale distinzione fra azione d'avanguardia e azione di massa, dove si riduce la concezione dell'azione d'avanguardia a quella dell'azione di partito, e, per di più, di un partito organicamente separato dalla classe. Da qui nascono molte propensioni a porre in termini soggettivisti, di forzatura, di anticipazione, di esemplarità i compiti del partito. In ultima istanza, è un partito di questo tipo, e una concezione di questo tipo, che porta a immaginare una resa dei conti fra il potere militare della borghesia e il potere militare del partito. Avanguardia e massa sono termini che non si esauriscono nel rapporto tra partito e classe, ma penetrano nella classe, nella sua composizione oggettiva, nella sua composizione politica. Dal singolo reparto fino al confronto generale fra le classi, vive una dialettica costante fra avanguardia e massa, e vive tanto più organicamente quanto più organico è il rapporto fra, i due termini, quanto più la classe, appunto, è l'acqua, e i suoi combattenti di avanguardia i pesci. Opporsi al soggettivismo minoritario del partito, rafforzare la capacità di iniziativa del partito, fare del partito una organizzazione di combattimento, coincide per questo con una costruzione del partito adeguata a una teoria e un programma d'avanguardia -- la teoria dell'autonomia operaia, della direzione operaia sull'unificazione del proletariato -, capace di percorrere la dialettica avanguardia-massa, iniziativa-unità, nel movimento reale, e non di rappresentarla parassitariamente.
Questo dicono le nostre tesi sul partito, questo vuol dire l'affermazione che il centralismo democratico regola, nella sostanza, il rapporto fra partito e classe. A questa costruzione del partito è legata la possibilità di assumere l'iniziativa, fino al momento in cui il problema dell'iniziativa è destinato a presentarsi nei suoi termini decisivi - e il Cile insegna. Questo dice la tesi sulla forza, dove afferma che « la linea di massa deve essere applicata rigorosamente al problema della forza; questo principio vale in qualunque circostanza particolare dell'azione rivoluzionaria ».
Come giudichiamo la nostra organizzazione?
Dicevo, all'inizio di questa parte della relazione, che all'analisi e al giudizio sullo stato del movimento si lega l'analisi e il giudizio sulla nostra organizzazione, la risposta alla domanda « quanti siamo ». A questo deve legarsi la nostra autocritica, e la nostra indicazione di prospettiva sul radicamento fra le masse, sul reclutamento fra le masse. lo credo che possiamo dare una risposta positiva, senza evitare di sottolineare le debolezze, gli errori, le cose da fare.
Credo però che possiamo dare una risposta positiva, e sottopongo al giudizio e alla critica del congresso questa affermazione impegnativa. La commissione che si chiama col brutto nome di « verifica poteri » ci darà una serie di cifre, tanti militanti, tante sedi, tante città, tanti operai, tanti studenti, e così via. Anche quelle cifre aride esprimeranno un'indicazione politica, ma certo bisogna saper andare dentro quelle cifre. Sapere quanti siamo e chi siamo alla FIAT e all'Italsider, quanti siamo e chi siamo nelle piccole fabbriche in lotta, quanti siamo e chi siamo a San Basilio o alla Falchera, quanti siamo e chi siamo negli istituti tecnici di Palermo e nelle caserme, e così via. E anche dove non siamo, o dove siamo male, e perché. Il lavoro congressuale ci ha messi di fronte a noi stessi: ed è uno dei suoi risultati più importanti. lo credo che possiamo dare un giudizio positivo, credo che il congresso rende più forte ciascuno di noi, credo che d da questo parziale punto d'arrivo, con una modestia e una consepevolezza maggiori, possiamo orientare l'estensione e il radicamento del nostro intervento. Possiamo, cioè, costruire con più successo il partito, seguendo il filo dell'attacco della borghesia e della risposta operaia e proletaria. Da un errore dobbiamo guardarci dallo schematismo di un'analisi che vede la risposta operaia corte la rincorsa speculare, il rovesciamento puntuale dell'attacco capitalista. Esso non può essere spezzato inseguendone i passaggi, e smarrendone la dimensione complessiva. Ben diverse sono le forme dell'iniziativa operaia da quelle dell'esercizio del potere padronale. La ristrutturazione è un esempio. Guai se noi abbandonassimo la lotta più intransigente a partire dalle articolazioni più particolari dello attacco padronale, dalle squadre, dai reparti, dalle officine. Ma da questa lotta, all'attacco padronale c'è un salto che non può essere colmato attraverso un percorso graduale dal reparto ai rapporti sociali complessivi. A una ristrutturazione che non è più solo di fabbrica e di settore, ma che investe globalmente la composizione della classe operaia, non si può rispondere adeguatamente se non con un'iniziativa generale ed esplicitamente politica della classe operaia. Tutte le battaglie devono essere combattute, molte possono essere perse, ma bisogna guardare alla guerra. Abbiamo a visto nelle lotte alcuni effetti della dinamica della crisi sulla classe, sulle sue componenti. E non solo e non tanto nella forma delle lotte, ma nel loro contenuto. Abbiamo visto la qualità nuova di una lotta operaia sul terreno sociale che raccoglie e usa la sfida dell'inflazione. Abbiamo visto la qualità muova di una lotta degli studenti che sta in rapporto diretto con la crisi, con la ristrutturazione e la violenza padronale sul mercato del lavoro. Abbiamo visto, attraverso varchi diversi, aprirsi la strada in modo nuovo il proletariato femminile. La crisi scompone struttura e comportamenti sociali, modifica i rapporti reciproci fra i diversi settori proletari, manda alla ribalta nuovi contenuti e forme di lotta. E' a questa analisi che dobbiamo affidare con maggiore organicità il nostro intervento. E tuttavia dobbiamo guardarci da una unilaterale, e quindi falsa, teoria, che rincorre le modificazioni strutturali, e ad esse di volta in volta piega e riduce l'organizzazione, ignorando così di fatto l'autonomia che pure esalta; se è vero, come noi crediamo e vediamo nella pratica, che l'autonomia rovescia la dipendenza della lotta dal ciclo economico, questo vuol dire soprattutto che l'autonomia non è un fantasma metafisico, ma è il patrimonio di coscienza, di esperienza, di forza e di organizzazione accumulata dalla classe operaia. Se Mirafiori è dura a morire, se Mirafiori non cessa di stare all'avanguardia la ragione è questa. È questa anche la ragione della continuità e della saldezza nella costruzione del partito, che noi rifiutiamo fermamente di ridurre a espressione mutevole di diversi momenti e forme di lotta, secondo una teoria del « suicidio dell'organizzazione » che ha già condotto altre organizzazioni al suicidio, e che oggi pretende di ritrovare spazio. Noi non siamo né vogliamo essere il partito di alcuni strati operai, di alcune forme di lotta, bensì il partito della classe operaia e del proletariato, il partito che fa i conti con le condizioni complessive del processo rivoluzionario, con la vittoria della rivoluzione.

Buon lavoro

Questo congresso é per noi un importante appuntamento di lavoro. Con la preparazione del congresso, abbiamo potuto conoscerci meglio e conoscere meglio l'insieme della nostra organizzazione, le sue difficoltà, i suoi problemi. Ci siamo contati, e abbiamo verificato quanto e come contiamo nella vita e nella lotta delle masse. Siamo un'organizzazione di poche migliaia di militanti, che lavora per una rivoluzione di milioni di donne e nomini. Ci siamo riuniti qui per lavorare, per portare a compimento un lavoro che ha risolto alcuni problemi, che ne ha affrontati positivamente altri, che altri ancora ne ha lasciati aperti. Ogni tono trionfalista sarebbe fuori luogo. Buon lavoro.