Biblioteca Multimediale Marxista


Ringraziamo Marco Maurizi e il collettivo Rinascita Animalista per aver messo a disposizione dei nostri lettori il testo


Marxismo e animalismo:
Contributi a una discussione

0. Premessa
1. Perché un non vegetariano può dirsi comunista
2. Limiti della critica animalista a Marx
3. Il ruolo e il significato dell’animale nel marxismo
4. L’apporto della Scuola di Francoforte al marxismo
5. Conclusione: può un animalista non essere comunista?


0. Premessa

Ricordo che un giorno, mentre approntavamo materiale pubblicitario animalista, suonò alla porta una ragazza appartenente alla setta di Lotta comunista. Chiedeva fondi per il suo giornale marxista-leninista. Le proponemmo, in cambio, di partecipare ad una manifestazione per i diritti animali che si sarebbe tenuta di lì a qualche settimana a Roma. La sua risposta, piuttosto imbarazzante, fu: “noi non pavtecipiamo a questo geneve di manifestazioni in cui si mescolano fvange bovghesi”. E poi le immancabili banalità sull’operaio cinese che “conta più” dell’animale etc. etc. Racconto questo triste aneddoto perché conferma quanto il pregiudizio “specista” sia diffuso all’interno del movimento operaio. Ma anche perché negli anni seguenti fui costretto a riconoscere, con sommo orrore, quanto l’odiosa ragazza avesse ragione. Se in questo articolo smetto, per un attimo, le vesti dell’animalista militante per indossare quelle del pedante marxista è solo perché sono convinto che 1) il marxismo non è strutturalmente incompatibile con l’animalismo e 2) senza una sintesi teorica che abbracci entrambi, l’animalismo non sarà in grado di assolvere i suoi compiti.
In questo articolo parlo solo della possibile unione teorica tra i movimenti, poiché quella pratica presenta problemi ben diversi e, forse, anche più ampi (entrambi soffrono, come si sa, della nota tendenza tipica della sinistra alla frantumazione). Sono peraltro convinto che, senza una chiara definizione dei principi cui l’azione si ispira, ogni unificazione pratica è impossibile. Preciso inoltre che non sto sostenendo che l’animalismo debba confluire o annullarsi nel marxismo, ma che esso deve porre come prioritario un adeguamento della propria base teorica al marxismo e concepire la liberazione umana come presupposto della liberazione animale.

1. Perché un non vegetariano può dirsi comunista

Un articolo di Massimo Filippi apparso su Rinascita Animalista si propone di rispondere alla domanda “Può un non vegetariano dirsi comunista?”.[1] Il tentativo, lodevole, è quello di trovare un collegamento organico tra la lotta socialista e quella in difesa degli animali. Purtroppo, dopo aver suggerito che un collegamento effettivo tra le due prospettive è deducibile a partire dalla lettura dei “filosofi marxisti della scuola di Francoforte”, l’articolo lascia cadere la questione. Filippi compila invece un lungo elenco di motivi che dovrebbero spingere il comunista a diventare vegetariano. Sostengo che questi motivi, lungi dal fornire un collegamento organico tra la prospettiva socialista e quella animalista, possono al massimo giustificare una loro unificazione puramente tattica, strumentale e, temo, effimera. Il fatto che Filippi non sia entrato nel merito infatti dei principi del comunismo cui pretende riferirsi (senza definire quindi nemmeno cosa intende per “comunismo” e quindi chi sia il comunista a cui si rivolge), rende la sua proposta politica del tutto astratta e inservibile, soprattutto per la corrente marxista che rappresenta tutt’ora la più influente e rappresentativa del mondo socialista.
Nessuno dei motivi elencati da Filippi costringerebbe un marxista ad abbracciare la causa dei diritti animali: non la lotta alla “fame nel mondo”, non il problema della “scarsità d’acqua”, non il pericolo del “disastro ecologico”, non il rifiuto degli “ogm”. Si tratta di problemi che il marxista potrebbe, a buon diritto, considerare risolvibili all’interno della propria prospettiva teorica e politica, senza per questo dover sostenere o anche solo accettare la teoria dei diritti animali, né tantomeno diventare vegetariano nell’immediato, come vuole Filippi, sulla base di un qualche imprescindibile obbligo morale. E questo non perché il marxista sia cattivo o insensibile, ma perché vede la soluzione di quei conflitti e problemi a livello di lotta politica e non a livello di principi etici. Poiché il marxismo, come diremo, non intende adeguare la realtà a un’ideale etico ma risolvere una contraddizione sociale, oggettiva, esso considera l’iniqua distribuzione delle risorse sempre l’effetto necessario di un modo di produzione (il capitalismo), non la conseguenza di una volontà volta al male. Quindi, per dirne una, la sottrazione di risorse al terzo mondo finalizzata all’allevamento intensivo per la produzione di carne destinata ai paesi ricchi non potrà mai essere considerata da un marxista la causa della fame e della povertà. Si può deprecare quanto si vuole questo approccio del mondo marxista, ma finché non si suona al marxista “la sua stessa musica” (per dirla con Marx), non vi è alcuna speranza di superare la divisione tra socialismo e movimento animalista. D’altra parte, l’unico argomento vagamente marxista[2] che Filippi introduce (la difesa dei “diritti dei lavoratori e dei migranti” dell’industria alimentare) ha davvero ben poco di animalista. Anzi, il vero problema è che tutti gli argomenti da lui addotti hanno il dubbio pregio di essere argomenti utilitaristici e antropocentrici, volti cioè a suggerire che c’è un’utilità per l’uomo nella difesa degli animali e che quindi questa difesa non deve essere condotta principalmente per il bene degli animali ma per quello dell’uomo. Non solo non fanno uscire il marxismo dal suo, vero o presunto, “antropocentrismo”, ma costituiscono delle falsificazioni delle tesi dell’animalismo corrente (che vede, a torto o a ragione, proprio nella difesa degli animali come un valore in sé un proprio tratto caratteristico). Né in un senso né nell’altro costituiscono dunque una base per un possibile superamento della separazione tra i due movimenti.

2. Limiti della critica animalista a Marx

Un tentativo organico di confrontare la prospettiva marxista e quella animalista è invece quello tentato da David Sztybel.[3] Sztybel è un animalista ortodosso, conosce bene il suo Singer e il suo Regan e si propone di mostrare come il marxismo si trovi in contraddizione con se stesso nel non riconoscere la causa dei diritti animali. A differenza di Filippi, però, egli non sembra avere un buon rapporto con il marxismo e dimostra a ogni passo di non aver letto Il Capitale con la stessa attenzione di Animal Liberation. Anzi, come mostrerò, dà l’impressione di non averlo letto affatto.
Sztybel inizia con l’affrontare la questione generale del rapporto uomo-animali nelle opere di Marx ed Engels e vi riscontra da un lato la tendenza a riconoscere la fondamentale continuità tra uomo e animale, dall’altro la tendenza a vedere nell’uomo un ente privilegiato nella natura, costitutivamente diverso dagli altri esseri viventi. Si tratta di un problema molto complesso, per il momento limitiamoci agli aspetti sottesi alla polemica di Sztybel. Il primo argomento, quello continuista, è costitutivo del “materialismo” marxiano – come riconosciuto anche da Filippi nel suo articolo – perché sottolinea come l’uomo sia un essere del tutto interno all’ordine naturale, nega cioè che la specificità dell’uomo consista nel possesso di facoltà spirituali che lo metterebbero in contatto con una dimensione trascendente. Il secondo argomento però recherebbe ancora tracce di “idealismo”, poiché porrebbe nell’uomo un’unicità rispetto al regno animale che gli permetterebbe di trascenderlo e porrebbe nella piena realizzazione di questa sua peculiarità la destinazione e il fine delle vicende umane.
Di fatto, lungi dal produrre due tendenze opposte e contraddittorie all’interno della teoria marxiana, questi due argomenti sono strutturalmente connessi. Sztybel non riesce a vedere però questo collegamento e pretende che l’animalismo costituisca un modo per risolvere la contraddizione che attribuisce a Marx. Ciò è dovuto alla sua profonda incomprensione del marxismo e, in generale, della dialettica che lo anima. Non è un caso che le citazioni su cui si appoggia – quando non sono citazioni dell’opera giovanile e immatura di Marx – siano parziali e mutile, non presentino cioè gli aspetti ineludibili per ogni vera comprensione del marxismo (centralità della storia, rapporto tra struttura economica e sovrastruttura ideologica, unità di teoria e prassi, per citare solo i più importanti). In particolare, poi, è curioso ma sintomatico che Sztybel giunga a conclusioni giuste partendo sempre da interpretazioni sbagliate dei passi marxiani che cita. Il che implica semplicemente che egli si limita ad applicare la sua interpretazione specista del marxismo a tutto ciò che legge. Quanto questo procedimento sia fruttuoso lo si vede ad esempio in questo passaggio del giovane Marx che viene citato a riprova dell’antropocentrismo marxista:

Il comunismo s’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo; in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie. È la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione.[4]

Ora, il commento di Sztybel annulla tutta la tensione speculativa di questo passo – certamente ancora idealistico e fumoso – del giovane Marx e gli fa dire esattamente l’opposto di quanto dica in realtà: “In questo passaggio piuttosto pomposo non solo il naturalismo marxista è definito umanistico, ma pretende addirittura risolvere l’antagonismo tra umani e natura. Dato il punto di vista umanistico di Marx, non sorprende che questa soluzione sia in favore degli umani e a spese degli animali”.[5] Eppure Marx non sta affatto risolvendo il naturalismo nell’umanismo, non sta dicendo che il comunismo dissolve la natura in una dimensione antropocentrica tale che ogni antagonismo tra uomo e natura sia risolto con la vittoria dell’uomo. Sta dicendo, al contrario, che solo il comunismo può porre fine alla lotta tra l’uomo e la natura e quindi inaugurare una fase storica in cui l’antagonismo tra naturalismo e umanismo è definitivamente superato (vedremo in seguito in che senso ciò venga inteso).
Sztybel è più idealista e hegeliano del giovane Marx nella misura in cui gli attribuisce posizioni che Marx sta, in realtà, criticando. Come la seguente affermazione che non è altro che una parafrasi di Hegel: “la natura, astrattamente presa, per sé, fissata nella separazione dall’uomo, non è per l’uomo un bel nulla”[6] e che non implica affatto, come pretende Sztybel, che per Marx “la natura ha valore nullo per l’umanità”[7], che per l’uomo essa sia di interesse solo nella misura in cui serve a soddisfare i suoi bisogni. Se avesse letto le frasi successive, Sztybel avrebbe scoperto che Marx considera quella separazione concettuale tra uomo e natura un’astrazione idealistica senza senso e se avesse letto tutti i Manoscritti economico-filosofici avrebbe scoperto che: “la natura è il corpo inorganico dell’uomo, precisamente la natura in quanto non è essa stessa corpo umano. Che l’uomo viva della natura vuol dire che la natura è il suo corpo, con cui deve stare in costante rapporto per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell’uomo sia congiunta con la natura non significa altro che la natura è congiunta con se stessa, perché l’uomo è parte della natura”.[8] Semmai, lo si vede bene, il rischio è quello di annullare l’uomo nella natura piuttosto che il contrario. Ma Marx era abbastanza intelligente da evitare un materialismo piatto e volgare; per questo il naturalismo doveva – secondo la formulazione ancora hegeliana della prima citazione – diventare a sua volta umanismo, occorreva cioè mostrare la reciproca determinazione tra uomo e natura, il loro rapporto organico, indissolubile. Ciò che permette di uscire dalla sterile contrapposizione idealistica tra uomo e natura è ciò che Sztybel si guarda bene dal prendere in considerazione, ovvero il nerbo autentico del marxismo, che in questi Manoscritti appare ancora solo in forma abbozzata: la società, cioè il fatto che il rapporto uomo-natura sia la base dell’economia umana e, soprattutto, che muti storicamente.[9]
Avendo, tuttavia, definito il rapporto uomo-natura nel marxismo come intrinsecamente strumentale e antropocentrico, Sztybel ha gioco facile nel confutare Marx utilizzando i soliti argomenti anti-specisti che ogni animalista sa snocciolare a memoria.

Il movimento per i diritti animali, naturalmente, contesta l’idea che gli animali non umani possano essere considerati aventi un mero valore strumentale. Comunque, Marx ed Engels potrebbero difendere la subordinazione degli animali non umani come farebbe chiunque altro: argomentando le differenze moralmente rilevanti tra gli esseri umani e gli animali non umani.[10]

E da qui tutta una serie di banalità che hanno l’unico pregio di presentarsi come ridicole lotte contro mulini a vento. Si tratta però di una mossa doppiamente scorretta. Non solo perché deforma, come visto, le teorie marxiane, ma anche perché presuppone che Marx ed Engels ricorrerebbero ad argomentazioni strettamente morali per giustificare la superiorità dell’uomo sull’animale. Cosa che li farebbe rivoltare nella tomba se già non ci avessero pensato Stalin e Mao. E Sztybel dovrebbe saperlo bene perché in seguito cita il seguente, lapidario passo dell’Anti-Dühring di Engels: “Noi respingiamo ogni pretesa di imporci una qualsiasi dogmatica morale come legge etica eterna, definitiva, immutabile nell’avvenire, col pretesto che anche il mondo morale avrebbe i suoi principi permanenti che stanno al di sopra della storia e delle differenze tra i popoli”.[11] Ciò non significa affatto, come pretende Sztybel, che – essendo la morale qualcosa di storicamente cangiante – la “morale marxista” che prèdica la superiore dignità dell’uomo sull’animale può essere ribaltata senza che ne venga intaccato il contenuto teorico. Significa invece che il marxismo, mettendo fuori corso ogni teoria etica, non professa affatto la superiorità morale dell’uomo sull’animale. Questa “superiorità”, nella misura in cui è veramente professata dal marxismo, non ha perciò alcun connotato morale[12] e bisognerebbe semmai capire in che cosa consiste e quali ne siano le conseguenze teoriche e pratiche.
Sztybel invece isola tutte le caratteristiche con cui Marx ed Engels definiscono la specificità dell’uomo (autocoscienza, socialità, produttività attraverso il lavoro, storicità) e di ognuna di esse propone una confutazione di rito, senza accorgersi che nessuna di quelle caratteristiche presa di per sé ha senso nella prospettiva marxiana.[13] Il procedimento smembrante di Sztybel (“another candidate for human uniqueness is...”) è assurdo dal punto di vista di Marx perché è solo l’insieme di quelle caratteristiche che definisce la condizione umana e che a sua volta dà un contenuto ai singoli concetti che la definiscono.[14] Questi si implicano e si sostengono a vicenda. È solo perché la sua autocoscienza è prodotta dal lavoro che l’autocoscienza dell’uomo si differenzia da quella dell’animale. D’altra parte, è solo perché il suo essere sociale determina le modalità del lavoro produttivo che la socialità umana si differenzia da quella animale. Ed è solo perché il lavoro si sedimenta attorno e dentro di lui e ne condiziona lo sviluppo in senso storico che la storia umana si differenzia da quella animale etc. In un passo dell’Ideologia tedesca che Sztybel stesso cita, si afferma:

Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i propri mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale.[15]

Questa “vita materiale” che gli uomini producono ha la caratteristica di crescere su se stessa ed evolversi per l’azione dell’uomo e, a sua volta, di condizionarla, di essere cioè effetto della sua attività vitale, pur restando sempre condizione della sua esistenza: ogni nuova generazione cioè vive e si sviluppa a partire dal prodotto del lavoro e, quindi, dell’intera organizzazione sociale delle generazioni precedenti. L’uomo è un essere intrinsecamente politico, perché il suo essere è costitutivamente collettivo nel modo che si è detto: è storico e sociale e, come l’età moderna ha reso evidente, può essere guidato dalla razionalità, ospita cioè in sé la possibilità di autodeterminarsi. In tal senso va allora intesa l’affermazione marxiana che l’autocoscienza è propriamente umana perché solo l’autocoscienza umana è intrinsecamente e radicalmente collettiva. L’uomo si definisce rispetto agli altri animali per questa sua dipendenza da una collettività che è in sé storica e si proietta verso l’autodeterminazione, il superamento di una condizione di anarchia naturale. Il rapporto tra l’uomo e la propria animalità è quindi esso stesso storico e non un’invariante. In tal senso Engels dice che l’uomo sarà veramente tale solo nella società comunista.[16]
Non è vero, quindi, ciò che afferma Sztybel quando sostiene che per Marx l’animale è una condizione semplicemente inferiore a quella umana, tanto che l’alienazione umana è definita in termini di ricaduta nell’animalità. “Marx sostiene sempre che c’è una differenza tra gli umani e gli altri animali; persino nello stato di alienazione, gli umani hanno potenzialità che gli altri animali non hanno”.[17] È vero che la condizione del lavoratore alienato è da Marx spesso definita “animale”, ma si tratta di un uso del termine più metaforico che reale. Ciò diviene sempre più chiaro negli scritti maturi di Marx; ma adirittura già nei Manoscritti tanto citati da Sztybel si trova una descrizione della condizione operaia nel XIX secolo che corregge questa visione, e che mostra come “l’animalità” cui viene ridotto l’operaio alienato si riduca ad una condizione propriamente innaturale.[18] La scissione tra lavoro e capitale nella società moderna, la divisione del lavoro e l’anarchia della produzione riducono l’uomo ad una condizione anti-umana e, più che animale, propriamente sub-animale. Il capitalismo mette l’uomo in contraddizione con la propria natura perché implica la negazione di una possibilità reale che è implicita nell’essere umano in quanto essere sociale.[19]
Quando il marxismo fa riferimento all’uomo come specie separandolo e anche contrapponendolo all’animale, possiede un tratto che lo rende eccentrico rispetto a ciò che solitamente si intende per “specismo”. La descrizione marxiana della natura umana è dinamica: l’uomo è definito da un arco storico tra il “non essere più animale” e il “non essere ancora pienamente uomo”. Al tempo stesso tutte le sue caratteristice specifiche non lo concernono in quanto essere singolo appartenente ad una specie (attraverso una serie di qualità che gli apparterrebbero ab origine come individuo) ma come essere sociale e collettivo e per di più come essere sociale e collettivo che modifica progressivamente questo proprio essere. Le teorie morali sono invece (1) monadologiche e (2) astoriche, cioè concernono il singolo come soggetto autonomo, separato e, in più, lo pensano in un mondo ideale, scisso da qualsiasi contesto sociale e storico. L’azione umana, dice invece Marx, presuppone sempre gli altri esseri e il loro agire, non solo come astratto altro-da-me, come qualcosa di esterno, ma come qualcosa che inerisce essenzialmente e concretamente al mio essere fin dall’origine. In secondo luogo, ogni teoria morale fa arbitrariamente astrazione dal soggetto storico che la formula mentre essa invece presuppone la sua forma di esistenza e, dunque, tutto il processo storico che ha portato alla sua formulazione. In questo modo, ad esempio, la “morale universalistica”, che ha potuto formarsi con coerenza e radicalità solo per la coscienza europea borghese già sviluppata, viene presa di peso e proiettata nelle epoche precedenti o in culture diverse che, giudicate con la sua misura, vengono in blocco condannate come oscurantiste e violente.[20] Teorie morali che facciano astrazione dall’economia politica, cioè dalla considerazione dei presupposti sociali e storici dell’esistenza umana, sono perciò da un punto di vista marxista inevitabilmente delle vuote astrazioni.
Marx non parte quindi da un pregiudizio morale a favore dell’uomo. E non è nemmeno interessato a fornire all’uomo “un privilegio morale sull’animale” (nemmeno quello che potrebbe derivargli dall’essere un essere in costante “divenire”), quanto piuttosto a descrivere la struttura costitutivamente storico-sociale dell’esistenza umana: ciò è necessario per comprendere come questa “funzioni” e come possa, eventualmente, essere modificata. Per questo ogni considerazione del marxismo che eluda il nesso di teoria e prassi è falsificante. Per Marx si tratta cioè di comprendere le leggi di sviluppo della società umana e non di delineare una morale antropocentrica o anche solo un’utopia politica fondata su un’antropologia statica (cioè una descrizione di caratteristiche costanti e sovrastoriche dell’essere umano). Di fatto, Marx non descrive né come l’uomo “è” (antropologia filosofica), né come “deve essere” (morale), ma come “diviene” (economia politica). Per Marx la storia è il luogo in cui l’uomo diviene ciò che è: il rifiuto marxiano dell’etica si radica proprio nel rifiuto della scissione tra realtà e ideale. Marx ed Engels non consideravano il comunismo un ideale da realizzare, ma “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”.[21] Se la realtà umana stessa non spingesse verso la realizzazione di una società in cui la produzione sociale è finalizzata al bene comune, essa resterebbe un sogno contrapposto alla realtà, sarebbe una predica moraleggiante o al più un’utopia filantropica. È invece proprio perché l’uomo è un essere sociale che produce da sé le proprie condizioni di sussistenza che è possibile pensare ad un assetto sociale posto sotto il suo controllo, cioè un’esistenza non abbandonata al caso o al capriccio delle forze naturali.

3. Il ruolo e il significato dell’animale nel marxismo

3.1 Cosa pensavano Marx ed Engels del vegetarismo e dell’antivivisezionismo
Rimane il problema di cosa sarà dell’animale in una società che abbia abolito la lotta di classe e si spinga anche, secondo il dettato marxiano, a risolvere l’antagonismo tra l’uomo e la natura. Hanno gli animali voce in capitolo e qualche speranza di vedere migliorata la propria condizione? Stando alle opinioni esplicite di Marx ed Engels, pare proprio di no. Sztybel alla fine ha quindi ragione? No, anche in questo caso. Ha torto sia perché non cita queste “opinioni esplicite” ma pretende dedurle da passi male interpretati (il che assomiglia più a un colpo di fortuna che a un ragionamento logico), sia perché queste stesse opinioni non sono affatto la necessaria conseguenza delle teorie marxiane. Ed è quello che cercherò di mostrare in seguito.
Procediamo con ordine. Non si può certo negare, e sono l’ultimo a volerlo fare, che Marx ed Engels non ritenessero necessario un ripensamento del ruolo degli animali nella società umana, neppure in una società comunista. Caccia, pesca e allevamento, ad esempio, continueranno ad essere praticate, anche se sottratte alla divisione del lavoro. Se la società comunista abolisce la divisione del lavoro, non per questo abolisce necessariamente le attività produttive della società precedente. Per cui l’uomo “onnilaterale” che si sviluppa dal superamento della divisione del lavoro può andare a pescare pur se lo professione del pescatore è stata abolita: “nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani l’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico”.[22]
Marx ed Engels non presero mai in considerazione l’idea che il vegetarismo potesse essere una forma possibile e alternativa di alimentazione. In generale, anzi, consideravano – come molti altri nella loro epoca – il mangiar carne un privilegio delle classi benestanti ingiustamente negato alle classi subalterne.[23] Engels si spinge a dire che l’alimentazione carnea ha favorito l’evoluzione umana e giustifica in quest’ottica addirittura la pratica del cannibalismo.[24]
Particolarmente fastidiosa è l’avversione mostrata per l’antivivisezionismo; un’avversione radicata anch’essa in una convinzione generalizzata dell’epoca e che manifesta una eccessiva fiducia nella scienza.[25]
Engels era, dei due, quello che si mostrava maggiormente avverso al vegetarismo e all’antivivisezionismo, che considerava estraneai e inconciliabili con il “socialismo scientifico”, tanto da accomunarli con le varie sette che a questo si avvicinavano spinti dalla forza di attrazione della rivoluzione operaia. La lista che Engels fa di queste “sette” è particolarmente divertita: “avversari della vaccinazione, astemi, vegetariani, antivivisezionisti, medici naturisti, predicatori di libere comunità…, autori di nuove teorie sull’origine del mondo, inventori senza successo o falliti…”.[26]
A difesa di Engels va però detto che egli fu anche l’unico dei due che chiamò per nome il dominio violento dell’uomo sulla natura e prospettò la vendetta della seconda sul primo e la necessità di un accordo armonico tra l’azione umana e il contesto in cui questa avviene. Nella Dialettica della natura Engels spiega come si deve intendere quella unione di “umanismo e naturalismo” che il giovane Marx dei Manoscritti aveva lasciato nel vago:

Nessuna preordinata azione di nessun animale è riuscita a imprimere sulla terra il sigillo della sua volontà. Ciò doveva essere proprio dell’uomo. Insomma, l’animale si limita a usufruire della natura esterna, e apporta ad essa modificazioni solo con la sua presenza; l’uomo la rende utilizzabile per i suoi scopi modificandola: la domina…Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha infatti, in prima istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto diversi, impreveduti, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze…Ad ogni passo ci vien ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina il popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa, ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro domio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle nel modo più appropriato…Ma quanto più ciò accade, tanto più gli uomini non solo sentiranno, ma anche capiranno, di formare un’unità con la natura, e tanto più insostenibile si farà il concetto, assurdo e innaturale, di una contrapposizione tra spirito e materia, tra uomo e natura, tra anima e corpo, che è pentrato in Europa dopo il crollo del mondo dell’antichità classica e che ha raggiunto il suo massimo sviluppo nel cristianesimo.[27]

C’è solo da domandarsi: quest’unità varrà anche tra uomo e animale? Data la scarsa sensibilità di Engels per questo tema, evidentemente no. Ma a questo punto sulla coerenza di questa testarda negazione engelsiana qualche dubbio è lecito averlo.

3.2 Quali sono le implicazioni della teoria di Marx
Per affrontare correttamente il problema dei rapporti tra animalismo e marxismo non bisogna fermarsi alla superficie delle opinioni professate da Marx ed Engels, ma occorre capire se e, soprattutto, in che modo esse si colleghino organicamente con la loro teoria. A mio avviso è possibile dimostrare che questo collegamento è invece labile e superficiale e che quindi Marx ed Engels erano veramente vittima di un pregiudizio che le loro teorie avevano, di fatto, già superato. Per fare ciò è, anzitutto, necessario trattare della “continuità” tra uomo e animale che essi professavano senza indugi. Anche Filippi vi si sofferma brevemente, richiamando l’ammirazione di Marx per Darwin e il suo sostegno all’idea di una continuità evolutiva tra le specie.

Se accettiamo questa linea di continuità tra mondo animale umano e non-umano (e, per un comunista genuino, non dovrebbero esserci motivi perché non sia così), dovremmo iniziare a basare i nostri principi etici non su differenze effimere (quali il colore della pelle, il numero di zampe, la capacità di parlare l’inglese o quella di trovare tartufi), ma l’essere tutti, umani e non-umani, viventi e senzienti. [28]

Ora, a parte la critica già vista ai “principi etici”, occorre dire che nel marxismo la differenza che si stabilisce tra uomo e animale non è effimera ma sostanziale. L’uomo, è infatti definibile, marxianamente, non semplicemente come “altro” dall’animale, ma come divenire altro da esso, come uscita dalla condizione animale.[29] Tale uscita si compie appunto nella storia e la storia stessa ne è la gestazione incompiuta. All’origine di questo movimento di uscita dall’animalità sta la capacità di compiere lavoro socialmente produttivo, una capacità che – a partire dall’abilità mostrata dall’homo sapiens nel creare e maneggiare strumenti – rende possibile, come si è visto, uno sfruttamento e una modificazione radicale dell’ambiente circostante.
L’animale non rientra nella critica dell’economia politica che in modo secondario, nella misura in cui l’uomo si è da sempre servito di altri animali come fattori produttivi. Nella sua storia, l’uomo ha utilizzato – e continua ad utilizzare – l’animale:

(a) come mezzo di sostentamento
(b) come forza-lavoro
(c) come bene di consumo

infine, in tempi recenti,

(d) come cavia da laboratorio per la ricerca biomedica

In tutti questi casi, ma non senza ambiguità, si tratta di considerare in che modo l’animale divenga un elemento della produzione. Ora, stando alla teoria, Marx ed Engels consideravano questi usi dell’animale una necessità storica. È di vitale importanza capire in che senso qui si parli di necessità, perché proprio su questo punto si gioca la possibilità di un avvicinamento di prospettive tra l’animalismo radicale e il marxismo. Questa necessità è intesa da Marx ed Engels in un senso strettamente logico e avalutativo, coerentemente con l’impostazione anti-etica che abbiamo già esposto. Logico: perché non ha senso giudicare a ritroso la convenienza o meno di pratiche che sono la condizione di possibilità della nostra esistenza attuale. Avalutativo: non solo perché l’umanità è sempre stata spinta dalla necessità (penuria di mezzi fisici e spirituali, scarsità di risorse etc.), ma i singoli hanno sempre trovato di fronte a sé un collettivo già operante cui adeguarsi, pena l’esclusione o la morte. La brutale lotta per l’esistenza cui l’umanità ha preso parte come soggetto collettivo e individuale, non lascia spazio a facili condanne morali a posteriori. Su questo punto Marx ed Engels sono coerenti fino in fondo; l’animalista che si sentisse offeso dalla loro “insensibilità” nei confronti della violenza umana sugli animali, dovrebbe riflettere che per entrambi anche la schiavitù umana obbediva allo stesso tipo di necessità.[30] Ciò non significa, ovviamente, che non considerassero la schiavitù un male e qualcosa da abolire; semplicemente però sapevano che la richiesta generalizzata dell’abolizione della schiavitù fu resa possibile – e, dunque, “eticamente” necessaria – solo dal superamento delle condizioni economiche che ne avevano imposto la diffusione. Lo stesso capitalismo (che, come si sa, non era loro particolarmente simpatico) non è condannato in quanto aberrazione morale, ma come sistema di produzione la cui necessità storica è oggettivamente venuta meno. Il singolo capitalista non è colpevole in quanto agente morale, anzi non è colpevole affatto.[31] Semplicemente obbedisce a meccanismi sociali che riproduce inconsapevolemente con la sua stessa esistenza in quanto elemento della produzione. Non avrebbe alcun senso chiedergli di essere “più buono” e di non sfruttare gli operai, perché questo vorrebbe soltanto dire scomparire in quanto capitalista.
Quando Marx ed Engels parlano di necessità storica parlano sempre di una necessità che, in quanto storica, può essere superata da successivi sviluppi. Tale necessità è già superata e superabile in linea di prinicpio sia nei casi (b) che (c). L’utilizzo dell’animale come forza-lavoro (b) che è di natura puramente meccanica, motrice – si distingue cioè dalla forza-lavoro qualificata che è appannaggio della mano umana[32] – è stato infatti progressivamente sostituto dall’uso delle macchine.[33] L’utilizzo come bene di consumo (vestiario, divertimento etc.) è, invece, del tutto accidentale e secondario, soggetto alle fluttuazioni storiche più diverse. Essendo legato ad un epifenomeno della produzione, nulla osta dal punto di vista marxista alla sostituzione dei prodotti di origine animale con prodotti sintetici.
Per quanto riguarda l’alimentazione carnea e la sperimentazione su animali il discorso è solo apparentemente più complesso. Anche qui l’animale è considerato un elemento della produzione, ma in modo più astratto e generale, tanto da suggerire – a prima vista – che questi tipi di utilizzo da parte dell’uomo non possano essere superati. Marx scrive infatti che il consumo diretto come mezzo di sostentamento (a) “appare come parte integrante del fondo originario di produzione”.[34] Ma questo fondo originario comprende tanto gli animali quanto, soprattutto, i prodotti dell’agricoltura. L’esistenza di popoli dediti esclusivamente all’alimentazione vegetariana rende però la necessità di considerare gli animali parte di questo fondo produttivo del tutto priva di fondamento. Allo stesso modo nel caso della sperimentazione (d) l’animale non rientra nella produzione che in forma molto mediata ed indiretta, come presunta condizione di ripristino delle forze produttive umane. Eppure, società millenarie sono esistite senza praticare la sperimentazione animale e nulla impedirebbe ad una società comunista di abolire i test sugli animali in favore di metodi sperimentali alternativi. È vero che entrambe queste pratiche vengono giustificate, soprattutto da Engels, con argomentazioni “scientifiche”, prima ancora che economiche, tuttavia si tratta di argomenti che la ricerca scientifica posteriore ha definitivamente confutato e che lo stesso Engels oggi non farebbe fatica ad abbandonare. Non è quindi dal punto di scientistico e positivistico della Dialettica della natura che un marxista può oggi affermare la necessità dell’alimentazione carnea e della vivisezione. Private della loro aurea di “scientificità”, queste pratiche sono soggette, come le altre, al giudizio dell’evoluzione storica. Come era insensato, per Marx ed Engels, servirsi ancora di animali (o umani) come forza motrice quando la macchina a vapore ne sostitusice e perfeziona il lavoro, lo stesso può dirsi dell’alimentazione carnea. A ben vedere, le argomentazioni “scientifiche” che Engels propone a giustificazione del passaggio dell’uomo primitivo all’alimentazione carnea, anche quando fossero corrette, non implicherebbero che questa necessità debba proseguire anche in futuro. Anzi, stando all’argomentazione engelsiana è vero il contrario.[35] Scomparendo la necessità storica della lotta per la sopravvivenza, un’umanità liberata potrebbe tranquillamente tornare ad un’alimentazione vegetariana.

3.3 Il vero problema: l’alienazione animale
Ciò che costituisce una difficoltà nello stabilire una connessione tra marxismo e l’animalismo, dunque, non è tanto che lo sfruttamento animale venga considerato una necessità storica (poiché ciò investe, come detto, anche lo sfruttamento umano e perché si tratta di una necessità temporanea che il progresso sociale può rendere e ha già in parte reso obsoleta). Il problema è che l’animale entra nella produzione della società umana solo come elemento esterno e passivo. Non “partecipa” in nessun modo alla sua costruzione attiva, e perciò, dice Marx, nemmeno alla sua comprensione strutturale o alla definizione delle sue categorie. Così, scrive Marx, la “signoria” in quanto rapporto sociale che implica l’appropriazione di mezzi di produzione, cioè della condizione sociale per la riproduzione della vita, si esercita sugli uomini e non sugli animali. “Nei confronti degli animali, della terra, ecc. non può esistere au fond nessun rapporto di signoria attraverso l’appropriazione, sebbene l’animale serva. L’appropriazione di una volontà estranea è presupposto del rapporto di signoria. Chi non ha volontà dunque, come l’animale ad es., può bensì servire, ma non fa di colui il quale se ne appropria un signore”.[36] Anche qui, ribadiamo, non si tratta di negare la volontà in generale degli animali ma che questa volontà divenga momento della volontà sociale. La volontà dello schiavo – o, meglio, la sua remissione della propria volontà – è invece momento integrante della produzione sociale dell’antichità e costituisce anche la base del suo possibile rovesciamento. I mezzi di produzione “costituiscono il necessario fermento dello sviluppo e della decadenza di tutti i rapporti originari di proprietà e produzione, come pure ne esprimono la limitatezza”.[37] Da ciò consegue che solo l’uomo come specie può asservire la natura e gli altri esseri viventi, ma che tale asservimento “specistico” presuppone sempre l’asservimento “sociale” dei propri simili. Il dominio sulla natura va pensato, perciò, come conseguenza di una gerarchia sociale già sviluppata. La lezione di metodo marxiana è fondamentale su questo punto per far uscire l’animalismo da una concezione astratta, astorica, “etologica” del rapporto uomo-animale. Tutto ciò che l’uomo fa alle altre specie lo fa non come rappresentante di una specie, ma come collettivo sociale: “è invero molto semplice raffigurarsi che un uomo potente, dotato di una forza superiore, dopo avere in un primo momento catturato gli animali, catturi quindi gli uomini, per far loro catturare gli animali; in una parola si serva parimenti dell’uomo come di una condizione naturale preesistente per la sua riproduzione (sicché il suo proprio lavoro si risolve in dominio, ecc.) come di qualsiasi altro essere naturale. Ma una simile opinione è assurda – per quanto possa esser giusta dal punto di vista di certe organizzazioni tribali o collettività – in quanto essa parte dallo sviluppo di uomini isolati”.[38] Il contraltare della natura necessariamente collettiva della signoria è che solo l’umanità può rovesciare il dominio che essa stessa ha imposto a se stessa e alla natura.
Mi pare che gli espliciti argomenti di Marx ed Engels contro l’animalismo dell’epoca siano legati agli aspetti più caduchi e “storicizzabili” delle loro opere (e probabilmente anche alle forme in cui l’Animal Rights Movement si presentava allora), e non richiedono una revisione radicale della loro concezione materialistica della storia.[39] Il problema vero, strutturale, è che per essi il lavoro animale non produce alienazione. Perché ciò fosse possibile l’animale dovrebbe essere considerato – almeno in potenza – anche parte attiva del processo di produzione e, quindi, anche suo beneficiario. Ciò è indicativo del fatto che nella prospettiva storico-evolutiva in cui Marx considera l’uomo, il rapporto con l’animale sia sempre definito dalla bruta violenza. Qui sorge il circolo vizioso che Stzybel ha intravisto ma non è riuscito a definire; non che all’uomo sia riconosciuto un semplice privilegio specistico sugli animali, ma che il suo “divenire uomo” nella società comunista, il suo abbandonare la lotta naturale per l’esistenza, non implichi anche la cessazione della lotta contro gli animali. L’uomo si comporta nei confronti degli altri animali sempre come un animale e mai come uomo, nel senso cioè di estendere ad essi le aspettative di liberazione e giustizia che vede sorgere in seno alla sua società. D’altronde, se la schiavitù dell’uomo può essere considerata un passaggio inevitabile nella costruzione di una società di liberi e uguali, lo stesso potrebbe dirsi di quella animale: l’uomo è quell’animale che attraverso la lotta con altri animali impara a sottrarsi ad essa. Ma in Marx questo passaggio non è posto in modo esplicito e nulla sembra preannunciare che l’uomo liberato dal bisogno potrà mollare la morsa sugli animali che è nata e si è sviluppata proprio nell’epoca del suo bisogno impellente di sopravvivere in un ambiente ostile.[40] Nemmeno il fatto che gli animali domestici siano “malgré eux prodotti di un processo storico”[41] che ha visto trasformati radicalmente i loro bisogni, il loro ambiente e le loro abitudini ha mai implicato per Marx ed Engels una qualche forma di continuità relazionale interspecifica.

4. L’apporto della Scuola di Francoforte al marxismo

Perché il collegamento tra lotta socialista e difesa degli animali possa dirsi organico e non accidentale e superficiale, occorre allora riprendere e approfondire lo spunto dell’articolo di Filippi. Ma occorre rendererlo più determinato e preciso, muovere quindi al confronto a partire da una concettualità marxista. Filippi fa un passo decisivo in questa direzione quando allarga la questione che dà il titolo al suo articolo (“può un non vegetariano dirsi comunista?”) formulandola in quest’altro modo: “è possibile ancora oggi non riconoscere che lo sfruttamento degli animali è la premessa e la giustificazione logica dello sfruttamento umano?”[42] Ora, da nessuna parte Filippi mostra in che senso lo sfruttamento animale è “premessa” e “giustificazione logica” di quello umano. Eppure la sua intuizione è giusta.[43] Occorrerebbe mostrare che la violenza sull’animale ha la stessa radice della violenza sull’uomo. Questa radice, come risulta dalle analisi della Scuola di Francoforte citate da Filippi, è il disprezzo di sé in quanto animale. Questo è il senso della frase di Adorno citata da Filippi:

Adorno afferma che “Auschwitz inizia quando si guarda ad un macello e si pensa: sono solo animali”. Con questo, Adorno intendeva dire che il mantener fuori dalla sfera della considerazione etica un’intera classe di esseri senzienti, fornisce non solo la giustificazione etica per le nostre pratiche infernali di trattamento degli animali, ma anche la possibilità ideologica di equiparare dei gruppi umani “indesiderati” agli animali stessi.[44]

Anche qui va però ribadito che la frase di Adorno si riferisce non alla semplice convinzione etica dei soggetti – cosa che dopo Freud può tranquillamente definirsi un fenemeno di superificie – quanto ad un fatto che attiene alla struttura stessa della coscienza umana. Che questa si percepisca come qualcosa d’altro dall’animale è, infatti, ciò che deve essere compreso per poter essere cambiato e per fare ciò non basta la semplice indignazione morale.
Uno dei punti di merito della scuola di Francoforte sta proprio nell’aver ampliato la concettualità del marxismo fino ad abbracciare il passaggio evolutivo-storico dall’animale all’uomo. Nella Dialettica dell’illuminismo, pubblicata da Adorno ed Horkheimer nel 1947 si legge: “L’idea dell’uomo, nella storia europea, trova espressione nella distinzione dall’animale. Con l’irragionevolezza dell’animale si dimostra la dignità dell’uomo. Questa antitesi è stata predicata con tale costanza e unanimità da tutti gli antenati del pensiero borghese – antichi ebrei, stoici e padri della Chiesa – e poi attraverso il Medioevo e l’età moderna, che appartiene ormai, come poche altre idee, al fondo inalienabile dell’antropologia occidentale”.[45] Ma la persistenza di questo pregiudizio, la sua continuità attravreso le epoche, non costituisce certo una spiegazione ed è ciò che va semmai spiegato. Adorno ed Horkheimer sottolineano come occorra indagare proprio il distaccarsi dell’uomo dalla sua originaria coscienza animale o meglio il sorgere della sua coscienza umana in quanto distinta da quella animale. Non ha senso rappresentarsi la coscienza umana come qualcosa di già pronto e fatto dall’alba dei tempi (ovviamente qualora si accetti l’origine naturale di essa); occorre spiegare in che modo sorga e si imponga, invece, come “ovvia” e “naturale” la scissione che essa porta al suo interno, il suo contrapporsi al resto del vivente pur essendo parte di esso.
Questo passaggio non è ovviamente indagabile in forma analitica, poiché affonda le proprie radici nella più buia preistoria. Ciò che noi possiamo constatare a posteriori, però, è che l’esercizio millenario del dominio dell’uomo sulla natura ha prodotto e accresciuto questa scissione che è sempre tornata a vantaggio del dominio stesso. “Gli uomini pagano l’accrescimento del loro potere con l’estraniazione da ciò su cui lo esercitano”.[46] Il dominio che l’uomo esercita sulla natura, in altri termini, appare contemporanemente come causa ed effetto del suo estraniamento da essa.
Soltanto una concettualità scientifica allergica alla lezione marxiana potrebbe però definire questo un circolo vizioso. La sua circolarità è la stessa che regola il ricambio tra individuo e società. Il sorgere della coscienza umana nel senso ora descritto, infatti, non può spiegarsi in termini antropologici o biologici – cioè come qualcosa che attenga all’uomo in quanto essere naturale, alla sua costituizone individuale-specifica – bensì intermini socio-economici. È qui che occorre trovare l’origine di quel dominio progressivo e inarrestabile che l’umanità esercita sulla natura, un dominio che coincide quasi totalmente con la sua storia[47] e non è certo “deducibile” dalla sua costituzione fisica.

Il desiderio insaziabile dell’uomo di estendere il suo potere in due infiniti, il microcosmo e l’universo, non ha radici nella sua natura bensì nella struttura della società. Come gli attacchi delle nazioni imperialistiche al resto del mondo si spiegano con le loro lotte intestine più che nei termini del loro cosiddetto carattere nazionale, così l’attacco della razza umana a tutto ciò ch’essa considera diverso da sé si spiega con i rapporti fra gli uomini più che con le innate qualità umane.[48]

Tali rapporti sono, come Marx ed Engels non si sono stancati di ricordare, conflittuali e determinano non solo la produzione materiale della società ma anche quella spirituale, condizionandone lo sviluppo successivo. È quindi attraverso l’organizzazione sociale che la coscienza “umana” sorge e si stabilisce come qualcosa di rigido e contrapposto alla natura. Anzitutto perché l’elevazione e il perfezionamento dello spirito umano è possibile solo laddove esiste il privilegio dell’esclusione dal lavoro materiale.[49] In secondo luogo perché, dato il suo rapporto di dipendenza dalla società, il singolo possiede l’immagine di sé che questa elabora e diffonde attraverso il proprio sviluppo economico ed ideologico. “Nel dominio sulla natura è incluso il dominio sull’uomo. Ogni soggetto non solo deve cooperare con gli altri per soggiogare la natura esterna, umana e non umana, ma per fare questo deve soggiogare la natura dentro di sé”.[50] L’uomo interiorizza perciò come singolo il dominio che esercita sulla natura esterna come specie, imparando a domare l’animale che egli stesso è.
L’uscita dell’uomo dall’animalità diviene un presupposto dell’esistenza stessa della società a cui nessun individuo può sottrarsi. La sua imposizione all’individuo diviene una costante necessità sociale, poiché minaccia lo stadio di sviluppo cui la società di volta in volta è giunta.

L’esistenza naturale, animale e vegetativa, era per la civiltà l’assoluto pericolo…Il ricordo vivo della preistoria, già delle fasi nomadi, e tanto più delle fasi propriamente prepatriarcali, è stato estirpato dalla coscienza degli uomini, in tutti i millenni, con le pene più tremende…L’umanità ha dovuto sottoporsi a un trattamento spaventoso, perché nascesse e si consolidasse il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell’uomo, e qualcosa di tutto ciò si ripete in ogni infanzia.[51]

L’autoconservazione della specie attraverso l’individuo trapassa, per mezzo dell’organizzazione sociale, nell’autoconservazione del collettivo, il quale asserve a sé il destino dei singoli individui. Su questa impotenza dell’individuo sorvolano immancabilmente tutte le teorie morali. Esse dimenticano che la divisione del lavoro, il sorgere di funzioni dirigenti e caste sacerdotali (“i primi rudimenti della forza dello Stato”[52]) trasformano gradatamente l’organizzazione della società in un essere super-individuale, qualcosa che si contrappone agli individui e, al tempo stesso, li struttura dall’interno secondo i propri bisogni. “Ciò che tutti subiscono ad opera di pochi, si compie sempre come sopraffazione di singoli da parte di molti: e l’oppressione della società ha sempre anche il carattere di una oppressione da parte del collettivo”.[53] L’inganno e l’ “accecamento”, come lo chiamano Adorno ed Horkheimer, è di tutti e di nessuno.
Il dominio dell’uomo sulla natura non deve essere concepito come l’opera di un essere innaturale, ciò che restaurerebbe l’opinione religiosa sul carattere “trascendente” dell’essere umano. L’oppressione che la società umana esercita sulla natura interna all’uomo non meno che su quella esterna, si fonda infatti sull’illusione della separazione ontologica tra spirito e natura. Ciò significa non solo che l’essere “altro” della natura è solo un nome della sua degradazione, ciò di cui lo spirito ha bisogno per potersi ergere sopra di essa, ma che esso nasconde l’inganno di cui si nutre lo spirito umano inconciliato: il suo perpetuare la violenta lotta intestina della natura. L’uomo non fa altro che riprodurre a un livello più alto una violenza che esso eredita dalla lotta naturale per l’esistenza.

Tutto il sofisticato meccanismo della società industriale moderna è solo natura che si dilania…La natura in sé non è buona, come voleva l’antico romanticismo, né nobile, come pretende il nuovo. Come modello e mèta, rappresenta l’antispirito, la menzogna e la bestialità; solo in quanto è conosciuta diventa l’impulso dell’esistente alla propria pace, la coscienza che ha animato, fin dall’inizio, la resistenza inflessibile contro i capi e il collettivo. Ciò che minaccia la prassi dominante e le sue alternative ineluttabili, non è certo la natura, con cui essa piuttosto coincide, ma che la natura venga ricordata.[54]

La consapevolezza materialistica che l’uomo sia, nonostante tutto, ancora un animale è la precondizione di ogni uscita dallo stato di barbarie in cui versa il pianeta. Questo stadio coinciderebbe per lui con il suo divenire propriamente uomo, secondo la formulazione di Engels, e quindi con l’abbandono della lotta per l’esistenza sia all’interno della società umana che all’esterno: una possibilità che lo sviluppo delle forze produttive ha oramai messo all’ordine del giorno. Solo attraverso il ricordo della natura che esso stesso è, lo spirito umano può risolvere gli antagonismi che lo dilaniano e che lo contrappongono al resto del vivente. uQuesto “Nella coscienza che lo spirito ha di sé come natura in sé scissa, è la natura che invoca se stessa”.[55] Con buona pace dei sostenitori dell’estinzione umana (i quali troveranno probabilmente in Matrix la propria Bibbia), l’avventura storica dell’uomo è l’avventura stessa della natura che, internamente lacerata, desidera uscire dalla propria condizione di violenza e accedere ad uno stadio di pacificazione che solo l’uomo, con tutta la brutalità di cui è stato capace da millenni, può garantirle. La ragione umana non è solo lo strumento che freddamente pianifica il massacro, ma anche l’arma di cui la sollecitudine verso i deboli non può fare a meno. L’uomo ha certo dichiarato una guerra senza pari ai suoi fratelli non umani e all’ambiente che lo circonda. Ma la natura che invoca se stessa all’interno della sua coscienza pronuncia tramite l’uomo anche una parola che prima non conosceva: pace.

5. Conclusione: può un animalista non essere comunista?

Il movimento per i diritti animali non sembra considerare una necessità compiere uno sforzo (anche teorico) per l’unificazione della sua prospettiva con quella del socialismo rivoluzionario. Esso è spesso anzi convinto che l’idea di una società comunista (razionale, giusta, egualitaria e democratica) non implichi la cessazione dello sfruttamento degli animali né, tantomeno, il riconoscimento dei loro “diritti”. Nella misura in cui questa convinzione rispecchia concezioni molto diffuse nel marxismo “ufficiale” essa è giusta e ho cercato di mostrare perché. Ma ho anche mostrato come il marxismo, correttamente inteso e sviluppato nella propria concettualità, superi questo limite e si spinga a realizzare un ordine sociale in cui la lotta contro il mondo animale cessi definitivamente. Una volta cessati gli antagonismi economici interni alla società umana che spingono questa ad un’accelerazione costante della capacità produttiva, ad una corsa folle verso uno status di benessere sempre procrastinato, la riduzione generale dell’orario di lavoro e l’allentamento della pressione sociale sui singoli aprirebbe le porte anche ad un rapporto più sano ed equilibrato con sé e con l’ambiente circostante. Ciò non implicherebbe ancora la diffusione generalizzata del vegetarismo e la cessazione della sperimentazione animale, ma la fine delle diseguaglianze distributive e la conseguente razionalizzazione nell’uso delle risorse porrebbe fine almeno all’allevamento intensivo come lo conosciamo e alla perversione “commerciale” che domina e distorce la ricerca scientifica. Infine, uno stato di cose in cui la propaganda capitalistica ha cessato di dominare l’orizzonte dei media costituirebbe terreno fertile per una presa di coscienza animalista anche più avanzata.
La questione è ora se l’animalismo è pronto a ripensare la propria concettualità e i propri mezzi moralistici di difesa degli animali per assumere una dimensione propriamente politica. Il sostenitore dei diritti animali dovrebbe cioè rispondere alla domanda: è possibile pensare una società emancipata dalla violenza sugli animali che non abbia posto fine anche alla violenza dell’uomo sull’uomo? A questa domanda ho risposto negativamente cercando di delineare una visione teorica che accomuni animalismo e marxismo. Intendo ora sostenere che la lotta per i diritti animali, al di fuori di questa prospettiva unificante, è illusoria.
Mi interessa qui, ovviamente, solo l’animalismo “radicale”, l’unico che possegga i requisiti per un aggancio con la prospettiva marxista. Di fronte alla sofferenza inaudita, insensata, cieca e muta di miliardi di animali appare infatti ragionevole e nient’affatto “estremista”, la richiesta di un cambiamento immediato delle loro condizioni. Il problema è come si intende questo cambiamento. Una volta posti di fronte alle molteplici forme di sfruttamento e distruzione della vita animale, che hanno origini storiche e funzioni sociali diverse, il modo più diretto e semplice di dare unità alla richiesta di una loro cessazione immediata è quello della richiesta di diritti. Questa è anche la forma generale assunta dal movimento in difesa degli animali, in base all’assunto: riconoscimento di diritti = protezione. Vorrei accennare ad alcuni problemi che sorgono da questo assunto.
Anzitutto, il diritto costituisce un modo astratto e unilaterale di unificazione delle diverse problematiche animaliste e non tiene conto delle molteplici forme in cui il rapporto uomo-animale si è articolato storicamente e socialmente. Questo rapporto varia talmente da questo punto di vista da non poter essere ricondotto a definizioni astratte e universali. L’uomo riesce a nutrirsi di formiche, serpenti e cani, e non solo di maiali, polli e vitelli. L’uomo ha considerato sacri gatti e mucche, prima di trasformarli in schiavi da compagnia e mocassini. Se si prescinde allora dai casi particolari storici e geografici in cui determinati animali hanno rivestito una qualche utilità per l'uomo – se si sostituisce, cioè, a “serpente”, a “cane”, a “vitello” un essere universale indeterminato chiamato “animale” – scompaiono anche i motivi concreti che “giustificano” il rapporto tra uomo e animale (nutrizione, abbigliamento, superstizione etc.). La richiesta generalizzata di diritti per gli animali non si articola in una serie di comportamenti positivi degli uomini verso di essi (poiché essi non entreranno a far parte automaticamente della società umana e non si vedranno automaticamente estesi tutti i diritti che spettano agli umani), ma è la semplice negazione del trattamento che noi riserviamo loro oggi. L’unità giuridica sotto cui l’animalismo sussume gli obblighi nei confronti degli animali è un’unità negativa[56] conseguente al fatto che gli animali, soggetti passivi dell’ordinamento giuridico, devono divenirne soggetti attivi senza potersi automaticamente identificare con gli attuali soggetti attivi di esso (gli umani), problema che ovviamente non avevano gli abolitori della schiavitù.
Ciò fa sorgere una riflessione. La tentazione giuridica dell’animalismo non è probabilmente casuale. È infatti il trionfo di una forma di vita storica specifica (eurocentrica, capitalistica e tecnologica) a dare allo sfruttamento sugli animali un carattere universale e uniforme – provocando in risposta l'animalismo come forma universale di difesa degli animali. Ciò fa sì che il problema della violenza sugli animali sia posto sub specie aeternitatis. Non a caso Singer scrive: “Focalizzo il mio interesse sull’Occidente non perché le altre culture siano inferiori (è vero il contrario per quel che riguarda l’atteggiamento verso gli animali) ma perché durante i due o tre secoli passati le idee occidentali si sono propagate partendo dall’Europa fino a che al giorno d’oggi sono arrivate a costituire il modo di pensare della maggior parte delle società umane, sia capitaliste che comuniste”.[57] Il trattamento iper-efficientizzato e sistematico che il capitalismo[58] riserva gli animali rende oggi talmente evidente la loro nullità di fronte all’uomo da provocare in risposta la richiesta indignata del riconoscimento di un loro valore intrinseco.
Benché però gli animali abbiano ora un rapporto distorto con noi, improntato alla violenza e alla sopraffazione assoluta, si tratta pur sempre di un rapporto reale. La richiesta di diritti ci costringe invece ad articolare questo rapporto reale (che è di solito complesso sia nelle motivazioni storiche e nelle concrete forme di manifestazione) nella forma astratta del rapporto giuridico. L’idea che ci si fa del rapporto uomo-animale in una società che riconosca diritti fondamentali agli animali non umani è, di conseguenza, vago e nebuloso. E non potrebbe essere altrimenti. In genere ci immagina che in un simile futuro “dovremmo lasciare in pace gli animali”, lasciarli alla “loro” vita. In realtà non si fa altro che immaginare la nostra società attuale senza gli animali, quasi che sia possibile pensare già la semplice assenza di questi ultimi dalle nostre città e il funzionamento delle nostre industrie senza le materie prime che essi, purtroppo, sono. Difficile anche solo da immaginare come potremmo spartire il pianeta con loro. Cosa quindi voglia dire in concreto, cosa implichi questo “lasciare gli animali in pace”, nessuno riesce a dirlo. Chi pensa così in realtà non fa altro che sancire un non-rapporto tra uomini e animali.
Non è detto che il riconoscimento dello status giuridico di soggetto all’animale sia qualcosa che si possa compiere all’interno degli attuali ordinamenti legislativi. E non è ancora dato sapere quali modificazioni questi sistemi costitutivamente antropocentrici dovranno subire per rendersi omogenei e coerenti con l’insieme di norme che gli animalisti vorrebbero introdurvi. Ma è abbastanza evidente che si tratta di un rivolgimento radicale se non si lascia nemmeno immaginare nella sua portata (“il suo successo esige nientemeno che una rivoluzione nel pensiero e nella prassi della nostra cultura”[59]). Sia chiaro: questo non viene detto per “confutare” la giustezza della pretesa di imporre quelle norme agli attuali ordinamenti. Anzi, la radicalità con cui questa richiesta è avanzata costituisce il suo principale punto di onore. Quanto detto finora vuole solo suggerire l’oggettiva impraticabilità della via istituzionale al riconoscimento di quei diritti.
Chi immagina che il cambiamento debba essere effettivamente profondo (“uguali diritti per uomini e animali”) e non superficiale (“miglioramento delle condizioni animali”) non può certo pensare che esso avvenga dall’oggi al domani. E, infatti, il movimento per la difesa degli animali si preoccupa, per lo più, di combattere una battaglia di lungo periodo per il cambiamento delle coscienze. Ma tale obiettivo, più che far presagire una rivoluzione, annuncia, evidentemente, un cambiamento epocale (la “fine dello specismo”). La richiesta di “immediata” cessazione della sofferenza si perde pertanto nelle nebbie di un futuro lontano, assume tinte messianiche. E la cosa non cambia per chi si immagina un più pragmatico cambiamento “graduale”, cioè di poter instaurare l’uguaglianza giuridica tra uomo e animale attraverso piccoli aggiustamenti del sistema: nessuna somma di aggiustamenti parziali potrà realizzare l’uguaglianza giuridica se manca la norma fondamentale che esplicitamente dà al precetto dell’eguaglianza valore normativo.
Ora, io ritengo che questa posizione si scontri contro un limite intrinseco che rende non solo utopica la possibilità di un’abolizione graduale dello sfruttamento animale, ma oggettivamente irrealizzabile se percorsa per via legale. Questo limite è costitutivo di una richiesta di diritti che tende, per sua natura, a sconquassare gli attuali ordinamenti giuridici. Le difficoltà non sono soltanto di natura tecnica e formale o, meglio, sono dovuti alla natura squisitamente tecnica e formale della scienza giuridica. Il diritto è, di fatto, la formalizzazione e generalizzazione di comportamenti sociali che la prassi ha già stabilito e sanzionato. La teoria dei diritti animali passa sopra la vecchia, ma non per questo confutata, nozione secondo cui il diritto è una sovrastruttura. Esso è l’espressione di determinati rapporti di potere e di una ben precisa organizzazione economica. Non è il diritto che può sovvertire questi ultimi, poiché esso ne è, fino in fondo, creatura. È un segreto di pulcinella il fatto che il riconoscimento dei diritti umani non abbia diminuito affatto la violenza dell’uomo sull’uomo. E ciò non va inteso solo nel senso banale che la sofferenza e l’oppressione umana è ancora una realtà nonostante il diritto, di modo che un animalista potrebbe obiettare: “il riconoscimento dei diritti animali è solo il primo passo verso un’equità di trattamento reale”. Esso va inteso nel senso che in nessun caso il riconoscimento del diritto è stato la causa di una diminuzione generalizzata della sofferenza umana, poiché il diritto non fa che confermare una situazione che la realtà sociale ha già sancito nella prassi reale, in primis economica.
Tom Regan afferma che “non è in alcun modo possibile sostenere la causa dei diritti degli animali senza sostenere la causa dei diritti degli esseri umani”.[60] Ma il compito che si è prefisso in quanto filosofo morale è quello di offrire una fondazione razionale di entrambi, non certo di fare in modo che questi diritti vengano effettivamente applicati, il che richiederebbe la rimozione delle cause che ne impediscono la realizzazione. Regan è convinto che “la filosofia morale non è un surrogato dell’azione politica. Tuttavia può contribuire ad orientarla”.[61] Ciò può sembrare vero solo a chi ritiene vere queste condizioni: 1) che il progresso politico risulti da una discussione razionale in cui l’argomento più convincente ha la meglio; 2) che la discussione sia effettivamente libera e non venga manipolata. Nessuno di questi due presupposti mi sembra anche solo vagamente verosimile. Regan afferma che le questioni che stanno a cuore al movimento per i diritti animali “sono tutte questioni, in larga misura, politiche”.[62] Subito dopo, però, specifica: “la gente deve cambiare le sue convinzioni prima di cambiare le sue abitudini”.[63] E questa è la precisa descrizione di una politica borghese, legalistica, che mai e poi mai potrà superare i limiti che il capitalismo impone al diritto. Credere che il cambiamento reale consegua ad un cambiamento delle coscienze è ingenuo e, alla fine, controproducente.
L’opinione di Singer sulla funzione politica dell’animalismo è formulata diversamente ma è in fondo la medesima di Regan: “Il problema non è tanto quello di trasformare l’opinione della gente. C’è piuttosto da disperdere una gran quantità di ignoranza, ma, una volta che la gente verrà a sapere come vanno le cose, con ogni probabilità disapproverà, e lo farà energicamente”.[64] Le proposte politiche di Singer sono infatti le stesse di Regan e non portano molto lontano. Dopo aver suggerito metodi di protesta e boicottaggio e tentativi di soluzione come l’instaurazione di una commissione scientifica “imparziale” che decida dell’utilizzo di fondi nella ricerca scientifica (cosa che in realtà presuppone già una vittoria politica dell’animalismo), Singer ammette: “ma il problema più grande rimane lo specismo; finché non lo si estirpa, neanche il resto può essere risolto”.[65] Qui si instaura evidentemente una circolarità tra diagnosi e cura che è il vero punto debole dell’animalismo etico: dalla sofferenza animale si deduce lo specismo e lo specismo è posto al di sopra della storia come la causa della sofferenza animale[66]; di conseguenza, diminuire la sofferenza animale significa contrastare lo specismo ma, a sua volta, la riduzione della sofferenza è possibile solo a partire da un arretramento della coscienza specista dell’uomo.
Ma la verità è che i nostri attuali ordinamenti giuridici non verranno sovvertiti finché non verrà abbattuto il capitalismo. Ora, è possibile pensare che il capitalismo ponga fine alla sofferenza degli animali, che si ristrutturi attorno alle richieste degli animalisti, senza porre fine a sé stesso? In tal caso sarebbe possibile pensare ad una cessazione della violenza sugli animali senza che sia posto fine alla violenza sull’uomo. Nel caso in cui si pensi, invece, che il riconoscimento dei diritti animali implichi il rovesciamento del capitalismo, occorrerebbe spiegare in che modo questo rivolgimento possa accadere. Riesce infatti difficile immaginarsi che ciò che scioperi generali e manifestazioni imponenti in tutto il mondo non hanno potuto, lo possano petizioni e boicottaggi. Occorre rovesciare la questione e rendersi conto che l’abbattimento del capitalismo e l’instaurazione di un’organizzazione sociale più equa e giusta è la conditio sine qua non di ogni diminuzione generalizzata dello sfruttamento animale. E questo perché un cambiamento di coscienza è possibile solo laddove la base reale dell’esistenza dei singoli è cambiata.
Da questo punto di vista, il marxismo esprime in sé l’ideale di un superamento della scissione e della contrapposizione uomo-natura, in una forma generale che può ospitare sia le aspirazioni della coscienza animalista, sia quelle della coscienza ecologista.[67] Queste, in un certo senso, anticipano il momento della sua realizzazione ma non possono, da sole, compierlo perché è ormai chiaro che l’anarchia e la violenza del capitalismo non si lasciano imbrigliare e condurre né da visioni apocalittiche, né, tantomeno, da discorsi moraleggianti. Se si pensa che la cessazione immediata della sofferenza umana e animale “è possibile ora” e ci si rifiuta di concedere altro tempo al sistema dello sterminio attraverso l’attendismo giuridico, non resta che una strada da percorrere. Tale strada conduce inevitabilmente e coerentemente alla rivoluzione politica.

Note

[1] M. Filippi, “Può un non vegetariano dirsi comunista?”, da Rinascita Animalista. Officina della theoria, 25/01/03, disponibile su http://www.liberazioni.org/ra/ra/officina004.html)

[2] In realtà si tratta di una mera rivendicazione sindacale e, quindi, nient’affatto marxista: “nell’ottica del miglior profitto, i lavoratori dei macelli sono tra i lavoratori peggio pagati, con minore tutela sindacale e con il maggior tasso di incidenti gravi sul lavoro. I lavoratori delle grandi catene distributive non stanno meglio (i loro contratti lavorativi sono tipicamente flessibili e limitati nel tempo). Vista la scarsa specializzazione richiesta, questa tipologia di lavoratori è reclutata tra gli emigrati di recente arrivo, per definizione, privi di diritti, e spesso anche incapaci di parlare la lingua del paese ‘ospitante’.” M. Filippi, “Può un non vegetariano dirsi comunista?”, cit.

[3] D. Sztybel, “Marxism and Animal Rights”, in Ethics and the Environment 2 (1997), pp. 169-85 (disponibile su http://sztybel.tripod.com/Marxism.html).

[4] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 19682, p. 111.

[5] D. Sztybel, “Marxism and Animal Rights”, cit.

[6] K. Marx, Manoscritti, cit., p. 185.

[7] D. Sztybel, “Marxism and Animal Rights”, cit.

[8] K. Marx, Manoscritti, cit., p. 77.

[9] Sztybel è così lontano dal marxismo che per lui il fatto che l’appropriazione della natura da parte dell’uomo costituisca un fatto sociale è una mera tautologia. Sztybel cita Marx: “l’essenza umana della natura esiste soltanto per l’uomo sociale: infatti soltanto qui la natura esiste per l’uomo come vincolo con l’uomo, come esistenza di lui per l’altro e dell’altro per lui, e così pure come elemento vitale della realtà umana, soltanto qui essa esiste come fondamento della sua propria esistenza umana” (K. Marx, Manoscritti, cit., p. 113). E poi gli attribuisce un circolo vizioso, commentando: “[Marx] tenta di mostrare che il significato umano della natura esiste solo per l’uomo sociale e i suoi motivi per affermare questo è che solo nel caso dell’uomo sociale c’è, in effetti, un vincolo di interdipendenza con altri uomini”. Sztybel non capisce che l’affermazione gli appare circolare solo perché ha cancellato il riferimento al lavoro, che per Marx è la forma base e ineliminabile del rapporto tra l’uomo e la natura, del loro continuo scambio. Questa interdipendenza tra uomo e natura si mostra però sempre come socialmente determinata, legata cioè non alla vaga “interdipendenza” tra uomo e uomo, ma alla specifica organizzazione sociale, ovvero ai rapporti di produzione dominanti.

[10] D. Sztybel, “Marxism and Animal Rights”, cit.

[11] La citazione prosegue così: “affermiamo per contro, che ogni teoria morale sinora esistita è, in ultima analisi, il risultato della condizione economica della società di quel tempo”. F. Engels, Anti-Dühring, Editori riuniti, Roma 19712, p. 100. È chiaro che questa conclusione deve essere apparsa incomprensibile Sztybel.

[12] Si badi che il marxismo non assume per questo una teoria morale relativistica, ma si pensa come movimento teorico e politico che spiega l’origine delle morali universalistiche e astoriche, propondone il superamento pratico attraverso la modificazione della realtà storica. Ciò non implica che Marx ed Engels non agissero in base a un qualche orientamento morale, ma si tratta di tendenze personali che non entrano nella definizione della teoria che essi hanno elaborato.

[13] Si tratta di ripicche vacue e tautologiche, perché Szytbel non fa altro che accusare di “specismo” ogni definizione marxiana volta alla determinazione della specificità umana, partendo dall’arbitrario assunto che tale definizione serva da appoggio ad una teoria morale antropocentrica.

[14] Nella Dialettica della natura, d’altronde, Engels ammette esplicitamente che tutte le qualità che sono proprie dell’uomo si ritrovano entro un certo grado anche negli animali: autocoscienza, linguaggio, intelligenza, capacità di agire secondo un fine etc. Cfr. F. Engels, Dialettica della natura, Editori riuniti, Roma 19784, pp. 183 e sgg. In quanto essere “naturale” l’uomo non possiede caratteristiche soprannaturali che lo distinguono dagli animali. È il lavoro e il fatto che attraverso il lavoro egli faccia la propria storia che mostra la differenza essenziale, la qualità emergente, rispetto agli altri animali da cui occorre partire per definirne la natura.

[15] K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori riuniti, Roma 20005, p. 8.

[16] “In questo modo, in un certo senso, l’uomo si separa definitivamente dal regno degli animali e passa da condizioni di esistenza animali a condizioni di esistenza effettivamente umane”. F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, Laboratorio politico, Napoli 1992, p. 93.

[17] D. Sztybel, “Marxism and Animal Rights”, cit.

[18] “La sporcizia, questo impantanarsi e putrefarsi dell’uomo, la fogna (in senso letterale) della civiltà, diventa per l’operaio un elemento vitale. Diventa un suo elemento vitale, il completo e innaturale abbandono, la natura putrefatta. Nessuno dei suoi sensi esiste più, non solo nella sua forma umana, ma anche in una forma disumana, e quindi neppure in una forma animalesca. […] L’uomo non solo non ha più bisogni umani; ma in lui anche i bisogni animali vengono meno. L’irlandese conosce soltanto più il bisogno di mangiare, o meglio soltanto più il bisogno di mangiare le patate, o meglio ancora soltanto più il bisogno di mangiare le patate della qualità più scadente.”. K. Marx, Manoscritti, cit., p. 129.

[19] “La possibilità di assicurare, per mezzo della produzione sociale, a tutti i membri della collettività una esistenza che non solo sia completamente sufficiente dal punto di vista materiale e diventi ogni giorno più ricca, ma che garantisca loro lo sviluppo e l’esercizio completamente liberi delle loro facoltà fisiche e spirituali: questa possibilità esiste ora per la prima volta, ma esiste”. F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, cit., pp. 92-93.

[20] “L’idea che tutti gli uomini hanno qualche cosa di comune e che essi sono anche eguali nei limiti di questo elemento comune, è ovviamente antichissima. Ma assolutamente diversa da tutto questo è la moderna rivendicazione dell’eguaglianza; questa consiste invece nel dedurre da quella proprietà comune dell’essere umano, da quell’eguaglianza degli uomini in quanto uomini, il diritto ad un eguale valore politico e, rispettivamente, sociale…Prima che da quella originaria idea di una eguaglianza relativa si sia potuta trarre la conclusione di un’eguaglianza di diritti nello Stato e nella società, prima ancora che questa conclusione sia potuta apparire qualcosa di naturale e ovvio, dovevano passare millenni, e millenni sono passati”. F. Engels, Anti-Dühring, cit., p. 109.

[21] K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, cit., p. 25.

[22] Ibid., p. 24.

[23] All’aumentare del salario “l’operaio mangia più carne. Soddisfa più bisogni”. K. Marx, Storia dell’economia politica. Teorie sul plusvalore II, Editori riuniti, Roma 19932, pp. 4-5. Cfr. anche, in generale, F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, Editori riuniti, Roma 19784.

[24] “Col permesso dei signori vegetariani, l’uomo non si sarebbe formato senza alimentazione carnea; e se è pur vero che l’alimentazione carnea ha prima o poi, per un certo periodo, condotto tutti i popoli a noi conosciuti all’antropofagia (gli antenati dei berlinesi, i Veletabi o Velsi, mangiavano i loro genitori ancora nel X secolo) la cosa ormai non ci tocca più”. F. Engels, Dialettica della natura, cit., p. 189.

[25] “Da quando sto qui ho cominciato a prendere The Daily News invece dello Standard. È anche più stupido, se è possibile. Predica l’antivivisezionismo!” Lettera di Engels a Marx, Bridlington Quay, Yorkshire, 11 agosto1881. Cfr. anche la lettera di Engels a Bebel, Londra, 24 novembre 1879.

[26] F. Engels, Sulle origini del cristianesimo, Editori riuniti, Roma 20004, pp. 24-25.

[27] F. Engels, Dialettica della natura, cit., p. 192.

[28] M. Filippi, “Può un non vegetariano dirsi comunista?”, cit.

[29] “Gli uomini, appena nelle origini emergono dal mondo animale (in senso stretto), fanno il loro ingresso nella storia”. F. Engels, Dialettica della natura, cit., p. 190.

[30] “Solo la schiavitù rese possibile che la divisione del lavoro tra agricoltura ed industria raggiungesse un livello considerevole e con ciò rese possibile il fiore del mondo antico: la civiltà ellenica. Senza la schiavitù non sarebbero esistiti né lo Stato, né l’arte, né la scienza della Grecia; senza la schiavitù non ci sarebbe stato l’impero romano. Ma senza le basi della civiltà greca e dell’impero romano non ci sarebbe l’Europa moderna. Non dovremmo mai dimenticare che tutto il nostro sviluppo economico, politico e intellettuale ha come suo presupposto uno stato di cose in cui la schiavitù era tanto necessaria quanto generalmente riconosciuta. In questo senso abbiamo il diritto di dire che senza l’antica schiavitù non ci sarebbe il moderno socialismo”. F. Engels, Dialettica della natura, cit., p. 192.

[31] “Non ritraggo per niente le figure del capitalista e del proprietario fondiario in luce rosea. Ma qui si tratta delle persone solo in quanto sono la personificazione di categorie economiche, che rappresentano determinati rapporti e determinati interessi di classe. Il mio punto di vista, che considera lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, non può assolutamente fare il singolo responsabile di rapporti da cui egli socialmente proviene, pure se soggettivamente possa innalzarsi al di sopra di essi”, K. Marx, Il capitale, Newton, Roma 1996, I, p. 43.

[32] F. Engels, “Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia”, in Dialettica della natura, cit., pp. 185 e sgg.

[33] Da ciò deriva “l’usanza giunta fino a noi di esprimere in forza di cavalli la forza meccanica”. K. Marx, Il capitale, Newton, Roma 1996, I, p. 280.

[34] K. Marx, Forme economiche precapitalistiche, Editori riuniti, Roma 19672, p. 94. È infatti evidente che esiste una circolarità indissolubile tra produzione e consumo (ogni società produce per consumare e consuma per produrre) che però, spiega Marx, non deve far dimenticare che la produzione – l’elemento attivo, creativo, generativo – costituisce, in ultima analisi, “il momento egemonico”. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze 19973,vol. I, p. 18.

[35] Stando ad Engels l’alimentazione carnea “abbreviò i tempi della digestione…e portò con ciò ad un acquisto di tempo, di sostanze, di energia…portò due nuovi progressi di importanza decisiva: l’uomo imparò a servirsi del fuoco ed addomesticare le bestie”. F. Engels, Dialettica della natura, cit., p. 189. Si tratta, come si vede, di necessità contingenti, storiche, che il successivo sviluppo dell’umanità ha reso anche rispetto alle argomentazioni engelsiane totalmente supreflue.

[36] K. Marx, Forme economiche precapitalistiche, cit., pp. 105-106.

[37] Ivi.

[38] Ibid., p. 99. “Non è da tutti possedere uno schiavo. Per potersene servire bisogna avere a disposizione due cose: in primo luogo gli strumenti e gli oggetti per il lavoro dello schiavo e in secondo luogo i mezzi necessari per il suo mantenimento. Quindi, prima che la schiavitù diventi possibile bisogna che sia raggiunto un certo livello nella produzione e che sia comparso un certo grado di diseguaglianza nella distribuzione”. F. Engels, Anti-Dühring, cit., p. 171.

[39] Che, anzi, fornisce elementi importanti anche per una storia critica della visione umana dell’animale. Qualcosa su cui Marx ha, purtroppo, lasciato cadere solo qualche osservazione casuale: “osserviamo di sfuggita che Cartesio definendo gli animali come pure e semplici macchine, vede con gli occhi del periodo della manifattura, che sono molto differenti da quelli del Medioevo, quando si considerava l’animale come ausilio dell’uomo”. K. Marx, Il capitale, cit., p. 290n.

[40] F. Engels, Dialettica della natura, cit., pp. 187 e sgg.

[41] K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, cit., pp. 58-59.

[42] M. Filippi, “Può un non vegetariano dirsi comunista?”, cit.

[43] Anche se espressa in modo ancora troppo generico: essa si lascia intendere o in senso astorico (“la violenza che l’uomo ha sempre esercitato sull’animale è il presupposto della violenza che l’uomo ha sempre esercitato sull’uomo”), oppure nel senso ingenuamente storico che abbiamo già visto criticato da Marx (“a un certo punto l’uomo, dopo aver soggiogato gli animali, ha cominciato a soggiogare altri uomini”).

[44] M. Filippi, “Può un non vegetariano dirsi comunista?”, cit..

[45] Th. W. Adorno – M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 19974, p. 263.

[46] Ibid., p. 17.

[47] “L’assenza di ragione non ha parole. Parole ha solo il suo possesso, che domina la storia manifesta. La terra intera testimonia la gloria dell’uomo. In guerra e in pace, sull’arena e nel macello, dalla lenta morte dell’elefante sopraffatto da orde umane primitive in base alla prima pianificazione, fino allo sfruttamento sistematico del mondo animale oggi, le creature irragionevoli hanno sempre dovuto intender ragione”. Ibid., p. 263.

[48] M. Horkheimer, Eclissi della ragione, p. 97.

[49] “Il distacco del soggetto dall’oggetto, premessa dell’astrazione, è fondato nel distacco dalla cosa, a cui il padrone perviene mediante il servitore”. Th. W. Adorno – M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 21.

[50] M. Horkheimer, Eclissi della ragione, p. 84.

[51] Th. W. Adorno – M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, cit., pp. 38-41. Scrive Adorno nella Dialettica negativa: “Un proprietario di albergo, di nome Adamo, uccideva con un bastone i topi che uscvano da fori nel cortile davanti agli occhi del figlio, che gli voleva bene; a sua immagine il bambino si è fatta quella degli altri uomini. Il fatto che ciò venga dimenticato, che non si capisca più quel che si è provato un tempo davanti alla macchina dell’accalappiacani, è il trionfo, e il fallimento, della cultura”. Th. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1975, p. 331.

[52] F. Engels, Dialettica della natura, cit., p. 191.

[53] Th. W. Adorno – M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 30.

[54] Ibid., pp. 271-272.

[55] Ibid., p. 47.

[56] Non a caso il riconoscimento dei diritti inalienabili comporta come necessaria conseguenza la cessazione dell’alimentazione carnea e lo smantellamento degli allevamenti intensivi e la chiusura o la riconversione delle industrie di pellicce e di quelle per la produzione dei capi in pelle e l’abolizione della vivisezione e la fine dell’industria del divertimento tramite animali (zoo e circhi etc.). Da questa serie di “e…” giustapposti, non è (ancora) possibile tracciare una teoria giuridica positiva del rapporto uomo-animale; essi sono reciprocamente indifferenti. Non c’è, difatti, contrariamente a quanto solitamente si dice, un rapporto di implicazione tra l’imposizione del vegetarismo, ad esempio, e lo smantellamento degli allevamenti intensivi. Entrambi conseguono, ma in maniera autonoma, dallo stesso riconoscimento di un diritto intrinseco alla vita.

[57] P. Singer, Liberazione animale, ed. LAV, Roma 1987, p. 189.

[58] Quelle che Singer definisce società comuniste sono, in realtà, i paesi in cui il capitalismo di stato e il burocratismo stalinista hanno trionfato usurpando il nome del marxismo e della rivoluzione socialista. È vero che l’Unione Sovietica non sviluppò una legislazione animalista, ma è necessario ricordare che – prima dell’avvento di Stalin – essa considerò suo dovere difendere la natura e non soggiogarla al dominio strumentale dell’uomo nonostante le enormi pressioni di natura economica cui era sottoposta. Cfr. Douglas R. Weiner, Models of Nature: Ecology, Conservation, and Cultural Revolution in Soviet Union, Indiana Univ., 1988 e AAVV, The Greening of Marxism, Guilford, 1996.

[59] T. Regan, I diritti animali, Garzanti, Milano 1990, p. 533.

[60] Ibid., p. 20.

[61] Ibid., p. 533.

[62] T. Regan, “Il caso dei diritti animali”, in P. Singer (a cura di), In difesa degli animali, Lucarini, Roma 1987, p. 28 (corsivo mio).

[63] Ivi.

[64] P. Singer, Liberazione animale, cit., p. 80.

[65] Ibid., p. 83.

[66] “Non dobbiamo ritenere queste pratiche aberrazioni isolate: infatti le possiamo interpretare correttamente solo se le consideriamo come manifestazioni dell’ideologia della nostra specie, vale a dire come l’atteggiamento che noi, animali dominanti, abbiamo verso altri animali”. Ibid., p. 189. Ma l’uomo non è affatto in sé un animale dominante. La sua evidente debolezza fisica rispetto agli altri animali dice, anzi, palesemente il contrario. L’uomo diviene animale dominante e, lo abbiamo visto, lo diviene solo come essere collettivo e non come “specie”. In che modo la coscienza specista si articoli in comportamenti specisti è una questione che non può essere posta in generale ma riguarda la storia dell’uomo e solo qui può trovare un’articolazione adeguata. Conseguentemente all’eclissi della dimensione sociale che è propria dell’etica borghese, la “breve storia dello specismo” abbozzata da Singer in Animal Liberation non è una storia materiale, ma una storia di “idee”. Singer cita alcuni pensatori che durante la storia hanno proposto questa o quella concezione dell’animale, come se la storia reale fosse fatta dai filosofi, come se la produzione spirituale non avesse il suo ancoraggio necessario nella produzione materiale della società.

[67] E di quella femminista. Nella prospettiva teorica che abbiamo delineato, la continuità della lotta di liberazione della donna e quella animale è un fatto oggettivo e una necessità teorica prima ancora che pratico-strategica. Nella misura in cui il ruolo sociale della donna passava in secondo piano, la coscienza e la razionalità si andavano definendo sempre più come attributi maschili. La donna diventa così automaticamente l’anello di congiunzione tra la ragione umana e la sensibilità animale, trovandosi spesso in contiguità con questa (l’informe “natura”, la yle, che essa dovrebbe rappresentare di contro alla spiritualità, alla razionalità formatrice del maschio). “La donna non è soggetto. Essa non produce, ma cura i produttori, documento vivente dei tempi da lungo scomparsi dell’economia domestica chiusa. La divisione del lavoro, ottenuta e imposta dall’uomo, è stata poco propizia alla donna. Che è assurta a incarnazione della funzione biologica, a immagine della natura, la cui oppressione era il titolo di gloria di questa civiltà. Dominare senza fine la natura, trasformare il cosmo in un immenso territorio di caccia, è stato il sogno dei millenni: a cui si conformava l’idea dell’uomo nella società civile. Era questo il senso della ragione di cui andava fiero”. Th. W. Adorno – M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 265. Ciò che Marx scrisse della donna vale oggi forse, a maggior ragione, per gli animali.