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I CAPITOLO

Le bombe del 12 dicembre -- La morte di Armando Calzolari - Venerdì 12 dicembre - Italia 1969, un attentato ogni tre giorni - Si tirano le somme della "strategia della tensione" - I profeti del 12 dicembre - Riunioni segrete - La confessione di Evelino Loi.

Premessa

Strage di Stato si apriva con la morte di Armando Calzolari, già uomo di fiducia di Junio Valerio Borghese. Sono passati due anni dal giorno di Natale del '69, quando scomparve per essere ritrovato, qualche tempo dopo, ucciso. Sono passati molti mesi dall'uscita della prima edizione di Strage di Stato. E l'inchiesta su Armando Calzolari non è ancora a punto. Il magistrato che si occupa del caso non ritiene evidentemente sufficienti gli elementi raccolti nella istruttoria. Il giudice De Lillo, lo stesso che conduce le indagini sul fallito tentativo golpista dell'anno scorso, è stato più volte al Nord e nel corso di uno di questi viaggi ha potuto interrogare Maria Piera Romano, la vedova del Calzolari. La deposizione della donna è stata definita "sconcertante". Parlando di lei, il libro ne riporta una frase: la non archiviazione del caso la danneggerebbe economicamente. Commentano gli autori: "fatto inspiegabile, visto che Armando Calzolari non risulta assicurato: a meno di pensare che qualcuno abbia promesso alla vedova di aiutarla economicamente, nel suo silenzioso dolore, solo quando e a condizione, che il caso fosse stato definitivamente archiviato".
Qualcuno l'ha aiutata prima: Maria Piera Romano vive ora in Piemonte, aiutata con un assegno da un noto carrozziere. E il caso è ancora aperto. E le sue dichiarazioni sono sconcertanti. La fine di Armando Calzolari resta, come avevano intuito gli autori dell'inchiesta, una delle tessere decisive del lugubre mosaico.
Qualche altra tessera, come pure era stato dichiarato in apertura del libro, la possiede Evelino Loi. Anche qui, i fatti hanno confermato molte delle rivelazioni. Sulla figura del giovane sbandato sardo, Strage di Stato formulava tre ipotesi: si tratta di un mitomane; è un confidente, pilotato dalla polizia; è un provocatore. Quale delle tre? Possiamo aggiungere che si tratta di un personaggio a molti scomodo, probabilmente ad altri assai comodo. Il suo posto di dentro-e-fuori nel meccanismo dell'indagine giudiziaria è quanto meno singolare. Gli autori avevano sottolineato che, dopo una sua visita all'Espresso, la cassaforte del giornale era stata rubata. Aggiungiamo che, dopo una sua visita alla casa editrice che ha pubblicato Strage di Stato, gli uffici editoriali sono stati oggetto di un immediato tentativo di perquisizione notturna, ad opera di ignoti. Il giudice Cudillo non interroga Loi perché "irreperibile". Ma Loi si vede facilmente in giro e quando, un giorno, si presenta di nuovo alla casa editrice, passano soltanto pochi minuti e suonano alla porta gli agenti dell'ufficio politico della questura. Loi è dunque pedinato (salta dalla finestra, fugge); ma se è pedinato, come sostenere che è irreperibile? Quando, finalmente, Loi si reca "di sua volontà" dal giudice Cudillo, ad aspettarlo fuori dell'ufficio ci sono ancora gli agenti della "politica". Non riescono prenderlo, perché viene fermato - con un istante di anticipo - dai carabinieri. I militari gli contestano l'infrazione al foglio di via; Loi afferma, lo documenta, di trovarsi a Roma con un foglio di via per Roma, perché doveva essere interrogato dal giudice. Tuttavia lo tengono dentro quattro o cinque giorni. Quando esce, nuovo fermo e successivo arresto: è imputato di aver fatto circolare piccoli assegni di provenienza furtiva. Almeno per ora, Loi non può più parlare. Eppure risulta che dirigenti della "politica" romana hanno dovuto confermare molte delle cose che Loi aveva detto nella "confessione" a Strage di Stato.
Le riunioni segrete: ecco un altro paragrafo di questo primo capitolo che ha suscitato apprensioni e reazioni. Gli ex generali dei paracadutisti Caforio e Frattini, per esempio, hanno querelato gli editori: Caforio dice che non c'era, alla riunione del 15 novembre. Ha un alibi: era a Reggio Calabria (sic!). Nella denuncia, afferma di poter agevolmente provare ciò che dice: il volo lo ha fatto con un aereo militare. Vedremo in sede processuale (il processo è in corso) come stanno esattamente le cose; vedremo e diremo se si tratta di uno sbaglio nella datazione. Ma non è questo il punto. Ci chiediamo quanti pensionati, in Italia, abbiano la possibilità di vedersi mettere a disposizione un aereo militare. Anche su questo sarebbe bene fare luce. Forse si potrebbe chiedere qualche cosa, in proposito all'ex tenente dei paracadutisti Succucci, che il pensionato Caforio conosceva bene. Il tenente, segretario dell'associazione paracadutistica di viale delle Milizie, covo dei "duri" oppositori del "caos dilagante", è d'altra parte facilmente reperibile. È in galera, imputato per il tentativo golpista del Fronte nazionale. È notevole che in tutte le inchieste che ad un ceno punto la magistratura è stata costretta ad aprire sui gruppi fascisti appaiano elementi che provengono dalle fila dei 'paras" italiani: a Roma come a Foggia, a Bari come a Verona e così via. Questi sono fatti, e i generali (in pensione o in servizio) hanno un bel pontificare sul "lealismo" dell'arma!
D'altra parte, riunioni segrete non ci sono state soltanto prima della strage di Stato. I giornali, riferendo sulle inchieste aperte dalla magistratura, hanno fornito nuovi particolari; molti giornalisti sanno altre date. Nessuno però ha ancora parlato delle riunioni che si sono tenute, nel periodo pre e post elettorale, in una villa disabitata di un complesso residenziale vicino a Velletri. Riunioni ristrette e riunioni allargate, con mogli, amici e rinfresco. E con una saletta appartata, in cui alcuni dei partecipanti si riunivano nel bel mezzo della festa. Elementi in borghese ed elementi in divisa. Erano presenti anche elementi della "politica"? Erano presenti agenti del SID? Se c'erano, sarà bene che facciano rapidamente il loro rapporto. In quelle riunioni sono state messe a punto, verosimilmente, alcune linee della prossima strategia della destra. Dopo Milano, sappiamo bene che cosa ciò significhi. Non vorremmo che questo libro dovesse passare alla storia come l'inchiesta sulla "prima strage di Stato".


La morte di Armando Calzolari

L'uomo scompare la mattina di Natale 1969, a Roma. E' uscito come al solito alle otto con il suo cane, un setter inglese di nome Paulette, dicendo alla moglie che sarebbe tornato verso le dieci, per la messa. A mezzogiorno la donna comincia a preoccuparsi, si è accorta che il marito ha dimenticato a casa il portafoglio con i documenti. All'una scende in strada, vede che la "500" bianca non è al parcheggio e prega un vicino di accompagnarla al parco di Villa Doria Pamphili: ma i guardiani quella mattina non hanno visto l'uomo e il suo cane. Nessun altro nei dintorni li ha visti. La donna telefona agli ospedali. Avverte un amico, un monsignore del Vaticano, perché si informi in questura. In serata denuncia la scomparsa ai carabinieri. Il giorno dopo i quotidiani romani danno la notizia in poche righe di cronaca.
Il cadavere dell'uomo viene scoperto più di un mese dopo, la mattina di mercoledì 28 gennaio, dall'operaio di un cantiere edile che lo scorge in fondo a un piccolo pozzo, affiorante nell'acqua insieme alla carogna di Paulette. Il pozzo è alla periferia di Roma, in località Bravetta, e i carabinieri non si sono spinti sin qui perché la moglie ha escluso che questa fosse una meta delle passeggiate con il cane, su strade fangose per la pioggia e troppo lontane da casa.
Il corpo è in stato di avanzata decomposizione ma l'autopsia esclude che siano presenti tracce di violenza. L'orologio da polso è fermo sulle 8,34. Chi conduce le indagini parla subito di disgrazia: forse l'uomo, per salvare il cane caduto nel pozzo, vi è caduto a sua volta e non è più stato capace di uscirne; ha chiamato ma nessuno, dato che il luogo è isolato - un terreno da costruzione, con alberi e canneti - ha sentito le sue invocazioni di aiuto.
L'uomo è Armando Calzolari detto Dino, nato a Genova 43 anni fa. Ex ufficiale di coperta della marina mercantile, poi commissario di bordo. Da otto anni non navigava più. Il suo lavoro dichiarato era di addetto alle pubbliche relazioni per una impresa di costruzioni di strade e ponti. In realtà procurava e in parte amministrava i fondi del Fronte Nazionale di Junio Valerio Borghese. Le numerose amicizie all'estero, specialmente negli Stati Uniti, la conoscenza di diverse lingue e la facilità con la quale stringeva rapporti, oltre alla sua provata fede di ex marò della Decima Mas, facevano di lui un personaggio prezioso per le attività del "principe nero".
L'ipotesi di un delitto, e per giunta di un delitto politico. Viene avanzata esplicitamente per la prima volta a soli nove giorni dalla scomparsa di Calzolari, il 2 gennaio 1970, con un articolo del quotidiano filofascista di Roma Il Tempo. L'articolo sottolinea che il lavoro per il Fronte Nazionale "aveva evidentemente portato (Calzolari) a conoscenza di alcune situazioni i cui particolari potrebbero interessare gruppi organizzati di avversari politici. Qualcuno, infatti, ha detto che negli ultimi tempi in cui lavorava per il Fronte il Calzolari aveva ricevuto delle minacce: per esempio, era stato visto rispondere al telefono ed impallidire".
Tuttavia Il Tempo non lancia accuse contro la sinistra: "gli avversari politici" di cui parla potrebbero benissimo essere identificati nella tormentata geografia delle organizzazioni di estrema destra che sono proliferate in Italia negli ultimi anni. Molto diverso, dodici giorni dopo, l'atteggiamento dell'organo ufficiale del MSI, Il Secolo d'Italia. Il giornalista Sergio Tè insiste sull'ipotesi del delitto politico e parla esplicitamente di estrema sinistra. Ma è molto vago quando si tratta di definire l'attività della vittima: tra i molti a "pare" il Fronte Nazionale è scomparso, si parla solo di un indefinito "gruppo politico". L'articolo di Sergio Tè, ex militante del gruppo fascista Avanguardia Nazionale, si chiede inoltre se la inchiesta senza risultati dipenda solo da una eccessiva lentezza nelle operazioni di ricerca "oppure da una troppo efficiente organizzazione interessata a " far sparire" certe persone dopo essersene servita per sottrarre loro importanti informazioni". Ma di quali informazioni poteva essere in possesso Armando Calzolari, tanto importanti da costargli la vita?
Che di delitto si tratti, è difficile dubitare. Il pozzo della Bravetta è nascosto agli sguardi da una scarpata sopraelevata e da un canneto, in mezzo a un ampio terreno recintato. reso fangoso dalle piogge: un posto tutt'altro che ideale per una passeggiata col cane, in una mattina di dicembre. D'altra parte è molto difficile cadervi dentro, per un uomo e tanto più per un cane da caccia. La buca, del diametro di circa m. 1.50, è ben visibile e protetta da una spalletta di mattoni alta 40 centimetri. Il punto più profondo misura un metro e 76 centimetri, cioè poco più della statura di Calzolari, e !'acqua stagnante non supera gli 80 centimetri. Inoltre le pareti offrono molti appigli. Improbabile morire d'inedia lì dentro, come afferma chi ha assistito all'autopsia, specie per un uomo come Armando Calzolari, un atleta robusto, campione di lotta giapponese ed esperto nuotatore subacqueo.
Tre giorni dopo la sua scomparsa, il 28 dicembre, mentre i cani poliziotto seguono inutili piste, la "500" bianca di Armando Calzolari viene improvvisamente ritrovata in un parcheggio a 200 metri dalla sua abitazione. La moglie e i vicini escludono di averla notata prima. Il giorno successivo la donna, Maria Piera Romano, riceve la visita di alcuni "amici del partito". Dice loro che vuole dichiarare a qualche settimanale di conoscere i rapitori e le loro intenzioni, ""per impaurirli e impedire che facciano del male a Armando". Gli amici, dei quali la donna non vuole fare i nomi, la sconsigliano dicendo che la sua iniziativa "potrebbe avere l'effetto contrario". Il 4 gennaio la signora Calzolari riceve un'altra visita: questa volta è il capitano dei carabinieri Castino il quale, nel corso di un lungo colloquio, cerca di convincerla a scartare l'ipotesi del delitto politico adombrata dal Tempo e la consiglia di aver fiducia nel ritorno del marito.
L'unica persona, a parte carabinieri e camerati, che sino a oggi è riuscita ad avvicinare Maria Piera Romano, racconta così l'incontro:
"La stanza di questo appartamento al quarto piano di via Baglioni, al Quartiere Gianicolense, è modesta e impersonale: una piccola libreria, una scrivania, una poltrona, un paio di tavolinetti e poche altre cose. Mi colpisce una serie di volumi con legature nuovissime delle quali non riesco a decifrare i titoli in carattere dorati, poi mi accorgo che i volumi sono tutti capovolti. Altra cosa che mi sembra strana, una serie di frasi di Kipling chiuse fra parentesi e tradotte in italiano su un foglio dattiloscritto. La signora mi dice che conobbe Calzolari dieci anni fa e che si sposarono quando lui era ancora commissario di bordo, la qual cosa contrasta con quanto afferma il portiere che sostiene che non sono legalmente marito e moglie. E' agli ultimi due anni di navigazione che risalgono tutte le "importanti amicizie" contratte dal Calzolari. Si sono trasferiti a Roma da Genova solo due anni fa e adesso l'attività principale del Calzolari consisterebbe in un lavoro di pubbliche relazioni presso una ditta che costruisce strade e ponti, della quale però la signora non vuole fare il nome. Questo lavoro lo interessava moltissimo perché lo portava a fare quella vita mondana che aveva sempre amato. La sua grande passione era la gente importante, con la quale amava stringere amicizia che poi coltivava anche a distanza di anni e di continenti. Amava tutti gli sport praticandone parecchi, in particolare la lotta giapponese nella quale era abilissimo. Il suo lavoro consisteva quasi essenzialmente nel coltivare e aumentare le relazioni e i contatti della "ditta" anche a livello ministeriale. Quasi tutte le occasioni per questi incontri erano offerte da pranzi sapientemente organizzati, quasi sempre in un ristorante assai noto (Ville Radieuse, via Aurelia 641). Intervenivano principalmente industriali, uomini politici e prelati. La signora ricorda di una volta in cui, lei presente, c'erano il carrozziere Zagato e il cardinale Tisserant.(1)
"Certo mio marito era un nazionalista", dice la signora Calzolari che preferisce usare questa parola per dire che C. era per un governo forte e che ammirava i colonnelli greci nonchè gli israeliani. Naturalmente non gli piacevano gli arabi e tantomeno i negri, esseri incapaci e inferiori. La grande ammirazione per Mussolini lo portava spesso a violente discussioni in luoghi pubblici, anche dal giornalaio se capitava. C. partecipava anche alle manifestazioni ma pare che non abbia mai picchiato nessuno; anzi una volta disse che stava per scattare contro la polizia ma pensando alle sue qualità di lottatore si era frenato in tempo. Non aveva mai fatto vita di sezione e non aveva la tessera del partito (il MSI). In quanto a lavoro politico, la signora non esclude che ne abbia svolto ma dice di non saperne nulla. Oltre ai rapporti con prelati del Vaticano, C. frequentava assiduamente la confraternita di San Battista dei Genovesi in via Anicia in Trastevere e la messa della domenica era solito ascoltarla in Sant'Andrea della Valle.
In merito alla scomparsa del C., l'opinione della signora è molto vaga. Non esclude che suo marito, quella mattina, sia stato avvicinato da persone che potrebbero averlo convinto con ricatti o promesse a seguirlo per partecipare a un lavoro connesso con qualcuna delle tante conoscenze che C. aveva all'estero e che potrebbe anche essere legato a fatti politici: un lavoro forse per il quale lui era stato individuato come l'uomo adatto.(2) E' escluso che sia stato portato via con la forza date le sue qualità atletiche e data anche la presenza del cane. Mi dice che in questi giorni cerca di controllarsi molto allo scopo di non cadere nella disperazione. E nel silenzio pensa di trovare la verità. A volte crede di esserci vicina: ci sono tre nomi, dice, sui quali mi sono fermata e uno in particolare. Si tratta di un industriale che non è a Roma, di cui non fa il nome, il quale avrebbe mandato a suo marito un regalo il cui valore sembra del tutto sproporzionato. trattandosi di una comune conoscenza limitata allo scambio di biglietti da visita. Le chiedo perché non sia andata a trovare questa persona e mi offro anche di farlo io per lei, se crede Ma non sembra propensa, dice che ci penserà e in caso mi telefonerà".
Dopo questo incontro. avvenuto verso la metà di gennaio, nessuno riesce più a entrare in contatto con la moglie di Calzolari. E alla fine di quel mese, trovato il cadavere nel pozzo della Bravetta e emessa la versione ufficiale di morte accidentale, la donna si dice soddisfatta di queste conclusioni dell'inchiesta e parte per Torino. Passano due mesi e di nuovo avvicinata, questa volta telefonicamente, dalla stessa persona, la vedova di Calzolari le confida di essere preoccupata perché la magistratura non ha ancora archiviato la pratica. il che "la danneggia economicamente". Fatto inspiegabile, visto che Armando Calzolari non risulta assicurato: a meno di pensare che qualcuno abbia promesso alla vedova di aiutarla economicamente, nel suo silenzioso dolore, solo quando, e a condizione che il caso fosse stato definitivamente archiviato.

Venerdì 12 dicembre

Le bombe scoppiano venerdì 12 dicembre tra le ore 16,37 e le 17,24 a Milano e a Roma. La strage è a Milano, alla Banca Nazionale dell'Agricoltura di piazza Fontana affollata come tutti i venerdì, giorno di mercato. L'attentatore ha deposto la borsa di similpelle nera che contiene la cassetta metallica dell'esplosivo sotto il tavolo al centro dell'atrio dove si svolgono le contrattazioni. I morti sono dieci, molti dei novanta feriti hanno gli arti amputati dalle schegge. L'esplosione ferma gli orologi di piazza Fontana sulle 16.37: poco dopo in un'altra banca distante poche centinaia di metri. in piazza della Scala, un impiegato trova una borsa nera e la consegna alla direzione. E' la seconda bomba milanese, quella della Banca Commerciale Italiana. Non è esplosa forse perché il "timer" del congegno d'innesco non ha funzionato. Ma viene fatta esplodere in tutta fretta alle 21,30 di quella stessa sera dagli artificieri della polizia che l'hanno prima sotterrata nel cortile interno della banca.
E' una decisione inspiegabile: distruggendo questa bomba così precipitosamente si sono distrutti preziosissimi indizi, forse addirittura la firma degli attentatori.(3) In mano alla polizia rimangono solo la borsa di similpelle nera uguale a quella di piazza Fontana, il "timer" di fabbricazione tedesca Diehl Junghans, e la certezza che la cassetta metallica contenente l'esplosivo è anch'essa simile a quella usata per la prima bomba. Il perito balistico Teonesto Cerri è sicuro che ci si trova davanti all'operazione di un dinamitardo esperto.
Le bombe di Roma sono tre. La prima esplode alle 16,45 in un corridoio sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro, tra via Veneto e via San Basilio. Tredici feriti tra gli impiegati, uno gravemente. Ma anche questa poteva essere una strage. Alle 17,16 scoppia un ordigno sulla seconda terrazza dell'Altare della Patria, dalla parte di via dei Fori Imperiali. Otto minuti dopo la terza esplosione, ancora sulla seconda terrazza ma dalla parte della scalinata dell'Ara Coeli. Frammenti di cornicione, cadendo, feriscono due passanti. Ma questi due ultimi ordigni sono molto più rudimentali e meno potenti degli altri.
La reazione del Paese è di sdegno per gli attentati, di dolore per le vittime. Ma non si assiste a nessun fenomeno di isteria collettiva. La strage non ha sbocco politico immediato a livello di massa, e soprattutto non contro la sinistra, anche se immediatamente dopo la bomba di piazza Fontana le indagini e le relative dichiarazioni ufficiali puntano solo in questa direzione nella ricerca dei colpevoli.(4)

Italia 1969, un attentato ogni tre giorni

Le bombe del 12 dicembre sconvolgono e sorprendono, soprattutto per la loro ferocia, ma sarebbe inesatto dire che giungono inattese. Rappresentano il momento culminante di una escalation di fatti noti e ignoti che avvengono durante l'intero 1969 e che fanno parte di un preciso disegno politico. Alcuni di essi riconsiderati oggi nella loro sinistra successione acquistano un significato molto chiaro.
Le bombe del 12 dicembre scoppiano in un Paese dove, a partire dal 3 gennaio 1969, ci sono stati 145 attentati: dodici al mese, uno ogni tre giorni, e la stima forse è per difetto
Novantasei di questi attentati sono di riconosciuta marca fascista, o per il loro obiettivo (sezioni del PCI e del PSIUP, monumenti partigiani, gruppi extraparlamentari di sinistra, movimento studentesco, sinagoghe. ecc.) o perché gli autori sono stati identificati. Gli altri sono di origine ufficialmente incerta (come la serie degli attentati ai treni dell'8-9 agosto), oppure vengono addebitati a gruppi della sinistra estrema o agli anarchici (come le bombe del 25 aprile alla Fiera campionaria e alla stazione centrale di Milano). In realtà ci vuole poco a scoprire che la lunga mano che li promuove è sempre la stessa, e cioè una mano che pone diligentemente in atto i presupposti necessari alla "strategia della tensione" che sta maturando a più alto livello politico.

Si tirano le somme della "strategia della tensione"

Cosa significhi in concreto questa "strategia della tensione" lo dice questo secondo elenco di fatti. anch'essi noti, che accadono in Italia nei quaranta giorni che precedono la strage del 12 dicembre. Ai primi di novembre la F.N.C.R.S.I., Federazione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale Italiana - fascista "di sinistra" - distribuisce a Roma un volantino in cui si invitano i paracadutisti e gli ex-combattenti a "non farsi strumentalizzare per un colpo di stato reazionario".
Il 10 novembre, in un discorso a Roma, il presidente del partito socialdemocratico Mario Tanassi rilancia con forza un tema molto caro al PSU: "O il centrosinistra pulito o lo scioglimento delle Camere", con conseguenti elezioni anticipate. Cinque giorni dopo a Monza il colonnello comandante del distretto militare afferma pubblicamente, alla presenza del procuratore della Repubblica: "Stante l'attuale situazione di disordine nelle fabbriche e nelle scuole, l'esercito ha il compito di difendere le frontiere interne del Paese: l'esercito è l'unico baluardo ormai contro il disordine e l'anarchia".
Nel corso dello sciopero generale nazionale per la casa del 19 novembre, la polizia attacca i lavoratori in via Larga a Milano e un agente, Antonio Annarumma rimane ucciso in uno scontro tra due automezzi della stessa polizia.(5) Si diffonde la versione dell'assassinio, e non solo da parte di uomini politici e giornali di destra. Lo stesso presidente della Repubblica, in un telegramma trasmesso ripetutamente alla radio e alla televisione per tutta la giornata del 19 e del 20 novembre, oltre ad anticipare una sentenza di "barbaro assassinio", afferma: "Questo odioso crimine deve ammonire tutti ad isolare. e mettere in condizione di non nuocere, i delinquenti, il cui scopo è la distruzione della vita. e deve risvegliare non soltanto negli atti dello Stato e del governo, ma soprattutto nella coscienza dei cittadini, la solidarietà per coloro che difendono la legge e le comuni libertà".
Il giudizio di Saragat piace molto al segretario nazionale del MSI, Giorgio Almirante, il quale gli fa eco sul Secolo d'ltalia: "L'assassinio dell'agente di P.S. a Milano ci indurrebbe a chiamare in causa il Signor Presidente della Repubblica se egli, nel suo telegramma, non avesse duramente qualificati "assassini" i responsabili. Ora occorre individuare e colpire i mandanti"
Ma chi sono i responsabili, gli "assassini", i "delinquenti"? Secondo la CISL "L'intervento della polizia non legittimato da fatti obiettivi non favorisce l'ordinato svolgersi delle manifestazioni e come, per altro, l'insistenza provocatoria di gruppi estremisti - la cui provenienza diviene sempre più dubbia - provoca effetti negativi nell'azione dei lavoratori". Contro i gruppi estremisti si scagliano anche Gian Carlo Pajetta, che li definisce "massimalisti impotenti", e l'Unità che commenta così gli incidenti di Milano nel suo articolo di fondo: "Mai come in questi giorni è apparso chiaro che l'avventurismo facilone, il velleitarismo pseudo-rivoluzionario. La sostituzione della frase rivoluzionaria allo sforzo paziente, sono sterili e si trasformano in un'occasione offerta alle manovre e alle provocazioni delle forze di destra".
In questo crescendo di clima da caccia alle streghe si inserisce il giornale ufficiale del PSU che però approfitta dell'occasione per allungare il tiro: "L'assassinio di Annarumma chiama in causa la responsabilità diretta dei comunisti e dei loro complici nel PSIUP, nel PSI, nella DC e nei sindacati".
La notte dopo la morte di Annarumma, in due caserme di Pubblica Sicurezza a Milano scoppia una rivolta che, alimentata ad arte, vedrebbe gli uomini dei battaglioni mobili scatenati per la città a fare piazza pulita degli "estremisti delinquenti"(6). Il giorno dei funerali dell'agente il centro di Milano è teatro di gravi disordini provocati dai fascisti che partecipano al corteo funebre coi labari della Repubblica Sociale Italiana. I fascisti non sono i soli a seguire il feretro e a dar vita a episodi di isteria collettiva: sotto i portici di corso Vittorio Emanuele quel giorno è presente anche la borghesia milanese che si commuove e poi chiede "il sangue dei rossi": signori distinti, bottegai arricchiti, pensionati nostalgici, donne impellicciate partecipano e fomentano i tentativi di linciaggio dei malcapitati che sembrano sospetti, che hanno "la faccia da comunista".
Il repubblicano La Malfa e il socialdemocratico Tanassi lanciano un duro attacco contro i sindacati che stanno vivendo, sotto la spinta operaia, i giorni più caldi delle battaglie contrattuali, con quasi cinque milioni di lavoratori mobilitati. Nello stesso giorno, 21 novembre, un comunicato della Confindustria: "... il potere operaio tende a sostituirsi al Parlamento ed a stabilire un rapporto diretto con il potere esecutivo. Ciò crea un sovvertimento in tutto il sistema politico". Sul settimanale Oggi il deputato della destra democristiana Guido Gonella lancia un appello alla "reazione del borghese timido contro i picchetti degli scioperanti". Da Londra il settimanale The Economist rivela l'esistenza di un documento "segreto solo a metà" in cui un gruppo di giovani industriali italiani proclama la necessità di un "governo forte". Pietro Nenni, in una intervista al Corriere della Sera, traccia un paragone tra la situazione attuale e quella del 1922. Intanto è stato dato il via alla serie di arresti e condanne per reati di opinione: il primo a finire in carcere è Francesco Tolin, direttore di Potere Operaio.
Ai primi di dicembre, a rendere più precario l'equilibrio parlamentare, e come prima avvisaglia della dura campagna che sarà scatenata tra poco, compare sull'Osservatore Romano, organo del Vaticano, un attacco contro il voto favorevole espresso dalla Camera sul divorzio. In un paese della Lombardia, il sindaco-industriale spara contro il picchetto dei suoi operai in sciopero.
Il 7 dicembre i settimanali inglesi The Guardian e The Observer pubblicano il testo del dossier inviato dal capo dell'ufficio diplomatico del ministero degli Esteri di Atene all'ambasciatore greco a Roma. Contiene allegato il rapporto segreto sulle possibilità di un colpo di stato di destra in Italia, inviato dagli agenti dei servizi di spionaggio dei colonnelli. "Un gruppo di elementi di estrema destra e di ufficiali", scrive The Observer, "sta tramando in Italia un colpo di stato militare, con l'incoraggiamento e l'appoggio del governo greco e del suo primo ministro, l'ex colonnello Giorgio Papadopulos" (Vedi testo integrale del dossier greco)

I profeti del 12 dicembre

Mancano pochi giorni allo scoppio delle bombe. Sabato 6 dicembre Mauro Ferri, segretario del PSU, rilascia al settimanale Gente questa dichiarazione: "O il quadripartito o le elezioni anticipate". La decisione di scioglimento delle Camere spetta al Capo dello Stato che ne ha il potere previsto dalla Costituzione... e sono convinto che tutti gli italiani possono essere certi che nelle mani del presidente Saragat il potere è ben affidato". Domenica 7 dicembre, in un discorso a Alessandria, Ferri ribadisce il leitmotiv socialdemocratico: "Quadripartito o elezioni anticipate" e fa un nuovo, esplicito richiamo al presidente Saragat. Due giorni dopo, in un'intervista a La Stampa di Torino, Ferri afferma che "non è aberrante" l'ipotesi di una collaborazione tra democristiani, socialdemocratici e liberali, nel caso si presenti la "drammatica necessità" di garantire la libertà come dopo la crisi del luglio '60".
Mercoledì 10 dicembre il settimanale tedesco Der Spiegel pubblica una dichiarazione del segretario del MSI, Almirante: organizzazioni giovanili fasciste si preparano alla guerra civile in Italia; nella lotta contro il comunismo tutti i mezzi sono giustificabili, per cui non ci deve essere più distinzione tra misure politiche e misure militari. Di fianco a Almirante, il dirigente confindustriale Ferruccio Gambarotti specifica ancora meglio: "Il sistema parlamentare non è fatto per gli italiani. Occorre una organizzazione sovrapartitica, una coalizione dai monarchici sino ai socialdemocratici con una fede mitica nell'ordine".
Giovedì 11 dicembre: lo stesso "fiuto" dimostrato da Mauro Ferri (che ha parlato di "drammatica necessità di garantire la libertà" tre giorni prima delle bombe) lo dimostra anche il settimanale Epoca. Mancano ventiquattro ore alla strage di piazza Fontana e il giornale appare nelle edicole con una vistosa copertina tricolore. l'articolo è di Pietro Zullino e conclude così: "...se la confusione diventasse drammatica, e se - nell'ipotesi di nuove elezioni - la sinistra non accettasse il risultato delle urne, le Forze Armate potrebbero essere chiamate a ristabilire immediatamente la legalità repubblicana. Questo non sarebbe un colpo di Stato ma un atto di volontà politica a tutela della libertà e della democrazia... Tuttavia il ristabilimento manu militari della legalità repubblicana, possibile nel giro di mezza giornata, potrebbe non essere sufficiente. La situazione generale è terribilmente intricata... Come si può garantire un minimo di stabilità al potere economico?... Questa Repubblica, così com'è, funziona ancora? La confusione che stiamo vivendo non sarà dovuta al fatto che le sue istituzioni sono ormai insufficienti e superate? Perché i costituenti crearono l'articolo 138. che prevede la possibilità di riformare la carta fondamentale della Repubblica? Chi ci impedisce di utilizzare l'articolo 138 per sorreggere i difetti ormai evidenti delle nostre istituzioni? Perché non possiamo imparare qualcosa dalle grandi democrazie dell'Occidente? Perché non ci poniamo seriamente il problema della Repubblica Presidenziale, l'unica capace di dare forza e stabilità al potere esecutivo? Vi sono giorni in cui la storia impone riflessioni di questo tipo. Forse questi giorni sono venuti. Questi giorni, forse, noi li stiamo già vivendo".(7)

Riunioni segrete

Riletti oggi, questi fatti noti fanno pensare che la data tragica del 12 dicembre ha avuto molti profeti, consapevoli e no. E poi ci sono alcuni fatti ignoti che diciamo adesso, per quello che possono significare. Questi:
Roma, 15 novembre: in un appartamento nei pressi di piazza Tuscolo si svolge una riunione alla quale partecipano Michele Caforio (generale di divisione, paracadutista), il "comandante" Bianchini (ex Decima Mas e uomo di fiducia di Junio Valerio Borghese nel Fronte Nazionale), un tale Buffa detto il Lupo di Monteverde (membro dell'associazione paramilitare Europa Civiltà), un gruppo di paracadutisti tra i quali alcuni ex repubblicani della Nembo, ed altri militanti di gruppi di estrema destra, dei quali un paio provengono dalla vecchia Avanguardia Nazionale. Presente anche Armando Calzolari come membro del Fronte Nazionale. Il tema da discutere è la situazione politica italiana alla vigilia dello sciopero generale del 19 per la casa. Tutti sono sostanzialmente d'accordo sulla necessità di opporsi al "caos dilagante" ma non sulla scelta dei mezzi da usare. Si crea una frattura tra "duri" e "moderati" e questi ultimi, tra i quali c'è Armando Calzolari abbandonano la riunione dopo un violento alterco.
Roma, 6 dicembre: i "duri" si riuniscono nella sede della Associazione Nazionale Paracadutisti in viale delle Milizie 5. Vi partecipa, sembra, anche Junio Valerio Borghese.
Milano, 11 dicembre, sera : riunione di ufficiali dei servizi segreti; riunione di alti ufficiali dell'esercito, "in previsione di qualcosa di grosso che sarebbe successo l'indomani".
Roma, 12 dicembre, primo mattino: attorno alla capitale viene segnalato un movimento di truppe e carri armati. Roma, 12 dicembre, tardo pomeriggio: alla notizia dei gravi attentati di Milano e di Roma, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat convoca il ministro degli interni Restivo, il generale Forlenza comandante dei Carabinieri e altri. Si discute sull'opportunità di proclamare lo stato di emergenza. Si oppongono quasi tutti i presenti. Interviene, al fine di dissuadere, il ministro del lavoro Donat Cattin. Nello stesso senso si pronuncia l'ambasciatore degli Stati Uniti a Roma.
Roma, 15 dicembre: il tenente G.A., appartenente al Fronte Nazionale, riceve alcune confidenze da Armando Calzolari, del quale è molto amico, circa alcune minacce che l'uomo avrebbe ricevuto negli ultimi giorni.
Roma, 20 dicembre: nell'appartamento di un funzionario di banca, il signor D., in via degli Appennini, ha luogo una riunione alla quale partecipano Junio Valerio Borghese, il comandante Bianchini, tre deputati del MSI, due greci e alcuni ufficiali, dei quali due dei carabinieri e uno di pubblica sicurezza. L'argomento in discussione non è noto.
Arrnando Calzolari scompare cinque giorni dopo, la mattina di Natale.

La confessione di Evelino Loi

Il cadavere di Armando Calzolari viene ritrovato oltre un mese dopo la sua scomparsa, il 28 gennaio. Verso la metà dello stesso mese un uomo si era presentato nella redazione di un settimanale romano e aveva rilasciato una lunga dichiarazione, registrata su nastro magnetico alla presenza di alcuni testimoni. Il suo racconto finiva con questa frase: "Ho deciso di parlare con voi perché mi sono accorto di avere sbagliato a frequentare gli ambienti di destra e poi perché ho paura. Non vorrei fare la stessa fine di Calzolari".
L'uomo si chiama Evelino Loi, è un sardo disoccupato e ha 25 anni. Al suo arrivo a Roma era stato protagonista di una clamorosa protesta: salito sul Colosseo aveva minacciato di gettarsi nel vuoto se non gli veniva dato un lavoro. Lo assumono in Vaticano, come uomo delle pulizie in casa di un monsignore. Dopo qualche giorno Loi si licenzia e comincia a frequentare i portici della stazione Termini in compagnia di un gruppo di sottoproletari meridionali e sardi. Vive di espedienti. Quando nell'inverno del 1968 il movimento studentesco occupa la facoltà di Magistero in piazza Esedra, di fronte a Termini, Evelino Loi, che proviene da una famiglia di comunisti, chiede di partecipare alle lotte degli studenti e viene accolto. La facoltà occupata gli serve anche come asilo notturno. Nel giro di pochi giorni organizza una squadra coi suoi amici meridionali che aiutano gli studenti a respingere gli attacchi dei fascisti.
Il 3 febbraio 1969, durante la visita del Presidente Nixon a Roma, i fascisti danno l'assalto alla facoltà con razzi e bombe incendiarie. Un anarchico, Domenico Congedo, precipita dal quarto piano e muore. La polizia, che ha assistito all'attacco senza intervenire, coglie il pretesto per sgomberare l'edificio. Gli studenti continuano l'occupazione alla città universitaria, dove si trasferisce anche Evelino Loi col suo gruppo. Dopo qualche giorno 3.000 poliziotti e carabinieri irrompono all'alba: nelle aule sono presenti solo sette ragazzi, che vengono malmenati e arrestati Tra essi c'è un operaio meridionale del gruppo di Loi. Il movimento studentesco organizza una colletta e Loi è uno degli incaricati: raccoglie circa 400.000 lire. Quando i sette escono dal carcere si scopre che quei soldi non gli sono mai stati consegnati. Evelino Loi confessa il furto e viene immediatamente allontanato. Poco dopo, il quotidiano di destra La Luna pubblica una sua intervista nella quale egli accusa il movimento studentesco di "teppismo" e di "fregarsene degli operai". In cambio di quelle dichiarazioni ha ricevuto 100.000 lire.
Da quel momento Evelino Loi diventa uno dei tanti mazzieri dei fascisti, partecipa in prima fila alle loro manifestazioni vestito della divisa di Volontario del MSI. Nell'autunno 1969 tenta di riavvicinarsi agli ambienti di sinistra offrendo informazioni sui fascisti ma è guardato da tutti con sospetto: a parte i suoi precedenti, sono molti i compagni che, fermati nel corso di qualche manifestazione, se lo sono ritrovato nella stessa camera di sicurezza della questura a fare domande, chiedere nomi, episodi. Inoltre, nonostante gli sia stato consegnato più volte il foglio di via obbligatorio. ha sempre contravvenuto alla diffida riuscendo a rimanere a Roma.
E' questo tipo d'uomo che, un giorno di metà gennaio 1970, si presenta nella redazione di un settimana!e della capitale per rilasciare una lunga confessione. Per prudenza, non è mai stata pubblicata. Tuttavia, credibile o no, oggi è doveroso renderla nota.
"Alcuni giorni prima dello sciopero generale del 19 novembre fui avvicinato dal comandante Bianchini e dal vicecomandante Santino Viaggio, ex appartenenti alla decima Mas e attuali collaboratori di Valerio Borghese nell'organizzazione di estrema destra Fronte Nazionale.(8) Mi accennarono all'eventualità di compiere azioni terroristiche simultanee a Roma e Milano e mi chiesero se, dietro pagamento, fossi disposto a parteciparvi. Compresi che doveva trattarsi di qualcosa di grosso e rifiutai. I due non insistettero e passarono circa dieci giorni finchè, subito dopo la manifestazione dei metalmeccanici a Roma, il 29 o 30 novembre, si misero di nuovo in contatto con me su questo argomento. Mi riproposero di partecipare ad azioni terroristiche molto importanti e alla mia richiesta di maggiori chiarimenti dissero che "poteva scapparci anche il morto". Mi promisero però molti soldi. Io mi spaventai e rifiutai ancora.
"Dopo un paio di giorni mi presentai in Questura, a San Vitale, e chiesi di parlare con il capo dell'ufficio politico, dott. Provenza. Mi rilasciarono un regolare "passi" e fui ricevuto dal dott. Improta a cui raccontai tutto. Mi sembrò molto scettico e mi disse di ripassare il giorno 5. Il 5 dicembre tornai in Questura, mi feci rilasciare il a "passi" e fui ricevuto dal dottor Improta e dal dott. Provenza. Mi chiesero se sapessi dove tenevano l'esplosivo e alla mia risposta negativa minimizzarono la cosa e mi congedarono. Ritornai spontaneamente una terza volta, 9 dicembre, mi feci rilasciare il "passi"(9) ed andai dal dottor Provenza. Il suo atteggiamento era sempre scettico. Il giorno 12 dicembre ci furono gli attentati di Roma e Milano.
"Il giorno successivo, sabato 13, seppi da alcuni iscritti alla Giovane Italia che il dottor Improta mi aveva fatto cercare nella sede di via Firenze che io frequentavo abitualmente. Telefonai al dottor Improta il quale mi disse di passare direttamente da lui senza farmi rilasciare il "passi", entrando dall'ingresso secondario di via Genova. In Questura c'era una grande confusione, mi fecero attendere un po' in una stanza da solo e poi fui ricevuto da Improta. Improta mi chiese di rifargli il racconto delle proposte che avevo ricevuto in merito alle bombe. Poi mi congedò raccomandandomi di non parlarne con nessuno. In particolare mi disse: "E' meglio per te. Non passi guai . Poi mi fece uscire, in fretta, dalla stessa uscita secondaria. Da allora non mi hanno più cercato."
"Il vicecomandante Santino Viaggio lo avevo conosciuto ad un comizio di ex combattenti tenutosi al cinema Quirinale. In quella occasione mi condusse con sé nella sede del Fronte Nazionale e volle che gli raccontassi dei particolari sulle mie precedenti esperienze politiche. La sede del Fronte era in via XXI Aprile. Gli dissi che avevo fatto parte del movimento studentesco di Magistero ma che poi. deluso dalle sinistre, ero entrato nella Giovane Italia. Gli dissi anche che ero in grado di mobilitare un discreto numero di disoccupati disposti ad azioni anche pericolose. In effetti io assolvevo il compito di reclutatore per la Giovane Italia. In alcune occasioni reclutai tra i sardi e i calabresi disoccupati che frequentano la Stazione Termini e vivono di espedienti, spesso prostituendosi, alcuni elementi per azioni violente come quelle davanti alla RAI-TV. Santino Viaggio mi promise dei soldi e infatti il giorno dello sciopero generale del 19. Mi diede 50.000 lire perchè portassi della gente, cosa che feci.(10) In più di una occasione accennò con me all'eventualità di affittare un locale nei pressi della stazione e di farci dormire dentro questi ragazzi disoccupati in modo da averli sempre a portata di mano per eventuali azioni. Un giorno sentii Santino Viaggio e Bianchini parlare di fare un'azione al Parlamento con dei gas per addormentare tutti i deputati. Mi pare che qualcuno mi disse poi che l'azione non era stata fatta per l'opposizione di alcuni deputati del MSI.
"Dopo lo sciopero generale del 19, Viaggio, nella sede del MSI in via Quattro Fontane, ebbe un violento litigio con Almirante. Credo che poi si siano riappacificati perchè al comizio tenuto al Palazzo dello Sport da Almirante, una settimana dopo gli attentati, c'era anche Viaggio. Qualche giorno dopo gli attentati telefonai a Viaggio chiedendogli notizie sull'attività del Fronte Nazionale e lui mi disse che non ne faceva più parte perchè aveva litigato con gli altri. Non mi risulta che Viaggio e Bianchini siano stati interrogati dalla polizia dopo gli attentati. Personalmente non sono più stato nella sede del Fronte Nazionale".
"Quando mi staccai dalla sinistra (.. ) ricominciai a frequentare i portici della stazione ed un giorno fui avvicinato da un certo King, che io sapevo essere un poliziotto abituale frequentatore di quella zona. Egli si congratulò con me per l'intervista (rilasciata a La Luna, n.d.r.) e mi disse più o meno: "Bene! Hai capito finalmente di che razza sono i comunisti! ". Mi propose quindi di entrare nella Giovane Italia e la sera stessa mi portò nella sede centrale di via Firenze 11 dove mi presentò ad un certo Franco De Marco, allora presidente dell'associazione. Fui accolto molto bene e non mi facevano mancare i soldi; si fidavano molto di me. Io procuravo dei ragazzi per le azioni e ricevevo, a seconda dei casi, tra le cento e le 300.000 lire che poi distribuivo in parte ai reclutati. Quelli della Giovane Italia parlavano molto ma mancavano di coraggio. Le bottiglie molotov alla sede della RAI-TV le fecero tirare ai sardi portati da me. Io partecipavo alle discussioni e all'organizzazione ma non agivo materialmente perchè ero troppo conosciuto e inoltre avevo una diffida. Conobbi personalmente, in quel periodo, l'onorevole Caradonna e Massimo Anderson, dirigente del MSI. In varie occasioni vidi fra i frequentatori delle sedi missine dei greci, degli spagnoli e dei portoghesi".
"Franco De Marco mi portò un giorno nella sezione del MSI del quartiere Trionfale. Quando arrivammo il locale era pieno di attivisti. C'erano due greci, uno dei quali (sui trent'anni) stava tenendo una conferenza sul colpo di Stato dei colonnelli. Tra le altre cose disse che per arrivare al colpo di Stato occorreva fare continue aggressioni e attentati contro le sinistre per provocarne le reazioni e suscitare il caos. Ci fu un dibattito molto vivace durante il quale gli fecero molte domande. Il greco sosteneva che i colonnelli erano troppo democratici e che lui avrebbe preferito un regime più autoritario. Alla fine del dibattito si erano tutti scaldati e alcuni tirarono fuori dei manganelli. Uno di loro disse: "Uscite in piccoli gruppi. La direzione già la sapete". Franco DeMarco mi prese con lui in macchina e si diresse alla sezione PCI del Trionfale che stava poco distante da quella del MSI. Aspettammo li e dopo qualche minuto arrivarono gli altri tutti in gruppo. Franco De Marco scese e diede il via all'azione (segue la descrizione dell'assalto che, a una verifica, si è rivelata fedele: n.d.r.)".
"In varie occasioni ho conosciuto degli ufficiali di polizia, dei carabinieri e dell'esercito che frequentavano le sedi del MSI. Nella sede nazionale, in via Quattro Fontane, veniva spesso il maresciallo Scarlino, sottufficiale della squadra politica, a portare informazioni. Il 28 novembre, giorno della manifestazione dei metalmeccanici, ci disse che se gli operai si fossero mossi, loro avrebbero fatto una carneficina perché avevano l'ordine di usare le armi. Varie volte ho visto, nel corso di manifestazioni, dei carabinieri e dei poliziotti in divisa che avevo già visto in borghese nelle nostre sedi. Ricordo il capitano dei carabinieri Servolino, che in più occasioni ho visto parlare con alcuni funzionari della sede di via Quattro Fontane. Credo che appartenga al comando carabinieri di viale Mazzini. Tra i frequentatori del Fronte Nazionale conosco: tenente colonnello dell'esercito Giordano; tenente colonnello Lilli; capitano Nobili, comandante la compagnia carabinieri di piazza Venezia; generale Della Chiesa".
"La lunga dichiarazione di Evelino Loi si presta a diverse ipotesi e merita alcune considerazioni. Prima ipotesi: Loi è un mitomane, un pazzo irresponsabile. In questo caso si capisce perché i dirigenti dell'ufficio politico della questura romana non hanno tenuto in nessun conto le sue denunce. Se è così passerà i suoi guai. Tuttavia non si è inventato tutto: alcuni episodi da lui citati (il poliziotto King,(11) la meccanica dell'assalto fascista alla sezione PCI del Trionfale, il ruolo svolto da Franco De Marco, il reclutamento dei sardi e dei meridionali, ecc.) sono risultati autentici a una successiva verifica.
Seconda ipotesi: Loi è un confidente della polizia e viene da essa strumentalizzato per rilasciare certe dichiarazioni. onde sviare i sospetti su falsi colpevoli. Ma questo significherebbe una precisa complicità della polizia italiana negli attentati, o quanto meno una sua funzione di copertura. Resta da spiegare però la convenienza di coinvolgere in questa provocazione poliziesca i dirigenti dell'ufficio politico di Roma.
Terza ipotesi: Loi è un provocatore che, al soldo di chissà chi ritenta un gioco già attuato in questi mesi. Si veda l'episodio dell'ex legionario che rivela all'Espresso come la Legione Straniera addestra in Corsica i giovani squadristi fascisti, salvo poi ritrattare tutto e coinvolgere il settimanale in un processo diffamatorio.
Dalla seconda e dalla terza ipotesi discende questa conclusione logica: ammesso che l'operazione tentata da Evelino Loi sia quella di far sorgere precisi sospetti su polizia e fascisti, per poi smentire e quindi da un lato scagionare automaticamente chi ha incolpato e dall'altro far perdere ogni attendibilità presso l'opinione pubblica a quei giornali che seguono queste piste, che senso avrebbe tutto ciò se chi muove Evelino Loi è davvero estraneo agli attentati? A che scopo tentare queste provocazioni, col grosso rischio che comportano di essere smascherate. se chi le organizza ha davvero mani pulite?
La dichiarazione di Evelino Loi.(12) rilasciata verso la metà di gennaio, fu registrata su un nastro magnetico. Il nastro fu riposto in una delle due casseforti del giornale. Circa due settimane dopo ignoti ladri sono penetrati negli uffici e hanno asportato una cassaforte: il nastro però era custodito nell'altra.