Biblioteca Multimediale Marxista


Capitolo 4

«Volevo che l'azione sembrasse opera di un fantasma» disse Josefo mentre la canoa scivolava veloce sulle acque del fiume, «ma ho sbagliato. Adesso dobbiamo prepararci a ballare».
I suoi tredici uomini scrutarono nell'oscurità. «Sarà meglio infilarci nei canali», disse ancora Josefo. «Sono sicuro che la notizia è già giunta a Opon». Gli uomini tesero i muscoli come liane cercando nella laguna la giusta rotta: ma un lontano sciacquio di remi li bloccò. Josefo non volle guardare indietro, incendiare la selva con il fulgore degli occhi: e lo sciacquio si faceva sempre più vicino. Erano sette canoe, stipate di militari che a ogni vogata si incitavano tra loro gridando: «Forza, c'è una ricompensa di centomila pesos!» E dietro alle sette canoe ne venivano altre quattro, più grandi, diverse, simili a palazzi galleggianti, con pennoni e trinchetti, stuoie a mo' di vela e una collana di stracci bianchi come neve che, attorcigliati e fissati alla linea di immersione, attenuava la violenza delle sbandate.
Josefo si alzò, abbracciò con lo sguardo le schiene dei militari, accese gli occhi squarciando la notte e - con i suoi uomini - aprì il fuoco. Il frastuono sconvolse la secolare tranquillità della selva; trinchetti, pennoni e remi saltarono in pezzi; il mondo dei militari si capovolse con le canoe che, rovesciate, sembravano cinte da cordoni di sangue arenoso e verde che saliva a fiotti dalle acque. Poi esplosero in una fiammata ampia che, per un momento, inghiottì il fiume: «Il sangue di questi disgraziati era dinamite», disse Josefo.
Era ormai quasi l'alba, gli occhi di Josefo perdevano a poco a poco il loro fulgore, i militari delle canoe superstiti s'erano appostati sulle rive della laguna e si preparavano a un nuovo attacco insieme ai rinforzi giunti da Malena e da Opon.
Josefo guardò preoccupato i suoi uomini: il castello di sicurezza creato tra i rami dei canali e la laguna negli anni di inattività bellica stava sgretolandosi, pensò. E, quasi a riprova, giunsero improvvise centinaia di barche a motore, e improvviso si avventò nell'aria una specie di pipistrello meccanico sormontato da una cupola simile a quella dei palazzi di giustizia che vomitava una pioggia di bombe sul canale. Pur gettate alla cieca, le bombe sollevavano ondate gigantesche che s'abbattevano con forza sulla canoa indifesa, su Josefo e i suoi uomini che, dopo un attimo di sbandamento, reagirono d'audacia sotto la sferza delle parole di Josefo: «puntate dritto alla riva».
Sulla riva erano attrincerati i militari: sparavano in tutte le direzioni e contro tutto, travolgendo nella loro furia di piombo le barche dei loro stessi compagni che saltavano in mille pezzi; in quest'orgia di esaltazione spaccarono il ventre al pipistrello meccanico che sobbalzò nel cielo ed esplose trasformandosi in una sfera e in una scia di fuoco. Il boato li paralizzò. Da una barca, giunta miracolosamente intatta alla riva, balzò un tenente gigantesco con un volto di cera e un enorme fucile in mano: fatti due passi, si mise a piangere e lasciò cadere l'arma. Restò così, guardando tra le lacrime i miseri relitti delle barche, finché dalla trincea uno dei sottufficiali gridò: «Se non c'è denaro per me, non ce n'è neppure per te».
Le parole scossero i soldatini. Balzati a loro volta dalla canoa, presero il tenente per mano e lo ricondussero all'imbarcazione. Ma uno dei militari che veniva in coda, volto lo sguardo spaurito alla riva e alla selva che rigogliosa e oscura ne delineava i ,contorni, si mise a gridare balbettando e indicando con gesti convulsi un angolo appena nascosto da una insenatura: «I banditi sono laggiù, all'imbocco del canale». I soldati ricominciarono a sparare alla disperata. Ma il diluvio delle pallottole non impedì agli uomini di Josefo di impadronirsi di una barca militare, metterla in moto e scomparire tra i meandri d'un canale che si inoltrava nella vegetazione. Solo uno di loro, quello che al motore aveva dato corda, non riuscì a saltare in tempo nell'imbarcazione né ad afferrare la fune lanciatagli dai compagni. Circondato da uno sciame di soldati sbucati da tutte le parti, con un gesto di rabbia e di disperazione lanciò il proprio coltello nell'acqua.
Gli stavano intorno, i militari, lo guardavano con curiosità e circospezione nel tentativo di identificarlo: il suo corpo non era armonioso, la sua pelle era troppo scura per poter pensare che fosse Josefo o di poterlo far passare come tale Mi occhi del direttore della banca di Bermeja. E, poi, non aveva occhi di cristallo e - il tenente lo notò subito - il suo volto non era immatricolato- in nessuno dei cinque archivi penali del paese. Così, deluso per l'inutile caccia, rabbioso per la perdita irreparabile dell'orgoglio alato di tutti - il palazzo di giustizia volante - l'ufficiale, evitando lo sguardo dell'uomo prigioniero, gli sparò un colpo in mezzo alla fronte: la pallottola gli strappò via mezzo cervello e la parte posteriore del cranio. Ma non gli strappò dal corpo la vita. L'uomo, caduto, si contorceva graffando terra e silenzio con lamenti simili a quelli di un bue in pena e mordendo l'erba tenera, spuntata da poco.
L'ufficiale decise di portarlo a Bermeja come un trofeo che gli poteva fruttare una promozione o una nuova medaglia al valore da aggiungere alle duecento che già aveva ricevuto: rimboccatesi le maniche, lo legò piedi e mani a una sbarra, appeso come un vitello e, aiutato da un subalterno, lo gettò sul fondo della barca. Quando giunsero al porto era ancora vivo, muoveva gli occhi e la testa, si dibatteva cercando di liberarsi. La sbarra in spalla, tenente e sottotenente percorsero le vie della città: il sangue stillava dal capo dell'uomo che dondolava come un bambino sull'amaca. Lo condussero all'ospedale municipale, una cadente e putrida casa coloniale adibita a quell'uso da Napoleon Lleras, nel suo quarantesimo periodo presidenziale. Nell'atrio, sorridente e con il breviario in mano, li aspettava il prete incaricato delle estreme unzioni. «Curi l'anima di questo figlio di puttana, perché per il suo corpo non c'è più niente da fare», disse il tenente scaricando il ferito come un fagotto. Il prete aprì parsimonioso il suo libro e, invece di leggere i salmi in consolazione dei morti e impartire la benedizione con l'acqua santa, pregò perché il ferito morisse al più presto, mentre questi con le poche forze che ancora gli restavano, continuava a graffiare la sbarra e ad allontanare con forza da sé l'alito della morte. Cessò di vivere alle sette di sera, nessuno si presentò a reclamarne il corpo: gli stessi soldatini che avevano visto la sua testa saltare a pezzi lo portarono al cimitero dei suicidi. Sola testimonianza del suo passaggio attraverso le strade deserte e attraverso la vita rimasero le gocce di sangue cadute dall'orribile ferita, che le temibili piogge di fine d'anno - anziché cancellare - trasformarono in blocchi indistruttibili di pietra. Né i picconi degli operai, né le lame della ruspa inviati da Napoleon Lleras riuscirono a distruggerli: anzi, ogni qualvolta ruspe e picconi li sfioravano stillavano cristalli di sangue che si incrostavano sulle porte delle case vicine e rotolavano sul ventre del fiume aderendovi con tale forza che né il sapone di terra, né la stoppa, né la lisciva, né la spugna di ferro riuscirono a. rimuoverli. Le acque del fiume cambiarono colore solo quando un ceno mister Coleman, dalle gambe gialle come una diarrea di neonato e le mani sottili come vermi, colpito dalla peste dell'amore per il petrolio, scoperse che l'oggetto della sua passione si trovava proprio sulla riva del fiume e, per liberarsi del malessere che gli prendeva lo stomaco alla vista del rosso delle acque, lo spazzò via con centomila tonnellate del suo nero amore.