Biblioteca Multimediale Marxista


Capitolo 1

Elisandro chiuse con cura la cella del generale Tozudo, così chiamata perché nei tempi in cui la regione era un oceano di pace, sole e brevi piogge passeggere, il generale era comparso con il suo viso di cavallo macerato dalla stanchezza, il suo zaino e il suo poncho giallastro e aveva chiesto ai genitori di monsignor Builes e a tutta la serie di vescovi e cardinali che infestavano la mente é la geografia del paese, il permesso di costruire un carcere modello: il più grande e tetro di tutti i Caraibi; e lo costruì dedicando all'opera l'intera sua vita, prodigandosi senza riserve, in una luce di impegnato delirio, in un fuoco d'amore che travolgeva ogni possibile ostacolo. Un amore che andava oltre i confini della morte perché = come lasciò scritto nel suo testamento - il generale fu sepolto nella torre del carcere, nella cella più oscura, quella in cui - sempre in omaggio alla sua volontà - dovevano poi essere rinchiusi e sepolti i peggiori criminali della regione, i più incalliti e feroci, e tra loro lo stesso anticristo, perché calpestassero le sue ossa e sentissero il calore dell'onestà che ne emanava come fiamma bruciante, tormento, punizione che anticipasse loro, in vita, le pene dell'inferno.
Infilatasi in tasca la chiave, Elisandro ordinò ai tre poliziotti di guardia di sparare senza esitazioni nel caso che Josefo si muovesse o cominciasse a raschiare i muri. Ma Josefo, immobile nell'oscurità, si sentiva circondato da un odore di morte: disteso, aveva i piedi poggiati sui resti del primo prigioniero negro rinchiuso nella torre e il capo sull'esatto punto in cui era sepolto il cadavere di Tozudo. Era un odore di morte vecchia, che gli penetrava nel cervello, lo stordiva come una minaccia. Doveva liberarsene, pensò. Ma la porta della cella si riaprì inquadrando una figura allampanata che vacillò sulla soglia e poi cadde, sospinta da una mano che impugnava una pistola. Josefo percepì nell'ombra la trasparenza della pelle, gli occhi tumefatti e semichiusi cerchiati da una crosta di sangue rappreso dell'uomo sulla cui spalla era appuntata un'etichetta rossa. Vi si leggeva: «Juan Sietevidas, criminale irriducibile nonostante la giovane età, nemico della affermazione democratica».

Juan Sietevidas era stato catturato quindici giorni prima, per ordine di Napoleon Lleras in persona, nel porto in cui un certo monsignor Concha aveva aperto il secondo tribunale dell'Inquisizione. Era stato quello uno dei pochi ordini pubblici e diretti impartiti da Napoleon e l'occasione per una delle sue rare comparse in pubblico. Aveva detto, allora, ritto sulla tribuna, che se anche Josefo era riuscito a farsi beffa delle autorità per anni e a seminare il terrore nelle zone più isolate del paese, il bandito Sietevidas e i suoi compagni - che s'erano in quei giorni impadroniti del treno dell'affermazione democratica e, se non fosse stato loro consentito di raggiungere incolumi la selva del Magdalena medio, minacciavano di appiccargli fuoco e massacrare i quattrocento parlamentari che percorrevano il paese per portare la pace nelle campagne devastate dalla violenza - non avrebbero ottenuto né quanto richiesto né la grazia della vita. I familiari dei quattrocento lo avevano ascoltato senza battere ciglio, ma rincasando s'erano fatti premura di cambiare gli abiti di sempre con quelli da lutto e di recarsi alla basilica per pregare affinché monsignor Vallejo, incaricato di liquidare i ribelli, non sbagliasse mira.
Intanto, al porto, Vallejo postisi i mustacchi rossi e gli stivali da guerriero, cintasi la bandoliera e seguito dai settecento uomini della sua squadra, aveva circondato il treno e gridava a pieni polmoni tra le mani a imbuto: «Arrendetevi criminali, se volete aver salva la vita». Gridò per un giorno e una notte, mentre i dintorni della vecchia stazione si popolavano di curiosi accorsi da tutto il litorale per vedere con i propri occhi la potenza della affermazione democratica in azione, mentre poliziotti travestiti da pescatori distribuivano armi tra i pescatori autentici ordinando loro di sparare sul treno quando monsignore scaricasse la prima raffica e tre mister e cinque ingegneri giunti da Bermeja installavano mitragliatrici sulle colline circostanti.
Ma con il passare delle ore cresceva l'esasperazione degli spettatori che si vedevano già defraudati dell'emozione finale e Vallejo fu costretto ad agire: a mezzogiorno in punto, come spinto da una furiosa ispirazione, partì all'attacco scavalcando traversine e binari e scaricando per tre volte consecutive il suo mitra attraverso la porticina socchiusa dell'ultimo vagone. Gli fecero eco le mitragliatrici dalle colline e i fucili dagli edifici della stazione, mentre i suoi uomini serravano il cerchio, i vetri dei finestrini saltavano in pezzi e dal treno non veniva segno di vita. Solo, a un tratto, un uomo giovane e spaventato s'affacciò a una porticina cercando scampo o aiuto, ma fu come un uccello comparso improvviso nel cielo in una prima giornata di caccia e cadde crivellato di colpi, con i piedi incastrati negli scalini del vagone, il corpo inarcato e sospeso, i capelli biondi come un'aureola intorno al capo riverso sul marciapiede. Vallejo avanzò d'un balzo e gli vuotò il caricatore nella testa lasciando poi che i suoi se ne disputassero il corpo a colpi di calcio e di calci sotto lo sguardo attonito del governatore Castro y Vuelvo che, dal suo posto di osservazione, alzava mani e grida al cielo invocando clemenza e prudenza per la vita dei parlamentari che come topi atterriti e impazziti scendevano a precipizio dai vagoni cercando rifugio tra i cespugli.
Quando il fuoco cessò e cessarono le grida di giubilo e vittoria, le pallottole si potevano raccogliere a pugni e il treno era una carcassa. Monsignor Vallejo sali con aria decisa sul primo vagone dove un parlamentare, seduto sul sedile di velluto rosso, lo guardò con occhi vuoti, le braccia in croce sul petto come pregasse, e la gola squarciata. «Ci sono altri morti?» chiese a un ferroviere che lo aveva seguito.
«Molti, monsignore». «E i banditi?»
«Ce n'è uno solo, non è morto ma quasi. Gli altri due sono scappati».
Quella sera Napoleon si ripresentò in pubblico vestito a lutto tetramente annunciando che i banditi avevano assassinato duecento membri del parlamento, ma che erano stati catturati e che, comunque, con una legge promulgata da poche ore, i duecento caduti in nome della patria e del dovere erano stati proclamati beati. Tornato a palazzo tra acclamazioni di giubilo, convocò monsignor Builes: bisognava decidere, gli disse, che cosa fare con i cadaveri dei criminali. Decidere non era facile: si sarebbe potuto, suggerì Builes, farli in pezzi da distribuire poi, in segno di ammonimento, ai quattro angoli del paese. Ma forse non sarebbe servito, osservò, perché in tutto il paese non c'era una sola persona, ormai, su cui un cadavere - a pezzi o no - potesse fare un qualche effetto. Infine, dopo una serie di proposte ritenute inadeguate, decisero di imbalsamarli. e di collocarli entro un'urna trasparente nel cortile del carcere grande, che entrambi con fierezza definivano «la prima meraviglia del mondo». Stavano reciprocamente congratulandosi per l'idea, quando giunse monsignor Vallejo a comunicare con una certa arroganza che il messaggio loro inviato era stato una necessaria menzogna: in realtà, due banditi erano riusciti a sfuggirgli e il terzo era stato catturato, ancora in vita, nonostante le migliaia di pallottole che gli erano state sparate contro. Come se le parole dessero d'improvviso corpo a una terribile realtà, i tre si guardarono e sbiancarono: sentendosi svenire s'abbracciarono stretti cercando d'infondersi coraggio l'un l'altro.
Vallejo aveva affidato il bandito ferito al curandero ordinandogli di fare l'impossibile per salvarlo, ma di tenerlo legato alla testiera del letto che, per maggiore tranquillità, sarebbe stato circondato notte e giorno dalla sua gente in armi. Il ferito apri gli occhi dopo due settimane e si vide intorno un mare di uniformi: la pelle, gialla, gli si fece cerea e con un tremito che lo prese dalla testa ai piedi scosse via da sé, come una pioggia fitta, le squame rosse che gli ricoprivano le ferite. Subito gli armati spedirono una staffetta ad avvertire Vallejo che giunse ansimando e, toltosi il mitra, poggiò l'orecchio sul cuore del giovane. Poi gli tolse le manette per mettergli le catene, benedisse le tazze, le pentole, le marmitte e gli alambicchi nei quali il curandero aveva preparato pozioni e misture, ordinò ai suoi uomini di caricare il bandito su una barella tessuta di stracci, di portarlo a dorso di mula al carcere grande e di affidarlo alle mani sicure del direttore Cien Puertas. Per amore della precisione, quando il ferito fu pronto per la partenza, gli appuntò sulla spalla un cartellino esplicativo: « Juan Sietevidas... »

Josefo raccolse il corpo gonfio di Sietevidas - nella oscurità gli parve una massa inerte che non avrebbe più avuto, ormai, né forza per vendicarsi né capacità di odiare - e l'accostò pietosamente al muro. Così seduti trascorsero la notte sotto lo sguardo feroce dei guardiani che non permettevano loro neppure di portare la mano alle narici per sfuggire al pesante odore di morte vecchia che emanavano gli antichi carcerati sepolti nella cella, e ascoltando le grida dei dieci condannati che in un'altra cella non lontana si davano il turno quotidianamente, da due anni, per far sapere ai compagni che erano ancora vivi. Il sesto giorno fece la sua comparsa Elisandro: dritto, sulla porta, con un'aria tranquilla, le mani a pugno sui fianchi, ma gli occhi rossi per la veglia notturna fissi sul nebuloso volto di Josefo.
«Sono venuto a prendere Sietevidas» borbottò tra i denti. Gli legò piedi e mani alla stessa catena e se lo trascinò via in fretta attraverso lo stanzone in cui i carcerati prendevano aria nell'ora in cui quotidianamente arrivavano gli emissari di Vallejo con le loro casse di legno piene di cianfrusaglia, le loro bare, i loro souvenirs funebri e tutte le piccole cose d'uso quotidiano tra la .gente libera: per instaurare la vita della libertà e del paese anche nel penitenziario, come aveva ordinato loro monsignore.
«Faranno un circo del mio carcere», pensò Elisandro; e, per non incontrarli, corse verso la cella collettiva proprio mentre i guardiani furiosi vi stavano trascinando Josefo. I cento detenuti lo aspettavano con curiosità golosa, nudi, piagati, coperti di cicatrici.
«Ecco i maggiori criminali di questo paese» disse Elisandro sospingendo Josefo e Sietevidas verso il microscopico spazio che i condannati lasciavano libero. «Per farla finita con gli innamorati del disordine» aggiunse, «ci siamo noi e ci sono i penitenziari». E come se nulla bastasse a placare il feroce odio che lo animava, fece sedere i due, in catene, sul bidone che serviva da latrina. «Così finiscono i ribelli: seduti sulla merda», disse conclusivo e perentorio mentre alle sue spalle si dilatava un silenzio pieno di terrore e al di là delle mura gli incaricati di trasportare il mondo nel penitenziario cominciavano a scaricare casse gridando con voci remote: «Comprate l'immagine di San Pedro Claver, salvate i vostri corpi e le vostre anime».
Quella notte nessuno parlò; Elisandro se n'era andato comunicando che chi avesse rivolto la parola ai due nuovi arrivati poteva considerarsi nemico di se stesso e del governo perché i due avevano il maledetto potere di irretire chiunque entrasse in contatto, anche verbale, con loro. All'alba, i carcerati vennero riportati nella stanza grande e se ne andarono in fretta, non senza aver prima raccolto - per tenerli sotto mano e sotto controllo - le scatole vuote di cartone e i giornali sui quali avevano dormito: un tesoro conquistato da difendere contro la cupidigia e le necessità altrui; e Elisandro ricomparve davanti a Sietevidas e Josefo, con una altra catena, seguito da un altro guardiano che lo aiutò a sistemarla sopra la prima e che - seduto su uno sgabello - rimase tutto il giorno con il fucile imbracciato e spianato contro di loro, pronto a sparare nel caso cambiassero posizione, si agitassero o rovesciassero il bidone. Ma i due non si mossero. Solo a sera - e tra poco avrebbero acceso le luci - Josefo senti che i piedi gli naufragavano in un liquido tiepido e quieto che sembrava quasi non scorrere; cautamente, per non far tintinnare il suo manto di ferro, chinò il capo e guardò: era sangue, il rugginoso bordo del bidone gli era penetrato nelle natiche e irrimediabilmente gli lacerava le carni.
«Figlio di puttana» disse al carceriere imperturbabile, «o ci fai scendere di qui o ci fucili». Sietevidas vide le pigre mani della guardia mettere la pallottola in canna e ne udì il ghigno sarcastico. «Adesso non posso», rispose, «ma più tardi lo farò, stanne certo», e con la canna punzecchiò Josefo: «Guai se ti muovi».
Con l'avanzare della notte, dai quattro angoli della cella, dal tetto e dalle crepe del muro si alzò una nube di mosche, densa e pigra come il fango; si distese come una cappa su tutta la superficie della stanza, oscurò la flebile luce delle lampadine e distaccò un drappello che, come una saetta, calò sul filo di sangue che continuava a colare dalle natiche di Josefo. Stavano rientrando gli altri prigionieri: non sembravano neppure uomini: da anni non vedevano la luce del sole, la fame e le botte li avevano trasformati in ombre, in cicatrici, incapaci di un qualsiasi scatto di ribellione. Interdetti, esitarono sulla soglia, poi, ordinatamente, come da secoli non succedeva, cercarono ciascuno un posto, un angolo, un buco dove trascorrere la notte e, alcuni seduti altri in piedi per mancanza di spazio, dall'opacità più spessa della loro anima guardarono Josefo con un sentimento confuso di vergogna e di rispetto.
Anni prima, le guardie avevano portato in carcere tre ladri arrestati mentre rubavano i gioielli della vedova più ricca del paese: e i tre s'erano rifiutati di mangiare perché la brodaglia che veniva data loro brulicava di vermi; e s'erano intestarditi nel rifiuto fino a morirne: e il gesto aveva ridato agli altri la capacità di indignarsi, di spezzare i solitari enigmi caratteriali e perfino - a qualcuno - l'ardire di tentare la fuga. Ma con il tempo l'episodio era caduto nell'oblio e tutto era rientrato nell'ordinaria, piatta inerzia di ogni giorno. Ora, mentre davanti agli occhi di quegli uomini ombra, come una statua di marmo minacciava Josefo con il fucile spianato e la pallottola in canna, la guardia sentiva che quello strano, improvviso silenzio calatogli intorno preludeva a un periodo in cui, forse, torture, restrizioni e vizi non sarebbero bastati a mantenere la pace nel carcere. Josefo guardò i compagni di pena con apparente serenità, scorse nei loro occhi una lontana sfumatura di odio, vide i muscoli contrarsi e le cicatrici gonfiarsi come in attesa; e cominciò a muoversi adagio tra le infinite catene finché, improvvisamente, si lasciò cadere di fianco, liberandosi dai bordi del bidone che gli erano entrati nella carne, rotolando nella merda che gli si era versata sopra, trascinando con sé sia Sietevidas sia la guardia che, urlando di terrore, si rialzò con la furia della disperazione e corse fino alle grate dove gli altri guardiani, richiamati dal trambusto, erano già accorsi in sua difesa, armi alla mano e occhi trasformati in carboni ardenti di rabbia.
«Josefo?» chiese il comandante Elisandro. Ma la guardia s'era ammutolita e i condannati stavano chiacchierando tranquillamente tra loro come non avessero visto nulla.
«Sietevidas?» chiese Elisandro furioso scuotendo la guardia per le spalle. Ma l'uomo era più muto di prima, giallo e freddo come gli si spalancasse davanti la porta dell'altro mondo, e il comandante capì che il lungo sonno stava per finire, che tutta la sua vita di carceriere e l'effimera gloria conquistata catturando alcuni prigionieri in fuga e ormai giunti a un passo dalla libertà venivano messe in discussione e minacciate da quella che, fino a poco prima, aveva considerato la corona d'alloro, il punto più alto della sua carriera, la perla che la illuminava: la cattura di Josefo. E lo guardò con un terrore oscuro, che mai, in quarantacinque anni di mestiere, aveva provato di fronte a un condannato, e gli sembrò di galleggiare in un mare gelido quando, da terra, Josefo ricambiò lo sguardo con una occhiata fredda e senza peso. Non ebbe il coraggio di entrare. Con le grosse chiavi aprì la porta per permettere al guardiano di uscire e ordinò agli altri di continuare la vigilanza dallo spioncino. Gli occhi dei condannati corsero a Josefo: vi si leggeva non solo rispetto ma ammirazione; e Josefo si sentì dentro come nei giorni felici delle grandi imprese quando, dopo la fuga più rocambolesca, era stato catturato di nuovo - se, in modo intelligente o stupido, non avrebbe potuto dire - e, condotto nella cella più tetra, era riuscito a scappare di nuovo, dopo poche ore, con un piano semplice e geniale. Ma con stupore vide che nessuno si muoveva per aiutarlo a rialzarsi e, tanto meno, per aiutarlo a liberarsi del bidone di merda che si ritrovava addosso.
«Siamo fottuti» disse Sietevidas.
Josefo sollevò la testa. Ne sentiva la voce per la prima volta:
«Sì» disse. «Non sono mai stato in una cella come questa, con gente come questa».
Si diedero entrambi da fare per rialzarsi e liberarsi della merda; ma le catene erano tante e tanto intorcigliate e pesanti che vi si irretirono fino a restarne irrimediabilmente prigionieri. Proprio allora l'opulenta immobilità di quegli anni e la disperata routine del giorno si ruppe con l'ingresso di un gruppo di paralitici portati dalle celle sotterranee da altri detenuti, su pali e assi che fungevano loro da seggiolone: avevano barbe eterne, sguardo insicuro e volti annebbiati come si fosse in loro rinsecchito il ricordo della vita; l'isolamento li aveva resi muti e, a quel che si diceva, anche ciechi o almeno incapaci di distinguere le persone dalle cose. E come cose rimasero, sui loro seggioloni sgangherati, accatastati l'uno accanto all'altro, con lo sguardo nel vuoto, senza emozione, mentre tre detenuti dalle carni gonfie per i bubboni si avvicinavano con gesti di minaccia; poi qualcuno, da un angolo, dopo aver cagato su un pezzo di carta, tirò loro il cartoccio addosso. Fu come un segnale. Altri cominciarono a pisciar loro sulla schiena; un vecchio nero come la notte prese a tirar loro le guance per strappargli la barba e costringerli ad aprire la bocca in modo da vedere, diceva, se avessero parole nascoste dietro i denti. Allora Josefo che, con l'aiuto di Sietevidas, era riuscito a trascinarsi fino al muro, lontano dal bidone rovesciato, gridò con voce profonda e audace che se non l'avessero smessa con quella tortura prima o dopo l'avrebbero pagata. La risposta non fu - come c'era da aspettarsi e si aspettava - il coltello, ma un'esplosione di rabbia e l'accanirsi della ferocia collettiva sui paralitici che rimasero quasi pelati, coperti di piscio e di merda, seminudi e tuttavia statici nella loro immobilità di marmo e nel loro eterno silenzio. Una specie di festino orrendo, quale Josefo non aveva mai visto e quale - cominciò a pensare - gli sarebbe stato un giorno o l'altro riservato se non lo avessero liberato dalle catene. Ma non era finita: come obbedendo a un piano determinato, i condannati si mossero e decine di mani frugando negli angoli, nelle crepe dei muri, nelle fessure del pavimento, estrassero paletti appuntiti di latta o d'osso - lavorati a furia di smeriglio contro il suolo, le sbarre, le porte - e coltelli e altri arnesi; si formarono tre gruppi; due dei quali si affrontarono maneggiando le armi con una abilità che trasformava ogni mossa, per quanto plateale e gratuita all'apparenza, in un colpo sicuro contro il nemico, in un morto, anche se Sietevidas non riusciva a capire, nell'infernale caos che lo circondava, chi stesse contro chi. Fu un attimo: quando all'esterno si udirono i passi pesanti di un pugno di guardie tutto era già finito: alcuni fingevano di dormire, altri guardavano con serietà taciturna la sottile striscia di sangue oscuro che correva lenta verso il centro del padiglione trascinando con sé ciuffi di barba e moscerini, altri ancora soffocavano i gemiti. C'erano quattro morti. Elisandro s'affacciò allo spioncino: «Ottimo lavoro», disse; «si vede che Josefo porta allegria». E se ne andò senza aggiungere sillaba.

Qualche ora dopo risuonò una raffica, nel cortile, e di nuovo apparve Elisandro accompagnato, questa volta, dal prete Asuncio che mormorando con voce imperturbabile il miserere fece il giro dei morti prima di scomparire di nuovo a passi misurati.
«I lleristi alla porta» ordinò Elisandro. La cella si svuotò a metà. Allora, come in un rito consueto, quelli del terzo gruppo raccolsero i cadaveri e li trasportarono nello stanzone dove, dopo averli alla meglio ripuliti dal sangue con i giornali sui quali dormivano, .li distesero in fila, l'uno accanto all'altro: per punizione, i lleristi furono costretti a passare la notte in veglia funebre, sotto la minaccia dei fucili.
Mentre una guardia dagli occhi vuoti costringeva Sietevidas e Josefo a sedersi di nuovo sul bordo del bidone, gli altri detenuti trasportarono senza fatica gli esili paralitici nel centro del padiglione; poi, dopo essere stati tanto a lungo costretti a dormire in piedi o ammonticchiati gli uni sugli altri per mancanza di spazio, si distesero braccia e gambe aperte, stirate in tutta la loro lunghezza, sospirando di piacere come stessero consumando il più felice degli orgasmi. Anche questo riposo era una festa, e lo fu per Sietevidas e per Josefo che, già assuefatti al puzzo della merda vecchia e nuova, respirarono a fondo l'aria dell'alba.
La luce entrò fresca, come filtrata, dalla stretta fessura aperta in una parete laterale, davanti alla quale i detenuti facevano la coda per respirare un soffio di libertà, per accostare un occhio a scoprire un piccolissimo pezzetto di cielo. Altri, invece, s'affannavano a ripulire alla meglio i volti gonfi e dilaniati dei feriti, a trasportare nel padiglione quanti in quelle ore s'erano aggravati e oscillavano ormai senza illusioni né speranze tra un sonno di morte e la vita. Sietevidas li guardava curioso, con l'oscuro timore di cadere - oggi, domani, un giorno - in quella rassegnazione senza scampo, in quella accettazione passiva che consentiva loro di trascinarsi nell'inerzia dei giorni e delle notti differenziati tra loro soltanto da un intravisto spicchio d'azzurro, da un soffio d'aria rubato, dalla nebbia giallastra della luce artificiale nella cella collettiva impregnata di rivalità gratuita.
Più tardi, mentre i guardiani erano intenti a portar via i cadaveri e a nasconderli per evitare che la notizia di questo «regolamento di conti» trapelasse gettando ombre malevole sul buon andamento del penitenziario, un detenuto dallo sguardo desolato e dalle labbra feline s'avvicinò furtivamente a Josefo:
«I tuoi coltelli», gli chiese.
«Non li ho più» rispose Josefo con tristezza. «E come farai a scappare?»
«Non lo so».
«Allora morirai qui dentro». Josefo chinò la testa.
«Cerca di liberarmi dalle catene e rimediami un ferro qualsiasi. Mettilo qui, sotto il bidone». Era una sollecitazione meccanica, quasi senza speranza, ma con stupore Josefo vide che l'uomo si chinava su di lui e lo sentì rimuovere le catene cercando di srotolarle come una matassa di filo, e intuì che le sue mani rozzamente agili stavano cercando una punta o un anello più debole e allora disse piana
«E' inutile. Meglio se mi porti un coltello». L'uomo lo guardò con occhi vitrei eppure girò su se stesso, si diresse a passi rigidi verso l'angolo nel quale i più vecchi trascorrevano lunghe ore accovacciati, rimpicciolendosi e assottigliandosi nell'illusoria attesa di bagnarsi nei fili di luce che non filtravano dalle pur squassate imposte di una finestra perennemente chiusa e sbarrata dalla grata, scostò come un oggetto una figura ormai tutta pelle appoggiata al muro, gli frugò nelle scarpe cenciose finché sentì la suola rigida sotto le dita: ne estrasse un coltello, ma più che un coltello una lama ricavata a pazienza da un pezzo di latta strofinato per ore contro il muro.
«Non fartelo scoprire» disse con labbra immobili a Josefo. E glielo infilò sotto il bidone allontanandosi in fretta: fuori; uno scalpicciare annunciava la presenza degli inviati di Vallejo che già avevano provveduto a installare molte cose del mondo negli altri padiglioni. Erano una ventina: cittadini con occhi troppo accesi di curiosità e vestiti alla moda della buona borghesia provinciale con cravatte dai colori stridenti, cappelli neri e scarpe bianche; e altri, dal corpo duro e bruciato dal sole, mani grandi, piedi scalzi, che si guardavano intorno e alle spalle, controllavano mura e pavimenti fermandosi di botto e a tratti retrocedendo, non per paura, ma per uno spontaneo riflesso, come fanno i contadini guardinghi davanti a tutto ciò che non conoscono.
«Vengono per conoscerti e per farti il ritratto» disse Cien Puertas a Josefo. «Così i tuoi amici sapranno come ti trovi qui. E che sei vivo».
I contadini avevano negli occhi uno smisurato stupore; i provinciali esitavano ma ostentavano un'aria di superiorità di fronte ai due uomini che per anni avevano tolto loro la pace; i contadini respiravano con difficoltà come se i loro polmoni non riuscissero a inalare il penetrante odore di merda, e mal trattenevano disperate smorfie di disgusto e sudavano; i provinciali tiravano fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni fazzolettini di stoffa colorata profumata di colonia e se la portavano alle narici; tre condannati - agli ordini di Cien Puertas - cominciavano a montare un tavolo grande come mezzo padiglione, portavano solerti barattoli di colore, stendevano con cura un grande rotolo di carta bianca e illuminavano il tutto con la luce accecante di tre enormi riflettori.
«Così, siete venuti a farmi il ritratto per poi vendere la mia immagine» disse Josefo trattenendosi a stento. «Non solo», rispose un signorino. «Abbiamo portato anche questi contadini perché imparino la lezione». Josefo si raccolse in se stesso chiudendo gli occhi ed ebbe di colpo davanti a sé il suo passato: ne sentiva le voci come un sussurro che veniva dal nulla e si trasformava in un faticoso ronzio sotterraneo che lo bruciava come una sconosciuta fiammata di rabbia impotente.
«Dipingetemi, figli di puttana» gridò. «E anche Sietevidas. Così la gente saprà come siamo trattati».
«E non crederà più ai cani come voi» gli rispose un giovanottino dagli occhi gialli.
Sietevidas sentiva quelle voci lontanissime, come se soltanto una piccola parte di sé captasse la realtà; sprofondato in una specie di letargo, lasciò ricadere molli le labbra e strinse le dita. Così lo ritrasse un giovanotto compunto e compreso del proprio compito, installato in un angolo con la sua sedia, il cavalletto e gli arnesi da lavoro: usò, per dipingerlo, i colori più cupi e sordi di cui disponesse, suggerendo l'immagine di un satana venduta da chierichetti solerti sulle porte delle chiese di campagna, accentuando nella deformazione delle labbra carnose molli e pendule una sorprendente somiglianza con certi ritratti che il ministero della pubblica moralità diffondeva in cartoline scolastiche e libri religiosi destinati a mettere in guardia i giovani e le giovanette innocenti dai maniaci sessuali. Poi venne il turno di Josefo: e il risultato fu tanto folgorante da indurre Elisandro a esclamare: «E' il diavolo in persona!»
Quando la porta si richiuse dietro i tre ultimi contadini tremanti, bagnati di sudore e con le lacrime agli occhi, Cien Puertas inguainato nel suo vestito di lino bianco con spalline e alamari in similoro e l'automatica ben in vista sul ventre, chiamò le guardie con un colpo secco delle mani. Era giorno di visita: bisognava radunare i pazzi rinserrati negli altri padiglioni o nelle celle sotterranee per guidarli, ordinati e che non dessero scandalo, fino al parlatorio. Mentre, coperti di stracci, ridendo, piangendo, gemendo, o chiusi in una loro furia solitaria sfilavano davanti alla cella, Cien Puertas li tratteneva uno per uno per mostrare loro i due condannati più famosi del penitenziario, i due delinquenti più pericolosi del paese, di cui raccontava le imprese con soddisfazione e gusto tronfio senza rendersi conto che i pazzi sembravano non udire affatto le sue parole, e tanto meno capirle.

Li risvegliò un suono di risa e di esclamazioni di giubilo, poi la porta si spalancò e entrarono tre guardie.
«Mettetevi questa roba» disse uno di loro e, tenendosi a debita distanza, allungò due camicie e due paia di pantaloni infangati. Josefo aiutò Sietevidas, che ancora si muoveva a fatica, a infilarsi nei pantaloni enormi, e, prima di stringersi in vita lo spago come cinta, cercò di proteggere con un rotolo di carta le ferite che, sulle natiche, suppuravano. Legandoli mani e piedi alla catena: «Andiamo», disse il guardiano più autorevole. «Devo portarvi alla inaugurazione del mondo». Non sapevo che lo si. dovesse inaugurare» borbottò Josefo a mezza voce.
«Sì, per amore di Dio e volontà di monsignor Vallejo» ribatté lo stesso guapdiano mentre Josefo e Sietevidas si scambiavano un'occhiata che era insieme di timore e di ilarità. minavano automaticamente, a scatti, come marionette : se uno dei due non portava avanti il piede al momento giusto, perdevano entrambi l'equilibrio e cadevano tra un fracasso di catene e imprecazioni.
Ma arrivarono, infine: e furono fatti sedere proprio nel centro della grande sala, in modo che tutti li vedessero; e perché li potessero vedere ancor meglio e rendersi conto delle loro condizioni accesero loro una lampada al di sopra della testa. L'inaugurazione del mondo aveva rotto l'equilibrio consueto. Cien Puertas aveva fatto appendere ai muri tavolette di legno su cui si leggeva a chiarissime lettere: «Raccoglimento e preghiera»; i vecchi, che passavano i loro giorni accanto alla finestra chiusa, affermavano con convinzione che nei prossimi giorni sarebbe sopraggiunta un'ondata di calore tale da far sì che i più deboli morissero per disidratazione; altri - ospinisti e lleristi colpevoli e innocenti, vecchi e giovani - sembravano essersi tolti dal volto la maschera di desolazione e ridevano irragionevolmente; quelli che erano nati ed erano vissuti in campagna cercavano nei meandri della memoria l'odore di giorni lontani pensando che l'inaugurazione del mondo dovesse comportare anche l'introduzione di alberi, piante e animali; i cittadini, invece, cercavano negli oggetti che avevano portato in carcere e custodivano gelosamente qualcosa che li rassicurasse, che ricordasse loro che cos'era il mondo per non esserne colti alla sprovvista; e quelli che in carcere c'erano nati seguivano con interesse i racconti degli anziani senza tuttavia riuscire a farsi un'idea della realtà esterna. Sembrava il giorno più corto, nella vita del penitenziario.
«Anni fa», mormorò Josefo a Sietevidas, «Builes ha organizzato qualcosa di simile in un'altra colonia penale: ma alla fine della festa, più di metà dei prigionieri erano morti. Era stata una trappola per sterminare i più deboli e fare spazio ad altri condannati che, altrimenti, non avrebbero trovato posto nelle carceri del governo».
Sietevidas sembrava non ascoltarlo. Si guardava intorno e i suoi occhi attenti cercavano un qualche buco, un muro più debole, una finestra sguarnita: ma vedevano solo i condannati ora come avvolti in un vapore nebbioso che li rendeva tutti uguali, nel fisico e nel modo di muoversi e di parlare, quasi che ognuno avesse preso dall'altro nel tentativo di mimetizzarsi dietro un identico codice di comportamento.
Cien Puertas fece installare nel salone un grande tavolo, davanti al quale sedette armato di carta e matita come si trovasse in un accampamento militare; poi cominciò a recitare ad alta voce orazioni vecchissime, già da anni sostituite - nel mondo - da altre più dirette e aperte; e, di tanto in tanto, gridava: «Il giorno in cui i due grandi criminali moriranno, all'inferno si farà grande festa». Un'ora dopo, una guardia dagli occhi orientali, armata di una pistola gigantesca si avvicinò ai due con un secchio e alcuni stracci: per primo puri Josefo che riacquistò in parte la sua aria vigorosa e, irrorato di canfora, perdette l'odore di merda che si portava addosso come segno distintivo; poi si diede da fare con Sietevidas, ma con tale violenza che - quando credette di aver finito - dovette ricominciare da capo, ripulirlo del sangue che gli colava dalle ferite, incerottarlo e bendarlo e fasciargli volto e corpo fino a renderlo rotondo come un globo. Si avvicinava il momento della cerimonia, il tempo pareva essersi fermato in un'attesa nervosa. Nel grande salone risuonava soltanto la voce di Cien Puertas, mentre i condannati, ansiosi e rannicchiati su se stessi, sembravano a tratti volersi raccogliere intorno a Josefo: ma erano segni fugaci, impercettibili esitazioni. Poi Cien Puertas raccolse le sue carte e la matita, infilò la pistola nella fondina e gridò: «Andiamo a inaugurare il mondo».
Capeggiava la fila il detenuto più anziano per età e anni di prigionia; era entrato lì dentro da tanto che neppure ricordava d'essere mai stato in un padiglione diverso. Guardò attento la scala che portava agli altri padiglioni, e fissò spaventato la straordinaria superficie color acciaio, ondulante di serpentine, fiori di plastica e file di immagini a colori di San Pedro Claver e fotografie di Vallejo e Builes che si abbracciavano con un sorriso smisurato. Più avanti, le mura si restringevano fino a lasciare un passaggio strettissimo, scuro come il cioccolato e privo di ornamenti: «Qui», disse uno che la sapeva lunga, «ammazzano i condannati che prelevano dalle celle». Cien Puertas, che camminava in coda con Josefo e Sietevidas, fece scorrere ridendo la canna dell'automatica davanti ai loro occhi prima che passassero, quasi trascinandosi, la strettoia; poi, nello slargo, li prese per mano ed entrò, trionfante, nella grande sala dove si sarebbe tenuta la cerimonia.
1 condannati erano stati divisi per padiglione, età, malattie, credo politico e precedenti penali. Così i paralitici, che credevano di essere gli unici ad aver percorso tutte le tappe della sofferenza, videro quelli che arrivavano dal secondo piano e, sgomenti, ruppero la perfetta tranquillità del salone respirando forte come buoi moribondi e tremando sui loro seggioloni che scricchiolavano e traballavano rubando l'attenzione degli altri. 1 pazzi erano stati legati piedi e mani con doppie catene e resi muti con bavagli di pezza; i nemici politici posti faccia a faccia ma separati da un cordone di guardie dalla testa pelata come un uovo, armate di fucile e pistola e dall'aria tanto arrogante che neppure i più aggressivi osavano guardarsi l'un l'altro con occhi da cane. In prima fila c'erano i ricchi, con i loro splendenti abiti di panno o di lino, grassi, allegri e pronti all'amicizia con il prete Asuncio e Cien Puertas, come ad allungare ai guardiani la mano danarosa, parte della razza senza vocazione, senza passato, né presente, né futuro dei proprietari terrieri che fanno sputar sangue ai peones e finiscono in carcere per puro accidente o per sfuggire alla vendetta di parenti o nemici.
Quando il salone fu un grande pozzo di silenzio rotto soltanto dallo stanco ansimare dei paralitici, il telone di fondo s'aprì scoprendo un'incredibile serie di squallide stravaganze: rami di fiori di plastica da cui, circondati di petali, pendevano fotografie di cardinali, vescovi e preti; figure infernali con le fattezze di Josefo e Sietevidas armate di forconi sulle cui punte pietosamente agonizzavano bambolotti di plastica; giganteschi ritratti di Napoleon Lleras e di Ospina in alta uniforme dai volti grottescamente ringiovaniti per il ritocco; luci rosse e verdi da postribolo a buon mercato che svanivano nell'angolo in cui Vallejo s'era installato avvolto nella cappa rossa e con il bastone d'oro in mano; e nell'altro angolo, in cui Builes, già ridotto a uno spettro, naufragava in preghiere recitate a voce bassa come in delirio. Sullo sfondo, bare nere, rosari pesanti e grandi come catene, vecchi giornali, bambolotti e giocattoli squinternati di ogni tipo. L'euforia, se mai c'era stata, era svanita, come la curiosità. Ma Cien Puertas sembrava non accorgersene e, trionfante, salì sul palco con i due detenuti che gli avevano dato in tutto il paese una fama quale nessun altro direttore di penitenziario aveva mai raggiunto. Li fece mettere ritti, nel centro, e si esibì in un applauso compiaciuto di sé cui gli altri si accodarono senza motivo.
A un segnale convenuto, da una porticina laterale uscì una fila di bambini dalle guance rosate: vestiti di panno, in cravattino, portavano tra le mani scatole di cartone coperte da una salvietta azzurra. «E' la vendita dei miracoli e delle indulgenze», annunciò Cien Puertas mentre Builes, raccogliendo le sue polverose forze, si chinava su ciascun bambino e con espressione feroce, spregiativa e stanca gli gettava sulla testa l'acqua benedetta. Poi fu la volta di un gruppo di donne, anch'esse in fila come militari: camminavano ritte, quasi in punta di piedi, gli occhi rossi e accesi fissi sulle borsette che tenevano tra le mani. «Dame di carità e misericordia verso i poveri e i carcerati», annunciò ancora Cien Puertas come un imbonitore. Ma il livello del palco, alto rispetto al salone, vanificava la lunghezza delle gonne e le file dei condannati si scomposero pericolosamente nell'ansia di scorgere qualcosa di più delle caviglie e del profilo dei seni; e le donne, mentre vuotavano le borsette ai piedi di Builes e baciavano l'anello di Vallejo avvertivano quelle ondate di desiderio come un nero vento di terrore che faceva sobbalzare loro il cuore in petto; una esitò, annaspò, poi cadde svenuta ai bordi del palco così che, quando Elisandro uscì dalla sua rigidità militare per soccorrerla, sentì una mano insinuarsi tra le sue gambe per scivolare verso il corpo della donna: la respinse con violenza, come un rettile, e le altre che videro quella e altre mani lanciarono grida di orrore profondo, e scoppiarono a piangere e cominciarono a fuggire in corsa disordinata verso la porta; e come loro, già presentendo quanto stava per accadere, fuggirono i due porporati e Cien Puertas e Elisandro; anche Josefo e Sietevidas corsero via, come fratelli siamesi, ma non riuscirono a varcare la porticina e vennero presi a pugni a catenate e a colpi di calcio di fucile da una nuvola di guardiani che si gettarono loro addosso come avvoltoi lasciando che nel salone gli animali si scatenassero in un'orgia in cui gli unici a sfuggire allo stupro furono i paralitici e i pazzi che avevano le gambe strette in catene. Tutto fu così fulmineo e feroce che quando a spari e a colpi si ristabilì l'ordine, il pavimento era ricoperto di brandelli di pantaloni e camicie e tutti quelli che non erano riusciti a fuggire erano ricoperti di sperma, del vomito di molti violati, di sputi di tabacco.
«Ne volete ancora, figli di puttana?» gridò furioso Elisandro con la pistola puntata sulla gente.
«Adesso comincia l'inaugurazione del mondo», gridò Cien Puertas cercando di riprendere in mano la situazione senza perdere la faccia davanti ai due religiosi che, dalla porta, lo sogguardavano protetti da una barriera di uomini armati.
«A sua eccellenza monsignor Builes manca uno scarpino» comunicò un secondino dagli occhi gialli. Ma ogni ricerca fu vana e per sottrarsi a un improvviso frustrante sentimento di ridicolo Cien Puertas ordinò di cominciare.
Da dietro il telone rosso che faceva da sfondo al palco vennero le note di una marcetta e poi, tirato da mani di fanciulli, il drappo si aprì mostrando una serie di gabbie che, coperte da un panno scuro e portate a spalla da un gruppo di militari in uniforme, vennero deposte in mezzo al palco, ai piedi di Cien Puertas.
«Questa è l'inaugurazione del vostro mondo», sentenziò Cien Puertas. «Perché dal penitenziario si esce soltanto per andare al cimitero o, quando va bene, al manicomio. Guardate tutti», incitò, come per ridestare un'attenzione che sentiva lontana.
«Guardate tutti» ripetè, e saltando da una gabbia all'altra ne tolse i panni con gesti da prestigiatore. Così tutti videro: gli ingabbiati erano incatenati piedi e mani alle sbarre, costretti dalle dimensioni della gabbia stavano acquattati come quadrumani e sembravano assorti nell'impegno di custodire, con una concentrazione quasi viscerale, i pezzi di pane muffiti e verminosi messi a portata delle loro labbra e le ossa che avevano roso come cani. Ma negli occhi cisposi correvano lampi d'odio incontenibile per quelli che ritti sulle gambe si pavoneggiavano pronti, al più piccolo segno di ribellione, a far loro mordere la polvere. Ce n'era uno tuttavia, diverso: giocava con un pezzo di pane passandolo da una mano all'altra finché gli sfuggiva: e allora rigirandosi sul corpo si lanciava a raccoglierlo con i denti per ricominciare subito lo stesso gioco. Era una donna dai capelli neri come la selva sparsi sulle spalle. D'improvviso cominciò a tremare, il volto scontroso scomposto, poi cercò di mettersi seduta senza riuscirci, quasi in preda alle convulsioni; afferrò un osso con le due mani e se lo ficcò in bocca, fino alla gola, lasciando che il sangue le colasse con tutta la sua lenta disperazione fino a bagnarle i piedi nudi; sempre tremando raccolse di nuovo il pane e lo tenne tra le mani come prima teneva l'osso, se lo avvicinò alla bocca concentrandosi su quel misero cibo, cominciò a leccarlo insieme al sudiciume di cui era imbrattato soffermandosi solo a tratti per ripulirlo, come una scimmia, dalle pietruzze incrostate, per ricominciare a leccarlo sbattendo le palpebre e mugolando finché riprese a tremare e lo lasciò cadere come scottasse. Josefo la guardò e lei gli rispose con una specie di sordo brontolio, sogguardandolo in tralice e coprendo il suo tesoro con le mani.
«E' un animale», commentò Elisandro.
1 detenuti ricchi, protetti dalle guardie, si erano avvicinati alle gabbie con curiosità da turisti, ma il loro interesse non era tanto per gli ingabbiati che sopravvivevano alle rovine del loro stesso corpo e alle ceneri d'ogni illusione, quanto per Josefo, il peggior nemico della patria e della loro tranquillità. Gli si posero di fronte, di spalle, di lato, a contemplarlo con spudorata aggressività, e uno di loro, che una notte aveva dovuto correre per dieci ore portandosi dietro il denaro e l'oro di suo padre per evitare cadesse nelle mani dei seguaci di Josefo, gli allungò una palmata cui fece seguire un calcio negli stinchi di Sietevidas: «Ringraziate il cielo che siamo in questo luogo sacro altrimenti vi ammazzerei», disse torcendosi le mani.
«Basta, andiamo», ordinò Elisandro: 1 condannati si mossero docilmente sulla strada indicata loro dai fucili delle guardie pelate.
«Voi due dormirete qui, con questi pazzi» sentenziò Cien Puertas e, rivolgendosi direttamente a Josefo aggiunse che, se avessero tentato di fuggire sarebbero stati ingabbiati, come gli altri. «Non avete scampo» concluse.
Josefo e Sietevidas non si erano mai sentiti tanto soli e perduti, senza prospettive, senza riuscire neppure a immaginare come sarebbe finita quella loro detenzione né quale futuro li aspettasse. Strascicando i piedi e sorreggendosi l'un l'altro, come due siamesi con un unico busto, riuscirono ad avvicinarsi alla gabbia della donna. Il giorno si stava spegnendo e nel cielo era apparsa, lontana, una piccola bianca falce di luna; nella luce moribonda i pazzi si guardavano facendosi l'un l'altro piccole smorfie e cenni quasi d'intesa, mentre l'aria - fino ad allora tranquilla - s'apriva a un vento salnitroso che penetrava come una specie di benefica tempesta nel salone abbassandone d'improvviso la temperatura e portandosi via, come una mareggiata, l'odore di merda e di canfora incrostato nelle mura.
Josefo parve svegliarsi da una specie di incantesimo: «Cerchiamo un pazzo forte, che ci aiuti a rompere le catene».
«Il matto sei tu. Ci hanno lasciati qui apposta. Sono sicuro che qualcuno ci sorveglia».
Josefo si guardò intorno.
«Impossibile, non ci sono porte segrete». A cenni, tentò di richiamare l'attenzione della donna: ma quella continuava a leccare il suo pezzo di pane e non li degnava d'uno sguardo. Trascinandosi sulle natiche, i due si avvicinarono a un'altra gabbia: il pazzo, piccolo e quasi schiacciato contro il pavimento, li guardò con occhi vuoti. Poi, come in soffio, mormorò: «Andate più avanti. I ferri sono troppo bassi, non posso muovere le mani».
Finalmente il sesto, che sembrava aspettarli e a cui non fu necessario chiedere né spiegare, fece loro cenno di girarsi di spalle: poi cominciò a lavorare intorno alle catene con le dita e con i denti. Inutilmente. «Ci vorrebbe una lima o un martello» disse esausto. «Cercate voi di aprire la mia gabbia, scrollandola». Ma era un'impresa destinata al fallimento e i tre ne erano consapevoli, tanto che l'ingabbiato ebbe subito un gesto di rassegnazione e cominciò a parlare in fretta, a raccontare la propria storia come mille volte l'aveva raccontata e quotidianamente la riviveva nella memoria, nei particolari, nei dettagli: era la storia di una donna che aveva amato alla follia e che, infine, aveva ucciso, innocente, terrorizzato all'idea che un giorno potesse tradirlo. «E' stata davvero una pazzia», ripeteva con voce dura, «perché se non fossi stato pazzo non l'avrei mai fatto».
Ma Josefo non l'ascoltava; pensava soltanto che doveva pur trovare un modo per liberarsi dalle catene che ora lo stringevano ancor più e cominciavano a penetrargli lentamente ma inesorabilmente nelle carni.
«Dai» disse improvvisamente, come folgorato, all'esausto Sietevidas che gli si era abbandonato contro perduto in una sua assonnata autocommiserazione e, come quello non gli rispondeva, cominciò a scuoterlo a spallate e, insieme, a mormorargli furiosamente all'orecchio che bisognava tentare, che forse aveva trovato. Infine lo persuase pur senza convinzione a seguirlo e i due cominciarono a trascinarsi verso la porticina per la quale erano entrati e fuggiti gli invitati all'inaugurazione del mondo, mentre il pazzo ricominciava a descrivere monotonamente la bellezza della donna amata.
«Ci siamo», disse Josefo. «Guarda». Sietevidas alzò gli occhi che d'un tratto gli si accesero.
«Prima tu» disse. Con la lentezza cui erano costretti, si misero in una posizione dalla quale Josefo potesse attaccare la porta con la testa e con la pancia. E lo fece, con la cieca determinazione d'un maglio, finché essa non cominciò a scricchiolare con segni di cedimento.
«Aspetta», disse Josefo, «devo riprendere fiato». Rimasero per qualche minuto immobili, ansimando entrambi, poi - con un cenno d'intesa - si lasciarono cadere a corpo morto sulla porticina che cedette di colpo sotto il loro peso. Rotolarono a terra insieme alla porta, con fracasso, per ritrovarsi - intontiti - in una stanzetta che dava in un corridoio, una specie di budello dal cui fondo veniva un mormorio opaco. Quando giunsero alla fine, si parò loro dinnanzi una scala. Erano bagnati di sudore e Sietevidas cominciava a sentirsi addosso, insieme a una stanca esasperazione, il morso della paura.
«Dove andremo a finire».
Josefo rise: «Sempre in galera, senza dubbio». Salirono i gradini e si trovarono di colpo davanti alla pistola spianata di Elisandro.
«Sei incorreggibile, figlio di puttana», disse a Josefo. «E tu», aggiunse rivolgendosi a Sietevidas, «seguilo pure. La sua strada ti porterà dritto alla tomba».
«Con quale accusa» chiese Josefo. «Fuga».
«E chi è fuggito. Non volevo stare con i pazzi, e basta».
«Però sei scappato lo stesso», tagliò corto Elisandro e fece un cenno. Una guardia comparve dall'ombra: impugnava la carabina e indossava un'uniforme quasi indecente, tanto era stazzonata e sudicia. Era magrissimo, con un volto teso e butterato fino a essere ripugnante.
«Adesso cominciamo con la tortura», ordinò Elisandro. «Così gli mancheranno le forze per tentare di scappare di nuovo».
La guardia se li portò via. Passarono tra panche su . cui si pigiava una folla di detenuti che zittirono di colpo volgendosi curiosi a guardare, scesero scalette strettissime che portavano a un altro padiglione; attraversarono una porta che dava in uno stanzone in cui la luce dell'alba entrava da una finestrella aperta sotto il soffitto; entrarono infine in un cortile assolutamente silenzioso, coperto alla sommità da una fitta rete e sul cui pavimento s'aprivano una serie di fori rotondi, ad anello.
«Che meraviglia di penitenziario, vero?» disse la guardia. «Che meraviglia di labirinto! Non per nulla lo chiamano la prima meraviglia del mondo. E adesso cominciamo con i bagni. Sono di merda», spiegò ridendo con occhi inespressivi.
«Non abbiamo fatto niente per meritare questa tortura» disse Sietevidas. .
«Cerchi di risvegliare il mio senso di pietà? Scordatelo, perché non ne ho».
«Dico solo che non meritiamo una simile tortura». «Avresti dovuto pensarci in tempo, prima di metterti a fomentare disordini».
Sietevidas tacque sospirando come gli stessero svuotando i polmoni a mazzate. E la guardia cominciò a ruggire e a correre intorno ai buchi aperti nel pavimento del cortile come travolto all'improvviso da una marea di pazzia; poi si fermò di colpo, allargando soddisfatto le braccia: «E' il mio aperitivo, prima della tortura», spiegò contegnoso. Controllò che le catene fossero ben strette, che i lucchetti fossero ben chiusi, e trascinò i due verso il buco centrale, più largo, costringendoli a guardare nel fondo. Sietevidas, il volto scomposto, singhiozzava disperatamente; mentre Josefo, che sembrava aver trovato una tranquillità innaturale, si chinava a guardare. Era merda pura, pesante come il fango e gorgogliante.
«Me la pagherai», disse al guardiano. «E tu», aggiunse rivolto a Sietevidas, «comincia a chiudere la bocca se non vuoi morire soffocato».
La guardia protese le mani, li afferrò, li sollevò senza sforzo apparente e li scaraventò in piedi, nel buco; poi, ansando comunicò che non li torturava per estorcere loro una qualche confessione ma solo perché potessero raccontare agli altri detenuti e agli eventuali amici che avessero osato far loro visita, come venivano trattati i ribelli.
Il tonfo fu sordo. I due non poterono gridare perché la merda giungeva loro fino al collo. Sbattevano gli occhi come a chiedere aria e scuotevano disperatamente la testa cercando di liberarsi dalla massa che già ricopriva loro il mento. Fino ad allora erano riusciti a coordinare i movimenti, ma in quel momento, Josefo che era il più alto si dibatteva per non venir trascinato giù da Sietevidas. Inginocchiata sul muretto di cinta, la guardia mugolava di piacere guardando le spesse e impenetrabili ondate che salivano tumultuosamente alla bocca di Sietevidas.
«Ammazzami» riuscì a gridare mentre la merda gli colava tra le labbra mescolandosi a fiotti di vomito. Stava affogando. La guardia allora gettò una fune a Josefo, che riuscì ad afferrarvisi, e li tirò fuori. Sietevidas vomitava, scalciava, gemeva con una disperazione angosciosa, tremando con violenza. Avrebbe voluto piangere come un bambino, ammazzare la guardia con freddezza criminale, gridare a Josefo che era stato pazzo a voler, tentare quella ridicola fuga, ma non riusciva a spiaccicare parola, strozzato dal vomito.
«Se avessi un amico come il tuo, lo avrei ammazzato o mi sarei sparato un colpo», disse la guardia.
«Sei tu che ammazzeremo come un cane» rispose Josefo.
«Ne saresti capace, ma di qui non uscirai vivo, e non potrai scappare come altre volte, quando io non c'ero». Li ripulì un vecchio con pazienza infinita, con l'attenzione con cui sempre, quando poteva, aiutava gli altri prigionieri. Per togliere loro di dosso il nauseabondo odore, li passò con tre mani di sapone profumato e due di canfora e poi, nudi, li avvolse in un lenzuolo ingiallito che cuci di lato trasformandoli, ora davvero, in un unico corpo con due teste e quattro piedi.
Sietevidas che prima della tortura aveva guardato alla prigione con distacco pensando che la sua permanenza tra quelle mura sarebbe stata passeggera, ricacciò nel fondo della memoria ogni ricordo della vita libera attraverso la quale era passato con incurabili ottimismo e ingenuità, e cominciò - dalla sedia sulla quale il vecchio li aveva fatti sedere - ad ascoltare ogni rumore, ogni grido, ogni gemito.
Josefo se ne accorse: «Sei pentito di quello che hai fatto», chiese sottovoce.
Sietevidas rimase per un attimo in silenzio, con gli occhi fissi nel vuoto. E d'un tratto rispose, sereno e feroce, senza neppure guardare Josefo: «No, mai. Non posso». Si sentirono carichi di una forza e di un furore nuovi.
«Secondo me», disse Josefo, «fuori sta succedendo qualcosa di grave. Quando ai detenuti è proibito ricevere visite, significa che si mette male per il governo. Sono sicuro che Matusa sta mettendo a fuoco il paese e sta pensando a come tirarci fuori».
Queste parole furono un'ancora di salvezza per Sietevidas che cominciava a pensare alla morte per tortura, a considerare la solitudine e l'angoscia come una realtà di pietra, in cui non vi era posto per le illusioni.
Li interruppe la comparsa di Cien Puertas che, pistola in pugno, avanzava eretto, con la testa gettata lievemente indietro in segno di autorità. «Vi vedo in buona salute» commentò; poi, rivolgendosi a Elisandro che lo seguiva gli ordinò: «Portali nel mio ufficio e falli aspettare fino all'arrivo del nostro amico».
Nell'ufficio, le immagini di San Pedro Claver erano state sostituite da altre, dello stesso santo ma in atteggiamento marziale; le vecchie sedie con sedie nuove, di cedro, e il tavolo di un tempo con una scrivania da dirigente d'industria, ricoperta da una lastra di vetro. I due vennero fatti sedere su una panca, portata per l'occasione, che contrastava con la nuova eleganza dell'arredamento. Per la prima volta dalla cattura, Sietevidas si. sentiva allegro; dal fondo della memoria riaffioravano i piccoli e grandi ricordi dei giorni della libertà, come risvegliati dalla luce e dalla visione del paesaggio che si profilava dietro la finestra, sbarrata anch'essa, sì, ma con i vetri tersi, liberi dalla coltre di polvere e di sputi che ricopriva quelli delle altre finestre del penitenziario. Fuori piovigginava e brillava il sole, tutto insieme. Era come un velo d'argento attraversato dall'arcobaleno curvo sulle cime delle palme che circondavano la spiaggia, li, dietro i tetti rossi che nascondevano la vista del mare: e dalla finestra dischiusa entrava un venticello carico di salnitro che portava un odore di terra umida e di mare. Bastava perché tutte le torture del mondo, tutte le catene del mondo sembrassero un gioco, davanti alla tortura più terribile della perdita della libertà.
Cien Puertas entrò con fracasso sbattendosi l'uscio alle spalle, si sedette alla scrivania, spiegò con cura l'ultimo numero del giornale - «I desideri della Vergine» - e si soffermò sulla pagina centrale leggendo ad alta voce, rivolto a Josefo, un articolo su cinque colonne in cui si raccontava come i ribelli fossero cannibali che divoravano i bambini delle Ande e si preconizzava con toni apocalittici che, se non si fossero decuplicate le condanne a morte, quella banda di dannati sarebbe proliferata e avrebbe conquistato palmo a palmo terreno, avanzando fino a serrare la pacifica costa in un abbraccio orribile e mortale.
Il personaggio tanto atteso giunse alle tre del pomeriggio. Entrò salutando Cien Puertas a grida, dandogli grandi manate sulla schiena. Aveva un paio di occhiali scuri con la montatura dorata e, sulla punta del naso, un'enorme ruga color cioccolato. Mise sullo scrittoio la sua valigetta, sedette sulla poltrona davanti ai due prigionieri e rimase per un attimo a fissarli, con il largo volto forense immobile, gli occhi segnati da occhiaie__ profonde. Era il giudice incaricato dei processi politici.
«Vedo», disse compiaciuto, «vedo che siete legati l'uno all'altro come fratellini: utile misura di sicurezza» Da vent'anni, era la prima volta che un giudice metteva piede nel penitenziario: e i condannati accolsero l'avvenimento come un fatto straordinario, più importante della nascita di un figlio in famiglia o della morte di un parente: e non solo perché un giudice era finalmente giunto fino a loro, ma anche e soprattutto perché mai ne avevano visto uno, né avevano calpestato l'aula di un tribunale, né avevano avuto l'onore di sentirsi leggere, da una voce di tanta autorità, una qualche condanna.
«Voi» disse puntando un dito aguzzo, «voi avete fatto dell'autorità di Napoleon Lleras quello che avete voluto. Vi siete presi gioco della costituzione e siete ancora vivi. E' già una grande cosa, tanto per voi quanto per me che devo condannarvi». Trangugiò un sorso del caffè che Cien Puertas gli aveva riguardosamente offerto e li guardò torvo. «Comunque, non sono venuto per giudicarvi, ma soltanto per notificarvi legalmente la condanna a vita. Viene comminata a josefo per tutto quello che hanno fatto i suoi antenati, per i suoi propri crimini e le varie fughe dal carcere; a Sietevidas per l'uccisione di duecento parlamentari». Josefo scoppiò a ridere:
«Mi duole che questa condanna esemplare non possa essere applicata in tutto il suo rigore. C'è un piccolo inconveniente... »
«Quale? »
«Che la sconterà la puttana di sua madre, perché noi tra poco ce ne andremo da qui».
Cien Puertas guardò il giudice che si gonfiava di bile come un ranocchio verde.
«Zitto, rispetta l'autorità» intimò, ma incerto delle sue stesse parole. Poi, volgendosi al giudice che aveva deposto la tazza del caffè sulla scrivania con una lentezza da cui trasparivano rabbia e timore:
«Non si preoccupi, Eccellenza. Di qui non riusciranno a fuggire. Ci gioco il posto. E, del resto, quando qualcuno di loro riesce a scappare non è certo per intelligenza o audacia: è solo perché hanno fortuna e gli altri, quelli che li custodiscono, sfortuna: ma, in questo momento, la sorte mi favorisce».
Il Giudice non rispose. Apri la valigetta, ne tolse alcuni incartamenti, comprovò il buon funzionamento della stilografica poi scrisse a lettere nitide: «Condanniamo Josefo e Sietevidas alla prigione perpetua da scontarsi nel primo penitenziario del paese; dopo di che dovranno trascorrere altri quarant'anni in una colonia penale nel cuore dell'Amazzonia».
«Così, lei un tempo non ha avuto fortuna, signor direttore», disse.
«Ho cercato in tutti i modi di guadagnarmi un posto di governatore e non ci sono riuscito. Ora sto invecchiando, e non so aficora se potrò uscire da questa galera».
Il Giudice lo fissò sopra gli occhiali.
«Sa quanti direttori di carcere, come lei, sono stati assassinati dai detenuti? Centinaia. Ma lei è vivo: questa è fortuna».
«E sa, sua Eccellenza, che sono stati assassinati molto più giudici che direttori di carceri?»
L'iniziale euforia era scomparsa. Si respirava un'aria di tensione.
Il Giudice raccolse le sue carte, le ficcò nella valiget
ta:
«Bene, ho finito». Si alzò, volse intorno la sua faccia forense scomposta - non era chiaro se per quanto aveva detto Josefo o per le parole di Cien Puertas - e se ne andò rapido come era giunto.
Cien Puertas sorseggiò lentamente un altro caffè poi, di colpo, cominciò a ridere forte e a picchiare sul tavolo con il pugno chiuso: «Sono eterno», diceva smozzicando le parole, «sono il miglior direttore di penitenziario che- esista nel paese. Napoleon Lleras mi ha anche mandato la decorazione dell'affermazione democratica e le medaglie avvolte nel tricolore: riconoscimenti altissimi, che concede soltanto a chi considera un eroe». Si calmò, ridacchiò di nuovo brevemente: «Quando mai il direttore di un carcere ha avuto un detenuto che è riuscito a scappare cento volte e lo ha per cento volte riacchiappato? Mai. Sarebbe stato destituito, trasferito, fucilato per ordine di Napoleon o assassinato dal condannato. Vero?». Tacque, eludendo lo sguardo di Josefo. Stava calando la sera. Il cielo era d'una purezza straordinaria; spuntava, lontano, un arco di stelle; il vento fresco del mare entrava allegro dalla finestra. Josefo e Sietevidas, incantati, sentivano quasi sulla pelle quel cielo, quel mare, quel vento, voci lontane e calde; e sentivano, quasi vinti, di non avere il tempo di prepararsi, ora, la strada verso la libertà, né il tempo perché i pori della loro pelle si imbevessero di quella atmosfera che portava da fuori il senso della vita.
«Ascolta», disse Josefo a Cien Puertas e la sua voce risuonò serena e fredda. «Ti credi un eroe, ne sei perfino ridicolmente convinto. Ma, te lo giuro, il giorno in cui meno te l'aspetti t'ammazzerò o ti farò ammazzare. Non morirai sul tuo letto». Il colore giallastro della pelle di Cien Puertas, i suoi lineamenti flaccidi di vecchio, si trasformarono percorsi da un brivido di timore isterico. Sembrava gli mancasse la terra sotto i piedi. Gridò forte, a chiamare i carcerieri: «Perquisiteli e portateli via», ordinò.
«Si ricordi di farci togliere queste catene».
Le guardie li condussero in una celletta aperta sul fondo del cortile, in cui si sentivano le grida dei pazzi che sembravano venire, disperate e disperanti, dalle viscere della terra; in alto, sul soffitto, s'apriva una finestrella con tre file di sbarre grosse come bastoni che rompevano la luce in mille canali. Qualche minuto dopo apparve sulla soglia un carceriere sconosciuto. Serio, alto quasi due metri, con una uniforme scura e i capelli lucidi di brillantina:
«Adesso vi slego, ma sappiate che se appena vi vedo toccare i muri, o il pavimento, o la porta, vi sparo. Questo è il mio compito qui dentro: sparare e uccidere. Mi chiamano "el matarife"».
A entrambi le catene s'erano incrostate nella carne; via via che il carceriere le scioglieva si distaccavano con loro centimetri di pelle, secca. Liberi, s'accorsero d'essere impacciati nei movimenti, che mani e gambe non rispondevano spontaneamente, ma a fatica, con riluttanza.
«Mi pare d'essere paralizzato», disse Josefo. «No, sei soltanto troppo magro, come me».

I rosati e deboli raggi che entravano dalla finestrella si trasformavano in una notte tanto spessa che le ombre dei muri sembravano prender forma e ballare. I due stavano cercando di organizzare in qualche modo un giaciglio quando, dall'alto della finestra, una voce disse: «prendete», e cominciò loro a dondolare sul capo, appesa a una fune, una pentolina che conteneva qualcosa di liquido. Per un momento rabbia e frustrazione cedettero il posto all'allegria e Josefo si sentì forte, quasi ancora capace di illuminare la notte con gli occhi, come quando era alla testa dei suoi uomini nel Magdalena medio. Ma appena si resero conto, toccando con la punta delle dita, che la pentola conteneva un liquido tiepido con un vago odore di fagioli, si allarmarono.
«Io non mangio», disse Josefo. «Può essere veleno». Ma Sietevidas, in cui l'odore del cibo aveva ridestato gli stimoli d'una fame troppo a lungo contenuta, protestò: perché - disse - non avrebbero certo avuto bisogno di ricorrere al veleno per eliminarli: «se vogliono, ti sparano e basta». Discussero a lungo, ostinatamente nell'oscurità, davanti alla pentolina che sembrava dilatarsi fino a riempire la cella della sua invisibile presenza. Alla fine la spuntò Josefo: «Adesso dormiamo, parleremo domani».
Si stesero alla meglio nei tre metri di spazio di cui disponevano, sul pavimento rugoso che con le sue asperità sembrava spezzare le,ossa e inasprire le ferite lasciate dalle catene, e il sonno fu un tormentato dormiveglia che faceva la notte lunghissima. In piedi alle prime luci dell'alba, si precipitarono insieme - come per una decisione concertata - verso la pentola che poche ore prima avevano disdegnato. Ma, all'ultimo momento, Josefo ancora si trattenne: volle esaminarne il contenuto, denso, scuro, coperto da uno strato di grasso. Vi immerse leggermente le dita e sfiorò un grosso topo bollito. Si guardarono con un brivido di disgusto: «Morire di fame, piuttosto», disse Sietevidas.
Josefo già pensava ad altro. Con destrezza passava le palme delle mani sul pavimento e sui muri per calcolarne -lo spessore; e vi accostava l'orecchio in attesa che qualche suono, una qualche voce gli desse modo d'orientarsi e scoprire in quale zona del penitenziario si trovassero; perché ceno la loro era una cella tra le più segrete, né mai - prima e nonostante la lunga esperienza - Josefo ne aveva sentito parlare. Juan Sietevidas che, nonostante la giovane età, sembrava largamente incline alla malinconia, s'era invece seduto con la schiena contro il muro e rimuginava tra sé sulle esperienze accumulate, rifugiandosi nei ricordi con un sentimento di disfatta. Così, quando a mezzogiorno i raggi del sole picchiarono malaticci sul pavimento, allungò la mano verso la pentolina in un gesto di rassegnazione: «Oggi non si mangia», disse con voce opaca.
Quella sera venne preso dalla febbre. Bocconi, cominciò a mormorare frasi incomprensibili mentre un tremito lo scuoteva tutto e il sudore freddo gli correva a rivoli lungo il corpo scheletrito. Josefo sentì che il suo respiro era un sibilo, e lo sentì piangere con lamenti profondi e rotti, lo sentì ridere fino a soffocare e, quando la luce del giorno si stava del tutto spegnendo, lo intravide sbattere le palpebre più volte, sussultare dalla testa ai piedi e rimanere poi immobile, come morto, mentre dalla fessura sotto la porta filtrava una luce di candela, e giungeva il rumore di uno strascichio di passi e voci basse. Allora, con le mani sul petto del compagno cominciò a premere forte allentando poi la presa, e a premere ancora in una specie di massaggio, e ad auscultarne il cuore, i battiti precipitosi e profondi.
«Se mi senti, dimmi qualcosa».
«Sto per morire, Josefo. La febbre mi ammazzerà». «Non fare il coglione. Non si muore per questo». Era una voce serena e penetrante, pareva portare in sé un vigore sconosciuto che ingigantiva dentro come una forza di vita. Juan tentò di sollevarsi: «Se muoio», disse in un soffio rabbioso, «ammazza Cien Puertas, e Elisandro, e i carcerieri. Ammazzali tutti». Poi si lasciò ricadere e dalle labbra spaccate gli uscì un filo di sangue.
«E' inutile, muoio».
«Ti ho detto di no». E cominciò a massaggiargli le spalle, il petto, lo stomaco: perché, come gli avevano insegnato da piccolo, erano quelli i punti vitali, sensibili all'energia che le sue mani emanavano, se ancora l'emanavano. Con delicatezza, rigirò l'amico stendendolo bocconi e prese allora a massaggiargli le spalle mormorando con voce rassicurante parole d'incitamento. Aveva individuato la natura del male: una specie di febbre gialla mista a malaria da cui erano stati colpiti anche molti suoi uomini, un tempo, e che egli o qualcuno dei suoi aveva curato con tisane e impiastri con la stessa facilità con cui curava i morsi dei serpenti valendosi dei segreti tramandatigli dagli antenati. Ora, privo delle erbe e delle radici necessarie, continuò a lungo i massaggi delicati ma vigorosi e quel suo mormorare che infondeva sicurezza, certezza di vita. Finché esausto, con le labbra secche, avvertì che i battiti del cuore di Sietevidas cominciavano lentamente a placarsi, che il suo respiro si faceva meno affannoso: allora gli sollevò la testa e se l'appoggiò contro le ginocchia come contro un cuscino.
All'alba Juan aprì gli occhi ed ebbe un sorriso tirato: «Per questa volta ce l'ho fatta».
«Stai meglio», rispose tranquillo Josefo. «Ma bisogna uscire di qui, hai bisogno delle medicine adatte». Più tardi, dalla finestrella calò, come il giorno prima, una fune: vi era attaccato un fascio di giornali. «Vi servirà per i vostri bisogni», disse la voce di Elisandro e aggiunse che il cibo sarebbe stato dato loro, nello stesso modo, ogni due giorni. Nello stesso tempo, il carceriere aprì la porta: «Quando l'avrete fatta incartatela e chiamatemi».
In quei brevi attimi, occhi e orecchi all'erta, Josefo riuscì a vedere, fuori dalla cella, almeno un centinaio di carcerati che, con occhi gialli di terrore, s'erano raggruppati in un angolo come pecore: qualcuno aveva tra le dita un rosario; altri, inginocchiati con le mani in croce, pregavano con voce rotta di paura e di pianto. Aveva già visto scene come quella. Se ne ricordava e sapeva che in quel momento avveniva lo stesso in tutti i padiglioni del penitenziario, con la differenza che, in alcuni, troneggiava la presenza del prete Asuncio, con i suoi aspersori, gli incensi, l'acqua benedetta e il suo salmodiare rassicurante.
Era la notte del ritorno dei morti, che si ripeteva ogni trenta giorni, a fine mese, accendendo fantasie e ridestando timori oscuri. Dicevano che, in quella notte, facessero ritorno nel carcere gli spiriti di tutti i carcerieri e i condannati che vi erano morti; e che ciascuno vi lasciava qualcosa, un coltello, un qualche arnese; e che si facevano sentire prima di mezzanotte nella torre del generale Tozudo, e che dopo la mezzanotte da tutti gli angoli e le mura del penitenziario venivano rumori, stridori metallici, voci di uomini e di donne acute e basse fino a formare, a volte, una specie di coro disperato o a trasformarsi in un vento sotterraneo e profondo, o sottile, come un pianto, una specie di straziante melodia. I condannati temevano quei momenti. Si diceva che era l'ora dell'ammonizione affinché i vivi si confessassero e gli impenitenti si convertissero; ma era anche l'ora in cui guardiani e condannati temevano Josefo, figlio di stregoni, come il diavolo: e si allontanavano da lui, per non vederlo in faccia, per non vedere i suoi lineamenti trasformarsi in quelli di suo padre e suo nonno e per non farsi bruciare dalle fiamme dell'inferno che gli scaturivano dagli occhi.
Quel terrore lo aveva altre volte favorito, facilitandogli la fuga: perché il suo carceriere, paralizzato, non era neppure stato capace - oltre che d'inseguirlo - di togliere la sicura alla carabina.

Josefo bussò con tocco deciso alla porta della cella: «Lasciami guardare» chiese al carceriere. E dai suoi occhi inquieti, dal modo con cui acconsentì senza parole, capì che anche lui - «el matarife» - in quel momento aveva paura. Mise un piede fuori e, girandosi a mezzo, con la mano dietro la schiena cercò il chiavistello della porta per forzarlo. Fuori, i condannati piangevano disperatamente; si nascondevano il volto con le coperte per sottrarsi al suo sguardo, mentre i custodi - fingendo disinvoltura - si passavano, come per caso, la mano sugli occhi. Approfittando del momento Josefo trasse a sé con un piede la pentola piena di grasso ch'era rimasta accanto all'uscio e la rovesciò silenziosamente quasi sui piedi del carceriere. Poi si ritrasse. Quando sentì la chiave girare nel lucchetto, si chinò a controllare il catenaccio che, ora distorto, consentiva all'uscio un certo gioco, l'aprirsi di una fessura da cui osservare quanto avveniva nel padiglione. Allora si gettò su Sietevidas e l'abbracciò con violenza e luminosa allegria: .
«Ce ne andremo, ce ne andremo», gli diceva all'orecchio.
Sietevidas, assopito nell'estrema debolezza in cui l'aveva lasciato la febbre, non aveva visto né sentito: «Dici davvero?»
«Vedrai, fratello, vedrai».
Fuori s'era fatto silenzio, lamenti e gemiti sembravano essersi placati, interrotti da un'apparizione: la figura rotonda di prete Asuncio che chiamava alla confessione con un appello cui i carcerati risposero con clamore infernale, ciascuno esigendo la priorità, rivendicando un'intima urgenza. Ma Asuncio, rimandando tutti a un «dopo» imminente, s'era diretto alla porta della cella e, dall'esterno, chiedeva ora a Josefo se intendesse accostarsi al sacramento.
«Vattene, vecchio figlio di vecchia puttana», fu la risposta.
«L'ira divina ti punirà con i tormenti più atroci sulla terra e il fuoco più terribile dell'inferno».
«Zitto, frocio».
Asuncio s'allontanò inorridito: per la prima volta, in vent'anni, Josefo lo aggrediva brutalmente; nelle cento volte precedenti, o aveva finto di non sentire o gli aveva risposto soltanto con un sorriso privo d'interesse, privo di sarcasmo.
«Criminale, criminale, all'inferno» gridava Asuncio con voce disperata. Poi, nel silenzio sottolineato dai passi striscianti dei penitenti e dal mormorio delle preghiere scoppiò un grido spaventoso e angosciato che ruppe il grottesco raccoglimento scatenando un fuggi fuggi generale. Lo seguì il tonfo sordo d'un corpo. Josefo si mise a ridere piano.
Quel corpo, quel tonfo, quel grido. Era il loro carceriere, rimasto per oltre mezz'ora impalato e rigido come una statua mentre ai suoi piedi il grasso della zuppa e il corpo decomposto del topo richiamavano migliaia di moscerini che gli si attaccavano agli stivali e tra i piedi fino a formare una massa nera e informe: quando aveva guardato in basso e scoperto l'orribile globo ondeggiante, Josefo, che aveva tolto il manico della pentola e l'aveva passato tra la fessura della porta, glielo aveva conficcato e rapidamente ritratto all'altezza dei reni.
Ora, fuori, il terrore toccava la disperazione. I detenuti pregavano, si trascinavano ginocchioni e circondavano Asuncio come i pulcini la gallina.
Il prete prese in mano la situazione. Si alzò e, attraversato il padiglione con il passo marziale e sicuro dell'eroe nel momento decisivo, si chinò sul corpo del carceriere.
«E' morto», disse con vago stupore. Con l'aiuto di due carcerati, troppo impauriti per rifiutarsi, trascinò via il cadavere. Al ritorno annunciò a voce alta che s'era trattato di una morte misteriosa e che bisognava ora pregare per l'anima del trapassato: lo obbedirono tutti, carcerati e carcerieri affratellati in una comunanza aberrante.
Josefo sospirò. Era il maggior fallimento della sua vita di prigioniero. Avrebbe voluto piangere. Il suo piano era un altro, altre le sue speranze: che il guardiano, sì, gridasse e non si rendesse conto del manico affilato che gli penetrava nelle reni, ma anche che i prigionieri, scoprendolo morto, si impadronissero delle sue armi, tentassero una ribellione, dessero l'assalto alla direzione e, riconoscendogli il merito d'averla fatta finita con il più feroce dei carcerieri, abbattessero la porta della cella.
Ma le cose erano andate in modo diverso. Dal corpo del «matarife» non era uscita una goccia di sangue; e, del resto, nessuno s'era curato di cercarvi la traccia di una qualche ferita: Asuncio aveva dato per scontato l'intervento della mano divina: con tutto il rispetto per il morto e per la funzione da lui esercitata in vita, si doveva ammettere ch'era pur sempre stato un criminale e, per di più, un criminale incaricato di vigilare sui due unici atei che il padiglione avesse mai ospitato. Insomma, mano punitrice di Dio, o mano vendicatrice del diavolo: sempre di una forza occulta si trattava. Così che, ora, l'atmosfera e le menti erano impregnate di un profondo odio nei confronti di Josefo, e la morte - in quel luogo vicenda quotidiana - cominciava ad aprire solchi di paura e, insieme, a insinuare negli animi la solidarietà verso i carcerieri: tanto che carcerieri e carcerati parlottavano addirittura tra loro e c'era anche chi, tra i carcerati, indicava con gesti minacciosi la porta della cella di Josefo.
Con la stanchezza del vinto si chinò su Sietevidas, gli passò sul volto la palma della mano umida di saliva per nettarlo in qualche modo dalla crosta di sudore e di sangue:
«Ti è passata la febbre». «Sì, cos'è successo».
«II mio piano di fuga è fallito e d'ora in poi, oltre ai guardiani, abbiamo contro anche i carcerati. Qualcuno di loro ci ha perfino minacciato di morte».
Sietevidas riuscì a sollevarsi, ad appoggiare la schiena contro il muro. Aveva paura. Li aveva visti maneggiare il coltello con la destrezza di macellai, con ferocia e sadismo.
«Che cosa facciamo».
«Prima di tutto, evitare a tutti i costi che ci tirino fuori di qui e ci mettano nella cella collettiva; poi rischiare al momento buono».
Ci fu un momento di silenzio.
Sietevidas era confuso. Temeva la tortura. Non s'era mai sentito così insicuro. Aveva voglia. di spaccare il muro a morsi, un buco grande in cui nascondersi: si sentiva più miserabile delle cimici, degli scorpioni e di tutti gli altri insetti che gli passeggiavano intorno.
«Non aver paura» disse Josefo. «Pensa che l'invenzione più grande dei governi di questo paese è stato il moltiplicare per mille, per un milione i modi per assassinare i ribelli. Quando ci torturano non ci interrogano neppure; ci torturano per ammazzarci. E non possiamo farci nulla. L'errore è stato farsi prendere».
Sietevidas ebbe un debole sorriso: «Logico che uno si fa prendere per gli errori che commette». Poi tacque seguendo il filo dei ricordi: uno zio e tre fratelli gli erano morti su quella stessa strada della rivolta; e ripensando ai loro volti sottili, ai loro grandi occhi, alle loro mani quadrate di contadini si chiedeva che cosa dovevano aver provato e detto, e come s'erano comportati in quei momenti d'estrema solitudine, quando s'erano ritrovati inermi in un sotterraneo davanti ai loro torturatori e ai loro strumenti di ferocia. Poi nella luce malaticcia dell'alba guardò a lungo Josefo e senti crescergli dentro un rispetto infinito: perché era l'uomo che più era stato torturato in tutto il litorale, e lo sapeva bene, come lo sapevano gli altri, amici o nemici che fossero.
«Qual è la tortura peggiore», chiese quasi timidamente.
«Quella che ti fa sputare sangue e non t'ammazza. I topi nel culo e l'energia elettrica».
«Mi hanno detto», mormorò ancora Sietevidas, «che quella dei serpenti è terribile».
«Certo, ma non per tutti. A me, i serpenti non fanno niente. Li conosco bene».
Quella mattina mangiarono il pane vecchio e bevvero l'acqua calati con il solito sistema, e Josefo non si staccò un attimo dalla fessura della porta. Era tanto concentrato nell'osservare ciò che accadeva nel padiglione, che non si rese neppure conto dei tre attacchi di febbre che colsero Sietevidas e della disperazione con cui questi graffiava il muro. Quando, infine, si girò a mezzo per guardarlo, scoprì che la sua pelle era macerata dal sudore e dal calore, che il suo volto appariva sempre più smagrito e che i suoi occhi s'erano fatti ancora più gialli. Ma non ebbe tempo d'accostarglisi perché fuori risuonavano i passi marziali di uno squadrone di quindici carcerieri armati di mitra e di dieci carcerati aristocratici che, impomatati, incravattati, vestiti di lino e con ceri benedetti tra le mani, camminavano dietro a Asuncio rinserrato in una cappa nera.
«Vengono a pregare per il morto» disse Josefo trattenendo il respiro.
«Sei sicuro che non vengono per noi?» chiese Sietevidas con un filo di voce.
11 gruppo avanzava con la gravità di un plotone di esecuzione mentre i carcerati uscivano dalle loro celle e s'inginocchiavano, a testa china, l'uno accanto all'altro in due lunghe file parallele, intonando canti funebri. Sietevidas ricominciò a tremare e a sudare a fiotti e, quando il penetrante profumo dell'incenso giunse fino a lui sovrapponendosi a tutti gli odori disgustosi ma consueti, chiuse gli occhi tentando inutilmente di trattenere le lacrime. Quel profumo gli era familiare: piccolo e affamato s'era guadagnato spesso i soldi per una pagnotta caricando incensieri e accompagnando funerali; ma non vi si era mai abituato, lo sentiva come un richiamo di morte. E ora, dopo anni, lo presentiva come annuncio di quella morte per tortura che sempre aveva temuto, al punto da decidere che si sarebbe suicidato prima di cadere in mano ai torturatori. L'angoscia gli cresceva dentro a ondate gonfie e, insieme, l'urgenza di procurarsi un qualche strumento con il quale mettere in atto, se necessario, l'antico proposito. Allungò la mano a raccogliere la pentolina, ne scrutò il bordo sperando fosse abbastanza tagliente da recidere la gola, scosse il capo tristemente e poi cominciò a soffregare quel bordo contro il muro: con precisione, con lentezza. Josefo si girò di colpo e lo vide, gelato di terrore, strofinare la pentola avanti e indietro con gesto maniacale.
«Che cazzo stai facendo», gli disse a mezza voce, con durezza.
«Prima di cadere nelle loro mani, mi ammazzo» rispose Sietevidas piangendo.
Josefo si pose un dito sulle labbra per dirgli di tacere. Gli si avvicinò e gli mormorò all'orecchio: «Ti dico che non vengono ad ammazzarci. Stanno pregando per il morto». Lo prese per le ascelle e lo costrinse a distendersi: «Se non ti calmi ci fregano».