Biblioteca Multimediale Marxista


Capitolo quinto
All'assalto di Torino


La notizia mi giunge la sera del 31 marzo: nella mattinata tedeschi e fascisti hanno catturato al completo i componenti del comando regionale piemontese del Comando Volontari della Libertà: il generale Perotti e tutti gli altri, compreso Eusebio Giambone. La staffetta che mi ha portato la notizia ne ignora i particolari:
"Erano in piazza del Duomo di San Giovanni; non si sa altro tranne che la piazza era letteralmente bloccata da ogni parte. I fascisti sapevano ed avevano teso la rete. Il colpo è riuscito."
Le nostre azioni di gappisti hanno avuto il loro effetto sul morale della classe operaia e sulle forze partigiane operanti nei dintorni della città. Tutto il movimento clandestino è in rapida ripresa: speranze fino a ieri inimmaginabili possono essere nuovamente accarezzate, forse un nuovo sciopero, forse nuove manifestazioni di lotta. In ogni caso i sabotaggi nelle fabbriche e il reclutamento di operai nelle formazioni partigiane procedono con crescente intensità.
Il colpo ci sorprende in piena ascesa. Solo negli ultimi dieci giorni abbiamo fatto saltare un locomotore a Porta Susa, abbattuto a rivoltellate un alto ufficiale tedesco,12 giustiziato un sergente delle SS; e il mattino stesso, mentre il nostro comando viene catturato, io e Bravin abbiamo eliminato uno dei più ignobili figuri della propaganda fascista: Ather Cappelli, direttore della Gazzetta del Popolo, il sanguinario incitatore delle rappresaglie. L'azione è stata una delle più rischiose. Il traditore era ben "guardato"; quando usciva al mattino per recarsi al giornale o alla sede della federazione repubblichina o quando rientrava la sera, era circondato da una scorta di armati. Sembrava impossibile sorprenderlo. Ma controllando pazientemente le sue abitudini scopriamo la maglia sfilata nella rete delle sue precauzioni. Abitando nella centralissima via in Largo Migliara, continuamente percorsa da pattuglie nazifasciste, si fida a rientrare senza scorta per la colazione, alle tredici.
Probabilmente giudica impossibile un'azione in pieno giorno in una zona dove un uomo si può localizzare a distanza di trecento metri per la rigorosa geometria delle vie e l'assenza di portici. Cappelli rincasa in auto. A noi, l'uso della bicicletta è praticamente interdetto: richiamerebbe facilmente l'attenzione dei nazifascisti.
Con Bravin ci incontriamo all'alba, in piazzale Susa. "Sei pronto a una passeggiata?" gli chiedo. È un modo per nascondere la mia tensione. Anche lui deve trovarsi al limite della resistenza. Da tempo non ci concediamo un attimo di respiro. Non sa ancora per quale azione l'ho convocato. Quando gli comunico l'ordine del comando, si limita a chiedere se l'itinerario è stato studiato. Gli rispondo che mi sono preoccupato personalmente dei preparativi. Raggiungiamo la "base" con l'aiuto di Ines. Vicino all'abitazione di Cappelli c'è una casa dal portone sgangherato sempre aperto: la vecchia cancellata di ferro è scomparsa da tempo assieme all'altro ferro donato alla patria. Nascosti là dentro attendiamo l'una. Sembra che le ore non trascorrano mai. Fortunatamente il posto è poco frequentato. La maggior parte degli inquilini deve essere sfollata. Ma non riusciamo ugualmente a toglierci di dosso la tensione.
I giorni e le notti passano per noi in un continuo stato di allarme. Siamo costretti a controllare ogni gesto, a scivolare rasente ai muri all'alba, a restare chiusi in casa quando la gente è al lavoro per evitare di imbatterci in pattuglie che controllerebbero con pericolosa pignoleria i nostri documenti. Ora qui, all'angolo della casa di Cappelli, stiamo consumando un'altra delle tante sfibranti attese.
"Andiamo," dico a Bravin. Mancano pochi minuti alle tredici. Cappelli è d'una puntualità cronometrica. L'avevo controllato. Siamo cronometrici anche noi.
Ci dividiamo. Io mi reco ad appostarmi all'estremità di Largo Migliara, sul lato verso il corso.
All'estremità opposta si apposta Bravin. A circa cinquecento metri, sulla mia destra, vedo Ines. Anche lei è stata esattissima. Al battere delle tredici aveva preso il suo posto. Cerco di assumere l'atteggiamento piú naturale possibile. In quella strada un uomo che non indossa la divisa fascista o tedesca non può sostare più di un minuto senza suscitare allarme. La località è percorsa da automezzi militari e in molte abitazioni risiedono famiglie di gerarchi.
Ines, fingendo di leggere un manifesto, controlla il lato da cui dovrebbe sopraggiungere l'auto. La vedo muoversi ed attraversare la strada: è il segnale. Mi volto forse un po' precipitosamente, incamminandomi in direzione di Bravin. Secondo i miei calcoli, procedendo ad andatura normale, dovremmo incontrarci davanti all'abitazione del gerarca al momento giusto.
Anche Bravin, con aria disinvolta, viene verso di me. Distinguo ormai nitidamente il volto teso del gappista, uno dei migliori. Ha tra le labbra una sigaretta e tiene, come me, le mani affondate nelle tasche della giacca. Sento alle spalle il rumore dell'auto: è Cappelli. Avverto, istintiva, la tendenza ad affrettare il passo. Ma è solo per un attimo: correre significherebbe dare l'allarme. Anche Bravin continua a camminare con noncuranza. Possiamo fissarci negli occhi: siamo ad una cinquantina di metri l'uno dall'altro, a una trentina di passi dal portone dove si fermerà Cappelli. Bravin non mi guarda Il rombo del motore cala nella frenata. Bravin finge di guardare altrove. Ora ci saranno al più dieci metri fra me e Bravin: due persone che del tutto casualmente si incontrano lungo il marciapiede di un quartiere residenziale. In questo momento l'auto di Cappelli mi supera. Continuiamo entrambi con passo regolare. Il mio compagno muove leggermente le mani nelle tasche. Probabilmente nota a sua volta lo stesso movimento nelle mie. Quattro metri tra me e Bravin. Scorgo Cappelli raccogliere alcune carte, poi aprire la portiera della macchina e scendere. Bravin ed io facciamo fuoco contemporaneamente. Sette colpi l'abbattono. C'è l'autista. Il comando ci ha raccomandato di risparmiarlo ma l'uomo chiama aiuto. Gli intimo di tacere ma lui continua a urlare. Lo faccio tacere con un colpo ad una gamba. Si affloscia per terra. Ora dobbiamo fuggire. Ines è già al sicuro. Noi invece dobbiamo precipitarci fino ad una zona meno deserta, dove ci si possa mescolare alla folla. Correndo allo scoperto, col rischio che qualunque repubblichino o tedesco ci spari a vista, teniamo le armi spianate. All'improvviso all'angolo di una via appaiono un ufficiale e due militi fascisti. Ci scorgono: scambio un'occhiata con Bravin. Se sono soltanto tre quando saranno a portata delle nostre armi, forse potremo avere la meglio. Continuiamo la corsa coi cuore in gola. Se i tre si appostano all'angolo per noi è finita. Ma non possiamo tornare indietro: a quest'ora l'allarme è già stato dato e finiremmo certamente tra le braccia del nemico. Anche i portoni sono chiusi. È un quartiere all'antica con portoni robusti a prova di bomba. Siamo a poche decine di metri dai fascisti. Dico a Bravin: "appena mi getto a terra accanto al muro, fa' Io stesso. Ma distante, perché si possa sparare assieme." Bravin mi risponde con un cenno d'intesa. Ancora qual-che metro: ora il tiro delle nostre rivoltelle può risultare efficace. Sto per gettarmi a terra, quando accade l'imprevedibile. I tre repubblichini scappano. Scompaiono nella strada dalla quale erano giunti. La via è libera. Raggiungiamo finalmente una piazza affollata. Salgo sul primo tram di passaggio. Bravin si allontana per conto suo. Ci ritroveremo. Ormai siamo salvi. Quando giungo a casa, in piazza Campanella, crollo sul letto. Mai come questa volta ho visto la fine così vicina. Alle 19,30 mi portano un giornale del pomeriggio. Annuncia una "taglia sul capo degli autori dell'assassinio del valoroso camerata Cappelli." È l'ottava sul mio capo e su quello di Bravin. Più tardi ricevo la notizia della cattura del comando del C.V.L.

*

Le notizie giungono come da un mondo lontano. Stanno processando Perotti ed il comando militare piemontese. Nell'aula, in qualche modo, si può entrare. Ma quelli, tra i nostri, che hanno deciso di assistere a quella farsa di processo debbono dissimulare ogni sentimento, nascondere anche la minima reazione.
Ricevo informazioni provenienti da uno dei rappresentanti del C.L.N. che, in aula, è riuscito coraggiosamente a sostenere la difesa degli imputati. Per questa via ho cosí saputo come Perotti abbia assunto sulle sue spalle — o perlomeno abbia tentato di farlo — la totale responsabilità delle azioni e delle direttive emanate dal comando. So come un altro ufficiale, Geuna, abbia a sua volta cercato di salvare Perotti chiedendo la morte per sé, scapolo, e l'ergastolo per Perotti, sposato e padre di tre figli. I giudici fascisti hanno già la sentenza in tasca. La povera signora Perotti va ancora implorando notizie di suo marito quando egli è già stato fucilato. La riceve il prefetto Zerbino e le chiede "di non far scene" perché è in corso una festa in onore del ministro degli interni di Salò, Buffarini Guidi. Poi un graduato repubblichino le comunica che "il generale dei miei stivali" era stato condannato a morte assieme agli altri.
Sono caduti gridando "Viva l'Italia libera." Uno di loro, Paolo Braccini, intravista la moglie mentre lo traducono per l'ultima volta, le grida affettuosamente: "Ciao cocca." La moglie Marcella ha la forza di non piangere e di gridare: "Ciao, coraggio Paolo, alla bambina penso io."
Giambone, il vecchio e caro Eusebio che avevo conosciuto tanti anni addietro, rifiuta i sacramenti. Vuole però ringraziare il cappellano che aveva prestato ai suoi compagni ed a lui fraterna assistenza. A Padre Carlo Masera che gli dice: "si raccomandi al Signore, che le usi misericordia," risponde stringendogli la mano: "Non devo domandare perdono a nessuno perché nella mia vita ho sempre fatto il mio dovere."
È morto accanto a Perotti, l'operaio comunista accanto al generale che aveva voluto mantenere il suo giuramento al re.
In questo processo si manifesta qualcosa che è ormai impossibile ignorare. L'Italia torna unita. Ne rimangono fuori soltanto i traditori, e contro di loro e contro lo straniero si scaglia il nostro furore.
La costernazione, il dolore, la collera si trasformano in tutti noi in volontà rabbiosa di agire. Non vogliamo pensare al Risorgimento, non vogliamo cadere nella retorica. De Amicis aveva esaltato, a suo tempo, la bellezza della morte per la Patria, "una palla in fronte in un campo di grano contro il nemico." Noi siamo di parere contrario. Amiamo la vita e la morte la sopporteremmo con dignità e fierezza. Come Perotti e Giambone. Le direttive di azione non ci mancano. La nostra attività di gappisti diviene, da intensa quale era sempre stata, frenetica. Hanno ucciso gli uomini che a Torino erano il simbolo vivente dell'Italia che tornava ad essere una nazione. Il nemico si accorgerà subito del nostro furore.
Poco dopo la fucilazione di Perotti e degli altri, due gappisti abbattono in Via San Bernardino un maggiore fascista. Un'altra pattuglia di gappisti elimina due azzimati ufficiali delle SS che si concedono una passeggiata distensiva dopo aver inflitto torture inenarrabili ai prigionieri. Il 21 aprile, poco più di quindici giorni dopo la fucilazione dei membri del Comitato militare piemontese, due spie vengono giustiziate. Sono state condannate a morte dal Comitato di Liberazione. A noi il compito di eseguire la sentenza. Il 26 aprile 1944, in pieno giorno e nel centro di Torino, colpiamo gravemente un sergente fascista e un militare tedesco.
Siamo in quattro o cinque. Ma il nemico ritiene di avere di fronte un battaglione. Ogni comando viene circondato da cavalli di frisia, ogni distaccamento deve mobilitare molte sentinelle per vigilare contro gli attentati. Ci cercano dappertutto pensando a centinaia di persone da catturare, invece siamo così pochi. I loro provvedimenti sono indiscriminati e inefficaci. Proibiscono che si circoli in più di quattro persone contemporaneamente. Noi ci muoviamo quasi sempre in due. Vietano l'uso delle biciclette. Ma questo ci confonde con la folla che indistintamente è costretta a circolare a piedi.
Sono stranieri o servi, non possono capire che sta nascendo una Italia diversa, quale sembrava impossibile persino sognare.
La nostra è una vera e propria febbre di azione. Moltiplichiamo gli attentati, i sabotaggi di giorno e di notte, senza mai offrire al nemico un bersaglio fermo. Noi non stiamo mai fermi. Le nostre azioni ci impongono spostamenti continui. Cambiamo base anche due volte al giorno, rendendo difficile al nemico il compito di individuarci.

Ricevo notizie da una staffetta. Hanno ripreso le deportazioni allo stabilimento del Lingotto; i repubblichini hanno preso di mira questo stabilimento. I tedeschi invece hanno compiuto massicce rappresaglie in Val di Lanzo. La sera, da Torino, si distinguono le luci degli incendi sul fondo buio delle montagne. Non avendo potuto colpire a fondo i partigiani, i nazisti hanno bruciato diverse cascine e fucilato alcuni montanari.
Ritornano in città per riposare; ne approfittiamo per giustiziare in piena via un sottufficiale.
Ormai i colpi si susseguono ai colpi. Ad Alessandria, nel vecchio convento della Benedicta, tedeschi e fascisti hanno sorpreso un centinaio di giovani renitenti alla leva. Tra di loro vi erano cinque partigiani che hanno nascosto le armi sperando di salvarsi con gli altri. Li hanno fucilati tutti e cento — a cinque per volta. Gli ultimi a morire hanno assistito diciannove volte al macabro lavoro del plotone di esecuzione; hanno visto i compagni morire e cadere sui corpi di quelli ammazzati per primi. Le esecuzioni sono state compiute sull'orlo di una grande fossa che alla fine era colma di cadaveri.
Le notizie sono giunte al nostro comando a mezzo di una staffetta sfuggita per puro caso alla cattura. Pervengono poi altri particolari raccapriccianti. Fascisti e tedeschi hanno impedito ai parenti di vedere i loro morti.
"Non sono degni di sepoltura," ha dichiarato il prefetto di Alessandria ad un sacerdote.
Pratolongo mi racconta i fatti ma lascia a noi il compito di trovare, di scegliere gli obiettivi da colpire. Immediatamente facciamo esplodere alcune bombe all'esterno del comando militare repubblichino di Via Po e con una raffica di sten, abbattiamo la segretaria del fascio mentre passeggia con un delatore; anch'egli cade ferito. Poi, il 17 maggio tre potenti bombe scoppiano al Regio Parco. C'è il comando tedesco, ci sono gli uomini che hanno diretto le operazioni nell'Alessandrino e ordinato l'eccidio della Benedicta. Le bombe fanno strage. Numerosi soldati e ufficiali tedeschi rimangono uccisi o feriti. Non abbiamo ancora restituito tutti i colpi subiti, ma queste risposte contano. Il nemico sa che non ci pieghiamo.

*

Il traffico ferroviario si fa sempre più intenso. Tedeschi e fascisti spostano continuamente i loro reparti per impiegarli in rastrellamenti. Questi movimenti agevolano le loro posizioni rendendo più pesante il compito ai partigiani in montagna. Il comando ci ordina di concentrare i nostri sforzi nel sabotaggio al traffico ferroviario.

È ormai l'alba. Io e Bravin siamo indolenziti e infreddoliti. Abbiamo sonno: un sonno non più valutabile in ore. Un peso fisico di cui non riusciamo a liberarci. Abbiamo trascorso la notte dietro un muricciolo semiabbattuto. A una trentina di metri da noi sorge la cabina di scambio della stazione di Porta Susa. Da ieri sera studiamo i movimenti delle sentinelle. Due tedeschi vanno e vengono con passo regolare e cadenzato lungo il marciapiedi che circonda la cabina. Si incrociano e procedono in senso opposto per una quarantina di metri. Quando raggiungono una distanza massima di ottanta metri l'uno dall'altro, si voltano di scatto, come se facessero una esercitazione in caserma, ed invertono la marcia. Si avvicinano di nuovo, si incrociano sempre davanti alla cabina e quindi si allontanano ancora. Sembrano robot.
Mi sento un pò preoccupato: preferirei sentinelle un pò meno zelanti. "Sono un pò rigidi, però," osserva bisbigliando Bravin. L'osservazione è giusta: sembrano troppo preoccupati di camminare impeccabilmente. Ciò potrebbe facilitare il nostro avvicinamento, ma non è gran che. Più tardi vediamo però qualcosa di confortante. Le due sentinelle si allontanano e solo dopo alcuni minuti torniamo ad udire i passi di quelle nuove.
Vi è quindi una smagliatura nell'impeccabile meccanismo di vigilanza della Wehrmacht. Terminando il loro turno, le sentinelle tornano al corpo di guardia. Solo laggiù si scambiano le consegne. I loro passi sono cadenzati, pesanti e monotoni, ma soprattutto lenti. Ci lasciano una decina di minuti. Non molti, ma sufficienti. Ci allontaniamo, sfiniti.
"Adesso," dico, "andiamo a fare una buona dormita."
La sera dopo ci ritroviamo in quattro al medesimo posto. A Bravin ed a me si sono aggiunti Di Nanni e Valentino. Ines, puntuale e diligente, ha portato l'esplosivo necessario. Ora dobbiamo attendere. Alle ventitré do ordine di avanzare cautamente per trovarci così il più vicino possibile alla cabina quando sarebbe avvenuto il cambio. Camminiamo silenziosi.
Abbiamo escogitato una tecnica particolare per muoverci nel buio: non sollevare troppo il piede da terra, ma strisciare quasi con le suole in modo da ridurre al minimo il rumore in caso di urto in eventuali ostacoli.
Poi non è più possibile camminare. Oltrepassato il muretto, tutti strisciamo carponi sopportando le fitte dei sassi. A una quindicina di metri dai binari ci arrestiamo. I minuti passano interminabili. Poi, finalmente i due tedeschi si scambiano un paio di parole e, senza dare un'occhiata intorno, si allontanano. Li lasciamo percorrere una ventina di metri; Di Nanni si muove, raggiunge la cabina, entra: "Buona sera," dice ai cinque ferrovieri all'interno. Uno di questi ha a portata di mano i pulsanti; può essere il segnale d'allarme. Ma i ferrovieri rimangono sbigottiti. "Non mi riconosce?" continua Di Nanni, "sono Luigi. Abbiamo bevuto l'altra sera insieme all'osteria."
Il tentativo di avviare una conversazione trova i ferrovieri comprensibilmente spauriti. Noi avanziamo di corsa. Di Nanni estrae le armi. Anche se tra i cinque ci fosse un fascista, ogni probabilità di dare l'allarme è sfumata.
"Non fateci del male," chiedono gli operai. "Aiutateci," dice Di Nanni, "siamo patrioti. Dobbiamo danneggiare gli impianti." È trascorso un minuto e mezzo.
"Presto," incalza Di Nanni. I ferrovieri escono dalla cabina ed uno di essi, quello che è riuscito a togliersi di dosso lo sbigottimento per l'inaspettata irruzione, ci indica un punto a poca distanza. Allora anche un altro si fa avanti e fa un cenno con la mano. Ci vedono collocare le micce ed accenderle.
"Scappate, scappate," gridiamo, mentre ultimiamo il lavoro. Fuggono tutti nella stessa direzione. Pochi minuti dopo comincia la serie delle esplosioni. Un bagliore bianco e azzurrognolo si leva altissimo in cielo, illuminandoci tutti. Una cortina di fumo copre ogni cosa, mentre le esplosioni continuano. Le cariche esplodono tutte puntualmente; il nostro tecnico ha lavorato bene. Fuggiamo abbastanza agevolmente; colta di sorpresa la guarnigione che vigila sulla zona cade e si smarrisce nella confusione. Le sentinelle, lontane dal luogo dell'attentato, sparano alla cieca. Il comando del corpo di guardia a quella sparatoria crede in un attacco improvviso e risponde al fuoco. Ben presto noi siamo così lontani da non sentire più nemmeno l'eco degli spari.
Il colpo è riuscito. Pratolongo e Conti non ci viziano certo con gli elogi, ma la loro soddisfazione è evidente. Nella nostra guerra non esistono licenze premio. Ines mi porta un nuovo ordine destinato a contrastare il piano tedesco di trasferire intere fabbriche torinesi in Germania.
Ines sa bene che anche in questa azione avrà la sua parte di rischio, ma non si turba. È calma, è una paziente formica della lotta clandestina. Trasporta disinvolta il suo carico di esplosivo, la sua brava borsa colma di cilindri di ghisa riempiti di tritolo; percorre le vie di Torino in pieno giorno, attraverso i posti di blocco, puntuale ogni volta all'appuntamento. Attaccheremo la cabina di smistamento presso la stazione di Porta Nuova.
È una zona che è già stata efficacemente colpita, non molto addietro nel tempo. Ripeteremo l'impresa piena di incognite, rifaremo una accurata ricognizione dei luoghi questo pomeriggio stesso. Di Nanni, il più calmo e il più coraggioso di tutti, verrà con me. Come camuffamento avremo due berretti da ferroviere ricevuti in prestito dalla moglie di un compagno. Per via decido di completare la mascherata con un paio di distintivi del fascio repubblichino esposti nella vetrina di un negozio di uniformi militari. La commessa è un po' stupita. Non deve venderne molta di quella merce. Probabilmente mi crede un fascista zelantissimo. Assieme a Di Nanni ripariamo in un androne e ne usciamo trasformati in ferrovieri con tanto di distintivo repubblichino.
Il trucco funziona. I fascisti di guardia ci lasciano superare tranquillamente l'ingresso del parco smistamento alla stazione di Porta Nuova. Di Nanni ha sotto il braccio una provvidenziale borsa di ferri vecchi. Entriamo con l'aria di consumati professionisti della manutenzione ferroviaria. Guardiamo la cabina e ci accostiamo a uno scambio. È lucidissimo, come appena revisionato. Termina in una punta sottile ed è collocato su una specie di passaggio obbligato; bloccando questo si blocca tutto. Armeggiamo con due chiavi inglesi. Poi, soddisfatti del nostro lavoro, lasciamo la zona. Mentre usciamo i militi ci chiedono distrattamente: "Tutto bene, camerati?" "Tutto bene," rispondiamo noi. E Di Nanni come saluto, alza la borsa con i ferri, tenendo il pugno chiuso sull'impugnatura. È il saluto dell'Internazionale, un po' mimetizzato, ma Di Nanni trova lo scherzo divertente. Io pure.

La sera del giorno dopo Ines porta il carico in due valigie. Di Nanni ed io ne prendiamo una ciascuno. Pesano parecchio.
"Ines è una ragazza robusta," dico. "A guardarla non si direbbe," risponde Di Nanni, gravato anche lui dal peso delle bombe. Sembra così fragile. Se n'è andata. Aspetterà nei pressi di una cabina telefonica.
Ci dirigiamo verso la stazione. Se qualcuno ci vedesse, ma in cuor nostro speriamo che nessuno ci noti, ci crederebbe due viaggiatori in procinto di prendere il treno per un lungo viaggio. In realtà potrebbe esserlo davvero. Il carico è pesante e la prudenza consiglia di non far subire scossoni troppo violenti all'esplosivo. Nel corso della nostra ricognizione avevamo scoperto uno strappo nella rete tra le cancellate in cemento armato che cingono la zona della stazione e il fascio dei binari. Con un po' di calma riusciremo ad aprirla quanto basta per lasciar passare una persona. Tocca a Di Nanni, gli porgo l'esplosivo al di sopra della cancellata. "In bocca al lupo." "Allora telefonate alle 18 precise." "D'accordo." Sparisce.
Ritorno sui miei passi, raggiungo Ines, assieme ci rechiamo in un bar. Con l'occhio fisso sull'orologio guardiamo passare i minuti. Ieri abbiamo visto alcuni ferrovieri raggiungere la cabina, sostare all'interno e poi allontanarsene. Ora la cabina può anche essere vuota, dato il traffico ridotto della notte, ma è sempre possibile che nel momento in cui Di Nanni colloca le mine, qualcuno si trovi all'interno. Non vogliamo far pagare a un innocente il prezzo del sabotaggio. Perciò uno di noi due telefonerà alla stazione alle 18, cioè nel momento in cui, secondo il piano, Di Nanni accenderà la miccia. Restano otto minuti per avvertire i ferrovieri eventualmente presenti e salvarli dalla morte. Man mano che, con esasperante lentezza, le lancette dell'orologio si avvicinano alle 18, io e Ines ci sentiamo stretti nella morsa di una doppia angoscia. Dobbiamo salvare i ferrovieri, d'accordo, ma se Di Nanni per una ragione qualunque tardasse ad accendere la miccia? O se una sentinella si trovasse nella zona e lui non riuscisse a raggiungere in tempo l'obiettivo? La nostra telefonata al capostazione darà l'allarme. Se sarà prematuro, il nemico sventerà l'azione e catturerà Di Nanni. Bisogna deciderci. Mancano pochi secondi alle 18. Faccio un cenno ad Ines che ha notato i numeri telefonici della cabina e del capostazione. Di Nanni è il tipo da cavarsela in qualsiasi situazione. Se si fosse trovato in ritardo sulla tabella stabilita — penso — avrebbe abbandonato in qualche posto l'esplosivo e si sarebbe allontanato. Almeno così spero. D'altra parte nella cabina accanto alla quale Di Nanni, se tutto è filato liscio, deve avere ormai deposto le cariche con le micce accese, possono esserci tre o quattro ferrovieri ignari della morte che li sovrasta.
Ines comincia a formare il numero. E' attenta a non sbagliare: ogni secondo perduto in questo momento può costare la vita di più persone. "Occupato," dice. Dunque ci sono i ferrovieri. Ho la testa in fiamme. "Telefona al capostazione." Lei ha già cominciato a fare il numero. Adesso parla con qualcuno. Non può gridare, non può parlare distintamente perché c'è gente nel bar, alle nostre spalle. All'altro capo del filo non capiscono o non credono. Faccio cenno ad Ines di alzare la voce. Mi volto e impugno una delle rivoltelle tenendo la mano in tasca. Se qualcuno farà un movimento non ci coglierà alla sprovvista. Ora, Ines parla a piena voce. "Fate scappare gli uomini dalla cabina di Porta Susa. Fateli scappare subito perché fra pochi minuti tutto salterà in aria."
Ines ripete due o tre volte l'allarme. Qualcuno dietro di noi forse ha sentito. Ma ormai stiamo giocando tutto. Ines non aspetta la risposta. Dall'altra parte hanno interrotto la comunicazione bruscamente.
"Hanno capito?" "Credo di sì.," dice pallidissima. "C'era il capostazione. Non ci credeva, ma poi si è ,allarmato, ansimava..."
"Chiama la cabina di nuovo," dico. Ines forma il numero. Stavolta non è occupato ma nessuno risponde. Vedo il suo volto quasi stringersi e deformarsi, nell'angoscia dell'attesa. Le stringo una mano perché ho l'impressione che stia per svenire. "Non rispondono?" chiedo. "Non rispondono." Il suo volto comincia a distendersi. Quel trillo del telefono che nessuno ascolta laggiù nella cabina di Porta Susa è come una musica. È trascorso abbastanza tempo per ritenerci sicuri. I ferrovieri sono scappati. Adesso ce ne andiamo anche noi. Sto per uscire quando Ines mi dà un colpo col gomito: "Devi pagare." "Già." Sarebbe stato terribile scambiare per un fascista in borghese il cameriere che ci fosse corso dietro credendoci dei "portoghesi." Pago e usciamo.
Abbiamo fatto appena una ventina di passi, quando un rombo e un bagliore accecante ci sorprendono. L'esplosione è violentissima. Si levano bagliori azzurrognoli: bruciano cavi elettrici sicuramente. Un'altra esplosione segue dopo pochi istanti, assordandoci. Guardo l'orologio: Di Nanni deve aver aspettato prima di collocare le mine. Ha voluto dare ai ferrovieri un minuto pii del previsto. Adesso anche lui deve essere lontano. Cominciano a sparare. Raffiche di mitra e fucilate. Grida isteriche in tedesco: sparano tra loro. È il momento della confusione, quando le sentinelle impazziscono di paura tirano in tutte le direzioni, alla cieca e i comandanti sparano alle sentinelle pensando ad un nostro attacco in forze. È il momento buono per tornarcene a casa.

A casa? Un gappista non ci spera neanche: non ha più casa, solo dei recapiti. Era diverso in Spagna, là quando infuriava la battaglia e i cannoni, i mortai, le mitragliatrici ti sparavano addosso da tutti i punti dell'orizzonte seminando la morte all'intorno; quando gli spezzoni piovevano dal cielo e non sapevi più come rimpicciolirti, quando non trovavi più un pensiero in cui rifugiarti; quando il compagno con cui avevi appena parlato ti giaceva accanto morto e, un passo più in là, col terrore negli occhi smisuratamente sbarrati, un altro stava spirando; quando la fredda ala della morte ti sfiorava il volto e le resistenze morali si affievolivano, allora anche gli eroi inventavano speranze assurde di sopravvivenza per contenere la paura, per salvarsi dalla follia. I combattenti che hanno vissuto quelle ore di incredibile agonia, tutti hanno avuto un solo pensiero: uscirne a qualsiasi costo pur di tornare a rivivere la umile e grigia vicenda di ogni giorno purché ci siano passi, sguardi, parole, pane, cielo, silenzio.
Così capitò a me nella grande battaglia di Farlette.
Io uscii da quell'inferno con alcune schegge confitte nella colonna vertebrale. Dal posto di medicazione all'ospedale da campo, al treno della Croce Rossa, pietoso e sinistro, all'ospedale di Benicassin.
Mi risvegliai dall'operazione con la testa pesante. Mi era accanto Carmen, l'infermiera. Le chiesi come era andata l'operazione e lei scosse il capo. Non dovevo parlare. Mi assopii e mi risvegliai. Dopo quante ore, quanti giorni? Mi sembrava di vivere un interminabile giorno diafano e uguale come i lettini della corsia. Un diaframma opaco mi separava dal mondo. Non mi sembrava di migliorare anche se riuscivo gradualmente a muovermi nel letto e a tentare alcuni passi con l'aiuto. dei compagni.
Le schegge! Tutta colpa di quelle maledette schegge se ero passivo e inutile a me e agli altri! Me le avevano tolte? Ogni mattino rivolgevo le stesse domande a Carmen che, paziente, mi aiutava a sostenermi sui cuscini, mi cambiava le fasciature, mi rimboccava le coperte incoraggiandomi con la voce e col sorriso.
Anche lei veniva dalla Francia. Aveva abbandonato la scuola come io avevo abbandonato la miniera per la Spagna: ci sentivamo vicini. Lei parlava di sé e dei suoi e alla fine si lasciava sfuggire anche la verità sulla mia operazione. Le schegge le avevo ancora dentro, era troppo pericoloso toglierle. Ebbi una paura terribile ma Carmen era certa che sarei guarito egualmente. Aveva ragione. Poco a poco ripresi a camminare come un tempo, e a passeggiare a lungo con lei nel parco dell'ospedale. Mori sei mesi dopo in un bombardamento aereo.13

Ritornai sul fronte dell'Ebro dove la brigata Garibaldi era duramente impegnata. Dopo alcuni giorni il comando mi inviò ad Albacete per la celebrazione della brigata Garibaldi. Conobbi il comandante Vaia reduce dal fronte Asturiano. Da Albacete raggiunsi Quintinar della Repubblica13 dove il comandante mi comunicò la più triste delle notizie: mio padre era morto.
Uscii dalla stanza del comando camminando lentamente, percorrendo il lungo corridoio che portava in cortile, attraversai il largo spiazzo delle esercitazioni e mi rifugiai dietro il muretto del percorso di guerra. Mi sedetti a terra, con le spalle al muro e per la prima volta dopo tanto tempo piansi su di me, sulla giovinezza, sull'uomo che mi aveva dato la vita e che mi aveva insegnato a distinguere il bene dal male, gli onesti dai disonesti.
In Francia erano rimasti mia madre e i miei fratellini, ancora ragazzi, bisognosi di consiglio e di aiuto. Avrei avuto una breve licenza, ma non avrei potuto rimanere a lungo con loro. Attesi la licenza di quindici giorni fino al gennaio del 1938. Il 10 salii sul treno diretto a Portbou, ultima località spagnola; il 13 il comando locale mi consegnò il lasciapassare per Cerbera, località francese di confine.
Da Portbou a Cerbera andai a piedi, lungo un tunnel scavato sotto la montagna. Al posto di guardia i gendarmi francesi mi misero in carcere. La Francia, la mia seconda patria, mi respinse. Dopo una notte trascorsa in guardina venni condotto dal commissario di polizia. Mi chiese quando ero entrato in Spagna, il numero della mia brigata, i nomi dei comandanti e dei commissari: dopo aver letto il telegramma che annunciava la morte di mio padre, assunse un tono "paterno": "Se racconterai tutto quello che sai ti lasceremo libero subito e fra poche ore potrai riabbracciare tua madre." Tacqui. Il commissario si inviperì, gridò, imprecò. Gli ripetei, paziente, che ero andato volontario in Spagna; che avevo combattuto su diversi fronti e che ero rimasto ferito. Se non voleva lasciarmi andare a casa, mi rimandasse indietro. Venni ricondotto in cella per la notte e all'alba ero di nuovo a Portbou. Al comandante spagnolo della zona raccontai la mia avventura. Dovevo assolutamente rivedere la mia famiglia che attendeva il mio rientro. Avrei tentato il passaggio clandestino con una guida fornitami dal comandante. Ci mettemmo in cammino non appena imbruni: dopo due ore di marcia ci fermammo davanti ad una casa; la guida bussò in modo convenzionale. Ci apri una donna alla quale la mia guida rivolse poche parole in dialetto incomprensibile; poi mi salutò e se ne ritornò via. Il marito della donna mi scortò al confine e mi indicò il percorso in territorio francese.
Era l'alba. Camminavo da alcune ore in un bosco, fino a che, uscendo da una macchia di arbusti sempre verdi, scorsi un gruppo di case ai piedi di un colle. Sarei potuto arrivare fino alle case per riposarmi, o scendere direttamente la montagna attraverso boschi e dirupi. La seconda via era più sicura e non correvo il pericolo di incappare in qualche pattuglia. Ero stanchissimo, non dormivo da due notti, avevo le scarpe sfondate, le mani graffiate, i pantaloni strappati, le ginocchia sbucciate dalle continue cadute, con soltanto una vaga idea di dove mi trovavo. Non avrei mai potuto proseguire senza indicazioni, senza mangiare, senza cambiarmi d'abito. Incontrai un pastore che intuì da dove venivo e dove andavo. Mi dette da mangiare e perfino un paio di calzoni. Si offese quando tentai di pagarlo. In Francia non c'era soltanto il commissario di Cerbera! Raggiunsi la stazione del paese più vicino; salii sul treno diretto a Perpignano, dove il "Soccorso Rosso" preavvertito mi fece accompagnare a Nimes. A mezzanotte bussai alla porta di casa e mi trovai fra le braccia di mia madre.

Alla Grand Combe nulla era cambiato. Io ero cambiato. Non riuscivo più a trovare l'affiatamento coi miei compagni di lavoro. Vi era come un solco tra noi. Non rimproveravo loro di non essersi arruolati volontari per combattere in Spagna: immigrati per la maggior parte in terra di Francia come avrebbero potuto abbandonare la famiglia nella miseria? Erano tutti antifascisti, odiavano tutti la tirannia, avevano una fede profonda nei nostri ideali. Eppure, sentivo che fra me e loro c'era come una frattura. Perché?
Forse ero stato troppo provato o tendevo a sopravvalutare l'importanza di certe esperienze?
Quando ripartii dalla Grand Combe alla volta di Parigi, alla tristezza di lasciare mia madre e i miei fratelli, si aggiungevano perplessità e dubbi.
A Parigi mi presentai alla sede del comitato che presiedeva all'organizzazione e alla partenza dei volontari spagnoli per essere visitato dal medico. Fui invitato a presentarmi per nuovi accertamenti due giorni dopo. Per la prima volta mi trovavo nella metropoli sconfinata, nella folla. La gente camminava in fretta, s'incontrava e si salutava, e non uno che si accorgesse di me. Ognuno badava a se stesso. Mi sentivo sempre pi estraneo, sconcertato.
Ogni passante che mi sfiorava accresceva il senso del mio isolamento. Anche nei momenti di maggior pericolo non m'ero mai trovato così sperduto come in quelle ore: avevo accanto i miei compagni, il mio fucile, sentivo la presenza del tempo, lo scandire interminabile delle ore, i ciuffi d'erba, il frastuono del bombardamento, la sete, la fame, la stanchezza, la vita insomma. Ero me stesso, combattendo, soffrendo e sperando.
Qui annaspavo. Perché, mi chiedevo, la gente qui vive e là muore? E muore per difendere anche la libertà e la civiltà dei francesi che sembra neppure se ne accorgano. O mi sbaglio? O sono stanco e depresso e mi costruisco da solo le mie delusioni? Dovevo uscire da questi ossessionanti e maestosi boulevard, abbandonare queste vie luminose e opulente, cercare i compagni, gli operai, quelli che soffrivano e speravano come me, che economizzavano il franco sudato per spedirlo a Madrid, i genitori di Carmen, i fratelli, le mogli degli uomini della brigata francese caduti sulla collina davanti a Scarrozza. Dovevo liberarmi dei fantasmi della mia tristezza.
Alla sede del comitato trovai una quindicina di volontari. Partimmo insieme scalando i Pirenei, durante una notte di pioggia e nevischio del febbraio 1938.

Note

12. Un comunicato del comando tedesco promette un premio di centomila lire a chi favorirà la cattura dei "banditi."
13. A Benicassin trovai Marvin, Grassi, Falchieri, Suardi e Guia e a Quintinar della Repubblica trovai i garibaldini Pegolo, Marvin, Boretti, Saccenti, Ferrer Visentin e il capitano Orlandino.