Biblioteca Multimediale Marxista


Capitolo settimo
Addio Torino




Sono giorni d'incubo. Talvolta mi irrito con me stesso: "pensi troppo, dai troppo peso alle impressioni." Un combattente in città è un isolato, vive tra invisibili sbarre per evitare quelle solide di una cella carceraria. Ogni giorno programmo i miei movimenti, le ore in cui debbo uscire di casa o debbo rimanervi chiuso.
Posso dormire abbastanza tranquillamente durante le ore diurne: se nel quartiere o nel caseggiato comparissero estranei, le donne mi avvertirebbero in tempo. La notte invece è infida: la polizia fascista o le SS possono giungere all'improvviso senza la possibilità di reagire. Nonostante il coprifuoco, trascorro più serenamente le notti in cui sono impegnato nell'azione. Sembrerebbe paradossale, se la consapevolezza del rischio non fosse preferibile alla sua oscura, inattesa minaccia. All'attesa angosciosa ("verranno stanotte?" mi chiedo controllando le armi e le bombe a mano) preferisco i rischi dell'azione; alla clausura, alla trappola, preferisco il combattimento. D'altra parte la ricerca di una nuova base non è consigliabile. Qui alcuni mi conoscono, sono fidati, è un quartiere operaio. Anche senza che nessuno me lo abbia detto, "sento" che vigilano per me, la famiglia accanto, i compagni del piano di sotto. Le ore terribili sono e rimangono quelle della notte. Veglio ininterrottamente: so a che ora inizia il ronzio sordo dei motori che si mettono in movimento nelle fabbriche prima dello spuntar del sole, a che ora il primo treno giunge in stazione; a che ora una pattuglia a passo cadenzato percorre una strada poco lontana.

È un'altra delle solite notti. Ho trascorso la giornata bloccato in questa cameretta che amo e detesto. Sono uscito solo al tramonto, mescolato alla folla anonima degli operai che rincasano. So che mi cercano. Ho interrotto tutti i collegamenti con i patrioti perché se il nemico ha individuato la mia base non si accontenterà della mia cattura. Se qui attorno la Gestapo o l'U.P.I. avessero già appostato i loro uomini, aspetterebbero che io stesso li conducessi sulle tracce di altri compagni. Non vedrò nessuno e non parlerò con nessuno dei gappisti. Carceriere di me stesso mi concedo giornalmente un'ora d'aria. Passeggio senza meta; cammino solo per sentirmi in mezzo alla gente, per scuotermi di dosso la solitudine che conduce alla pazzia.
Almeno i carcerati sono soltanto carcerati — penso a volte — io sono in una prigione dove il nemico mi può raggiungere per trasferirmi in un'altra, prima di mandarmi davanti al plotone di esecuzione. Pensieri lugubri. Avverto i segni di una tensione che solo raramente ho conosciuto in passato. Anche in città stiamo attraversando un periodo difficile. La lotta ingaggiata tra noi e il nemico non si combatte con le bombe, le pistole o i mitra. È una battaglia di nervi che si deve vincere prima di tutto in se stessi. Il nemico ci insidia e ci provoca, ma ci teme. Una mezza dozzina di gappisti ha costretto i comandi nemici, le stazioni, le caserme a proteggersi con filo spinato e barriere di sacchi di sabbia, a raddoppiare il numero delle sentinelle. Le guardie del corpo dei gerarchi tengono abitualmente l'indice sul grilletto delle loro armi, pronte a fronteggiare un pericolo incombente che temono li sorprenda in ogni momento, in ogni luogo, da ogni parte. Anche se Di Nanni non c'è anche se altri sono stati catturati, il nemico ne ha paura ugualmente; oltretutto non ha mai creduto e non crederà mai che siamo soltanto un pugno di uomini.
"Ma perché siamo cosí pochi?" mi chiedeva Dante Di Nanni. Cosa rispondergli? Che in città, la nostra è una battaglia di tipo nuovo, che dalla selezione delle forze concentrate in montagna, sarebbero uscite le nuove leve dei gappisti. Ora i pochi superstiti, pur costretti a rimanere inattivi, Dante Di Nanni pur riposando per sempre, continuavano a tenere in scacco il nemico insospettito, allarmato da una pausa che attribuiva alla preparazione di una nostra offensiva su vasta scala. I fascisti e i tedeschi rafforzano le loro difese. Dunque non sono io solo a sentirmi prigioniero. Anch'essi, tedeschi e fascisti, dietro il filo spinato, i sacchi di sabbia, le sentinelle, sono prigionieri nelle loro caserme e nei loro comandi. Mi sento meno oppresso, quasi sollevato.
Mi è parso di udire un colpo alla porta. Ancora semiaddormentato trattengo il respiro per ascoltare meglio: bussano. Mi sollevo con cautela dal letto, senza far rumore mi avvicino alla porta. Da uno spioncino occultato all'esterno non noto nulla. Bussano ancora. Scorgo due uomini e riesco a inquadrare i volti. E' Dante Conti con un compagno. Apro. Conti mi presenta "Augusto," (Scotti) anch'egli combattente in Spagna, ispettore del comando delle brigate Garibaldi.
Se Conti e Augusto vengono da me in questo momento, c'è qualcosa di molto grave nell'aria. "Ti parlerà il compagno," dice Conti, "io devo andare."
Ci salutiamo. So già di che si tratta.
"Devo lasciare la città?" chiedo.
"Sì, al più presto. La polizia fascista non gioca più a mosca cieca, sta passando al setaccio una zona attigua a questa."
Una volta o l'altra doveva accadere. Intimazioni furibonde del ministero dell'Interno tempestano il Prefetto di Torino.
"Sanno che il tuo nome di battaglia è Ivaldi," aggiunge Scotti, "quindi è bene che non te ne serva più."
"Sta bene." Cambiare nome richiede un continuo controllo dei riflessi condizionati dalla vecchia personalità. Ne avevo già fatta l'esperienza. Se qualcuno mi avesse chiamato col mio vero nome, non mi sarei neppure voltato. Ma come avrei reagito a una voce nota?
"Quanto tempo dovrò stare lontano da Torino?"
"Non devi stare lontano da Torino. Devi trasferirti a Milano per riorganizzare i gappisti. Ti accompagnerà alla stazione Rosetta..17 A Milano andrai in piazza Firenze, dove, alle 11,30 un compagno che conosci ti condurrà alla tua prima base milanese."
"Ciao e in bocca al lupo." La porta si richiude. Scotti se ne va. Dalle imposte socchiuse della mia camera lo vedo allontanarsi con passo rapido e sicuro.
Sono stordito. Non riesco a pensare. Riesco solo a fare i preparativi, indispensabili alla partenza. La valigia con gli indumenti me la porterà Vittorina alla stazione.
"Non ci vuole molto per organizzare la partenza di un gappista," penso. Se voglio giungere in tempo a prendere il primo treno, devo affrettarmi. Tutto è pronto. Esco dalla mia stanza e busso alla porta della famiglia Bessone. Dico loro in fretta: "devo partire subito." Sono addolorati per la mia partenza. Non riesco a nascondere l'emozione. È gente che rischia la mia stessa sorte se per disgrazia i fascisti venissero a sapere che mi hanno ospitato.
"Ci vedremo quando l'Italia sarà libera," dico. "Arrivederci a presto allora," mi rispondono.

Di nuovo su un treno di guerra. Quando sono salito ad Acqui per recarmi a Torino, non avevo ancora provato la sensazione d'essere braccato. Allora, alla fine del settembre 1943, ero inesperto; non sapevo che la fuga notturna dalla casa dei parenti, dalla città troppo ordinata, dall'occhio vigile dei questurini, era l'inizio di una interminabile corsa. Ad Acqui per poco non mi avevano catturato, nel modo più banale, quando alcuni agenti di questura avevano segnalato i miei movimenti ai repubblichini e ai tedeschi. Poliziotti qualsiasi che forse non erano neppure malvagi, ma soltanto conigli. Era giusto abbatterli? C'era d'aver paura. Uno straniero, uno sconosciuto decideva se tu dovevi continuare a vivere o a morire.
Certo, penso, non tutti i poliziotti passati al servizio dei repubblichini sono malvagi. Ma cosa importa la loro indole, buona o cattiva che sia, se poi diventano spie del nemico? La bontà d'animo non scusa la condotta di un uomo. Nello scompartimento di fronte a me ci sono parecchie persone anziane, due donne e un ragazzino. Il treno è già partito da Torino, diretto a Milano. Ricordo i tempi in cui si poteva viaggiare su treni direttissimi, diretti o accelerati. In Spagna i bombardamenti aerei, i ponti minati, le necessità della guerra avevano eliminato ogni distinzione; tutti i treni erano accelerati. Il treno sul quale viaggio, in origine forse è stato un direttissimo, ma ora, prima di ogni curva, o di un ponte si ferma. Le donne anziane avvolte nello scialle si preparano a scendere. Non c'è stazione. Passano lunghi minuti, qualche volta più di mezz'ora prima che il treno riparta.
I carabinieri di guardia alla stazione non farebbero del male a nessuno e non toccherebbero nulla che non sia loro; sono fondamentalmente bravi ragazzi, preoccupati dei familiari ai quali scrivono tramite la Croce Rossa Svizzera. Rimangono in servizio perché, in fondo, sono bravi ragazzi. Accadono cose strane in guerra. Noi attacchiamo le stazioni radio repubblichine. I fascisti non se ne accorgono, ma i carabinieri vigilano. I carabinieri non sono fascisti e noi vogliamo risparmiarli, come abbiamo fatto coi ferrovieri. Invece loro hanno dato l'allarme. Eppure non sono fascisti, sono bravi ragazzi. La guerra sconvolge tutto davvero.
Il treno arranca sbuffando. Lentamente mi allontano dai lunghi mesi di lotta, da Bravin, da Di Nanni, dagli altri che abbandono in un cimitero ignoto, seppure sono stati sepolti; dalla gente che mi vuole bene e che ha rischiato la vita con me. In tempi normali, non avrebbero torto un capello a nessuno; brava gente che non aveva nulla da guadagnare con me, ma tutto da perdere. Hanno rischiato la vita per ospitarmi, per custodire la dinamite, le armi, le bombe a mano, le micce. Questo è qualcosa di più che bontà. È l'antica aspirazione alla giustizia che, d'istinto, ci porta a fianco di quelli che difendono la libertà. A Torino, nelle fabbriche affollate come formicai, ognuno difende il proprio destino dall'ignota scelta di un altro. Eppure in queste fabbriche la sorte di due, tre generazioni di operai era stata comune. il figlio imparava dal padre che cosa significasse essere operai. Lo si leggeva sul volto dei membri d'una stessa famiglia, d'uno stesso caseggiato, d'uno stesso quartiere. I pensieri mi si confondono. La stanchezza, il monotono pulsare della macchina vincono le mie paure. Quando mi ridesto, dopo quattro ore, sono a Milano.
Rivedo la brutta stazione da cui tanti anni fa ero partito ammanettato per Ventotene, con altri antifascisti. La città mi appare coi vetri infranti, incerottati. La gente ha l'aspetto di chi, dopo un terremoto, si prepara ad affrontarne uno peggiore. Portano con sé tutto ciò che possiedono: come se da un momento all'altro lo debbano perdere, dopo aver perduto la casa e la famiglia.
Piazza Firenze. Manca almeno un quarto d'ora all'appuntamento. In un bar bevo qualcosa. Poi, calmo, mi avvio verso un grande manifesto di Boccasile "Arruolatevi nella X Mas," in attesa del compagno che devo conoscere.
Arriva in bicicletta. Mi dice la parola d'ordine. Lo seguo cercando nella mia memoria qualcosa o qualcuno che mi aiuti a ricordarlo. "Tu sei Ghini," gli dico.
"Mi hai riconosciuto, finalmente?"
"Ma quale sei dei due gemelli?"
"Che cosa importa," risponde impassibile, "siamo tutti e due combattenti." Non è una risposta entusiasmante, ma quello non è né il luogo, né il tempo per le spiegazioni. Trovo Ghini un po' invecchiato da quando ci ammanettarono assieme — lui già con qualche capello grigio, io giovanissimo — per trasferirci a Ventotene, isola remota, dimenticata, dove avrei trovato qualcosa che non avrei più ottenuto altrove.
Il nemico ci aveva trascinati, isolati laggiù. E noi, prima di allora ignoti l'uno all'altro, ci eravamo riconosciuti.
Era terribile non avere notizie dei propri cari, essere estraniati dalla vita, finire in un'isola dimenticata e sassosa del Mediterraneo, anche se poteva sembrare una specie di oasi. Quelli che speravano nella "grazia del duce," erano spariti o isolati. Gli altri erano con noi. Avevo sognato l'utopia, l'uguaglianza, la fraternità. Era arrivata. Bisognava pagarne un alto prezzo. Eravamo reclusi, ma uomini. Sarebbe bastata una parola, una letterina di scuse per ricondurci un sabato mattina nel Continente. Nello spazio di qualche metro quadrato come si ha a disposizione nelle tombe, ognuno di noi si sentiva più vivo di coloro che sopportavano la libertà condizionata nel continente. Arrivava un pacco? Chiunque di noi lo divideva con i compagni, ma lo divideva con gioia, perché la comunità era per tutti la cosa più preziosa. È difficile da spiegare, difficile da capire. Nella tremenda sofferenza del confino ci si sente uniti, fratelli.


*

Il ricordo di Ventotene si legava indissolubilmente agli ultimi giorni della resistenza antifascista in Spagna. Nel luglio 1938 la nostra rabbiosa reazione sull'Ebro aveva impedito a Franco di dilagare in tutta la Spagna, almeno per parecchi mesi. Sebbene da aprile a luglio sul grande fiume spagnolo si registrassero soltanto scontri di pattuglie, i franchisti avrebbero alla fine tentato di attraversarlo. Dal canto nostro, dopo alcune settimane dedicate alla costruzione di opere difensive e alla istruzione delle brigate, eravamo pronti a sostenere l'offensiva nemica. Eravamo tanto sicuri che un giorno o l'altro i franchisti si sarebbero mostrati al di là del fiume che l'apparizione dei reparti d'assalto franchisti non ci avrebbe sorpresi. Ci sorprese invece l'ammassamento di barche nascoste sotto gli alberi, di cannoni, mortai, mitragliatrici pesanti, disposto dal nostro Comando. Dunque non avremmo aspettato il nemico, avremmo attaccato noi! La divisione spagnola Lister, attendata nel bosco, era pronta a scatenare l'offensiva sull'Ebro. La brigata Garibaldi sarebbe entrata in battaglia dopo il primo urto. Si intensificava l'attività delle pattuglie e le puntate al di là del fiume per prendere prigionieri e riconoscere gli appostamenti dei reparti nemici. Stavano maturando grosse novità; e la prima era rappresentata dalla passerella gettata sul fiume dai nostri genieri in un tempo sbalorditivo.
La mezzanotte era trascorsa da quindici minuti, i primi soldati repubblicani transitavano sulla passerella e prendevano contatto con il nemico. Era la notte del 25 luglio 1938.
L'attraversamento del fiume prosegui sulle barche; altri ponti di fortuna alimentavano e fiancheggiavano la prima testa di ponte; migliaia di soldati repubblicani erano sul terreno nemico. Il giorno era già spuntato, quando le nostre artiglierie aprirono il fuoco. L'elemento "sorpresa" era il cardine della nostra azione. Forse per la prima volta nella storia della guerra moderna una grande offensiva non veniva preceduta dal fuoco di sbarramento dell'artiglieria. Qui, sull'Ebro, nella più grande battaglia di tutta la guerra civile, le fanterie avanzavano senza alcuna protezione. I primi reparti avevano assolto il compito di sgomberare le prime linee nemiche dalle postazioni. La nostra artiglieria colpiva obiettivi lontani. Eravamo già penetrati in territorio nemico per parecchi km. La brigata Garibaldi attendeva ordini seguendo le fasi dell'avanzata senza parteciparvi.
La battaglia si scatenò violentissima quando i fascisti constatarono che l'Ebro era stato attraversato non dalle solite pattuglie ma da reparti in forze che, dopo essersi attestati, avanzavano decisamente in profondità. Noi della brigata Garibaldi assistevamo al di qua del fiume agli scontri sopra le nostre teste. Davanti a noi sfilavano sempre nuovi reparti repubblicani; traghettavano con le barche e proseguivano.
Scontri violentissimi erano in corso a giudicare dai feriti che ripassavano il fiume. Il primo giorno dell'offensiva repubblicana si concluse con il consolidamento delle posizioni conquistate. I fascisti avendo in mano tutte le centrali idroelettriche della zona, i depositi di acqua, le chiuse degli affluenti dell'Ebro, Ciurana, Nughera-Pallaresa, Noguera-Ribagozzana, Segre potevano sia aumentare la rapidità della corrente dell'Ebro da 0,8 a 6 metri al secondo, sia alzare il livello delle acque. Aprirono infatti le chiuse delle riserve di alimentazione nei dintorni di Saragozza facendo salire il livello degli affluenti dell'Ebro di un metro e mezzo e aumentando l'impeto della sua corrente. I nostri ponti furono spazzati via.
Trascorse il secondo giorno dell'offensiva, poi il terzo, senza che la Garibaldi fosse impegnata. I feriti e i portaordini al di là del fiume, ci recavano notizie dell'asprezza della lotta, degli scontri all'arma bianca, dei paesi conquistati casa per casa, delle alture prese, perdute, riprese d'assalto. Noi rimanemmo inattivi.
Circolavano le voci più strane: si diceva che le brigate Internazionali sarebbero state smobilitate e avrebbero abbandonato la lotta. Il tentativo del governo repubblicano di estromettere le truppe straniere impiegate da Franco, avrebbe comportato come contropartita anche la nostra esclusione. La guerra sarebbe stata decisa soltanto dagli spagnoli. L'ordine di preparare i nostri zaini e di avviarci alle retrovie ci parve una conferma. Iniziammo il cammino del ritorno qualche giorno dopo. Percorremmo una trentina di km., sostammo in prossimità di un bosco, rizzammo le tende in attesa del rancio. Eravamo delusi e abbattuti. La lotta in Spagna era finita; avremmo consegnato le armi alle autorità spagnole e saremmo ripartiti. Verso sera giunse l'ordine di raggiungere subito le prime linee. Finalmente!

5 settembre 18: La battaglia era aspra. Si combatteva in terra e in cielo. Le fortificazioni da campo erano scarse, continuamente bombardate dagli apparecchi franchisti e mitragliate a bassa quota. L'artiglieria martellava incessantemente le nostre posizioni. Andammo all'attacco cinque volte, in dieci ore, avanzammo metro per metro, raggiungemmo la cima di una collina e la tenemmo per un'ora. Poi i franchisti attaccarono a migliaia alla disperata e dovemmo affrontarli alla disperata per ributtarli.

6 settembre. Eravamo qui da ventiquattr'ore soltanto, tra i tronchi contorti degli ulivi. La desolazione regnava nella landa arida. I franchisti occuparono la collina "416" che domina la campagna da Mora d'Ebro a Gandezza. La battaglia infuriò e frammischiò le formazioni. Mi trovai vicino alcuni garibaldini del secondo battaglione che si erano spinti nel settore del quinto. Il comandante gridò per la decima volta l'ordine di attacco e di nuovo saltammo fuori dalla buca e ci precipitammo tutti assieme — quinto e secondo battaglione — contro la barriera di fuoco. Avevamo conquistato cinquanta metri di terreno. Il comandante Rubini, ferito durante l'attacco, era caduto a terra incitando i suoi uomini ad andare avanti; ridda di notizie; il quarto battaglione conquistò le quote "362" e "363," i garibaldini dovettero abbandonare quota "413," il comandante del terzo battaglione, Mario Berti morì; caduti i commissari di compagnia Macario, Lopez e Facchini, l'aiutante del primo battaglione Mario Perez Rasina; caduto Raimondo Fulgenzi, vice commissario della brigata: accorso in Spagna dall'Argentina la Garibaldi si può dire fosse sua creazione.

7 settembre. I franchisti attaccarono. Riuscimmo a respingerli. La loro artiglieria sparava a ritmo rapido. Abbandonammo le quote "409, 421, 455." Arrivarono rinforzi, andammo di nuovo all'attacco, guidati dal comandante Vacchini che gridava in continuazione "Viva la repubblica!" Tra lo scoppio delle granate un garibaldino a pochi metri cadde urlando: "sono ferito, sono ferito!" ma in quell'inferno nessuno raccolse l'invocazione del ragazzo caduto. Troppi feriti, troppi morti, troppe invocazioni soffocate dalle esplosioni. Il quarto battaglione riuscì a conquistare quota "368." Una valanga di carri armati ci arrestò. Contrattaccammo di nuovo. I franchisti si ritirarono, la loro artiglieria riprese il fuoco.

8 settembre. Andai di nuovo all'assalto all'arma bianca. Eravamo usciti dalle trincee, ci scontrammo a faccia a faccia coi nemici. Chiusi gli occhi nel momento in cui vidi la baionetta di un franchista davanti al mio petto. Non mi fermai, continuai a correre tenendo il fucile teso in avanti. Sentii l'urto della mia baionetta affondata in un ostacolo. Un attimo. Riaperti gli occhi lo vidi genuflettersi sulla baionetta che gli aveva squarciato il collo. Mi guardava con la bocca spalancata senza suono.
L'assalto continuava; Faleschini comandante una compagnia riuscì a piazzare una mitragliatrice che sparava contro la seconda ondata di fascisti, permettendoci di avanzare e di raggiungere quota "467." Faleschini fu colpito mentre incitava i suoi uomini. I fascisti rovesciavano su quota "467" un fuoco d'inferno e ritornavano all'assalto. Si combatté per ore ed ore contro le ondate della fanteria. Quota "467"19 fu presa. Scontri di grande violenza attorno a quota "356" tenuta dal nostro quarto battaglione. Resistemmo ad un attacco dopo l'altro senza cedere un metro di terreno contro i fascisti che sparavano su tutto ciò che si muoveva, sulle staffette, sui portaferiti.
A sera quota "356" era ancora nostra. Arrivò anche il primo battaglione della Garibaldi e un battaglione della 14ª brigata con l'ordine di riprendere la "457": i gruppi d'assalto delle due formazioni strisciarono nell'oscurità fino a pochi metri dalle trincee franchiste, balzarono avanti lanciando bombe a mano, seguiti dal grosso dei due battaglioni. I fascisti abbandonarono il campo: quota "467" era di nuovo nelle nostre mani.

9 settembre. Non avevamo dormito. Era l'alba, i fascisti avevano ripreso il fuoco dell'artiglieria. Il terreno era sconvolto da buche. I battaglioni frammischiati combattevano insieme; anche gli zappatori, le staffette imbracciavano il fucile. Un grido: "Arrivano i rinforzi!" Ai piedi della collina un gruppo di garibaldini tentava la scalata. Fu individuato e martellato di bombe. Il gruppo decimato raggiunse la cima del colle. Il nemico si scatenò su quota "471"; gli uomini la difesero per ore ed ore, non ebbero né rifornimenti né rinforzi e dovettero abbandonarla. Mezz'ora dopo ricevemmo l'ordine di riconquistare la collina.

10 settembre. La notte era illuminata a tratti dalle esplosioni delle cannonate. Qualcuno di noi riuscì ad assopirsi schiantato dalla fatica. Era l'alba. Attaccammo quota "471." Le nostre formazioni decimate si abbrancavano ai pendii. La battaglia durava da giorni e giorni. Era caduto Guido Bernini, commissario politico del secondo battaglione. Era morto anche Giovanni Baesi, uno dei primi italiani giunti in Spagna per combattere i franchisti: condannato da un tribunale fascista era passato da un carcere all'altro; esule era andato ramingo in Francia, in Belgio e in Lussemburgo. In Spagna ha trovato pace?

11 settembre. Quota "471"; assalti, morti, feriti.

12 settembre. Calma. Seppellimmo i morti che imputridivano al sole. Nostre pattuglie avevano segnalato concentramenti di truppe nemiche. Da un momento all'altro ci aspettavamo un'offensiva massiccia.

13 settembre. Il nemico si scatenò su tutto il fronte, impegnando tutta la sua artiglieria e la sua aviazione. Combattemmo dentro una nuvola di fumo nero. Pareva impossibile che in mezzo a questo inferno potessero sopravvivere degli uomini.
Fanterie nemiche all'assalto. Ma c'era sempre qualcuno con una mitragliatrice ad opporsi contro la marea avanzante. Combattevano anche i feriti purché avessero valide le braccia e le mani. I superstiti della seconda e della terza compagnia del secondo battaglione e quelli dei gruppi d'assalto del tenente Emilio Rodriguez seppero resistere tre ore consecutive contro un nemico venti volte superiore. Cannoni, aerei, mitragliatrici, carri armati contro le quote "440" e "450" tenute dal secondo battaglione ridotto a una sola compagnia. Una formazione nemica si era infiltrata nella valle percorrendo la strada della "Fattarella" nel tentativo di occupare le quote "480" e "496": la terza compagnia del terzo battaglione non li attese, ma li affrontò e li ricacciò. Era la volta della prima compagnia del secondo battaglione, comandata dal tenente Carlo Pegolo: per un giorno e una notte i garibaldini tennero quota "435," sotto il fuoco concentrato dell'artiglieria nemica. Ributtarono gli assalti che si seguivano ininterrottamente senza che nessun'altra formazione della brigata potesse portare loro aiuto. Quando scese la notte, quota "435" resisteva ancora: i garibaldini la difendevano senza munizioni, senza bombe. Dopo l'ultimo assalto alla baionetta sferrato dai fascisti, i sei garibaldini superstiti si lanciarono all'arma bianca contro il nemico che avanzava nella notte.

14 settembre. Il sole non era ancora alto nel cielo e già l'artiglieria nemica riprese a sparare. Riapparivano gli aeroplani nemici che lasciavano cadere grappoli di bombe. In lontananza un uomo correva verso di noi inseguito da colpi di cannone anticarro; cadde, si rialzò, riprese a correre. Era una nostra staffetta; arrivava lacera, esausta, ma senza una ferita, al comando. Portava l'ordine di spostarsi. Lo scoppio di una granata mi scagliò a terra. Soffocavo. I polmoni non volevano più ricevere aria. Vicino a me un morto: la staffetta, colpita a tradimento da una scheggia. A notte venni ricoverato in una infermeria rigurgitante di feriti. Incontrai Menegazzo, commissario di compagnia del secondo battaglione, rimasto per due giorni nella "terra di nessuno," fino a quando i suoi garibaldini riuscirono a salvarlo sotto il fuoco.
Dopo 24 ore mi trasportarono a Barcellona, nel vecchio ospedale della città. Qui mi raggiunsero le notizie. Dopo una settimana di attacchi furibondi, i fascisti dovevano aver sfondato il fronte dell'Ebro in diversi punti; i garibaldini nonostante l'accerchiamento avevano respinto con assalti alla baionetta le infiltrazioni nemiche 20
Il giorno dopo il 22 settembre, il presidente del Consiglio Negrin, parlando a Ginevra chiese il ritiro di tutti i volontari stranieri combattenti. In realtà solo le brigate Internazionali furono ritirate. Il tentativo di Negrin non recò alcun vantaggio alla Repubblica, ne affrettò la fine. Uscii dall'ospedale qualche giorno dopo, in tempo per partecipare alla grande sfilata delle brigate a Barcellona. Fu l'ultimo commovente saluto alla Spagna. I fascisti avanzavano su Barcellona e la città si svuotò in un'atmosfera di caos: in piena notte, nelle strade oscurate, fra clamori, grida di donne, di bambini. Reparti di soldati laceri e stremati dalla fatica, lasciati indietro dalle retroguardie, organizzarono una precaria linea di difesa, mentre gli aerei fascisti bombardavano la città.
La mattina del 26 gennaio eravamo riuniti sulla piazza di un piccolo paese: arrivarono Luigi Longo e Giuliano Pajetta. Avevano visto i franchisti massacrare i civili in fuga. Longo ci chiese di combattere ancora. Sulla piazza echeggiarono delle fucilate. Da qui ebbe inizio la nostra lotta fino alla frontiera. Per due giorni la Garibaldi e altri reparti repubblicani impegnarono tutti i loro uomini al contrattacco per coprire l'esodo della moltitudine inerme, dai fascisti lanciati alla strage. Il giorno 11 i francesi aprirono finalmente la frontiera ai profughi: i civili passarono per primi, poi transitammo anche noi. Civili e soldati si ritrovarono poi assieme nei campi di concentramento francesi. Io, più fortunato, riuscii a sfuggire alla sorveglianza ed a saltare su un treno. Viaggiai tutta la giornata evitando i controlli e, finalmente alla sera, arrivai alla Grand Combe. Di nuovo a casa, ma profondamente avvilito.
Centinaia di migliaia di vite erano state sacrificate. Se le grandi democrazie non fossero rimaste a guardare mentre i generali traditori aiutati da Hitler e da Mussolini massacravano il popolo di Spagna, la nostra resistenza avrebbe potuto impedire la conquista dell'intera Europa. Ora tutto sembrava finito.
Alla Grand Combe, cercai un lavoro per vivere e per aiutare mia madre e i miei fratelli. Vivevo alla giornata: trovai un piccolo lavoro subito e lo persi immediatamente per l'intervento del commissario di polizia. Mi scadeva la carta d'identità francese e non riuscivo ad ottenerne il rinnovo. Ogni giorno dovevo recarmi dal commissario. Per i comunisti c'era la prigione. Passai un'altra frontiera clandestinamente e raggiunsi Torino. Per qualche mese riuscii a far perdere le tracce alla polizia fascista. Mi arrestarono il 23 marzo 1940.
Dopo un lungo interrogatorio mi trasportarono ad Alessandria. Il 10 giugno, mentre leggevo sdraiato sulla branda lo "scopino" mi avverti che anche Mussolini aveva dichiarato guerra alla Francia. Sei mesi dopo uscii di prigione per entrare nel confino di Ventotene. La compagnia era buona. C'erano: Terracini, Scoccimarro, Secchia, Roveda, Frausin, Camilla Ravera, Spinelli, Ernesto Rossi, Li Causi, Pertini, Bauer, Curiel, Ghini, ecc. Poi arrivarono dai campi di concentramento di Francia Longo, Di Vittorio, Bardini, Alberganti, Carini e molti altri. Per un giovane come me cominciava una nuova esperienza.


Rivado a quei tempi fissando il volto di Ghini. Che succederà dopo? mi chiedo pensando alla fine della guerra. Sarebbe andata come a Ventotene — uno per tutti, tutti per uno — o sarebbe finita come nel Risorgimento, con il garibaldino Crispi che ordina repressioni sanguinose in Sicilia, con il garibaldino Bixio che naufraga con la nave carica di schiavi, con Garibaldi, esule a Caprera e i garibaldini sospettati, disarmati, vilipesi?
"Dove andiamo?" chiedo a Ghini. "Ne abbiamo per altri dieci minuti," mi risponde. "Non si fida di me," penso. Ventotene era dunque un altro mondo?

Note

17 Moglie di Osvaldo Negarville, che avevo conosciuto a Ventotene.
18 La brigata Garibaldi era comandata prima del passaggio dell'Ebro da Alessandro Vaia poi da Luis Rivas, commissario politico Emilio Suardi.
19 Boretti Giuseppe, studente milanese, cadde a quota "467" accanto a Nicoletti, mentre chiedeva un nastro per la sua mitragliatrice.
20 Fra i combattenti della battaglia dell'Ebro ricordo: Ferraresi, Zanella, Carini, Nicoletto Sacenti, Gruni, Spadelini, Poma, Rossi, Zazzetto, Tabari, Boretti, Ferrer, Cerio, Allari, Zucchella, Ronzano, Vacchieri, Ponza, Montanari, Vergari, Bellucci, Manini, Fachini, Vincenzo Sposito, Antonio Gruden, Galli, Mario Romei, Bianchi, Benatti, Umberto Negri, ecc. Ricordo Mehmet Shehu, attuale Presidente del Consiglio della Repubblica Popolare d'Albania.