Biblioteca Multimediale Marxista


Capitolo terzo
Come nasce una bomba



Trascorrono tre giorni durante i quali lo stordimento seguito all'azione si attenua. Mi ritrovo pieno di fiducia e con maggiore coscienza critica. Non avevo ancora acquistato sufficiente esperienza per condurre una lotta in città dove si rischia così tanto e dove si richiede organizzazione, segretezza e tempestività; dove metodo, calma e decisione sono i tre fattori del successo. Sento bussare. Al di là dell'uscio la voce di Dante Conti mi risponde. Con lui è Ilio Barontini, il leggendario combattente di Madrid, di Guadalajara, il comandante che alla testa del battaglione Garibaldi colse la vittoria contro i legionari fascisti; uno dei pochi che in Abissinia fra i partigiani etiopi lottò contro gli invasori.
Barontini sorride e mi abbraccia. "Rimarrà da te alcuni giorni," esclama Conti prima di andarsene. Barontini mi martella di domande: da quanti mesi sono a Torino, come mi sono organizzato, qual è il mio piano d'azione, come l'ho coordinato con la lotta generale delle masse popolari, se ho messo in piedi un minimo di apparato tecnico. Barontini mette a nudo le mie apprensioni, le mie insufficienze, i miei dubbi, le mie incertezze. Per due giorni sono rimasto ad ascoltarlo. Alla fine lo sgomento per la povertà dei mezzi, degli uomini, dell’organizzazione, la sorpresa, l'ira prendono il sopravvento e urlo che non ce la farò mai a svolgere tutto il lavoro da solo, senza uomini, senza neppure sapere confezionare una bomba. Barontini sorride.
"Se le bombe," dice, "sono il tuo problema, è presto risolto." Ma non si tratta soltanto di bombe.
"Parliamone adesso," insisto.
E la miccia? Barontini prosegue: "ora t'insegnerò qualche cosa di più. Prendi appunti, anche se è contro le regole della clandestinità. Per costruire una miccia a combustione lentissima, che non faccia fiamma e che bruci silenziosamente: questa miccia (stoppino) non si trova in commercio."
Barontini continua: "Prendi un filo comune da calza, preferibilmente bianco e di lino, perché inodore e meno fumogeno. Stempera 8 grammi di bicromato di potassa in cento grammi di acqua; lascia bollire dieci minuti il cotone, dopo di che lo lasci asciugare al buio. Poi prendi, ben asciutti, 40 fili di detto cotone, lunghi secondo la necessità e con un filo del medesimo cotone avvolgi i 40 fili facendo così un cordoncino che brucerà per mezzo centimetro al minuto."
"Certo," commento, "sembra veramente facile."
"È facile," prosegue Barontini, "se hai un amico fabbro." Lo interrompo impaziente. Barontini prende un foglio di carta e una matita e mentre parla disegna sul foglio.
"Prendi un tubo qualsiasi, piccolo o grande, di ferro, di ghisa, di bronzo, perfino di alluminio, lo tagli a dieci, venti, quaranta centimetri; saldi ad una estremità un coperchio dello stesso materiale del tubo e al centro del coperchio pratichi un foro di un diametro di sei o sette centimetri."
Mentre Barontini parla, continua a tracciare segni sulla carta e la bomba nasce sotto i miei occhi.
"La parte del tubo senza coperchio," prosegue Barontini, "viene filettata per permettere di avvitarvi un altro coperchio, pure filettato per un paio di centimetri. Si ripone l'esplosivo nel tubo, si fa passare la miccia con il detonatore nel foro del primo coperchio facendo in modo che il detonatore vada ad innescarsi nell'esplosivo. Alla fine si avvita il secondo coperchio e la bomba è pronta."

"Sarà potente?" chiedo. "Quanto vuoi che sia, a seconda del diametro, della lunghezza del tubo e la qualità di esplosivo disponibile. Puoi preparare anche una bomba di dieci chili, venti chili, capace di distruggere una caserma.
"Non hai che da provare. Vai dal tuo amico fabbro. Costruisci la bomba e poi la esperimenti su uno degli obiettivi che vuoi buttare all'aria."
"Certo che lo faccio," rispondo. "...Se ne accorgeranno! Però non riuscirò a far tutto da solo, non ci sono uomini che mi aiutino, l'organizzazione non mi dà una mano, i collegamenti non funzionano, non ci sono tecnici, non ci sono armi."
Barontini mi lascia sfogare, sorride e tace. Poi mi aggredisce: "Le armi, le armi! E le tue bombe? Non sono forse armi potentissime per una guerra che si combatte nelle strade, fra le case, in mezzo alla gente? Non hai tecnici? E perché non lo diventi tu? Impara a confezionare bombe esplosive, poi imparerai a fabbricarti quelle incendiarie!
"Non ti bastano le bombe? Scendi in strada, di sera, con un martello, un bastone, un coltello, con qualcosa che serva ad uccidere. Togli le armi ad un repubblichino, ad un tedesco, ad un altro tedesco, ad un altro repubblichino: avrai armi per te e per i compagni che in questi giorni affluiranno ai GAP!"
Sono come sommerso, stordito dalla sicurezza tranquilla di questo uomo intelligente e buono. Mi incute rispetto, un grande rispetto, ma non voglio darlo a vedere.
"Il partito," tento, "il partito non mi aiuta?..."
"Sbagli," esclama Barontini, "sbagli veramente di grosso. Sei tu il partito, siamo noi il partito e stiamo appunto aiutandoci l'un l'altro per combattere la lotta in cui sono impegnati tutti gli altri partiti dello schieramento antifascista, in cui è impegnato tutto il popolo italiano. È una battaglia che ha bisogno di tutti, le frazioni isolate non solo sono inutili ma spesso dannose. Devi tenerlo presente, ben presente."
Sono interdetto: Barontini mi ha dato ragioni che sono certo di aver sempre saputo, senza essere mai riuscito ad esprimerle a me stesso.
Anche queste mi sembrano cose semplici. Dunque è vero: il partito non mi ha mai lasciato solo.
Barontini, uscito nel pomeriggio, rientra la sera con un pacco: "ecco la tua prima bomba, te l'ho preparata io. Non è stato difficile." So già come la userò. Nella mia mente l'azione è chiarissima; particolare per particolare, secondo per secondo.
Due giorni dopo m'incontro con Andrea e Antonio. Passeggio con Andrea lungo il corso. Antonio entra nel locale gremito di tedeschi e fascisti. Di fronte al caseggiato c'è la ferrovia. Dopo una lunga attesa Antonio sopraggiunge: "ci sono dentro trenta tedeschi," dice, "quasi tutti ufficiali e molti fascisti." Ci avviciniamo. Tengo sotto il braccio il pacco con la bomba. L'ho confezionato in modo che la miccia spunti dall'involto. Sotto la finestra del locale Andrea si accende una sigaretta e, chinandosi verso di me, come a riparare la fiamma dal vento, avvicina la brace alla miccia. È buio. Seguo con gli occhi il punto rosso che sfrega leggermente contro la miccia. Sento il cuore battere con violenza. D'improvviso sprizza un leggero soffio di fuoco: la miccia è accesa. Alzo il pacco e lo appoggio al davanzale della finestra. Ci allontaniamo lentamente facendoci forza per non correre. Siamo già lontani sulle biciclette quando ci percuote lo schianto lacerante e terribile della mia prima bomba.
A casa, prima ancora che parli, Barontini legge sul mio viso l'impresa; mi abbraccia. "Bravo muchacho!" mi ripete, dopo otto anni.
Il 4 gennaio 1944, dopo l'azione, il comando tedesco in un proclama diretto a tutti i "cittadini amanti dell'ordine e della giustizia" invita il popolo a collaborare con le forze armate naziste minacciando feroci rappresaglie. Con Barontini parlo della reazione nazista. "Le rappresaglie non possono fermare la nostra azione." In Francia — dice Barontini — in una situazione analoga i tedeschi sono stati costretti a subire le azioni partigiane. La minaccia di rappresaglie non ci lascia indifferenti. Purtroppo questa è la guerra e le rappresaglie non ci possono fermare. È un grave errore limitarsi ad aspettare gli alleati. Noi dobbiamo colpire, sempre, di giorno e di notte, sulle montagne e nelle città, nel cuore stesso della città dove i nazisti e i fascisti si credono al sicuro. Seminando panico e terrore tra i nemici, costringendoli a impegnare forze ingenti nei presidi e nei rastrellamenti, aiutiamo gli alleati su tutti i fronti. E infondiamo fiducia alla popolazione, sfiducia tedeschi che si sentono sempre più vulnerabili su un fronte che non ha confini, che ovunque li circonda e li minaccia. Barontini mi parla per ore. Non vi è altro modo per condurre la lotta contro gli invasori, contro i massacratori di Cefalonia!
"Aspettare," insiste Barontini, "non serve a nulla. Combattere invece significa avvicinare di un gior no, di una settimana, di un mese l'ora della liberazione."

I gappisti che due giorni prima hanno parteci pato all'azione, desiderano portarne a termine altre, più rischiose e più efficaci, ma alla terribile ed estenuante lotta isolata preferiscono quella nelle formazioni di montagna. Mi ritrovo solo con un ragazzo di 19 anni: Antonio. "Quando sei solo, sei tu il partito." Le parole di Barontini, mi frullano nella testa, mi ridanno fiducia. Ma non per molto. Trascorrono Natale e capodanno. I tedeschi occupano città e nazioni di mezza Europa; nei campi di sterminio centinaia di migliaia di esseri umani muoiono ogni giorno. Debbo agire. Il 15 gennaio io e Antonio giustiziamo in strada un sergente fascista. È necessario fare di più; soprattutto è necessario reclutare più uomini. Si trova gente disposta a scioperare, a distribuire manifestini, ad andare in montagna, a disarmare per le strade fascisti e tedeschi isolati, ma sono pochi coloro che sono disposti ad agire nei GAP in azioni veloci, decise, senza pietà.
Ai primi di gennaio del '44 il compagno Bessone (Barca) mi comunica un ordine del comando generale delle Brigate Garibaldi. "Non dovrò partecipare personalmente ad alcuna azione, ma organizzare, reclutare, istruire i gappisti. Chi debbo istruire? Cosa devo organizzare? La brigata siamo io e Antonio. In Val di Susa, in Val di Lanzo, e in altre valli del Piemonte sono in corso feroci rastrellamenti contro le brigate di montagna. È necessario colpire il nemico qui, nel cuore della città, con estrema violenza, come se un grosso gruppo partigiano operasse in piena Torino. Il comando nazifascista sarà costretto a distogliere una parte delle forze impiegate nei rastrellamenti per presidiare i comandi di città.
C'è solo una cosa da fare: agire. Se io e Antonio siamo la brigata, tocca a noi due agire. Mi pare sia conforme agli ordini. La brigata deve attaccare. Ho preso la mia decisione. Agirò senza chiedere l'ordine al comando.
È sera quando esco. Sono solo. Antonio mi aspetta altrove.
Corso Vittorio Emanuele è affollato di operai, di impiegati, di uomini e donne usciti dagli uffici; macchine cariche di tedeschi e fascisti percorrono il corso nei due sensi. C'è frastuono di claxon, di campanelli, di tram, di fischi di locomotive in manovra alla vicina stazione. Fa freddo. Cammino adagio affondando le mani nelle tasche del cappotto, stringendo il calcio di due pistole. Il tempo trascorre lentissimo. Sento come un nodo nel petto, un nodo di ansia e anche di paura. Mi costringo a restare in attesa. So quello che debbo fare: aspetto due ufficiali tedeschi. L'ora è giunta. Tedeschi e fascisti mi sfiorano continuamente aumentando il mio nervosismo. Qualcuno mi può notare, chiedermi documenti, perquisirmi. Se tornassi a casa non farei che obbedire a un ordine. Ma la brigata deve attaccare ed io e Antonio a duecento metri siamo la brigata GAP di Torino. Sto per sparare contro quattro ufficiali fascisti che mi passano accanto, per sfuggire all'ansia che mi opprime, per portare a termine una azione qualunque, per poter dire a me stesso che ho avuto la forza di agire. Ma non sparo: questi quattro non sono i "miei" due ufficiali tedeschi. I quattro entrano nel caffè di fronte e io li seguo: li subisco mentre discorrono tronfi e spavaldi con alcune prostitute. Entrano due ufficiali tedeschi e i quattro balzano in piedi, "romanamente." Esco e attendo. Fa più freddo e mi dico che è il freddo a farmi tremare leggermente. So che non è il freddo. Continuo ad aspettare. Passa un'altra mezz'ora, interminabile, snervante. D'improvviso: eccoli! È il momento atteso. Vorrei non fosse mai arrivato. Vorrei essere chissà dove. Invece sono qui a guardare i miei due tedeschi che vengono avanti baldanzosi, parlando ad alta voce, vicinissimi. Ho gli occhi fissi sulla croce di ferro che spicca sul petto di uno di loro: estraggo le pistole e sparo. I due nazisti cadono senza un grido. Ho esploso dodici colpi.
La gente sotto i portici rimane per un attimo incerta, si ferma, fugge, si rifugia nei portoni. Una donna grida. Dal caffè di fronte escono due ufficiali tedeschi con le machine-pistole in pugno. Faccio l'atto di sparare contro di loro, ma le armi sono scariche. Che faccio? All'improvviso nella mente mi passa il ricordo della battaglia di Guadalajara quando, fermo accanto alla mitragliatrice, continuavo a sparare sullo squadrone di tank fascisti che avanzavano. Allora non ero fuggito. Ora, indietreggio rapidamente e giro l'angolo di via Gioberti, mi getto a terra, cambio un caricatore. Il rumore dei passi dei due tedeschi si avvicina! inseguono la mia fuga. Ecco il primo: sparo tre colpi e l'ufficiale cade; ecco l'altro: sparo ancora due colpi e il nazista lascia cadere a terra la pistola e urla e mentre si piega su se stesso tenta ancora di riprendere l'arma: sparo un colpo ancora. L'ufficiale scivola di schianto sull'asfalto.
L'ansia che avevo dentro di me si allenta all'improvviso. In corso Vittorio Emanuele sparano. Li sento avvicinarsi, cambio ancora una volta il caricatore e corro lungo via Gioberti. Dopo cinquanta metri mi fermo e al riparo di un portone esplodo tutto il caricatore contro i fascisti e i tedeschi che s'affacciano sulla strada. Si buttano a terra, tornano indietro. Riprendo a correre. In fondo a via Gioberti, in via Manzoni, Antonio mi aspetta con la sua bicicletta. Il giorno dopo sui giornali, con grossi titoli, c'è il resoconto dell'azione compiuta dai "banditi" contro alcuni ufficiali delle truppe tedesche alleate; c'è l'ordine del coprifuoco alle 20. Si promette una taglia di mezzo milione per chi farà arrestare i "banditi." Per rappresaglia hanno imprigionato 50 ostaggi. Il giornale me lo porta Barca, raggiante. "Chi saranno stati?" chiese. "Sono stato io,» rispondo. Barca, sorpreso, sbalordito, se ne va in fretta. Nel pomeriggio si riunirà il Comitato di liberazione piemontese per discuterne e per fronteggiare le rappresaglie dei nazisti. Approverà o sconfesserà la mia iniziativa? Saprà che un garibaldino, un gappista, ha giustiziato gli ufficiali nazisti.

*

La battaglia di Guadalajara: verso la fine di dicembre giunse l'ordine di partenza per il fronte di Mirabueno. Il Battaglione Garibaldi che al primo scontro con i franchisti a Madrid, era arrivato in prima linea senza fucili, era ora equipaggiato completamente. Partimmo un mattino presto, col buio fitto.
I camion percorsero i sobborghi di Madrid, la strada da Guadalajara fino a Sigùenza, a Brihuega. Ci accampammo. Il mattino successivo ripartimmo. Attraversammo paesi e borgate tra gente affaccendata attorno a carri e camion sgangherati, pronta a sfollare dalla zona del Fronte e contadini al lavoro attorno alle concimaie. Scendemmo dagli automezzi per proseguire a piedi, carichi di armi, munizioni, fardelli, tra carri armati e gruppi di miliziani in corsa. Ci trovammo qualche ora dopo in piena battaglia fra i campi di Mirabueno. Raggiungemmo combattendo le case. Il colonnello franchista che comandava la zona, sorpreso dalla nostra avanzata, era fuggito precipitosamente abbandonando moglie e figlia. Mirabueno era già in nostre mani quando ci sorvolarono gli apparecchi repubblicani. I volontari polacchi attaccavano le nuove posizioni franchiste.
Il 3 gennaio, due compagnie e gli arditi del Battaglione Garibaldi appoggiarono la manovra "Dombrowski," il 5 gennaio altre due compagnie si attestarono su una altura per proteggere il fianco della formazione polacca.
La marcia di avvicinamento fra boschi, burroni e avvallamenti procedette spedita, grazie proprio al terreno accidentato. Picelli era in testa con l'arma puntata e sparò subito contro una pattuglia fascista emersa all'improvviso. Picelli7 era sempre in testa. Pacciardi e Roasio l'avevano richiamato più volte: "Devi comandare, non rischiare la tua vita ad ogni passo."
Raggiunse l'altura, sistemò la mitragliatrice, s'alzò di scatto, fucile in pugno e cadde senza vita.
Nella notte tra il 6 e il 7 gennaio, sostituiti da regolari spagnoli, lasciammo Mirabueno per trasferirci a Guadalajara. Fummo sorpresi da un bombardamento aereo. Le bombe dei fascisti distrussero case d'abitazione, uccisero vecchi, donne e bambini. Uscimmo di città. Ci attestammo a Colmenar Viejo, vicino all'Escorial.

Madrid continuava ad essere semi-assediata. Da mesi e mesi i franchisti, falliti gli assalti frontali, attendevano che la città capitolasse. Stroncato in gennaio il tentativo di isolare la capitale dall'Ovest e di penetrare dall'Est, Franco e Mussolini dovettero subire la sconfitta di Guadalajara.
Guadalajara era il punto chiave per entrare a Madrid. Franco intendeva conquistare questa posizione decisiva impegnando decine di migliaia di uomini, appoggiate da carri armati, dall'artiglieria e dall'aviazione. Perno dell'attacco era la strada di Francia, da Siguenza a Guadalajara ad Alcalà de Henares. Lo scopo, isolare Madrid da Levante, obbligandola alla resa.
Lo stato maggiore di Franco pensava di battere il grosso delle nostre resistenze sull'altipiano tra Siguenza e Guadalajara; manovra elementare, ma molto pericolosa per i repubblicani perché avrebbe ostacolata e ritardata una eventuale ritirata. Noi dovevamo impegnare l'immensa superiorità delle forze fasciste a Brihuega, dove l'affluenza di nostri rinforzi sarebbe stata più agevole che sull'altipiano.
Le divisioni fasciste attaccarono alle sette del mattino dell'8 marzo 1937. L'avanzata della fanteria fu preceduta da un intenso fuoco di artiglieria. Si combatté per tutta la giornata dell'8 marzo con un freddo intenso: le poche forze repubblicane di stanza a Mirabueno e a Las Vegas resistettero efficacemente e contrattaccarono ad Alaminos. Durante tutta la giornata i nemici che avrebbero dovuto infrangere le nostre difese nel giro di poche ore, rimasero inchiodati sulle loro posizioni.
Il giorno successivo si impossessarono di Almadrones e nel pomeriggio, nonostante i furiosi attacchi alla baionetta dei miliziani rimasti privi di munizioni, si spinsero fino a Brihuega dove le strade dell'altipiano cominciano a scendere verso Guadalajara. Alla mia compagnia, la seconda, l'ordine di partenza giunse nella notte tra il nove e il dieci marzo.
Ci dissero che i fascisti erano riusciti a spingere i regolari spagnoli fino a Brihuega e minacciavano di scendere su Guadalajara.
Sui camion sobbalzanti nel buio, il freddo inasprito dal vento, dopo un'ora cominciò a piovere: lampi e tuoni anticipavano un duello di artiglieria in lontananza. Gli autocarri si fermarono al mattino a pochi chilometri da Brihuega e ci scaricarono, bagnati fino alle ossa, nel palazzo di Don Luis.
La compagnia si mise in marcia verso Brihuega, lungo la strada dalla quale in gennaio eravamo scattati all'assalto di Mirabueno. Sapevamo di avere di fronte 50.000 italiani.
Avevo allora 18 anni. Lasciata l'Italia a 6, non avevo conosciuto il regime di Mussolini e non dovevo "saldare vecchi conti."
Gli anziani, prima di lasciare l'Italia, erano stati perseguitati, bastonati, incarcerati, anche alla Grand Combe avevano conosciuto il fascismo nelle sue forme più subdole e velenose. Ora ci incontravamo a viso aperto, nel fuoco di una battaglia dove si uccide o si è uccisi. Ero immerso in queste considerazioni mentre camminavo portando in spalla la mitragliatrice, quando, all'improvviso, fui come svegliato dall'agitarsi degli uomini della compagnia. Sulla strada, davanti a noi, era apparsa una motocicletta. Mentre stavamo riprendendo la marcia, una raffica di colpi ci piombò addosso, rabbiosa. Ilio Barontini, comandante del battaglione Garibaldi, in sostituzione di Pacciardi, diede l'ordine di prendere posizione. Piazzammo le armi in un appostamento di fortuna e rimanemmo in attesa. Barontini passava da un gruppo all'altro ripetendo, calmo, le istruzioni. L'esercito fascista era di fronte a noi. Arrivarono. Gli uomini procedevano cauti. Li investimmo. Parecchi caddero e gli altri si ritirarono, attestandosi dietro i muretti a secco che dividevano i campi ai lati della strada.
Risposero con un fuoco disordinato e impreciso. Sparavano brevi raffiche. Esplosero i primi colpi di artiglieria sugli alberi del bosco, a duecento metri da noi.
L'artiglieria tacque. L'attacco delle fanterie era imminente. Ci affrettammo a sistemarci. De Ambrogi, comandante della seconda compagnia, mi fece piazzare le due mitragliatrici pesanti con proiettili anticarro ai margini della strada, quasi allo scoperto, in posizione dominante. Scavai nella terra molle e incontrai la roccia. Se non potevo migliorare la protezione, in compenso dominavo tutta la strada fino alla grande curva a seicento metri di distanza. All'improvviso dalla curva apparve il primo carro. La mia mitragliatrice sarebbe riuscita a fermare quel veicolo coperto di ferro? Dietro il primo carro ne apparve un secondo e poi gli altri: sei in tutto. Dietro i carri avanzavano i fascisti. Procedettero senza sparare fino a quattrocento metri, poi aprirono il fuoco, continuando a correre. Ci furono quasi addosso. Sentii la mia mitragliatrice sussultare. I proiettili colpirono il primo carro, poi gli uomini. Vidi i fascisti balzare via dalla strada e buttarsi dietro i muretti a secco dei campi. Vidi il primo carro arrestarsi, tentare di avanzare e fermarsi di nuovo. I proiettili anticarro delle due mitragliatrici pesanti lo martellavano da ogni parte. Il tank rimase in mezzo alla strada impedendo agli altri di avanzare. I fascisti si ritirarono sparando; ripiegarono anche gli altri cinque carri, scomparendo dietro la curva, in fondo alla strada.
Ci acquattammo contro il terreno nelle nostre piccole buche, fangose sotto la pioggia violenta. I proiettili dell'artiglieria nemica di nuovo si abbatterono sul bosco. Il cannoneggiamento prosegui per mezz'ora, poi ritornarono i tank e la fanteria. Li respingemmo. Riprese il fuoco dei cannoni, ritornarono nuovamente le fanterie e i carri e ancora tuonò il cannone. A sera avevamo respinto quattro furiosi attacchi e sopportato cinque bombardamenti.
Mentre l'ultimo era in corso, udimmo un ansare di motori; le prime ombre della sera ci nascondevano ormai la curva. Il rumore di motori si avvicinava; intravidi le ombre di due motociclette. I guidatori non ci videro e si fermarono a cento metri. Sentivo indistintamente le loro voci. Li osservavo attraverso la tacca di mira della mitragliatrice e mi apparivano piccoli, deformati dalle ombre del tramonto. D'un tratto si accorsero di noi. In preda al panico stavano per fuggire, schiacciai il grilletto. Altri spararono con me: vidi un motociclista cadere nel fango e l'altro alzare le mani e venirci incontro, quasi correndo.
La nostra resistenza aveva sorpreso lo stato maggiore fascista: ci sapevano in pochi e male armati, sprovvisti di pezzi anticarro e senza rinforzi. Nella notte prepararono il grande attacco. Noi aspettavamo l'alba sotto la pioggia ininterrotta, immersi nel fango, stanchi, infreddoliti, affamati. Verso le due arrivò, inaspettato, il rancio. Non ricordo di aver mai mangiato una minestra gustosa come quella, né bevuto un vino più caldo e generoso. Ci sembrò di rinascere. Qualcuno riuscì perfino a dormire, nonostante la sferza dell'acqua.
L'alba. Gli occhi fissi sulla strada di Brihuega. Le prime luci nebbiose del giorno muovevano mille ombre che ci facevano sussultare. I fascisti vennero più tardi, quando era giorno. Si fecero annunciare da dieci tank Fiat, seguiti dalle fanterie. Dalla corazza del primo lampeggiavano le mitragliere. Non era cambiato nulla: ora i tank erano dieci e i fascisti migliaia. Neppure noi cambiammo nulla: li lasciammo avvicinare fino a duecento metri, poi aprimmo il fuoco. Ancora una volta il primo tank sussultò, rallentò la marcia, tentò di riprenderla, prese fuoco e arse come una torcia. Dalle nostre trincee di fango balzarono gli uomini della squadra d'assalto armati di bombe a mano; corsero allo scoperto per cento, centocinquanta metri, si acquattarono dietro a un muretto; tornarono ad avanzare e investirono il secondo tank con le bombe. Gli altri carri invertirono la marcia seguiti dalle fanterie. Più tardi ritornarono all'assalto e di nuovo vennero respinti.
Anche oggi, come ieri, ci fu una sorpresa: sulla strada deserta, avanzava veloce una "balilla." Sembrava una scena irreale, la piccola automobile correva tranquillamente sul campo di battaglia. Uno stratagemma? Ad evitare guai il compagno Tomat, comandante del distaccamento, ordinò di sparare alle gomme. Quando la "balilla" fu a cinquanta metri, una breve raffica di mitragliatrice ne sfasciò i pneumatici facendola sbandare; ma l'autista doveva essere in gamba perché riuscì a riportarla al centro della carreggiata e a fermarsi, a ridosso delle nostre linee. Dalla vettura scesero un sergente e due soldati che si arresero.
Trascorremmo alcune ore a vuotare l'acqua dalle buche con la gavetta. Ma il nostro settore era desti-nato a ricevere visite. Prima dell'alba del 12 arrivarono all'improvviso sulla strada di Brihuega due grossi camion. Detti l'allarme e gli uomini della seconda compagnia puntarono le armi: Tomat e Rossetti8 ordinarono di non sparare. I due camion continuavano ad avvicinarsi. Pareva incredibile che non fossero preceduti da una staffetta. "Gli hanno promesso una passeggiata a Madrid," esclamò Faleschini, "vorranno godersi il panorama." I camion arrivarono a cinquanta metri. Sparai una raffica, mirando alle gomme. Sbandarono e si arrestarono ,a poche decine di metri dalla trincea. Dagli automezzi scesero alcuni fascisti e si guardarono attorno. Noi restammo nascosti ad osservarli. Uno di loro risali sul primo camion e tentò di innestare la marcia. Gridammo: "Arrendetevi." Alcuni alzarono subito le mani, altri tentarono di fuggire. "Uccidiamoli questi figli di puttana," gridò un garibaldino.
"No, sparate in aria!" ordinò Malozzi, il rappresentante del partito nella compagnia. I fascisti si arresero. Se son tutti vivi lo dovettero a Malozzi, il lungo e magro Malozzi che nonostante il Tribunale Speciale volle rammentarci che non facevamo la guerra al popolo italiano, ma al fascismo che lo aveva ingannato e continuava ad ingannarlo.
Sugli autocarri trovammo rifornimenti e viveri per un reggimento. Restava un mistero. Perché camion e macchine continuavano ad arrivare fino alle nostre linee? Quale la spiegazione? Brihuega giace in fondo alla vallata di Tayna; la strada da Tayna sale per stretti tornanti fino al pianoro, teatro di battaglia e fila dritta e invitante fino a Guadalajara, lasciando sulla destra una strada secondaria che conduceva alle linee fasciste. Era facile sbagliare e gli autisti, dopo la lunga salita, infilavano la strada di Brihuega cadendo nelle nostre mani.
Ci vollero ore di lavoro per svuotare i cassoni dei camion. Oltre ai viveri di ogni genere, trovammo opuscoli e giornali; copie del Popolo d'Italia dell'8 marzo 1937, in cui si esaltava l'apporto italiano alla guerra contro la Spagna repubblicana.
Rancio straordinario, con carne in scatola, vino e sigarette. A mezzogiorno ero di guardia alla mitragliatrice. Avevamo tutti gli occhi fissi sulla strada, in attesa. Altri due autocarri vennero avanti, adagio. Il bosco in cui i fascisti ci credevano trincerati si stendeva dietro di noi, a trecento metri. I camion avanzavano con estrema prudenza sino a raggiungere gli altri due immobilizzati in mezzo alla strada. I fascisti scesero: uno accese una sigaretta. Dopo una discussione fra loro prepararono una catena per agganciare i paraurti di uno dei veicoli rovesciati.
Malozzi gridò col suo accento romanesco: "Arrendetevi." Qualche fascista si gettò a terra, altri tentarono la fuga. Sparammo alcune raffiche. Vennero verso di noi con le braccia alzate, supplicando di non fucilarli. Evidentemente avevano buone ragioni per temerlo. Solo il giorno prima Barontini ci aveva raccontato di quattro garibaldini caduti prigionieri dei franchisti e uccisi.
Si stava facendo buio. La pioggia si era trasformata in neve fitta, insistente. Sulle nostre teste passava uno stormo di aeroplani nemici. Andavano a bombardare Madrid. In due giorni e due notti di combattimenti, pochi di noi avevano dormito qualche ora, io non avevo chiuso occhio. Faleschini insisteva perché mi riposassi. Mi trascinai sotto il telo che copriva la mitragliatrice e di colpo dimenticai tutto. Mi svegliai coperto di neve, qualcuno stava dicendo che nelle prime linee era arrivato il compagno Gallo, commissario delle Brigate Internazionali.
L'alba del 13 marzo si annunciò con un gelido vento che soffiava da nord e spazzava l'altipiano, infuriando fra gli alberi del bosco. Ci acquattammo nelle buche. Il fango si era indurito formando sul fondo dei nostri ripari una crosta ineguale. Al primo chiarore iniziò un violentissimo fuoco di artiglieria. Gli shrapnells, impiegati senza economia, scoppiavano sopra di noi lasciando cadere una pioggia di schegge.
Con l'artiglieria sparavano, sia pure da lontano, le mitragliatrici. Sentimmo arrivare gli obici miagolando e udimmo il tonfo sordo dell'esplosione contro la terra dura, dietro le nostre spalle. Alcuni compagni assicuravano che un buon numero di proiettili era stato sabotato dagli operai antifascisti nelle fabbriche del nord Italia.
Il commissario Rossetti arrivò di corsa e si buttò nella mia buca: "Attenti," disse, "stanno attaccando con piccole pattuglie la zona della quarta e della quinta compagnia. Vogliono saggiare le nostre forze per poi sferrare l'attacco."
Uscí dalla buca correndo, tutto chinato e saltò in un'altra. Io sparavo di tanto in tanto qualche raffica. Il nemico non si era ancora fatto vivo. Mezz'ora dopo tornò Rossetti con altre notizie. "Tra poco ci siamo. Stanno attaccando la prima compagnia per aprire una breccia sulla nostra sinistra e circondare il battaglione."
I collegamenti erano incerti: la linea telefonica con il comando era continuamente interrotta dalle bombe, e nonostante lo sforzo dei nostri genieri impegnati a ripararla. Toccò ai portaordini. Ogni ora Piero Romaz zini, "il piccolo" veterano del fronte di Irun, il valoroso combattente della "Gastone Sozzi" percorreva due volte i cinquecento metri che separavano la prima linea dal comando di battaglione su un terreno continuamente martellato dall'artiglieria nemica.
Il cannoneggiamento continuò per l'intera mattinata; poi si attenuò nel pomeriggio fino a cessare. Anche le mitraglie tacevano. Il nemico, credendo di avere annientato ogni dispositivo di difesa, attaccò. Sulla stra da apparvero d'improvviso sette tank. Li guardai avanzare e osservai il mio orologio: erano le 15. Tutta la seconda compagnia era nelle buche. Quando furono a cento metri le nostre mitragliatrici cominciarono a sparare grappoli di proiettili perforanti. Poi tacquero e nel silenzio si udì fortissimo il canto di "Bandiera rossa." Mi girai sulla destra e vidi correre in avanti, cantando, gli uomini della squadra d'assalto. I tank aprirono il fuoco con le mitragliatrici, gli uomini si buttavano a terra, si rialzavano, correvano avanti, si rituffavano al suolo.
Ad ogni balzo sentivo le parole di "Bandiera rossa." La squadra fu addosso ai primi carri: due sussultarono con i cingoli spezzati girando su se stessi come impazziti; quattro fuggirono, uno avanzò da solo sparando raffiche su raffiche. Poi cessò il fuoco e proseguì la strada senza sparare. Gli uomini della squadra d'assalto Io inseguivano per farlo saltare quando qualcuno gridò: "Lasciatelo passare, si arrende!"
Il carro avanzò rapido a pochi metri da me e scomparve in direzione del comando. Soltanto più tardi si seppe che il carrista non si era arreso, si era avvicinato al comando, aveva tirato qualche colpo ferendo due garibaldini e fuggendo per una strada secondaria.
Il nemico sospese l'attacco. Non avemmo morti. Ci parve incredibile dopo mezza giornata di fuoco continuo e l'assalto dei tank. Quando venne buio arrivò finalmente il rancio: una minestra calda e una pagnotta. La notte trascorse tranquilla. Il mattino del 14 un tremendo fuoco di fucileria e di armi automatiche, a un chilometro di distanza, ci annunciò che la quarta e la quinta compagnia erano andate all'assalto del castello di Ibarra, occupato da un battaglione di "Lupi di Toscana" infiltratosi il giorno precedente alla nostra sinistra.
Il castello di Ibarra, nel folto di un bosco, era attorniato da case rustiche, depositi, stalle e protetto da uno spesso muro di cinta alto due metri. L'assalto iniziò alle 11 precise: le due compagnie di garibaldini appoggiate dal battaglione franco-belga della dodicesima brigata, attaccarono di fronte e di lato. Il fuoco dei cannoncini e delle mitragliatrici di cinque carri, copri l'avanzata ai nostri uomini. I fascisti abbandonarono le postazioni del bosco e si ritirarono nel recinto del palazzo col grosso delle forze. I garibaldini, al riparo dei muri di cinta, iniziarono una nutrita sparatoria contro le finestre, le porte, i depositi le stalle.
I "Lupi" tentavano di rompere l'accerchiamento facendo avanzare due cannoncini, ma i suoi serventi furono sopraffatti. Una sortita sul retro del castello venne sventata da un gruppo di garibaldini. Poco prima delle tre del pomeriggio la torre della villa crollò sotto i colpi d'artiglieria. Sui muri si aprirono ampie brecce e il nemico rispose al fuoco con qualche colpo isolato. Prima di ordinare l'assalto finale, Brignoli fece sospendere il fuoco e gridò ai fascisti di arrendersi assicurando che avrebbero avuta salva la vita. Non ci fu risposta. Un guastatore spagnolo si avvicinò allora con un pacco di tritolo all'edificio principale, ne accese la miccia e si riparò. Uno scoppio spaventoso fece crollare i muri, schiantò le travi, sfondò il tetto. Il comandante belga Gelissen, trascinò avanti i suoi passando da edificio a edificio. I nostri scorsero i fascisti raggruppati in un angolo del cortile e non spararono. Brignoli intimò di nuovo ai fascisti di arrendersi. Un ufficiale gli rispose enfaticamente di deporre la rivoltella. Un altro lanciò una bomba a mano colpendo in pieno Nunzio Guerrino, vice comandante di compagnia.
I nostri stavano per sparare nel mucchio. Fu ancora Brignoli a intervenire, ripetendo l'invito alla resa per evitare il massacro. Stavolta i fascisti buttarono le armi. Il castello di Ibarra fu nostro e il pericoloso cuneo nemico alle spalle del battaglione Garibaldi fu eliminato.

L'offensiva scatenata qualche giorno prima con largo impiego di divisioni fresche affluite nella notte, si infranse sulle nostre posizioni. Un nuovo attacco fascista non poteva essere imminente, subordinato come era all'arrivo di nuovi rinforzi. I giorni seguenti il nostro comando ne ebbe conferma dall'interrogatorio dei prigionieri.
Era arrivato il momento propizio dunque di sferrare l'offensiva per allentare la pressione su Guadalajara, sventare la minaccia contro Madrid e scardinare il dispositivo avversario.
Se ne parlò con sempre maggior insistenza. Il nostro battaglione dovette impegnare inizialmente le forze fasciste del settore. La rottura dello schieramento nemico e lo sfruttamento del successo sarebbero stati operati da reparti regolari spagnoli, appoggiati da carri armati. I posti avanzati e le immediate retrovie dei franchisti sarebbero stati sottoposti ad un intenso fuoco di interdizione. Subito dopo il nostro impiego sarebbero scattati i carri armati e le fanterie. Le Brigate Internazionali di rincalzo avrebbero rastrellato il terreno per eliminare i focolai di resistenza.
La sera del 17 circolò la voce che il commissario delle Brigate Internazionali, Gallo (Luigi Longo) fosse a Madrid per stabilire con il comando generale gli ultimi particolari del piano di attacco. Si diceva che Gallo avesse già avuto incontri con Lister e Modesto, comandante del quinto reggimento, destinato ad operare lo sfondamento. Il 18 marzo ci tenemmo pronti. L'intera mattina trascorse calma. Dalle retrovie affluirono indisturbati mezzi blindati e reparti spagnoli. In cielo, di tanto in tanto, appariva qualche aereo. Alle 14 una salva di granata fischiò sopra le nostre teste seguita da cupi rombi, da un continuo tambureggiare di esplosioni. Sessanta cannoni spararono per 40 minuti. Quando tacquero, comparvero i nostri aerei che passavano a ondate successive. Li vedemmo lasciar cadere grappoli di bombe sul nemico. Alle 15 uscirono dal bosco i carri armati, ci sorpassarono e avanzarono sparando, tallonati dalla fanteria. I fascisti arretrarono.

Le prime staffette ci informarono che il nemico era in rotta e che i nostri carri armati non potevano inseguirli fuori dalle strade per non impantanarsi nella campagna.
I reparti spagnoli avanzarono rapidamente, noi li inseguimmo. Le nostre avanguardie penetrarono nello schieramento fascista minacciandone i fianchi e le spalle.
Terribile giornata. L'offensiva del 18 marzo si concluse a sera. Raccogliemmo centinaia di prigionieri spauriti; molti, costretti ad alzare le mani davanti alle armi spianate, piangevano.
Dalle alture ci apparve in tutto il suo sconvolgimento il teatro di battaglia: nei fossati lungo la strada c'erano fascisti feriti, moribondi, i prati erano disseminati di cadaveri, armi, zaini, cassette di munizioni giacevano sparpagliate tutt'attorno. Mentre gli infermieri si fermavano a raccogliere i feriti, noi continuammo a scendere verso il paese che scorgevamo in basso, sotto di noi.

Note

7 Picelli: deputato comunista, fu organizzatore della resistenza armata antifascista dei popolani dell'Oltre Torrente a Parma.
8 Adriano Rossetti nato a Mongrando il 13 ottobre 1894, di professione muratore, fu tra i fondatori del P.C. nel Biellese, emigrato in Francia, nel '36 fu tra i primi ad accorrere ín Spagna, commissario politico della seconda compagnia del Battaglione Garibaldi, ferito, fu citato all'ordine del giorno per il suo coraggioso comportamento alla battaglia di Guadalajara.