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DISCORSO AGLI ALLIEVI DELLE SCUOLE SUPERIORI DELL’ESERCITO ROSSO

 



(maggio 1935)

Compagni, i grandi successi ottenuti in questi ultimi tempi nella costruzione e nella direzione dell’economia socialista sono innegabili. Ma quando si parla di queste realizzazioni troppi meriti sono attribuiti ai dirigenti e ai capi. Evidentemente ciò è falso e inesatto. Non si tratta soltanto di capi e d'altronde non è di questo che vorrei oggi parlare. Voglio parlarvi ora dei quadri: dei nostri quadri in generale dei quadri dell'esercito rosso in particolare.
Voi sapete che abbiamo ereditato dal passato un paese arretrato dal punto di vista tecnico e mezzo rovinato; rovinato da quattro anni di guerra imperialistica e maggiormente rovinato da tre anni di guerra civile: un paese con una popolazione semi-analfabeta, una debole attrezzatura tecnica, e qualche centro industriale sperduto in mezzo a un oceano di primitive colture agricole. Dovevamo trasformare questo paese a struttura economica medioevale in un paese industriale moderno con agricoltura meccanizzata. Il problema si poneva sotto questo duplice aspetto: o noi avremmo assolto questo compito nel più breve tempo, ponendo solide basi per la costruzione del socialismo, o non l'avremmo assolto e il nostro paese tecnicamente debole e culturalmente arretrato, avrebbe perso la sua indipendenza, diventando un giocattolo nelle mani delle potenze imperialistiche.
Il nostro paese attraversava allora un periodo terribile per la penuria dei mezzi tecnici. Mancavano le macchine per l’industria e l'agricoltura, non v’erano mezzi di trasporto. Quella base tecnica elementare senza la quale è inconcepibile la trasformazione industriale di un paese, mancava: esisteva solo qualche premessa per la sua realizzazione. Bisognava creare un'industria di prim’ordine, che organizzasse non solo l’industria, ma anche i mezzi di trasporto. Per questo bisognava imporsi sacrifici e realizzare in ogni campo la più stretta economia: bisognava risparmiare sull'alimentazione, sui tessuti, per accumulare i fondi necessari per creare la nostra industria. Nessuna altra via c’era per alleviare la penuria di mezzi tecnici. Questo ce lo ha insegnato Lenin e in questo campo abbiamo seguito le sue tracce.
Si comprende che in una impresa tanto grande e difficile non dovevamo aspettarci successi rapidi e continui. I successi in un'opera simile non si rilevano che nel corso di qualche anno. Bisognava quindi armarsi di nervi solidi, di fermezza bolscevica e di una tenace pazienza per non lasciarsi abbattere dai primi insuccessi e per marciare senza diversioni per il grande scopo, non tollerando né esitazioni, né incertezze nei nostri ranghi.
Voi sapete che noi abbiamo agito proprio così. Ma non tutti i nostri compagni hanno avuto nervi abbastanza solidi, pazienza e fermezza. Alcuni, alle prime difficoltà, hanno preteso di ritornare indietro. Ci si potrebbe chiedere con ragione perché rinvangare il passato? Ma l'uomo è dotato di memoria e, involontariamente, noi ricordiamo il passato mentre redigiamo il bilancio del nostro lavoro.
Ecco: c'erano tra noi compagni che hanno avuto paura delle difficoltà, che si sono messi a esortare il Partito a battere in ritirata. E dicevano: a che serve la vostra industrializzazione e la vostra collettivizzazione, a che servono le macchine, la siderurgia, i trattori, le mietitrici, le trebbiatrici, le automobili? Sarebbe meglio dare un po' più di tessuti, comperare un po’ più di materie prime per fabbricare articoli di grande consumo e distribuire alla popolazione una maggiore quantità di quelle piccole cose che abbelliscono la vita quotidiana degli uomini. La creazione di un'industria date le nostre condizioni arretrate, e di un'industria di prim’ordine per di più, è un sogno pericoloso.
Naturalmente avremmo potuto adoperare i tre miliardi di rubli di divisa estera, ottenuti con la più stretta economia e spesi per la creazione della nuova industria, e importare materie prime ed aumentare la produzione degli articoli di grande consumo. E’ anche questo un “piano” nel suo genere. Ma con un piano simile noi non avremmo né metallurgia, né costruzioni meccaniche, né trattori, né automobili, né aeroplani, né carri armati e ci saremmo trovati disarmati davanti ai nemici esterni, avremmo distrutto le basi del socialismo nel nostro paese e saremmo stati prigionieri della borghesia di dentro e di fuori.
Certo bisognava scegliere tra due piani: tra il piano che ci poneva in un posizione di ritirata e portava inevitabilmente alla disfatta del socialismo e quello che ci poneva in una posizione di offensiva e che, come voi sapete, ha già portato alla vittoria del socialismo nel nostro paese. Noi abbiamo scelto un piano di offensiva e abbiamo risolutamente marciato in avanti sulla strada leninista, scacciando questi compagni come uomini che chiudevano gli occhi sull'avvenire più vicino, sull'avvento del socialismo nel nostro paese.
Ma questi compagni non si limitavano alla critica e alla resistenza passiva: essi ci minacciavano non solo di sollevare una insurrezione in seno al Partito, contro il Comitato Centrale, ma anche di prendere a rivoltellate alcuni di noi.
A quanto pare si proponevano di intimidirci e di obbligarci a deviare dal cammino leninista. Si vede che questa gente aveva dimenticato che noi bolscevichi siamo gente di tempra speciale, che i bolscevichi non si lasciano intimidire né dalle minacce, né dalle difficoltà, che noi siamo stati forgiati dal grande Lenin, il nostro capo, il nostro maestro, il nostro padre, che nella lotta ignorava la paura e non l'ammetteva. Avevano dimenticato che quanto più i nemici si scatenano, quanto più aumentano le manifestazioni isteriche degli avversari nell'interno del Partito, tanto più i bolscevichi si ritemprano per la nuova lotta e più impetuosa diventa la loro marcia in avanti. Si capisce che non ci siamo neppure sognati di deviare dalla via leninista: che anzi, una volta intrapresa questa via, noi siamo proseguiti sul cammino con slancio più grande spezzando tutti gli ostacoli. E’ vero che per via fummo costretti a rompere le costole a qualcuno dei nostri compagni. Ma non è colpa nostra: e personalmente debbo confessare di avere anch'io adoperate le mani.
Sì compagni, abbiamo camminato con passo fermo e senza tentennamenti sulla strada della nostra collettivizzazione e dell’industrializzazione del nostro paese. Ora tutti riconoscono che abbiamo ottenuto in questo campo successi immensi, che la nostra è un’industria di prim'ordine, che l'agricoltura è potente e meccanizzata, che i trasporti si sviluppano seguendo la curva ascendente, che l’Esercito Rosso è organizzato e perfettamente equipaggiato. Questo significa che noi abbiamo già superato la penuria dei mezzi tecnici essenziali. Ma, oltrepassato questo periodo, entriamo in quello nuovo che chiamerei il periodo in cui si manifesta la penuria di uomini, di quadri, di lavoratori che sappiano dominare la tecnica e farla progredire. Difatti noi abbiamo fabbriche, officine, colcos, sovcos, un esercito, una tecnica adatta alle nuove esigenze, ma manchiamo di uomini provvisti di quella esperienza che è necessaria per sfruttare al massimo la tecnica stessa. Una volta dicevano che “la tecnica decide tutto”: questa parola d’ordine ci ha aiutato a liquidare la deficienza di mezzi tecnici in ogni industria e a dare ai nostri uomini la capacità di conoscere e sfruttare la tecnica. Questo è bene, ma è lungi, ben lungi, dal bastare. Per mettere in movimento la tecnica e per sfruttarla a fondo abbiamo bisogno di uomini che la posseggano, di quadri che sappiano assimilarla e utilizzarla secondo tutte le regole d'arte. La tecnica senza gli uomini che sappiano dominarla, è cosa morta: dominata invece dagli uomini può e deve fare dei miracoli.
Il nostro paese otterrebbe risultati tre o quattro volte più grandi di quelli fin qui ottenuti se nelle officine, nelle fabbriche più importanti, nei colcos, nell'Esercito Rosso, ci fossero in numero sufficiente uomini capaci di dominare la tecnica. Ecco perché noi dobbiamo con tutta la forza dedicarci agli uomini, ai quadri, ai lavoratori che ormai conoscono a fondo la tecnica. Ecco perché la vecchia parola d'ordine “la tecnica decide tutto” che ricorda un’epoca superata, deve essere sostituita dall'altra “i quadri decidono tutto”. Questo è, oggi, l'essenziale. Possiamo dire che da noi gli uomini abbiano compreso l’importanza di questa nuova parola d'ordine, che se ne siano resi completamente conto? Io non lo dirò: se fosse così non avremmo quell'atteggiamento scandaloso che osserviamo spesso in pratica verso gli uomini, i quadri, i lavoratori. La parola d'ordine “i quadri decidono tutto” esige che i nostri dirigenti si interessino con sollecitudine dei nostri lavoratori “piccoli” e “grandi”, qualunque sia il genere di lavoro cui questi si dedicano; esige che essi li educhino con attenzione, li aiutino quando hanno bisogno di appoggio, li incoraggino quando ottengono i primi successi, affidino loro posti nuovi e più importanti. Ma invece noi constatiamo nella pratica, in un gran numero di casi, esempi di burocratismo, di mancanza di cuore, e per dirla più breve, di atteggiamenti scandalosi nei riguardi dei lavoratori. E per essere precisi questo spiega perché, invece di imparare a conoscere gli uomini per potere, solo dopo, affidare loro dei posti, essi vengono molto spesso gettati qua e là come fossero pedine senza importanza. Abbiamo imparato ad apprezzare le macchine e a redigere rapporti sull'andamento delle nostre officine e fabbriche, ma non conosco un solo esempio di rapporto, redatto con eguale buona volontà, sul numero di uomini che noi abbiamo formato in un determinato periodo e sul modo in cui noi li abbiamo aiutati a svilupparsi e a ritemprarsi nel lavoro. Da che cosa dipende ciò? Dal fatto che non abbiamo ancora imparato a valutare giustamente gli uomini, i lavoratori, i quadri.
Ricordo un fatto avvenuto in Siberia durante la mia deportazione. Era primavera: una trentina di uomini erano andati al fiume per ripescare la legna travolta dalla furia scatenata delle acque. La sera tornarono al villaggio senza uno di loro. Alla mia domanda dove fosse il trentesimo risposero con aria indifferente che era rimasto laggiù. Ed a me che nuovamente chiedevo come fosse rimasto laggiù, mi si rispose con la stessa indifferenza: “Perché continuare a fare domande? E’ annegato”. E subito uno di loro si affrettò a uscire dichiarando che bisognava dar da bere alla giumenta. Quando io gli rimproverai di aver più pietà delle bestie che degli uomini, uno di essi mi rispose con l’approvazione degli altri che non c'era bisogno di aver pietà degli uomini, dato che di essi possiamo fabbricarne, mentre inutilmente io mi sarei provato a fare una giumenta. Se questo fatto non è molto importante è però caratteristico.
Mi pare che l'indifferenza manifestata da certi nostri dirigenti verso gli uomini e i quadri e la loro incapacità a dare importanza agli uomini, siano un residuo di questo strano atteggiamento dell'umanità verso i propri simili, che è messo in evidenza dall'episodio che vi ho raccontato della lontana Siberia.
Così, dunque, compagni, per poter superare con successo la penuria di uomini e far sì che il nostro paese possieda quadri che bastino e che siano capaci di mettere in azione e far progredire la tecnica, dobbiamo prima di tutto pensare agli uomini, dare il giusto valore ai quadri e ad ogni lavoratore capace di essere utile alla nostra opera comune. E’ infine ora di capire che tra i capitali preziosi del mondo, gli uomini, i quadri, che tutto decidono, costituiscono il capitale più prezioso. Bisogna comprendere che da noi, oggi, nelle attuali condizioni “i quadri decidono tutto”. Se avremo quadri buoni e numerosi nell'industria, nell'agricoltura, nei trasporti, nell'esercito, il nostro paese sarà invincibile: senza questi quadri andremo avanti zoppicando. La scuola è un grado preparatorio della formazione dei quadri: ma la vera formazione dei quadri si fa nel lavoro vivo, al di fuori della scuola, nella lotta contro le difficoltà. Ricordiamo, compagni, che solo valgono i quadri che non temono e non sfuggono le difficoltà, ma che le affrontano per superarle e liquidarle: solo in una tale lotta si forgiano i nuovi quadri. E il nostro esercito sarà invincibile se possederà quadri sufficientemente agguerriti.

Tratto dall'opuscolo "Stalin - L'uomo il capitale più prezioso", Società Editrice l'Unità, Roma, 1945