Biblioteca Multimediale Marxista
Ringraziamo www.resistenze.org e le Edizioni La Città del Sole per aver messo a disposizione il seguente testo tratto da:
Stalin - Opere scelte Vol. 1- Laboratorio Politico
Il periodo della controrivoluzione ha portato in Russia non 
    soltanto «tuoni e fulmini», ma anche delusione nel movimento, 
    sfiducia nelle forze comuni. Si era creduto in un «avvenire luminoso» 
    e tutti avevano lottato uniti, senza tener conto della nazionalità: 
    le questioni comuni innanzitutto! Poi si insinuò negli animi il dubbio 
    e la gente incominciò a dividersi in scompartimenti nazionali: ognuno 
    conti solo su di sé! La «questione nazionale» innanzitutto!
    Al tempo stesso, si produceva un importante rivolgimento nella vita economica 
    del paese. Il 1905 non era passato invano: le sopravvivenze del regime feudale 
    nelle campagne ricevettero un altro colpo. Una serie di buoni raccolti dopo 
    la carestia e l’ascesa industriale che seguì diedero nuovo impulso 
    al capitalismo. La differenziazione nelle campagne e l’incremento delle 
    città, lo sviluppo del commercio e delle vie di comunicazione fecero 
    un grande passo avanti. Ciò è particolarmente vero per le regioni 
    periferiche. Ma tutto questo non poteva non accelerare il processo di consolidamento 
    economico delle nazionalità della Russia. Queste ultime dovevano mettersi 
    in movimento...
    Il «regime costituzionale», instaurato in quel periodo, agiva 
    nello stesso senso, favorendo il risveglio delle nazionalità. Lo sviluppo 
    dei giornali e in generale dell’attività editoriale, una certa 
    libertà di stampa e di organizzazione culturale, lo sviluppo dei teatri 
    popolari, ecc., contribuirono senza dubbio al rafforzamento dei «sentimenti 
    nazionali». La Duma (1), con la sua campagna elettorale e con i suoi 
    gruppi politici, offrì nuove possibilità al rianimarsi delle 
    singole nazioni, una nuova e vasta arena per la loro mobilitazione.
    E l’ondata di nazionalismo bellicoso che si scatenò dall’alto 
    e tutta una serie di azioni repressive da parte dei «detentori del potere», 
    che facevano scontare alle regioni periferiche il loro «amore per la 
    libertà», scatenarono una contro-ondata di nazionalismo dal basso, 
    che talora si trasformava in grossolano sciovinismo. Il rafforzarsi del sionismo 
    tra gli ebrei, lo svilupparsi dello sciovinismo in Polonia, del panislamismo 
    fra i tartari, il rafforzarsi del nazionalismo tra gli armeni, i georgiani, 
    gli ucraini, la generale propensione della gente comune per l’antisemitismo, 
    tutti questi sono fatti di dominio pubblico.
    L’ondata di nazionalismo avanzava con forza crescente, minacciando di 
    travolgere le masse operaie. E quanto più si affievoliva il movimento 
    di liberazione, tanto più rigogliosi sbocciavano i fiori del nazionalismo.
    In quel momento difficile un alto compito incombeva alla socialdemocrazia: 
    far fronte al nazionalismo, preservare le masse dall’«epidemia» 
    generale. Infatti la socialdemocrazia, e solamente essa, poteva far questo, 
    opponendo al nazionalismo l’arma provata dell’internazionalismo, 
    l’unità e l’indivisibilità della lotta di classe. 
    E quanto più impetuosamente avanzava l’ondata del nazionalismo, 
    tanto più forte avrebbe dovuto risuonare la voce della socialdemocrazia 
    per la fratellanza e l’unità dei proletari di tutte le nazionalità 
    della Russia. Occorreva perciò una particolare fermezza nei socialdemocratici 
    delle regioni periferiche, che si urtavano direttamente con il movimento nazionalista.
    Ma non tutti i socialdemocratici si dimostrarono all’altezza del compito 
    e meno degli altri i socialdemocratici delle regioni periferiche. Il Bund 
    (2), che prima sottolineava i problemi generali, ha cominciato ora a mettere 
    in primo piano i suoi scopi particolari, puramente nazionalistici: ed è 
    andato tanto oltre da proclamare la «celebrazione del sabato» 
    e il «riconoscimento del gergo» punti principali della sua campagna 
    elettorale. Al Bund ha tenuto dietro il Caucaso: una parte dei socialdemocratici 
    del Caucaso, che prima avevano respinto, insieme ai restanti socialdemocratici 
    del Caucaso, l’«autonomia culturale nazionale», ora la pongono 
    come una rivendicazione attuale. Non parliamo neppure della conferenza dei 
    liquidatori (3), che, in maniera diplomatica, ha sancito i tentennamenti nazionalistici.
    Ma da questo risulta che le vedute della socialdemocrazia russa sulla questione 
    nazionale non sono ancora chiare per tutti i socialdemocratici.
    È necessario, evidentemente, un esame serio e completo della questione 
    nazionale. È necessario un lavoro concorde ed instancabile dei socialdemocratici 
    conseguenti per dissipare le nebbie del nazionalismo, da qualunque parte provengano.
    I. La nazione
Che cos’è la nazione?
    La nazione è, innanzitutto, una comunità, una determinata comunità 
    di persone.
    È una comunità non di razza nè di stirpe. L’attuale 
    nazione italiana è stata formata da romani, germani, etruschi, greci, 
    arabi, ecc. La nazione francese è stata costituita da galli, romani, 
    britanni, germani, ecc. Lo stesso va detto degli inglesi, dei tedeschi e degli 
    altri popoli, che si sono costituiti in nazioni con genti di diverse razze 
    e stirpi.
    La nazione non è dunque una comunità di razza nè di stirpe, 
    ma una comunità di persone, formatasi storicamente.
    D’altra parte, non c’è dubbio che i grandi stati di Ciro 
    o di Alessandro non possono esser chiamati nazioni, sebbene si siano formati 
    anch’essi storicamente, si siano formati con stirpi e razze diverse. 
    Non erano nazioni, ma conglomerati casuali e debolmente legati di gruppi che 
    si disgregavano o si costituivano secondo i successi o le sconfitte di questo 
    o quel conquistatore.
    La nazione non è dunque un conglomerato casuale nè effimero, 
    ma una stabile comunità di persone.
    Ma non ogni comunità stabile costituisce una nazione. L’Austria 
    e la Russia sono anch’esse comunità stabili, tuttavia nessuno 
    le chiama nazioni. In che cosa si differenzia una comunità nazionale 
    da una comunità statale? Fra l’altro in questo, che una comunità 
    nazionale non è concepibile senza lingua comune, mentre per una comunità 
    statale la lingua comune non è indispensabile. La nazione ceca in Austria 
    e quella polacca in Russia non sarebbero possibili se ciascuna di esse non 
    avesse una lingua comune, mentre all’integrità della Russia e 
    dell’Austria non fa ostacolo l’esistenza, nel loro seno, di tutta 
    una serie di lingue. Mi riferisco, naturalmente, alle lingue popolari parlate, 
    e non a quelle ufficiali della burocrazia.
    La lingua comune è dunque uno dei tratti caratteristici della nazione.
    Questo non vuol certo dire che nazioni diverse parlino sempre e dovunque lingue 
    diverse o che tutti coloro che parlano una stessa lingua costituiscano necessariamente 
    una sola nazione. Una lingua comune per ogni nazione, ma non necessariamente 
    lingue diverse per nazioni diverse! Non c’è nazione in cui si 
    parlino nello stesso tempo lingue diverse, ma questo non vuol dire però 
    che non vi possano essere due nazioni che parlino la stessa lingua! Gli inglesi 
    e i nordamericani parlano la stessa lingua, e tuttavia non costituiscono una 
    sola nazione. Lo stesso si deve dire dei norvegesi e dei danesi, degli inglesi 
    e degli irlandesi.
    Ma perché, per esempio, gli inglesi e i nordamericani non costituiscono 
    una nazione, nonostante la lingua comune?
    Prima di tutto perché non vivono insieme, ma in territori diversi. 
    La nazione si forma soltanto come risultato di rapporti prolungati e regolari, 
    come risultato di una vita comune di generazione in generazione. Ma una lunga 
    vita in comune non è possibile se non su un territorio comune. Gli 
    inglesi e gli americani prima abitavano un solo territorio, l’Inghilterra, 
    e costituivano una sola nazione. Poi, una parte degli inglesi si trasferì 
    dall’Inghilterra in un nuovo territorio, in America, e lì, sul 
    nuovo territorio, col passar del tempo, costituì la nuova nazione dell’America 
    del Nord. Territori diversi hanno condotto alla formazione di nazioni diverse.
    Il territorio comune è dunque uno dei tratti caratteristici della nazione.
    Ma non basta. Il territorio comune, di per sé, non dà ancora 
    la nazione. Occorre, inoltre, un vincolo economico interno che saldi le singole 
    parti della nazione in un tutto unico. Tra l’Inghilterra e l’America 
    del Nord non c’è un tale vincolo e perciò esse costituiscono 
    due nazioni diverse. Ma anche gli stessi nordamericani non meriterebbero il 
    nome di nazione, se le diverse parti dell’America del Nord non fossero 
    legate fra loro in un tutto economico, grazie alla divisione del lavoro tra 
    loro, allo sviluppo delle vie di comunicazione, ecc.
    Prendiamo, per esempio, i georgiani. I georgiani prima della riforma vivevano 
    su un territorio comune e parlavano la stessa lingua, eppure non costituivano, 
    a rigor di termini, una sola nazione, perché, divisi in tutta una serie 
    di principati staccati l’uno dall’altro, non potevano vivere una 
    vita economica comune, da secoli si facevano la guerra e si danneggiavano 
    reciprocamente, aizzando gli uni contro gli altri persiani e turchi. L’unione 
    effimera e casuale di principati, che talvolta qualche re fortunato riusciva 
    a realizzare, nel migliore dei casi si limitava al lato amministrativo superficiale 
    e si rompeva ben presto per il capriccio dei principi e per l’indifferenza 
    dei contadini. E non poteva essere diversamente, dato lo sminuzzamento economico 
    della Georgia... La Georgia, come nazione, è nata solo nella seconda 
    metà del secolo XIX, quando la fine della servitù della gleba 
    e lo sviluppo della vita economica del paese, lo sviluppo delle vie di comunicazione 
    e il sorgere del capitalismo introdussero una divisione del lavoro tra le 
    regioni della Georgia, scossero definitivamente la economia chiusa dei principati, 
    collegandoli in un tutto unico.
    Lo stesso si deve dire delle altre nazioni, che hanno superato lo stadio del 
    feudalesimo e nelle quali si è sviluppato il capitalismo.
    La comunanza della vita economica, la coesione economica sono dunque uno degli 
    elementi caratteristici della nazione.
    Ma neanche questo basta. Oltre a tutto ciò che si è detto, bisogna 
    prendere anche in considerazione le caratteristiche della conformazione spirituale 
    delle persone unite nella nazione. Le nazioni si distinguono l’una dall’altra 
    non solo per le loro condizioni di vita ma anche per la formazione intellettuale, 
    che si esprime nelle caratteristiche della cultura nazionale. Se l’Inghilterra, 
    gli Stati Uniti e l’Irlanda, che parlano un’unica lingua, costituiscono 
    nondimeno tre differenti nazioni, ciò è dovuto in misura non 
    indifferente alla particolare conformazione psichica che si è creata 
    in esse col succedersi delle generazioni, per effetto delle diverse condizioni 
    di esistenza.
    Certo, la conformazione psichica in sé, o, come altrimenti viene chiamata, 
    il «carattere nazionale», è per l’osservatore qualche 
    cosa di inafferrabile, ma nella misura in cui si esprime in una cultura originale, 
    comune alla nazione, è percepibile e non può essere ignorata.
    Inutile dire che il «carattere nazionale» non è qualche 
    cosa di fissato una volta per sempre, ma muta col mutare delle condizioni 
    di vita; però, in quanto esiste in ogni dato momento, imprime il suo 
    suggello alla fisionomia della nazione.
    La comune conformazione psichica, che si esprime nella cultura comune, è 
    dunque uno dei tratti caratteristici della nazione.
    In tal modo, abbiamo esaurito tutte le caratteristiche della nazione.
    La nazione è una comunità stabile, storicamente formatasi, che 
    ha la sua origine nella comunità di lingua, di territorio, di vita 
    economica e di conformazione psichica che si manifesta nella comune cultura.
    Con ciò è evidente che la nazione, come ogni altro fenomeno 
    storico, sottostà alla legge del mutamento; ha la propria storia, il 
    proprio principio e la propria fine.
    È necessario sottolineare che nessuna delle caratteristiche indicate, 
    presa isolatamente, è sufficiente a definire la nazione. Anzi, basta 
    che manchi una sola di queste caratteristiche, perché la nazione cessi 
    di essere tale.
    Si possono immaginare popolazioni che abbiano un «carattere nazionale» 
    comune, e tuttavia non si può dire che costituiscano una nazione, se 
    non sono collegate economicamente, se vivono su territori differenti, se parlano 
    lingue diverse, ecc. Tali sono, per esempio, i russi, i galiziani, gli americani, 
    i georgiani, gli ebrei del Caucaso, che non costituiscono a nostro avviso 
    un’unica nazione.
    Si possono immaginare popolazioni che abbiano un territorio comune e una comune 
    vita economica; e tuttavia esse non costituiscono una nazione se non hanno 
    lingua e «carattere nazionale» comuni. Tali sono, per esempio, 
    i tedeschi e i lettoni del Baltico.
    Infine, i norvegesi e i danesi parlano la stessa lingua, ma non costituiscono 
    una nazione, perché mancano gli altri caratteri.
    Solo se tutti i caratteri esistono congiuntamente, si ha la nazione.
    Può sembrare che il «carattere nazionale» non sia uno dei 
    caratteri ma l’unico carattere essenziale della nazione e che tutti 
    gli altri siano, propriamente, condizioni dello sviluppo della nazione, e 
    non suoi tratti caratteristici. Sostengono quest’opinione, per esempio, 
    i teorici socialdemocratici della questione nazionale ben noti in Austria, 
    R. Springer (4) e, particolarmente, O. Bauer (5).
    Esaminiamo la loro teoria della nazione.
Secondo lo Springer, «la nazione è un’unione di persone che pensano nello stesso modo e parlano nello stesso modo ». La nazione è una «comunità culturale di gruppi di contemporanei, non legata alla “terra”» (il corsivo è nostro).
È dunque un’unione di persone che pensano e 
    parlano nello stesso modo, per quanto siano separate le une dalle altre e 
    dovunque vivano.
    Il Bauer si spinge più oltre.
«Che cos’è la nazione? — domanda. — È forse la comunità di lingua che unisce le persone in una nazione? Ma gli inglesi e gli irlandesi... parlano la stessa lingua, senza costituire, tuttavia, un unico popolo; gli ebrei non hanno affatto una lingua comune, e nondimeno costituiscono una nazione».
Che cos’è dunque una nazione?
«La nazione è una relativa comunità di carattere».
Ma, in questo caso, che cos’è il carattere, il carattere nazionale?
Il carattere nazionale è «la somma dei caratteri che distinguono le persone di una nazionalità da quelle di un’altra, il complesso delle qualità fisiche e spirituali che distinguono una nazione dall’altra».
Il Bauer, naturalmente, sa che il carattere nazionale non cade dal cielo, e perciò soggiunge:
«Il carattere delle persone non è determinato da nient’altro che dal loro destino»... «la nazione non altro che la comunanza del destino», determinata, a sua volta, «dalle condizioni nelle quali le persone producono i loro mezzi di esistenza e ripartiscono i prodotti del loro lavoro».
In tal modo, siamo giunti alla definizione più «completa», come si esprime il Bauer, della nazione.
«La nazione è un insieme di persone unite da un carattere comune sulla base del comune destino».
Dunque: carattere nazionale comune sulla base del comune,destino, 
    senza un nesso necessario con la comunanza di territorio, di lingua e di vita 
    economica.
    Ma che cosa rimane in questo caso della nazione? Di quale comunità 
    nazionale si può parlare, trattandosi di persone separate economicamente 
    l’una dall’altra, che popolano territori diversi e che di generazione 
    in generazione parlano lingue diverse?
    Il Bauer parla degli ebrei come di una nazione, sebbene «non abbiano 
    affatto una lingua comune»; ma di quale «destino comune» 
    e di quale legame nazionale si può parlare, per esempio, per gli ebrei 
    georgiani, daghestani, russi e americani, che sono completamente staccati 
    gli uni dagli altri, abitano in territori diversi e parlano lingue diverse?
    Gli ebrei cui ho accennato vivono senza dubbio una vita economica e politica 
    comune con i georgiani, i daghestani, i russi e gli americani, in una atmosfera 
    culturale comune con loro; questo non può non lasciare la sua impronta 
    sul loro carattere nazionale; se qualcosa di comune è rimasto loro, 
    è la religione, la comune origine e qualche residuo del carattere nazionale. 
    Tutto questo è certo. Ma come si può sostenere seriamente che 
    dei riti religiosi fossilizzati e dei residui psicologici che vanno dileguandosi 
    influiscano sul «destino» dei suddetti ebrei più fortemente 
    del vivo ambiente economico-sociale e culturale che li circonda? Eppure solo 
    con una simile ipotesi si può parlare degli ebrei in generale come 
    di un’unica nazione.
    In che cosa si distingue allora la nazione di Bauer dallo «spirito nazionale», 
    mistico e autosufficiente degli spiritualisti?
    Il Bauer pone una barriera insormontabile fra il «tratto caratteristico» 
    della nazione (il carattere nazionale) e le «condizioni» di vita, 
    scindendo l’uno dalle altre. Ma che cos’è il carattere 
    nazionale, se non il riflesso delle condizioni di vita, se non l’essenza 
    delle impressioni ricevute dall’ambiente circostante? Come limitarci 
    al solo carattere nazionale, isolandolo e staccandolo dal terreno che lo ha 
    generato?
    E poi, in che cosa precisamente si distingueva la nazione inglese da quella 
    nordamericana alla fine del secolo XVIII e al principio del XIX, quando l’America 
    del Nord si chiamava ancora «Nuova Inghilterra»?
    Non già, certamente, nel carattere nazionale, perché i nordamericani 
    erano originari dell’Inghilterra, avevano portato con sé in America 
    oltre alla lingua inglese anche il carattere nazionale inglese e, certamente, 
    non potevano perderlo così facilmente, benché sotto l’influsso 
    di nuove condizioni, dovesse svilupparsi in loro un carattere particolare. 
    E tuttavia, nonostante la maggiore o minore comunanza di carattere, essi costituivano 
    già, allora, una nazione distinta dall’Inghilterra! Evidentemente, 
    la «Nuova Inghilterra» come nazione si distingueva allora dall’Inghilterra 
    come nazione non per un particolare carattere nazionale, o non tanto per il 
    carattere nazionale, quanto per l’ambiente, le condizioni di vita diverse 
    da quelle dell’Inghilterra.
    È quindi chiaro che in realtà non esiste un unico tratto caratteristico 
    della nazione. Esiste solo una somma di tratti caratteristici, dei quali, 
    quando si paragonino le nazioni, risalta con maggior rilievo ora l’uno 
    (il carattere nazionale), ora l’altro (la lingua), ora un terzo (il 
    territorio, le condizioni economiche). La nazione rappresenta l’incontro 
    di tutti i tratti caratteristici presi insieme.
    Il punto di vista di Bauer, che identifica la nazione col carattere nazionale, 
    distacca la nazione dalla realtà e la converte in una forza misteriosa, 
    per sé stante. Ne risulta non una nazione viva ed operante, ma un che 
    di mistico, di inafferrabile e di trascendente. Perché, ripeto, che 
    cos’è, per esempio, questa nazione ebraica, che si compone di 
    ebrei georgiani, daghestani, russi, americani e altri, questa nazione i cui 
    membri non si comprendono l’un l’altro (parlano lingue diverse), 
    vivono in diverse parti del globo, non si vedono mai tra loro, non agiscono 
    mai congiuntamente, nè in tempo di pace, nè in tempo di guerra?
    No, la socialdemocrazia non stabilisce il suo programma nazionale per queste 
    «nazioni» che esistono solo sulla carta. Essa può tener 
    conto soltanto delle nazioni effettive, che agiscono e si muovono e costringono 
    perciò a tener conto di loro.
    Il Bauer, evidentemente, confonde la nazione, che è una categoria storica, 
    con la stirpe, che è una categoria etnografica.
    Del resto lo stesso Bauer, evidentemente, sente la debolezza della propria 
    posizione. Pur affermando decisamente, all’inizio del suo libro, che 
    gli ebrei sono una nazione, alla fine si corregge, affermando che «la 
    società capitalistica generalmente non dà loro [agli ebrei] 
    la possibilità di continuare a esistere come nazione» e li assimila 
    ad altre nazioni. A quanto pare, ciò è dovuto al fatto che «gli 
    ebrei non hanno una zona delimitata di colonizzazione», mentre una zona 
    di questo genere l’hanno, per esempio, i cechi, che debbono, secondo 
    il Bauer, continuare a esistere come nazione. In una parola: ciò è 
    dovuto alla mancanza di territorio.
    Con questo ragionamento, il Bauer voleva dimostrare che l’autonomia 
    nazionale non può essere una rivendicazione degli operai ebrei, ma 
    con questo ha confutato inavvertitamente la sua stessa teoria, la quale nega 
    che il territorio comune sia uno dei tratti caratteristici della nazione.
    Ma Bauer va più in là. All’inizio del suo libro dichiara 
    precisamente che «gli ebrei non hanno affatto una lingua comune e costituiscono, 
    nondimeno, una nazione» . Ma non è ancor giunto a pagina 130 
    che già cambia posizione e dichiara altrettanto precisamente: «È 
    certo che nessuna nazione è possibile senza lingua comune» (il 
    corsivo è nostro).
    Il Bauer qui voleva dimostrare che «la lingua è lo strumento 
    più importante dei rapporti fra gli uomini», ma con questo inavvertitamente 
    ha anche dimostrato una cosa che non si proponeva di dimostrare, e precisamente 
    l’inconsistenza della sua teoria della nazione, che nega l’importanza 
    della lingua comune.
    In questo modo si confuta da sé una teoria cucita col filo idealistico.
II. Il movimento nazionale
La nazione non è soltanto una categoria storica, ma 
    una categoria storica di un’epoca determinata, l’epoca del capitalismo 
    ascendente.
    Il processo di liquidazione del feudalesimo e di sviluppo del capitalismo 
    è al tempo stesso un processodi unificazione delle popolazioni in nazione. 
    Così, per esempio, sono andate le cose nell’Europa occidentale. 
    Gli inglesi, i francesi, i tedeschi, gli italiani e altri si sono fusi in 
    nazione durante l’ascesa vittoriosa del capitalismo, che trionfava sul 
    frazionamento feudale.
    Ma nell’Europa occidentale la formazione delle nazioni significava al 
    tempo stesso la loro trasformazione in stati nazionali indipendenti. La nazione 
    inglese, francese e le altre sono al tempo stesso lo stato inglese e così 
    via. L’Irlanda, rimasta fuori di questo processo, non cambia il quadro 
    generale.
    In maniera piuttosto diversa sono andate le cose nell’Europa orientale. 
    Mentre in Occidente le nazioni si sviluppavano in stati, in Oriente si formavano 
    stati plurinazionali, stati composti di parecchie nazionalità. Tali 
    l’Austria-Ungheria e la Russia. In Austria i tedeschi, più progrediti 
    dal punto di vista politico, si assunsero il compito di unificare le varie 
    nazionalità in un solo stato. In Ungheria si dimostrarono più 
    adatti a organizzare lo stato i magiari, nucleo delle nazionalità ungheresi 
    ed unificatori dell’Ungheria. In Russia, il compito di unificare le 
    nazionalità fu assunto dai grandirussi, che avevano alla loro testa 
    una burocrazia militare aristocratica, forte e organizzata, formatasi storicamente.
    Così sono andate le cose in Oriente.
    Questo modo particolare di formazione degli stati poteva aver luogo solo nel 
    quadro di un feudalesimo non ancor liquidato, nel quadro di un capitalismo 
    debolmente sviluppato, in cui le nazionalità, ricacciate in secondo 
    piano, non erano ancora riuscite a consolidarsi economicamente in nazioni 
    unificate.
    Ma il capitalismo incomincia a svilupparsi anche negli stati dell’Europa 
    orientale. Si sviluppano commerci e vie di comunicazione. Sorgono grandi città. 
    Le nazioni si consolidano economicamente. Irrompendo nella vita tranquilla 
    delle nazionalità oppresse, il capitalismo le desta e le mette in movimento. 
    Lo sviluppo della stampa e del teatro, l’attività del Reichsrat 
    (in Austria) e della Duma (in Russia) contribuiscono al rafforzamento dei 
    «sentimenti nazionali». Gli intellettuali che sorgono si compenetrano 
    dell’«idea nazionale» ed agiscono nello stesso senso...
    Ma destandosi a vita indipendente, le nazioni oppresse non si uniscono ormai 
    più in stati nazionali indipendenti: esse incontrano sul loro cammino 
    una fortissima opposizione da parte degli strati dirigenti delle nazioni dominanti, 
    che già da tempo sono alla testa dello stato. Sono arrivate troppo 
    tardi!...
    Così si costituiscono in nazione i cechi, i polacchi, ecc., in Austria; 
    i croati, ecc., in Ungheria; i lettoni, i lituani, gli ucraini, i georgiani, 
    gli armeni, ecc., in Russia. Quella che era un’eccezione nell’Europa 
    occidentale (l’Irlanda) è divenuta la regola in Oriente.
    In Occidente, l’Irlanda aveva reagito alla sua situazione eccezionale 
    con un movimento nazionale. In Oriente, le nazioni risvegliate dovevano reagire 
    nello stesso modo.
    Così si sono formate le circostanze che hanno spinto alla lotta le 
    giovani nazioni dell’Europa orientale.
    La lotta, per essere esatti, è incominciata e si è accesa non 
    tra intere nazioni, ma tra le classi dirigenti delle nazioni dominanti e di 
    quelle oppresse.
    Abitualmente, conducono la lotta o la piccola borghesia cittadina della nazione 
    oppressa contro la grande borghesia della nazione dominante (cechi e tedeschi), 
    o la borghesia agricola della nazione oppressa contro l’aristocrazia 
    fondiaria della nazione dominante (gli ucraini in Polonia), o tutta la borghesia 
    «nazionale» delle nazioni oppresse contro la nobiltà che 
    è al governo della nazione dominante (Polonia, Lituania, Ucraina e 
    Russia).
    La borghesia è la protagonista.
    La questione fondamentale per la giovane borghesia è il mercato. Vendere 
    le proprie merci ed uscire vittoriosa dalla concorrenza con la borghesia di 
    un’altra nazionalità, questo il suo scopo. Di qui il suo desiderio 
    di assicurarsi un «proprio» mercato «nazionale». Il 
    mercato è la prima scuola dove la borghesia impara il nazionalismo.
    Ma la questione, di solito, non si limita al mercato. Alla lotta prende parte 
    la burocrazia semifeudale-semiborghese della nazione dominante con il suo 
    metodo di «tirare e non mollare». La borghesia della nazione dominante, 
    grande o piccola che sia, ha la possibilità di avere il sopravvento 
    «più rapidamente», «in modo più decisivo» 
    sui suoi concorrenti. Si uniscono le «forze» e... incomincia contro 
    la borghesia «allogena» tutta una serie di misure restrittive 
    che degenerano in persecuzioni. La lotta passa dal campo commerciale al campo 
    politico. Restrizioni alla libertà di spostamento, limitazioni all’uso 
    della lingua, limitazioni al diritto di voto, riduzione delle scuole, limitazioni 
    nel campo religioso, ecc., si rovesciano addosso alla concorrente. Certo, 
    queste misure non sono dirette a favorire soltanto gli interessi delle classi 
    borghesi della nazione dominante, ma anche, più specificamente, i fini 
    di casta, per così dire, della burocrazia, che esercita il potere. 
    Ma dal punto di vista dei risultati ciò non cambia nulla: in questo 
    caso, le classi borghesi e la burocrazia vanno a braccetto, sia che si tratti 
    dell’Austria-Ungheria, sia che si tratti della Russia.
    Stretta da tutte le parti, la borghesia della nazione oppressa si mette naturalmente 
    in movimento. Essa fa appello ai «fratelli del basso popolo» e 
    incomincia ad inneggiare alla «patria» spacciando la propria causa 
    particolare come causa di tutto il popolo. Essa recluta il suo esercito di 
    «compatrioti», nell’interesse della... «patria». 
    E il «basso popolo» non resta sempre sordo agli appelli e si raccoglie 
    intorno alla bandiera della borghesia: le persecuzioni contro la borghesia 
    opprimono anche il popolo e suscitano il suo malcontento.
    Così incomincia il movimento nazionale.
    La forza del movimento nazionale dipende dalla misura in cui vi partecipano 
    i larghi strati della nazione, il proletariato e i contadini.
    Il proletariato si metterà o no sotto la bandiera del nazionalismo 
    borghese, secondo il grado di sviluppo delle contraddizioni di classe, secondo 
    la sua coscienza e organizzazione. Un proletariato cosciente ha la propria 
    bandiera provata, e non ha motivo di mettersi sotto la bandiera della borghesia.
    Per quanto riguarda i contadini, la loro partecipazione al movimento nazionale 
    dipende prima di tutto dal carattere della repressione. Se le repressioni 
    toccano gli interessi della «terra», come è accaduto in 
    Irlanda, le grandi masse contadine passano immediatamente sotto la bandiera 
    del movimento nazionale.
    D’altra parte, se, per esempio in Georgia, non esiste un nazionalismo 
    antirusso di una qualche importanza, ciò è dovuto innanzi tutto 
    al fatto che laggiù non vi sono proprietari fondiari russi o grande 
    borghesia russa, che potrebbero alimentare tale nazionalismo tra le masse. 
    In Georgia esiste un nazionalismo antiarmeno, perché qui c’è 
    ancora una grande borghesia armena, la quale, opprimendo la piccola borghesia 
    georgiana, non ancora consolidatasi, la orienta verso il nazionalismo antiarmeno.
    In dipendenza di questi fattori, il movimento nazionale o assume un carattere 
    di massa, sviluppandosi sempre più (Irlanda, Galizia), oppure si trasforma 
    in una catena di piccole scaramucce, degenerando in scandali e in «lotte» 
    per le insegne dei negozi (come in alcune cittadine della Boemia).
    Il contenuto del movimento nazionale non può certo essere uguale dappertutto. 
    Esso è unicamente determinato dalle diverse rivendicazioni nelle quali 
    si esprime. In Irlanda, il movimento ha un carattere agrario, in Boemia un 
    carattere “ linguistico”; qui si rivendica l’eguaglianza 
    di diritti civili e la libertà di culto, là si esigono «propri» 
    funzionari o una propria Dieta. Nelle diverse rivendicazioni non di rado si 
    manifestano vari tratti che caratterizzano la nazione in generale (lingua, 
    territorio, ecc.). È degno d’attenzione il fatto che in nessun 
    caso si avanzano rivendicazioni concernenti il «carattere nazionale» 
    generale del Bauer. E si capisce: il «carattere nazionale» di 
    per sé è inafferrabile e, come ha giustamente osservato J. Strasser, 
    la politica non vi ha niente a che fare. Queste, in generale, le forme e il 
    carattere del movimento nazionale.
    Da ciò che si è detto risulta chiaramente che la lotta nazionale, 
    nel quadro del capitalismo ascendente, è una lotta delle classi borghesi 
    tra loro. Talvolta la borghesia riesce ad attirare il proletariato nel movimento 
    nazionale, ed allora la lotta nazionale assume, esteriormente, un carattere 
    «popolare», ma solo esteriormente. Nella sua essenza, la lotta 
    resta sempre borghese, vantaggiosa e utile soprattutto per la borghesia.
    Ma da ciò non consegue affatto che il proletariato non debba lottare 
    contro la politica di oppressione nazionale.
    Le limitazioni alla libertà di trasferirsi da un luogo all’altro, 
    la privazione del diritto di voto, le limitazioni all’uso della lingua, 
    la soppressione di scuole ed altre persecuzioni colpiscono gli operai altrettanto, 
    se non più, della borghesia. Una situazione simile non può che 
    ritardare il processo di libero sviluppo delle forze spirituali nel proletariato 
    delle nazioni oppresse. Non si può parlare seriamente di pieno sviluppo 
    delle facoltà spirituali dell’operaio tartaro o ebreo, quando 
    non gli si dà la possibilità di usare la lingua materna nelle 
    adunanze e nelle conferenze, quando gli si chiudono le scuole.
    Ma la politica delle persecuzioni nazionalistiche è pericolosa per 
    la causa del proletariato anche da un altro punto di vista. Essa distoglie 
    l’attenzione di larghi strati della popolazione dai problemi sociali, 
    dai problemi della lotta di classe, per dirigerla verso i problemi nazionali, 
    verso i problemi «comuni» al proletariato e alla borghesia. E 
    ciò crea un terreno che si presta alla falsa predicazione della «armonia 
    d’interessi», favorisce la tendenza a mettere in ombra gli interessi 
    di classe del proletariato, l’asservimento spirituale degli operai. 
    Così si crea un ostacolo serio alla causa dell’unione dei proletari 
    di tutte le nazionalità. Se una parte notevole degli operai polacchi 
    è rimasta finora spiritualmente asservita ai nazionalisti borghesi, 
    è rimasta finora fuori del movimento operaio internazionale, ciò 
    è dovuto soprattutto al fatto che la tradizionale politica antipolacca 
    dei «governanti» crea il terreno per tale asservimento e fa sì 
    che difficilmente gli operai possano liberarsene.
    Ma la politica di repressione non si limita a questo. Dal «sistema» 
    dell’oppressione passa non di rado al «sistema» dell’istigazione, 
    all’odio tra le nazioni, al «sistema» dei massacri e dei 
    pogrom. Naturalmente, quest’ultimo sistema non è possibile sempre 
    e ovunque, ma dove è possibile, quando mancano le libertà elementari, 
    assume spesso proporzioni terribili, minacciando di annegare nel sangue e 
    nelle lacrime la causa dell’unione degli operai. Il Caucaso e la Russia 
    meridionale offrono non pochi esempi. Divide et impera: questo il fine della 
    politica di istigazione all’odio. E nella misura in cui riesce, questa 
    politica rappresenta per il proletariato il peggiore dei mali, l’ostacolo 
    più serio alla causa dell’unione degli operai di tutte le nazionalità 
    di uno stato.
    Ma gli operai sono interessati ad unire tutti i loro compagni in un solo esercito 
    internazionale, a liberarli rapidamente e definitivamente dall’asservimento 
    spirituale alla borghesia e a dar pieno e libero sviluppo alle energie spirituali 
    dei loro fratelli, a qualunque nazione appartengano.
    Perciò gli operai si battono e si batteranno contro la politica di 
    oppressione delle nazioni in ogni sua forma, dalla più raffinata alla 
    più grossolana, come pure contro la politica di istigazione all’odio 
    in tutti i suoi aspetti.
    Perciò la socialdemocrazia di tutti i paesi proclama il diritto delle 
    nazioni all’autodecisione.
    Diritto all’autodecisione, cioè: solo la nazione stessa ha il 
    diritto di decidere il proprio destino, nessuno ha il diritto di intromettersi 
    a forza nella vita di una nazione, di distruggerne le scuole e altreistituzioni, 
    di abolirne le usanze e i costumi, di vietarne la lingua, di menomarne i diritti.
    Questo non significa certo che la socialdemocrazia sosterrà indistintamente 
    tutte le usanze e le istituzioni di una nazione. Lottando contro la violenza 
    esercitata ai danni di una nazione, essa difenderà solo il diritto 
    della nazione a decidere il proprio destino e condurrà nel tempo stesso 
    un’agitazione contro le usanze e le istituzioni dannose di questa nazione, 
    affinché i lavoratori possano liberarsene.
    Il diritto all’autodecisione significa che la nazione può organizzarsi 
    secondo il proprio desiderio. Essa ha il diritto di organizzare la propria 
    esistenza secondo i principi dell’autonomia. Essa ha il diritto di stabilire 
    rapporti federativi con altre nazioni o di separarsi completamente da esse. 
    La nazione è sovrana e tutte le nazioni hanno eguali diritti.
    Ciò non significa naturalmente che la socialdemocrazia debba difendere 
    qualsiasi rivendicazione di una nazione. Una nazione ha il diritto di tornare 
    anche ai vecchi ordinamenti, ma questo non significa ancora che la socialdemocrazia 
    sottoscriva una decisione di questo genere, presa da una qualunque istituzione 
    nazionale. I doveri della socialdemocrazia, che difende gli interessi del 
    proletariato, e i diritti della nazione, che è composta di diverse 
    classi, sono due cose diverse.
    Pur lottando per il diritto delle nazioni all’autodecisione, la socialdemocrazia 
    si prefigge di metter fine alla politica di oppressione delle nazioni, di 
    renderla impossibile, e con ciò di evitare la lotta fra le nazioni, 
    di attenuarla, di ridurla al minimo.
    È sostanzialmente questo che distingue la politica del proletariato 
    cosciente da quella della borghesia, che cerca di approfondire e di estendere 
    la lotta nazionale, di protrarre e di acuire il movimento nazionale.
    Appunto per questo il proletariato cosciente non può mettersi sotto 
    la bandiera «nazionale» della borghesia.
    Appunto per questo la politica cosiddetta «nazional-evoluzionistica» 
    preconizzata dal Bauer non può diventare la politica del proletariato. 
    Il tentativo del Bauer di identificare la sua politica «nazional-evoluzionistica» 
    con la politica «della classe operaiacontemporanea» è un 
    tentativo di adattare la lotta di classe degli operai alla lotta della nazione.
    I destini del movimento nazionale, essenzialmente borghese, sono naturalmente 
    legati al destino della borghesia. La caduta definitiva del movimento nazionale 
    è possibile solo con la caduta della borghesia. Solo nel regno nel 
    socialismo può essere instaurata la pace completa. Ma ridurre al minimo 
    la lotta nazionale, scalzarne le radici, renderla meno nociva per il proletariato 
    è possibile anche nell’ambito del capitalismo. Ne fanno fede, 
    se non altro, gli esempi della Svizzera e dell’America. A tale scopo 
    è necessario democratizzare il paese e dare alle nazioni la possibilità 
    di un libero sviluppo.
III. Impostazione del problema
Una nazione ha il diritto di decidere liberamente il suo 
    destino. Ha il diritto di organizzarsi come le aggrada, naturalmente senza 
    calpestare i diritti delle altre nazioni. Questo è fuori discussione.
    Ma come precisamente dovrà organizzarsi, quali forme dovrà avere 
    la sua futura costituzione, se si prendono in considerazione gli interessi 
    della grande maggioranza della nazione e anzitutto del proletariato?
    La nazione ha il diritto di organizzarsi in forma autonoma. Ha anche il diritto 
    di staccarsi dallo stato di cui fa parte. Ma ciò non significa ancora 
    che debba farlo in qualsiasi circostanza, che l’autonomia o la separazione 
    siano, sempre e dovunque, utili alla nazione, cioè alla sua maggioranza, 
    alla popolazione lavoratrice. I tartari della Transcaucasia, come nazione, 
    possono riunirsi, supponiamo, in una loro Dieta, e, sottomettendosi all’influenza 
    dei loro bey e mullah, possono restaurare nel loro paese i vecchi ordinamenti, 
    decidere la separazione dallo stato. Secondo il principio dell’autodecisione, 
    hanno pieno diritto di farlo. Ma sarebbe conforme agli interessi dei lavoratori 
    della nazione tartara? Può forse la socialdemocrazia considerare con 
    indifferenza il fatto che i bey e i mullah trascinano al loro seguito le masse 
    per la soluzione della questione nazionale? Non deve forse la socialdemocrazia 
    intromettersi nella questione e influire in un determinato modo sulla volontà 
    della nazione? Non deve forse intervenire con un piano completo per una soluzione 
    del problema che sia più vantaggiosa per le masse tartare?
    Ma qual è la decisione più conforme agli interessi delle masse 
    lavoratrici? L’autonomia, la federazione o la separazione?
    Tutti questi sono problemi la cui decisione dipende dalle condizioni storiche 
    concrete nelle quali si trova la nazione data.
    Anzi, le condizioni, come ogni altra cosa, mutano, e una decisione, giusta 
    in un dato momento, può palesarsi assolutamente sbagliata in un altro 
    momento.
    Verso la metà del secolo XIX Marx era per la separazione della Polonia 
    russa, e aveva ragione, perché allora si trattava di liberare una cultura 
    superiore da una inferiore, che l’annientava. E la questione esisteva 
    allora non solo in teoria, accademicamente, ma in pratica, nella vita stessa...
    Alla fine del secolo XIX i marxisti polacchi si esprimono già contro 
    la separazione della Polonia, ed anch’essi hanno ragione, perché 
    negli ultimi cinquant’anni sono avvenuti profondi mutamenti nel senso 
    di un ravvicinamento economico e culturale della Russia e della Polonia. Inoltre 
    in questo periodo la questione della separazione si trasforma da argomento 
    pratico in argomento di dispute accademiche che preoccupano forse soltanto 
    gli intellettuali emigrati. Ciò non esclude, s’intende, la possibilità 
    di certe circostanze interne ed estere, nelle quali il problema della separazione 
    della Polonia possa ridiventare un problema d’attualità.
    Ne consegue che la soluzione della questione nazionale è possibile 
    solo in relazione alle condizioni storiche, considerate nel loro sviluppo.
    Le condizioni economiche, politiche e culturali, nelle quali si trova una 
    data nazione, sono l’unica chiave per deciderecome precisamente essa 
    debba organizzarsi,quali forme debba assumere la sua futura costituzione. 
    È possibile, quindi, che per ogni nazione occorra dare al problema 
    una particolare soluzione. Se c’è un caso nel quale sia necessario 
    impostare dialetticamente un problema, questo caso è proprio quello 
    della questione nazionale.
    Perciò dobbiamo decisamente pronunciarci contro un metodo molto diffuso, 
    ma anche molto sommario, che ha la sua origine nel Bund di «risolvere» 
    la questione nazionale. Alludiamo al facile metodo di ispirarsi alla socialdemocrazia 
    dell’Austria e del Sud slavo, che ha già risolto la questione 
    nazionale e dalla quale i socialdemocratici russi dovrebbero semplicemente 
    prendere in prestito la soluzione. Con ciò si presupporrebbe che tutto 
    ciò che è giusto, diciamo così, per l’Austria, 
    sia tale anche per la Russia. Si dimentica la cosa più importante, 
    e nel nostro caso decisiva: le condizioni storiche concrete in Russia, in 
    generale, e nella vita di ogni singola nazione nei confini della Russia, in 
    particolare.
    Ascoltiamo, per esempio, il noto bundista Kossovski:
«Al IV Congresso del Bund, quando si è esaminata la prima parte della questione (si tratta della questione nazionale. G. St.), la proposta di un congressista di risolverla nello spirito della risoluzione del partito socialdemocratico del Sud slavo ha suscitato l’approvazione generale».
In conclusione, «il congresso si è pronunciato 
    alla unanimità» per... l’autonomia nazionale.
    E questo è tutto! Nessuna analisi della realtà russa, nessun 
    esame delle condizioni di vita degli ebrei in Russia: prima si prende a prestito 
    la risoluzione del partito socialdemocratico del Sud slavo, poi si «approva» 
    e poi «si accetta all’unanimità» questa risoluzione. 
    Così i bundisti pongono e «risolvono» la questione nazionale 
    in Russia...
    Fra l’altro, l’Austria e la Russia presentano condizioni assolutamente 
    diverse. Con questo si spiega anche perché la socialdemocrazia austriaca, 
    che a Brünn (6) (1899) approvò un programma nazionale nello spirito 
    della risoluzione del partito socialdemocratico del Sud slavo (per la verità, 
    con alcuni emendamenti insignificanti), non affronta affatto la questione, 
    per così dire, alla russa e, naturalmente, non la risolve alla russa.
    Prima di tutto, l’impostazione della questione. Come formulano il problema 
    i teorici austriaci dell’autonomia culturale nazionale, i commentatori 
    del programma nazionale di Brünn e della risoluzione del partito socialdemocratico 
    del Sud slavo, Springer e Bauer?
«Non rispondiamo qui — dice lo Springer — alla questione se sia possibile, in generale, uno stato plurinazionale e se le nazionalità austriache, in particolare, debbano formare un’unica entità politica; considereremo risolte queste questioni. Per chi non è d’accordo sull’accennata possibilità e necessità, la nostra conclusione, naturalmente, sarà infondata. La nostra tesi è: certe nazioni sono obbligate a condurre un’esistenza comune; quali forme giuridiche danno loro la possibilità di vivere nel modo migliore?» (il corsivo è di Springer).
Così, l’integrità statale dell’Austria 
    è il punto di partenza.
    Il Bauer dice la stessa cosa: «Noi partiamo dal presupposto che le nazionalità 
    dell’Austria restino nella stessa unione statale in cui vivono oggi 
    e ci domandiamo quali debbano essere, nel quadro di questa unione, i rapporti 
    delle nazioni tra loro e di tutte loro verso lo stato».
    Di nuovo: l’integrità dell’Austria è il primo dovere.
    Può la socialdemocrazia russa porre la questione in questo modo? No, 
    non lo può. E non lo può perché fin dall’inizio 
    è partita dal principio dell’autodecisione delle nazioni, in 
    virtù del quale la nazione ha il diritto alla separazione. Perfino 
    il bundista Goldblatt, al secondo congresso della socialdemocrazia della Russia, 
    riconobbe che quest’ultima non poteva ripudiare il punto di vista dell’autodecisione. 
    Ecco che cosa diceva allora il Goldblatt:
«Contro il diritto di autodecisione non si può obiettare nulla. Nel caso che una nazione lotti per l’indipendenza non è possibile opporvisi. Se la Polonia non vuole contrarre un “matrimonio legale” con la Russia, non tocca a noi ostacolarla».
Le cose stanno così; ma ne consegue che i punti di 
    partenza dei socialdemocratici russi e austriaci non solo non sono simili, 
    ma sono addirittura opposti. Dopo di che, si può forse parlare della 
    possibilità di prendere a prestito dagli austriaci il programma nazionale?
    Ancora: gli austriaci pensano di realizzare «la libertà delle 
    nazionalità» lentamente, per via di piccole riforme. Proponendo 
    l’autonomia culturale nazionale come soluzione pratica, essi non contano 
    affatto su un cambiamento radicale, su un movimento democratico di liberazione; 
    questo non rientra nella loro prospettiva. Invece i marxisti russi, non avendo 
    motivo di contare sulle riforme, legano la questione della «libertà 
    delle nazionalità» a un probabile mutamento radicale, a un movimento 
    democratico di liberazione. E questo cambia sostanzialmente la questione per 
    quanto riguarda il probabile destino delle nazioni in Russia.
«Certo — dice il Bauer — è difficile pensare che l’autonomia nazionale sia il risultato di una grande decisione, di un’azione audace, decisiva. L’Austria andrà verso la sua autonomia nazionale passo passo, con un processo lento e penoso, con una lotta difficile, in conseguenza della quale la legislazione e il governo si troveranno in una condizione di paralisi cronica. No, non per mezzo di un grande atto legislativo, ma con numerose leggi parziali emanate per le diverse regioni, per le diverse comunità, si creerà il nuovo ordinamento giuridico-statale».
La stessa cosa afferma lo Springer:
«So benissimo che istituzioni di questo genere (gli organi dell’autonomia nazionale. G. St.) non si creeranno nè in un anno nè in un decennio. La sola riorganizzazione dell’ amministrazione prussiana ha richiesto un lungo periodo di tempo... Alla Prussia sono occorsi due decenni per stabilire definitivamente le sue istituzioni amministrative fondamentali. Non si creda perciò che io non sappia quanto tempo e quante difficoltà occorreranno per l’Austria».
Tutto ciò è chiaro. Ma possono i marxisti russi 
    non legare la questione nazionale alle «azioni audaci, decisive»? 
    Possono contare su riforme parziali, su numerose leggi parziali, come mezzo 
    per conquistare «la libertà delle nazionalità»? 
    E se non possono e non debbono far questo, non è forse chiaro che i 
    metodi di lotta e le prospettive degli austriaci e dei russi sono completamente 
    diversi?
    Come si può, in tale situazione, limitarsi all’autonomia nazionale 
    degli austriaci, unilaterale e parziale? Una delle due: o coloro che vogliono 
    prendere a prestito il programma nazionale degli austriaci non contano su 
    «azioni audaci e decisive», oppure ci contano, ma «non sanno 
    quel che si fanno».
    Infine la Russia e l’Austria si trovano di fronte a problemi di attualità 
    del tutto diversi e per conseguenza anche il modo di risolvere la questione 
    nazionale dev’essere diverso. L’Austria vive in regime parlamentare 
    e nelle condizioni attuali non è possibile un’evoluzione senza 
    il parlamento. Ma la vita parlamentare e l’attività legislativa 
    in Austria non di rado sono completamente interrotte dai conflitti acuti dei 
    partiti nazionali. Questo spiega anche la crisi politica cronica di cui l’Austria 
    soffre da tempo. In conseguenza, la questione nazionale in Austria è 
    il perno della vita politica, è questione vitale! Non c’è 
    quindi da meravigliarsi che in Austria gli uomini politici socialdemocratici 
    si sforzino di risolvere, in una maniera o nell’altra, prima di tutto 
    la questione dei conflitti nazionali, naturalmente sulla base del parlamentarismo 
    già esistente, con mezzi parlamentari...
    Non così in Russia. In Russia, prima di tutto, «grazie a Dio 
    non c’è parlamento». In secondo luogo, e questo è 
    importante, l’asse della vita politica della Russia non è la 
    questione nazionale, ma la questione agraria. Perciò i destini della 
    questione russa e, quindi, anche della «liberazione» delle nazioni, 
    sono legati alla soluzione della questione agraria, cioè alla distruzione 
    dei residui feudali, cioè alla democratizzazione del paese. Questo 
    spiega perché in Russia la questione nazionale si presenti non come 
    una questione a sé stante e decisiva, ma come una parte del problema 
    più generale e più importante della liberazione del paese dal 
    feudalesimo.
«La sterilità del parlamento austriaco — scrive lo Springer — deriva esclusivamente dal fatto che ogni riforma genera in seno ai partiti nazionali delle contraddizioni, che ne minano la coesione, e perciò i capi dei partiti rifuggono attentamente da tutto ciò che sa di riforma. Il progresso dell’Austria è concepibile in generale solo nel caso che alle nazioni siano date posizioni legali imprescrittibili; ciò le esonera dalla necessità di mantenere nel parlamento veri e propri distaccamenti di combattimento e dà loro la possibilità di consacrarsi alla soluzione dei problemi economici e sociali».
Lo stesso dice il Bauer:
«La pace nazionale è innanzi tutto necessaria 
    allo stato.Lo stato non può assolutamente tollerare che l’attività 
    legislativa venga interrotta per una stupidissima questione di lingua, per 
    ogni minima controversia di persone eccitate, in un posto qualunque entro 
    i confini nazionali, per ogni nuova scuola».
    Tutto ciò è chiaro. Ma non è meno chiaro che in Russia 
    la questione nazionale si pone su di un piano completamente diverso. In Russia 
    non è la questione nazionale, ma la questione agraria che decide delle 
    sorti del progresso. La questione nazionale é una questione subordinata.
    Così, una diversa impostazione della questione, diverse prospettive 
    e diversi metodi di lotta, diversi compiti immediati. Non è forse evidente 
    che in questa situazione solo dei topi di biblioteca che «risolvono» 
    la questione nazionale fuori del tempo e dello spazio possono prendere esempio 
    dall’Austria e pensare di prenderne in prestito il programma?
    Ancora una volta: le condizioni storiche concrete, come punto di partenza; 
    l’impostazione dialettica della questione, come unica impostazione giusta: 
    questa è la chiave per la soluzione della questione nazionale.
IV. L’autonomia culturale nazionale
Abbiamo parlato sopra dell’aspetto formale del programma 
    nazionale austriaco, dei fondamenti metodologici in forza dei quali i marxisti 
    russi non possono puramente e semplicemente seguire l’esempio della 
    socialdemocrazia austriaca e farne proprio il programma.
    Ora parleremo del programma stesso, della sua sostanza.
    Qual’è il programma nazionale dei socialdemocratici austriaci?
    Si compendia in due parole: autonomia culturale nazionale.
    Ciò significa, in primo luogo, che si deve dare l’autonomia, 
    per esempio, non alla Boemia-Moravia o alla Polonia, abitate prevalentemente 
    da cechi e da polacchi, ma ai cechi e ai polacchi in generale, indipendentemente 
    dal territorio, indipendentemente dalla zona dell’Austria in cui risiedono.
    Perciò quest’autonomia si chiama nazionale e non territoriale.
    Ciò significa, in secondo luogo, che cechi, polacchi, tedeschi, ecc., 
    disseminati nelle varie regioni dell’Austria, si organizzano in gruppi 
    nazionali personalmente, come singoli individui, e come tali entrano a far 
    parte dello stato austriaco. L’Austria non rappresenta in questo caso 
    un’unione di province autonome,ma un’unione di nazionalità 
    autonome, costituite indipendentemente dal territorio.
    Questo significa, in terzo luogo, che le istituzioni nazionali, che devono 
    esser create a tale scopo dai polacchi, cechi, ecc., non si occuperanno di 
    problemi «politici», ma solo di problemi «culturali». 
    I problemi specificamente politici saranno di competenza del parlamento austriaco 
    (Reichsrat).
    Perciò questa autonomia si chiama anche culturale, culturale nazionale.
    Ed ecco il testo del programma approvato dalla socialdemocrazia austriaca 
    al Congresso di Brünn del 1899.
    Dopo aver rammentato che «i dissensi nazionali in Austria ostacolano 
    il progresso politico», che «una soluzione definitiva del problema 
    nazionale... è prima di tutto una necessità culturale», 
    «la soluzione è possibile solo in una società effettivamente 
    democratica, organizzata sulla base del suffragio universale, diretto ed uguale», 
    il programma continua:
    «Il mantenimento e lo sviluppo delle particolarità nazionali 
    dei popoli dell’Austria è possibile solo con la piena eguaglianza 
    di diritti e con la fine di qualsiasi oppressione. Perciò deve essere 
    anzitutto abolito il sistema del centralismo burocratico statale e così 
    pure devono essere aboliti i privilegi feudali dei singoli territori. A queste 
    condizioni e solamente a queste condizioni si potrà instaurare in Austria 
    un ordine nazionale, invece di un disordine nazionale, e precisamente sulle 
    basi seguenti:
    1) l’Austria deve essere trasformata in uno stato che rappresenti l’unione 
    democratica delle nazionalità;
    2) al posto dei territori storici della corona devono essere create delle 
    corporazioni nazionali autonome delimitate, in ognuna delle quali la legislazione 
    e l’amministrazione siano nelle mani di camere nazionali elette a suffragio 
    universale, diretto e eguale;
    3) le regioni autonome di una stessa nazione formano insieme un’unica 
    unità nazionale, che decide le sue questioni nazionali in piena autonomia;
    4) i diritti delle minoranze nazionali verranno garantiti da una legge particolare, 
    emanata dal parlamento imperiale».
Il programma termina con un appello alla solidarietà 
    di tutte le nazioni dell’Austria .
    Non è difficile accorgersi che in questo programma sono rimaste alcune 
    tracce di «territorialismo», ma nel complesso esso è una 
    formulazione dell’autonomia nazionale. Non per nulla lo Springer, il 
    primo agitatore della autonomia culturale nazionale, l’accoglie con 
    entusiasmo. Anche Bauer è per questo programma e lo definisce una vittoria 
    teorica dell’autonomia nazionale; solo nell’interesse di una maggior 
    chiarezza egli propone di sostituire l’articolo 4 con una formulazione 
    più precisa, che esprima la necessità di «costituire in 
    seno ad ogni regione autonoma le minoranze nazionali in corporazioni di diritto 
    pubblico», per la direzione degli affari scolastici e degli altri affari 
    culturali.
    Tale il programma nazionale della socialdemocrazia austriaca.
    Esaminiamone i fondamenti scientifici.
    Vediamo come la socialdemocrazia austriaca giustifica l’autonomia culturale 
    nazionale da essa propugnata.
    Consultiamo i suoi teorici, Springer e Bauer.
    All’origine dell’autonomia nazionale troviamo il concetto di nazione 
    come unione di individui, indipendentemente da un territorio determinato.
«La nazionalità — secondo Springer — non ha nessun rapporto effettivo col territorio, le nazioni sono unioni personali autonome».
Anche il Bauer parla della nazione come di una «unione 
    di individui», alla quale non è attribuita una sovranità 
    esclusiva in una regione determinata. 
    Ma gli individui che compongono la nazione non vivono sempre in una massa 
    compatta, spesso si dividono in gruppi, e in questa forma si disperdono in 
    altri organismi nazionali. Il capitalismo li spinge in diverse province e 
    città in cerca di guadagno. ma trasferendosi in territori nazionali 
    estranei e sostituendovi una minoranza, questi gruppi subiscono, da parte 
    delle maggioranze nazionali del luogo, restrizioni quanto alla lingua, alla 
    scuola, ecc. Di qui i conflitti nazionali. Di qui 1’«insufficienza» 
    dell’autonomia territoriale. L’unica via d’uscita da tale 
    situazione, secondo lo Springer e il Bauer, è quella di organizzare 
    le minoranze di ogni nazionalità disseminate nelle varie parti dello 
    stato in una unione nazionale interclassista. Secondo loro, soltanto una tale 
    unione potrebbe difendere gli interessi culturali delle minoranze nazionali, 
    soltanto essa è atta a metter fine ai dissensi nazionali».
«È necessario — dice lo Springer — dare alle nazionalità una giusta organizzazione, fissarne i diritti e i doveri». Certo, «è facile fare una legge, ma avrà essa tutta l’efficacia che ci s’aspettava»?... «Se si vuole fare una legge per le nazioni, prima di tutto bisogna creare le nazioni stesse».... «Se non si costituiscono le nazionalità non è possibile creare un diritto nazionale ed eliminare i dissensi nazionali».
Nello stesso senso parla il Bauer quando propone, come «rivendicazione 
    della classe operaia», «l’organizzazione delle minoranze 
    in corporazioni di diritto pubblico sulla base del principio personale».
    Ma come organizzare le nazioni? Come definire se un individuo appartiene ad 
    una nazione o ad un’altra?
    «Quest’appartenenza — dice lo Springer — si definisce 
    per mezzo di certificati nazionali; tutti coloro che vivono in una regione 
    devono dichiarare la loro appartenenza ad una nazione o ad un’altra».
    «Il principio personale — afferma il Bauer — presuppone 
    che la popolazione si divida per nazionalità sulla base di libere dichiarazioni 
    dei cittadini maggiorenni», e perciò «si devono preparare 
    i registri nazionali».
E ancora:
«Tutti i tedeschi — dice il Bauer — che vivono in distretti omogenei dal punto di vista nazionale, e inoltre tutti i tedeschi iscritti nei registri nazionali dei distretti misti costituiscono la nazione tedesca ed eleggono il Consiglio nazionale».
Lo stesso va detto dei cechi, dei polacchi, ecc.
«Il Consiglio nazionale — secondo lo Springer — è un parlamento culturale nazionale al quale spetta di fissare i principi e approvare i mezzi necessari per difendere la scuola nazionale, la letteratura, l’arte e la scienza nazionali, per fondare accademie, musei, gallerie, teatri, ecc.».
Tali dunque sono l’organizzazione della nazione e la 
    sua istituzione centrale.
    Creando questi istituti interclassisti, il partito socialdemocratico austriaco 
    aspira, secondo il Bauer, a «rendere la cultura nazionale... patrimonio 
    di tutto il popolo e ad unire con questo mezzo che è l’unico 
    possibile, tutti i membri della nazione in una comunità culturale nazionale» 
    (il corsivo è nostro).
    Si può pensare che questo riguardi soltanto l’Austria. Ma il 
    Bauer non è d’accordo. Egli afferma nettamente che l’autonomia 
    nazionale è obbligatoria anche per quegli altri stati che siano composti, 
    come l’Austria, di parecchie nazionalità.
«Alla politica nazionale delle classi abbienti, alla politica di conquista del potere in uno stato plurinazionale, il proletariato di tutte le nazioni contrappone — secondo il Bauer — la sua esigenza dell’autonomia nazionale».
Inoltre, confondendo inavvertitamente l’autodecisione delle nazioni con l’autonomia nazionale, il Bauer continua:
«Così, l’autonomia nazionale, l’autodecisione delle nazioni, diventa inevitabilmente il programma costituzionale del proletariato di tutte le nazioni, che vivono in stati plurinazionali».
Ma il Bauer va ancora più in là. Egli è 
    profondamente convinto che le «unioni nazionali» interclassiste 
    «costituite» da lui e dallo Springer saranno come il prototipo 
    della futura società socialista. Egli sa infatti che «l’organizzazione 
    socialista della società... dividerà l’umanità 
    in comunità delimitate secondo la nazionalità», che in 
    regime socialista si creerà «un raggruppamento della umanità 
    in società nazionali autonome», che «in tal modo la società 
    socialista rappresenterà sicuramente un quadro variopinto di unioni 
    nazionali personali e di corporazioni territoriali», e che, per conseguenza, 
    «il principio socialista della nazionalità è la più 
    alta sintesi del principio nazionale e dell’autonomia nazionale».
    E mi pare che basti...
    Questa la giustificazione dell’autonomia nazionale culturale nei lavori 
    del Bauer e dello Springer.
    Prima di tutto, balza agli occhi la confusione del tutto incomprensibile e 
    assolutamente ingiustificata tra autodecisione delle nazioni e autonomia nazionale. 
    Una delle due: o il Bauer non ha capito che cos’è l’autodecisione, 
    ovvero lo ha capito, ma per una qualche ragione ne restringe il significato. 
    Perché non c’è dubbio che: a) l’autonomia culturale 
    nazionale presuppone l’integrità dello stato plurinazionale, 
    mentre l’autodecisione esce dai limiti di tale integrità; b) 
    l’autodecisione dà alla nazione tutti integralmente i diritti, 
    mentre l’autonomia nazionale le dà soltanto i diritti «culturali». 
    Questo in primo luogo.
    In secondo luogo, è molto probabile che in avvenire si produca un tal 
    concorso di circostanze interne ed esterne, per cui una nazionalità 
    o un’altra decida di uscire dallo stato plurinazionale, per esempio 
    dall’Austria: al Congresso di Brünn i socialdemocratici ruteni 
    hanno affermato di esser pronti a riunire le «due parti» del loro 
    popolo in un tutto unico. Allora, che ne sarà dell’autonomia 
    nazionale, «inevitabile per il proletariato di tutte le nazioni»?
    Che cos’è questa «soluzione» del problema che imprigiona 
    meccanicamente le nazioni nel letto di Procuste dell’integrità 
    dello stato?
    E ancora. L’autonomia nazionale è in contraddizione con tutto 
    il processo di sviluppo delle nazioni. Essa dà la parola d’ordine 
    d’organizzare le nazioni; ma è possibile saldarle artificialmente, 
    se la vita, se lo sviluppo economico separa da esse interi gruppi e li sparpaglia 
    in varie regioni? Non v’è dubbio che agli inizi del capitalismo 
    le nazioni si uniscono. Ma è anche certo che nelle fasi superiori del 
    capitalismo comincia un processo di dispersione delle nazioni, un processo 
    di separazione dalle rispettive nazioni di tutta una serie di gruppi che partono 
    in cerca di lavoro e poi si trasferiscono definitivamente in un’altra 
    regione dello stato; in questo modo essi sciolgono i loro vecchi legami, ne 
    allacciano dei nuovi nella nuova residenza, assimilano di generazione in generazione 
    nuove usanze e nuovi gusti e forse anche una nuova lingua. Ci si domanda: 
    è forse possibile unire in una sola unione nazionale questi gruppi, 
    che si differenziano a tal segno l’uno dall’altro? Dove trovare 
    gli anelli miracolosi, grazie ai quali si possa unificare ciò che non 
    è unificabile? È concepibile «fondere in una sola nazione», 
    per esempio, i tedeschi del Baltico e quelli della Transcaucasia? Ma se tutto 
    questo è inconcepibile e impossibile, in che cosa differisce allora 
    l’autonomia nazionale dalle utopie dei vecchi nazionalisti, che tentavano 
    di far girare all’indietro la ruota della storia?
    Ma l’unità della nazione non è compromessa soltanto dall’emigrazione, 
    è anche compromessa all’interno in seguito all’acuirsi 
    della lotta di classe. Agli inizi del capitalismo si può ancora parlare 
    di una «comunità culturale» del proletariato e della borghesia. 
    Ma con lo sviluppo della grande industria e l’acuirsi della lotta di 
    classe, la «comunità» comincia a sparire. Non è 
    possibile parlare seriamente di «comunità culturale», quando 
    padroni e operai di una sola e stessa nazione non si comprendono più 
    tra di loro... Di quale « comune destino» si può parlare, 
    quando la borghesia vuole la guerra e il proletariato dichiara «guerra 
    alla guerra»? Come organizzare con questi elementi contrastanti un’unione 
    nazionale interclassista? Si può, per conseguenza, parlare di «unione 
    di tutti i membri di una nazione in una comunità nazionale culturale»? 
    Non risulta forse chiaro che l’autonomia nazionale è in contrasto 
    con tutto l’andamento della lotta di classe?
    Ma ammettiamo pure per un momento che la parola d’ordine «organizzare 
    la nazione» sia realizzabile. Tutto sommato è comprensibile che 
    dei parlamentari borghesi nazionalisti tentino di «organizzare» 
    la nazione per ottenere un maggior numero di voti. Ma da quando in qua i socialdemocratici 
    hanno incominciato ad «organizzare» le nazioni, a «costituire» 
    le nazioni, a «creare» le nazioni? 
    Che socialdemocratici son codesti, che in un’epoca di estrema acutizzazione 
    della lotta di classe organizzano unioni nazionali interclassiste?
    Finora la socialdemocrazia austriaca, come ogni altra, aveva un compito: organizzare 
    il proletariato. Ma questo compito, evidentemente, è «sorpassato». 
    Ora lo Springer e il Bauer indicano un «nuovo» compito, un compito 
    più interessante: «creare», «organizzare» la 
    nazione.
    Del resto la logica impone che chi ha accettato l’autonomia nazionale 
    debba accettare anche questo «nuovo» compito; ma accettare questo 
    compito significa abbandonare la posizione classista e mettersi sulla via 
    del nazionalismo.
    L’autonomia culturale nazionale dello Springer e del Bauer è 
    una forma raffinata di nazionalismo.
    E non è certo un caso che il programma nazionale della socialdemocrazia 
    austriaca faccia obbligo di preoccuparsi «della conservazione e dello 
    sviluppo delle particolarità dei popoli nazionali». Si pensi 
    soltanto: «conservare» delle «particolarità nazionali» 
    come quella dell’autoflagellazione dei tartari della Transcaucasia nella 
    festa dello Sciakhsei-Vakhsei, «sviluppare» delle «particolarità 
    nazionali» come quella dei georgiani del «diritto della vendetta»!...
    Un paragrafo di questo genere sarebbe al suo posto in un programma sfacciatamente 
    nazionalistico-borghese; e se è stato incluso nel programma dei socialdemocratici 
    austriaci, vuol dire che l’autonomia nazionale tollera tali cose, non 
    vi si oppone.
    Ma l’autonomia nazionale, inadatta per la società presente, è 
    ancora meno adatta per la futura società socialista.
    La profezia del Bauer circa la «divisione dell’umanità 
    in delimitate società nazionali» è confutata da tutto 
    il processo di sviluppo dell’umanità contemporanea. Le barriere 
    nazionali non si rafforzano, ma si distruggono e cadono. Fin dalla metà 
    del secolo scorso, Marx diceva che «l’isolamento e gli antagonismi 
    nazionali dei popoli vanno via via scomparendo», che «il dominio 
    del proletariato li farà scomparire ancora di più». Lo 
    sviluppo ulteriore dell’umanità, con il gigantesco sviluppo della 
    produzione capitalistica, con il mescolarsi delle nazionalità e con 
    l’unificazione delle genti in territori sempre più estesi, dà 
    una conferma decisiva alla teoria di Marx.
    Il desiderio del Bauer di rappresentare la società socialista come 
    «un quadro variopinto di unioni nazionali individuali e di corporazioni 
    territoriali» è un timido tentativo di trasformare la concezione 
    marxista del socialismo in una concezione bakunista riformata. La storia del 
    socialismo insegna che tutti i tentativi di questo genere racchiudono in sé 
    gli elementi del loro inevitabile fallimento.
    Non parliamo neppure del cosiddetto «principio socialista delle nazionalità» 
    esaltato dal Bauer, che si risolve, a nostro parere, nel sostituire il principio 
    socialista della lotta di classe col «principio» borghese «della 
    nazionalità». Se l’autonomia nazionale parte da un principio 
    così equivoco, bisogna riconoscere che può soltanto nuocere 
    al movimento operaio.
    È vero che questo nazionalismo non è molto limpido, perché 
    è abilmente mascherato con frasi socialiste, ma esso è tanto 
    più nocivo al proletariato. Si può sempre aver ragione di un 
    nazionalismo aperto: non è difficile riconoscerlo. Molto più 
    difficile è lottare contro un nazionalismo mascherato e irriconoscibile 
    sotto la sua maschera. Coprendosi con la corazza del socialismo, esso è 
    meno vulnerabile e più vitale. Vivendo poi tra gli operai, avvelena 
    l’atmosfera, diffondendo le idee nefaste della diffidenza reciproca 
    e della separazione degli operai delle diverse nazionalità.
    Ma non soltanto per questo l’autonomia nazionale è nociva. Essa 
    prepara il terreno non solo per la divisione delle nazioni, ma anche per il 
    frazionamento del movimento operaio unico. L’idea dell’autonomia 
    nazionale crea le premesse psicologiche per la divisione del partito unico 
    degli operai in diversi partiti, costituiti sulla base della nazionalità. 
    Dopo i partiti, si disgregano i sindacati e si giunge al completo frazionamento. 
    Così un movimento di classe unitario si scinde in rivoli nazionali 
    distinti.
    L’Austria, la patria dell’«autonomia nazionale», offre 
    gli esempi più tristi di questo fenomeno. Il partito socialdemocratico 
    austriaco, un tempo unico, ha cominciato dal 1897 (Congresso di Wimberg) a 
    scindersi in vari partiti. Dopo il Congresso di Brünn (1899) che votò 
    per l’autonomia nazionale, la scissione si è accentuata ancor 
    più. Infine si è giunti a tal punto che, invece di un unico 
    partito internazionale, esistono ora sei partiti nazionali, fra i quali il 
    Partito socialdemocratico ceco non vuole aver niente a che fare con la socialdemocrazia 
    tedesca.
    Ma ai partiti sono legati i sindacati. In Austria, sono gli stessi operai 
    socialdemocratici che svolgono l’attività principale, sia nei 
    partiti che nei sindacati. Perciò c’era da temere che il separatismo 
    nel partito avrebbe condotto al separatismo nei sindacati, che anche i sindacati 
    si sarebbero scissi. E così è avvenuto: anche i sindacati si 
    sono divisi secondo le nazionalità. Ora si arriva spesso al punto che 
    gli operai cechi sabotano lo sciopero degli operai tedeschi o partecipano 
    alle elezioni amministrative a fianco dei borghesi cechi contro gli operai 
    tedeschi.
    Si vede dunque che l’autonomia culturale nazionale non risolve la questione 
    nazionale. Anzi l’acutizza e la complica, creando un terreno favorevole 
    alla rottura dell’unità del movimento operaio, alla divisione 
    degli operai secondo la nazionalità, al rafforzamento degli attriti 
    nelle loro file. Questi sono i frutti dell’autonomia nazionale.
V. Il Bund, il suo nazionalismo, il suo separatismo
 Abbiamo detto sopra che il Bauer, pur riconoscendo necessaria 
    l’autonomia nazionale per i cechi i polacchi, ecc., si esprime nondimeno 
    contro l’autonomia per gli ebrei. Alla domanda: «Deve la classe 
    operaia rivendicare l’autonomia per il popolo ebraico?», i1 Bauer 
    risponde che «l’autonomia nazionale non può essere una 
    rivendicazione degli operai ebrei». La ragione, secondo il Bauer, è 
    che «la società capitalistica non permette loro (agli ebrei. 
    G. St.) di mantenersi come nazione».
    In breve, la nazione ebraica cessa di esistere, dunque non c’è 
    motivo di rivendicarne l’autonomia. Gli ebrei si vanno assimilando.
    Quest’opinione sul destino degli ebrei come nazione non è nuova. 
    Marx l’enunciò sin dalla metà del secolo scorso, riferendosi 
    soprattutto agli ebrei tedeschi. Kautsky la ripeté nel 1903, riferendosi 
    agli ebrei russi. Ora la ripete il Bauer, riferendosi agli ebrei austriaci, 
    con questa differenza, però, che egli nega non il presente, ma l’avvenire 
    della nazione ebraica.
    Egli spiega l’impossibilità per gli ebrei di mantenersi come 
    nazione col fatto che «gli ebrei non hanno un territorio delimitato 
    di colonizzazione». Però questa spiegazione, fondamentalmente 
    vera, non contiene tutta la verità. Sta di fatto, innanzi tutto, che 
    non esiste uno strato considerevole di ebrei stabilmente legato alla terra, 
    che consolidi naturalmente la nazione costituendone non solo l’ossatura, 
    ma anche il mercato «nazionale». Su cinque o sei milioni di ebrei 
    russi, solo il tre o quattro per cento sono legati in un modo o nell’altro 
    all’agricoltura; il novantasei per cento sono occupati nel commercio, 
    nell’industria, in uffici urbani e in generale vivono nelle città, 
    ed inoltre, sparpagliati per la Russia, non costituiscono la maggioranza in 
    nessun governatorato.
    In tal modo, infiltrati in regioni di altra nazionalità, gli ebrei 
    formano minoranze nazionali, che servono soprattutto le nazioni «straniere» 
    in qualità di industriali, commercianti o liberi professionisti, uniformandosi, 
    naturalmente, alle «nazioni straniere» per la lingua, ecc. Tutto 
    ciò, dato il crescente mescolarsi delle nazionalità, caratteristico 
    nelle forme sviluppate dal capitalismo, porta all’assimilazione degli 
    ebrei. L’eliminazione dell’obbligo di vivere in determinate «zone 
    di residenza» non può che accelerarla.
    Per conseguenza, la questione dell’autonomia nazionale per gli ebrei 
    russi assume un carattere alquanto strano: si propone l’autonomia per 
    una nazione di cui si nega l’avvenire, di cui resta ancora da provare 
    l’esistenza!
    Nondimeno il Bund si è messo su questa posizione strana e incerta, 
    approvando nel suo VI Congresso (1905) un «programma nazionale» 
    ispirato all’autonomia nazionale.
    Due circostanze hanno spinto il Bund a questo.
    La prima è l’esistenza del Bund come organizzazione degli operai 
    socialdemocratici ebrei, e soltanto ebrei. Ancora prima del 1897, gruppi socialdemocratici 
    che lavoravano tra gli operai ebrei si erano prefissi di creare «una 
    particolare organizzazione operaia ebraica». Nel 1897 crearono quest’organizzazione, 
    unendosi nel Bund. Questo accadde quando la socialdemocrazia della Russia 
    non esisteva ancora, di fatto, come un tutto unico.
    Da allora il Bund è cresciuto e si è esteso ininterrottamente, 
    distinguendosi sempre di più sullo sfondo dei giorni grigi della socialdemocrazia 
    della Russia... Ma eccoci all’inizio del secolo XX. Ha inizio un movimento 
    operaio di massa. La socialdemocrazia polacca si sviluppa e attrae gli operai 
    ebrei nella lotta di massa. La socialdemocrazia della Russia si sviluppa ed 
    attira a sé gli operai «bundisti». La cornice nazionale 
    del Bund, priva di una base territoriale, diventa angusta. Il Bund si trova 
    di fronte a un dilemma: o dissolversi nell’ondata generale internazionale, 
    o difendere la propria esistenza indipendente di organizzazione extraterritoriale. 
    Il Bund sceglie quest’ultima soluzione.
    Così viene creata la «teoria» del Bund come «unico 
    rappresentante del proletariato ebraico».
    Ma giustificare in un modo più o meno «semplice» questa 
    strana «teoria» era impossibile. Occorreva darle una veste «di 
    princìpi», una giustificazione «di principio». Questa 
    veste fu l’autonomia culturale nazionale. Il Bund si aggrappò 
    ad essa, prendendola a prestito dalla socialdemocrazia austriaca. Se gli austriaci 
    non avessero avuto questo programma, il Bund lo avrebbe inventato, per giustificare 
    «in linea di principio» la sua esistenza indipendente.
    In tal modo, dopo un timido tentativo fatto nel 1901 (IV Congresso), il Bund 
    adottò definitivamente nel 1905 il suo «programma nazionale» 
    (VI Congresso).
    La seconda circostanza è la particolare situazione degli ebrei, che 
    formano minoranze nazionali separate in seno a maggioranze nazionali compatte 
    di intere province. Abbiamo già detto che tale situazione mina l’esistenza 
    degli ebrei come nazione, li sospinge sulla via dell’assimilazione. 
    Ma questo è un processo oggettivo. Soggettivamente, nella mente degli 
    ebrei, suscita una reazione e fa sorgere il problema della garanzia dei loro 
    diritti di minoranza nazionale, il problema della garanzia contro l’assimilazione. 
    Propugnando la vitalità della «nazionalità» ebraica, 
    il Bund non poteva non sostenere il punto di vista della «garanzia»; 
    e, presa una posizione di questo genere, non poteva non accogliere l’autonomia 
    nazionale, perché. se doveva aggrapparsi ad una qualsiasi autonomia, 
    poteva aggrapparsi soltanto all’autonomia nazionale, cioè culturale 
    nazionale. Di un’autonomia territoriale-politica degli ebrei non si 
    poteva neanche parlare, in quanto essi erano privi di un territorio unito 
    e definito.
    È caratteristico che il Bund abbia sottolineato fin dall’inizio 
    il carattere nazionale dell’autonomia come garanzia dei diritti delle 
    minoranze nazionali,come garanzia del «libero sviluppo» delle 
    nazioni. Non a caso il rappresentante del Bund al Congresso della socialdemocrazia 
    della Russia, Golblatt, definì l’autonomia nazionale come «istituzione 
    che garantisce loro (alle nazioni. G. St.) la piena libertà di sviluppo 
    culturale». I sostenitori delle idee del Bund sono entrati nel gruppo 
    socialdemocratico alla quarta Duma, avanzando la stessa proposta.
    Così il Bund ha assunto la strana posizione dell’autonomia nazionale 
    degli ebrei.
    Abbiamo esaminato sopra l’autonomia nazionale in generale. L’esame 
    ci ha dimostrato che l’autonomia nazionale conduce al nazionalismo. 
    Vedremo più avanti che il Bund è già arrivato a questo 
    punto. Ma il Bund considera l’autonomia nazionale anche da un punto 
    di vista particolare: quello della garanzia dei diritti delle minoranze nazionali. 
    Esaminiamo la questione anche da questo punto di vista particolare. Ciò 
    è tanto più necessario, in quanto la questione delle minoranze 
    nazionali, e non solo delle minoranze ebraiche, ha una grande importanza per 
    la socialdemocrazia.
    Dunque: «istituzioni che garantiscano» alle nazioni «la 
    piena libertà di sviluppo culturale» (il corsivo è nostro. 
    G. St.).
    Ma che cosa sono mai tali «istituzioni che garantiscano», ecc.?
    Prima di tutto il «consiglio nazionale» di Springer-Bauer, una 
    specie di Dieta per gli affari culturali.
    Ma possono queste istituzioni garantire «la piena libertà di 
    sviluppo culturale» delle nazioni? Può una qualsiasi Dieta per 
    gli affari culturali garantire le nazioni dalle persecuzioni nazionalistiche?
    Il Bund ritiene di sì.
    Ma la storia dice il contrario.
    Nella Polonia russa c’è stata una volta una Dieta, una Duma politica, 
    ed essa, certo, si è sforzata di garantire la libertà di «sviluppo 
    culturale» dei polacchi; però non solo non vi è riuscita, 
    ma al contrario è caduta essa stessa nell’impari lotta contro 
    le condizioni politiche generali della Russia.
    In Finlandia esiste da molto tempo una Dieta che si sforza anch’essa 
    di difendere dagli «attentati» la nazionalità finnica, 
    ma tutti possono vedere se riesce a fare gran che in questo senso.
    Certo, c’è differenza tra Dieta e Dieta e non è così 
    facile sbarazzarsi della Dieta finlandese, organizzata democraticamente, come 
    ci si è sbarazzati di quella polacca aristocratica. Ma, comunque, l’elemento 
    decisivo non è rappresentato dalla Dieta, ma dall’ordinamento 
    generale della Russia: se oggi in Russia esistessero gli stessi ordinamenti 
    politico-sociali brutalmente asiatici, come nel passato, come negli anni della 
    soppressione della Dieta polacca, le cose andrebbero peggio per la Dieta finlandese. 
    Del resto, la politica di «attentati» contro la Finlandia si sviluppa 
    e non si può dire che abbia subito sconfitte.
    Se così stanno le cose per antiche istituzioni formatesi storicamente, 
    come le Diete politiche, tanto meno potranno garantire il libero sviluppo 
    nazionale delle Diete recenti, e per giunta deboli come le Diete «culturali». 
    Il problema non sta evidentemente nelle «istituzioni», ma negli 
    ordinamenti generali del paese. Se nel paese non c’è democrazia, 
    non c’è neppure garanzia di «piena libertà di sviluppo 
    culturale» delle nazionalità. Si può dire con sicurezza 
    che quanto più un paese è democratico, tanto minori sono gli 
    «attentati» alla «libertà delle nazionalità» 
    e tanto maggiori le garanzie contro gli «attentati».
    La Russia è un paese semiasiatico e perciò la politica di «attentati» 
    assume non di rado le forme più brutali, le forme di pogrom. Inutile 
    dire che le «garanzie» in Russia, sono ridotte ai minimi termini.
    La Germania è già Europa, con maggiore o minor libertà 
    politica. Non c’è da meravigliarsi se la politica di «attentati» 
    non vi assume mai la forma di pogrom.
    In Francia, si capisce, vi sono «garanzie» ancora maggiori, perché 
    la Francia è più democratica della Germania.
    Non parliamo poi della Svizzera, dove, grazie all’alto livello di democrazia, 
    anche se borghese, le nazionalità, minoranze o maggioranze che siano, 
    vivono liberamente.
    Dunque il Bund è su una falsa strada, quando afferma che le «istituzioni» 
    di per sé possono garantire il pieno sviluppo culturale delle nazionalità.
    Si potrebbe osservare che lo stesso Bund considera la democratizzazione della 
    Russia come condizione preliminare per la «creazione di istituzioni» 
    e per la garanzia della libertà. Ma ciò non è esatto. 
    Dal Resoconto dell’VIII Conferenza del Bund risulta che questo pensa 
    di ottenere le «istituzioni» sulla base degli ordinamenti attuali 
    in Russia, per mezzo di una «riforma» della comunità ebraica.
«La comunità — diceva a questa conferenza uno dei capi del Bund — può diventare il nucleo della futura autonomia culturale nazionale. L’autonomia culturale nazionale è una forma di self-service, di servigio reso dalla nazione a se stessa, una forma di soddisfacimento delle rivendicazioni nazionali. La forma della comunità nasconde lo stesso contenuto. Sono anelli di una stessa catena, tappe di una sola evoluzione».
Partendo da questa premessa, la conferenza ha deciso che 
    bisogna lottare «per una riforma della Comunità ebraica e per 
    la sua trasformazione in una istituzione laica», organizzata democraticamente, 
    da ottenersi per vie legali (il corsivo è nostro. G. St.).
    È chiaro che il Bund considera come condizione e garanzia non la democratizzazione 
    della Russia, ma la futura «istituzione laica» degli ebrei, ottenuta 
    mediante la «riforma della comunità ebraica», per così 
    dire per via «legislativa», attraverso la Duma delle esigenze 
    nazionali. La forma della comunità nasconde lo stesso contenuto. Sono 
    anelli di una sola catena, tappe di una sola evoluzione».
    Ma abbiamo già visto che le «istituzioni», se manca un 
    ordinamento democratico di tutto lo stato, non possono servire di per sé 
    come «garanzie».
    E allora, come fare nel futuro ordinamento democratico? Non occorreranno anche 
    in regime di democrazia speciali «istituzioni culturali che garantiscano», 
    ecc.? Come stanno le cose, a questo riguardo, per esempio, nella democratica 
    Svizzera?
    Esistono in Svizzera speciali istituzioni culturali del tipo del «consiglio 
    nazionale» di Springer? No, non ne esistono. E non ne soffrono gli interessi 
    culturali, per esempio, degli italiani, che sono in Svizzera una minoranza? 
    Non se ne sente parlare.
    Ed è comprensibile: la democrazia in Svizzera rende superflua qualsiasi 
    «istituzione» nazionale particolare, «che garantisca», 
    ecc.
    Impotenti oggi, dunque, e superflue domani: tali sono le istituzioni per l’autonomia 
    culturale nazionale, tale è l’autonomia nazionale.
    Ma essa è ancor più nociva quando si riferisce a una «nazione» 
    la cui esistenza e il cui avvenire sono dubbi. In simili casi, i sostenitori 
    dell’autonomia nazionale sono costretti a difendere e a conservare tutte 
    le particolarità della «nazione», e non solo quelle utili, 
    ma anche quelle dannose, pur di «salvare la nazione» dall’assimilazione, 
    pur di «conservarla».
    Il Bund doveva inevitabilmente mettersi su questa strada pericolosa. E in 
    realtà ci si è messo. Ci riferiamo alle note risoluzioni delle 
    ultime conferenze del Bund sul «sabato», sul «gergo», 
    ecc.
    La socialdemocrazia rivendica il diritto della lingua materna per tutte le 
    nazioni, ma il Bund non si contenta di questo; esso esige che si difenda «con 
    particolare fermezza» il «diritto della lingua ebraica» 
    (il corsivo è nostro. G. St.); e inoltre, nelle elezioni alla IV Duma 
    dà «la preferenza a quello tra loro (cioè tra gli elettori 
    diretti) che si impegni a difendere il diritto della lingua ebraica».
    Non il diritto generale di usare la lingua materna, ma il diritto particolare 
    di usare la lingua ebraica, il gergo! Gli operai delle diverse nazionalità 
    si devono battere prima di tutto per la propria lingua: gli ebrei per l’ebraica, 
    i georgiani per la georgiana, ecc. La lotta per il diritto comune di tutte 
    le nazioni è una questione di secondo ordine. Voi potete anche non 
    riconoscere a tutte le nazioni oppresse il diritto all’uso della lingua 
    materna; ma se avete riconosciuto il diritto all’uso del gergo, sappiate 
    che il Bund voterà per voi, che il Bund vi «preferirà».
    Ma in che cosa differisce dunque il Bund dai nazionalisti borghesi?
    La socialdemocrazia vuol ottenere un giorno settimanale di riposo obbligatorio, 
    ma il Bund non se ne accontenta ed esige che «per via legislativa» 
    sia «garantito al proletariato ebraico il diritto di festeggiare anche 
    un altro giorno».
    C’è da credere che il Bund farà «un passo avanti» 
    ed esigerà il diritto di celebrare tutte le antiche feste ebraiche. 
    E se, per disgrazia del Bund, gli operai ebrei si fossero liberati dai pregiudizi 
    e non desiderassero celebrarle, il Bund, con la sua agitazione per «il 
    diritto del sabato», rammenterebbe loro il sabato, coltiverebbe in loro, 
    per così dire, «lo spirito del sabato»...
    È perciò del tutto comprensibile che all’VIII conferenza 
    del Bund siano stati pronunziati «dei discorsi infuocati» per 
    rivendicare «ospedali ebraici», giustificando questa rivendicazione 
    con la affermazione che «il malato si sente meglio tra i suoi», 
    che «l’operaio ebreo si sentirebbe a disagio tra gli operai polacchi 
    e si sentirebbe invece bene tra i bottegai ebrei».
    Conservare tutto ciò che è ebraico, conservare tutte le particolarità 
    nazionali degli ebrei, anche quelle notoriamente dannose per il proletariato, 
    isolare gli ebrei da tutto ciò che non è ebraico, costruire 
    perfino ospedali speciali, ecco dove è arrivato il Bund!
    Il compagno Plekhanov aveva mille volte ragione quando diceva che il Bund 
    «adatta il socialismo al nazionalismo». Certo, V. Kossovski e 
    i bundisti che gli assomigliano possono accusare Plekhanov di «demagogia» 
    — la carta sopporta tutto — ma per chi conosce l’attività 
    del Bund non è difficile comprendere che queste brave persone hanno 
    semplicemente paura di dire la verità sul proprio conto e si mascherano 
    con parole grosse contro la «demagogia»...
    Ma una volta presa una posizione simile sulla questione nazionale, il Bund 
    doveva naturalmente mettersi sulla via dell’isolamento degli operai 
    ebrei anche nel campo organizzativo, sulla via delle curie nazionali in seno 
    alla socialdemocrazia. Tale è infatti la logica dell’autonomia 
    nazionale.
    Elettivamente, dalla teoria della «rappresentanza unica» il Bund 
    passa alla teoria della «delimitazione nazionale» degli operai. 
    Esso esige dalla socialdemocrazia russa che «introduca nella sua struttura 
    organizzativa la «delimitazione secondo le nazionalità». 
    Dalla «delimitazione» fa poi «un passo avanti» verso 
    la teoria dell’«isolamento». Non per nulla all’VIII 
    Conferenza del Bund si son sentiti discorsi come questo: «l’esistenza 
    della nazione è nell’isolamento».
    Il federalismo organizzativo cela in sé elementi di disgregazione e 
    di separatismo. Il Bund marcia verso il separatismo.
    E del resto, in verità, non saprebbe più dove andare. La sua 
    stessa esistenza di organizzazione non territoriale lo spinge sulla via del 
    separatismo. Il Bund non ha un territorio determinato, si appoggia a territori 
    «altrui», mentre la socialdemocrazia polacca, lettone e russa, 
    con le quali si trova incontatto, sono collettività territoriali-internazionali. 
    Il risultato è che ogni ampliamento di queste collettività rappresenta 
    un «guaio» per il Bund, un restringersi del suo campo di azione. 
    Una delle due: o tutta la socialdemocrazia della Russia si riorganizzerà 
    sulle basi del nazionalismo federale, e allora il Bund avrà la possibilità 
    di «assicurarsi» il proletariato ebraico; oppure resterà 
    in vigore il principio territoriale internazionale di queste collettività, 
    e il Bund allora dovrà riorganizzarsi secondo i principi dell’internazionalismo, 
    come avviene nella socialdemocrazia polacca e lettone.
    Questo spiega perché fin dal principio il Bund abbia chiesto la «riorganizzazione 
    della socialdemocrazia della Russia su basi federative».
    Nel l906, cedendo all’ondata unitaria che veniva dalla base, esso scelse 
    la via di mezzo, entrando nella socialdemocrazia della Russia. Ma come vi 
    è entrato? Mentre la socialdemocrazia polacca e lettone vi sono entrate 
    per lavorare tranquillamente insieme, il Bund vi è entrato allo scopo 
    di lottare per la federazione. Il dirigente del Bund, Medem, così parlava 
    allora:
«Noi vi andiamo non per un idillio, ma per la lotta. Non c’è idillio, e soltanto i Manilov (7) possono sperarlo nel prossimo futuro. Il Bund deve entrare nel partito, armato dalla testa ai piedi».
Sarebbe un errore attribuire queste parole alla cattiva volontà 
    di Medem. Non si tratta di cattiva volontà, ma della posizione particolare 
    del Bund, a causa della quale esso non può non lottare contro la socialdemocrazia 
    della Russia, edificata sulle basi dell’internazionalismo. Lottando 
    contro di essa, il Bund, naturalmente, ha danneggiato gli interessi dell’unità. 
    Si è infine arrivati al punto che esso ha rotto formalmente con la 
    socialdemocrazia della Russia, violando lo statuto e unendosi, nelle elezioni 
    alla IV Duma, con i nazionalisti polacchi contro i socialdemocratici polacchi.
    Il Bund, evidentemente, ha creduto che la rottura fosse la miglior garanzia 
    per la sua indipendenza.
    Così il «principio» della «delimitazione organizzativa» 
    ha avuto come conseguenza il separatismo e la rottura completa.
    Polemizzando con la vecchia “Iskra” a proposito del federalismo, 
    il Bund tempo fa scriveva:
«L’“Iskra” vuole convincerci che i rapporti federativi del Bund con la socialdemocrazia della Russia indeboliranno necessariamente i nostri reciproci legami. Non possiamo confutare questa opinione richiamandoci alla esperienza della Russia, per la semplice ragione che la socialdemocrazia della Russia non è una associazione federativa. Ma possiamo richiamarci all’esperienza straordinariamente istruttiva della socialdemocrazia in Austria, che ha preso un carattere federativo in base alle decisioni del Congresso del 1897».
Queste parole sono state scritte nel 1902.
    Ma ora siamo nel 1913. Abbiamo adesso l’«esperienza» della 
    Russia e l’«esperienza della socialdemocrazia dell’Austria»
    Che cosa ci dicono l’una e l’altra?
    Cominciamo dall’esperienza «straordinariamente interessante della 
    socialdemocrazia austriaca».
    Nel 1896 in Austria c’era ancora un solo partito socialdemocratico. 
    In quell’anno i cechi per primi chiedono al Congresso Internazionale 
    di Londra una rappresentanza separata e la ottengono. Nel 1897, al Congresso 
    di Vienna (Wimberg), il partito unico viene formalmente liquidato e si crea 
    in sua vece un’unione federativa di sei «gruppi socialdemocratici» 
    nazionali. In seguito, questi «gruppi» si trasformano in partiti 
    indipendenti. A poco a poco questi partiti rompono i legami tra loro. Dopo 
    i partiti si scinde il gruppo parlamentare, si formano dei «circoli» 
    nazionali. Ai partiti tengono dietro i sindacati e si dividono anche essi 
    per nazionalità. Il movimento si estende perfino alle cooperative: 
    i separatisti cechi invitano gli operai a frazionarle. Non parliamo neppure 
    del fatto che l’azione separatista indebolisce nei lavoratori il sentimento 
    di solidarietà, spingendoli non di rado sulla via del crumiraggio.
    Così, l’«esperienza straordinariamente istruttiva della 
    socialdemocrazia austriaca» è contro il Bund, per la vecchia 
    “Iskra” (8). Il federalismo nel partito austriaco ha portato al 
    più vergognoso separatismo, alla rottura dell’unità del 
    movimento operaio.
    Abbiamo visto sopra che la «pratica in Russia» dice la stessa 
    cosa. I separatisti del Bund, come i cechi, hanno rotto con la comune socialdemocrazia 
    della Russia. Per quanto riguarda i sindacati, i sindacati del Bund, essi 
    fin dal principio furono organizzati sulla base della nazionalità, 
    cioè separati dagli operai delle altre nazionalità.
    Isolamento completo, rottura completa, ecco quello che insegna la «pratica 
    russa» del federalismo.
    Non c’è da meravigliarsi che un tale stato di cose si ripercuota 
    sugli operai affievolendone il senso di solidarietà, demoralizzandoli, 
    e che la demoralizzazione penetri anche nel Bund. Alludiamo agli urti sempre 
    più frequenti tra operai ebrei e polacchi a causa della disoccupazione. 
    Ecco quali discorsi si sentivano in proposito alla IX Conferenza del Bund:
«Noi consideriamo gli operai polacchi che ci soppiantano, come autori di pogrom, come provocatori, non sosteniamo i loro scioperi ma li sabotiamo. In secondo luogo, all’imposizione risponderemo con l’imposizione: in risposta al divieto fatto agli operai ebrei di entrare nelle fabbriche, non permetteremo che gli operai polacchi si avvicinino ai telai... Se non prenderemo questa lotta nelle nostre mani, i nostri operai seguiranno gli altri» (il corsivo è nostro. G. St.).
Così si parla della solidarietà alla conferenza 
    del Bund.
    Come «delimitazione» e «isolamento» non è possibile 
    andare oltre. Il Bund ha raggiunto il suo scopo: esso divide gli operai delle 
    diverse nazionalità sino a spingerli al conflitto, al crumiraggio Non 
    potrebbe essere diversamente: «se non prenderemo questa lotta nelle 
    nostre mani, i nostri operai seguiranno gli altri».
    Disorganizzazione del movimento operaio, demoralizzazione nelle file della 
    socialdemocrazia: ecco a che cosa conduce il federalismo del Bund.
    L’idea dell’autonomia culturale nazionale e l’atmosfera 
    che questa genera si è dunque dimostrata ancor più nociva in 
    Russia che in Austria.
VI. I caucasiani e la conferenza dei liquidatori
Abbiamo parlato dei tentennamenti di una parte dei socialdemocratici 
    del Caucaso, che non hanno resistito alla «epidemia» nazionalistica. 
    Questi tentennamenti si sono manifestati nel fatto che i suddetti socialdemocratici 
    hanno seguito — per quanto sembri strano — le orme del Bund, proclamando 
    l’autonomia culturale nazionale.
    Autonomia regionale per tutto il Caucaso e autonomia culturale nazionale per 
    le nazioni che fanno parte del Caucaso: così formulano la loro rivendicazione 
    questi socialdemocratici, che, sia detto tra parentesi, son legati ai liquidatori 
    russi.
    Ascoltiamo uno dei loro capi, il noto N (9).
«Tutti sanno che il Caucaso si distingue profondamente dalle province centrali, sia per la composizione etnica della popolazione, sia per il territorio e per l’economia agricola. Lo sfruttamento e lo sviluppo materiale di queste regioni esigono lavoratori del luogo, che conoscano le particolarità locali e siano abituati al clima e alle coltivazioni locali. È necessario che tutte le leggi che perseguono il fine di sfruttare il territorio della regione siano emanate sul posto e siano applicate da forze locali. Per conseguenza, l’emanazione delle leggi concernenti i problemi locali sarà di competenza dell’organo centrale dell’autoamministrazione del Caucaso... In questa maniera, le funzioni dell’organo centrale del Caucaso consisteranno nell’ emanare leggi dirette allo sfruttamento economico del territorio locale, allo sviluppo materiale della regione».
Dunque: autonomia regionale del Caucaso.
    Se si prescinde dalla motivazione addotta da N., alquanto confusa e incoerente, 
    bisogna riconoscere che la sua conclusione è giusta. L’autonomia 
    regionale del Caucaso, operante nella cornice della costituzione generale 
    dello stato — cosa che anche N. non nega — è effettivamente 
    necessaria, data la particolare conformazione e le condizioni di vita del 
    Caucaso stesso. Lo ha riconosciuto anche la socialdemocrazia della Russia, 
    che al II Congresso si è pronunciata per «l’autoamministrazione 
    regionale in quelle regioni periferiche, che per le loro condizioni di esistenza 
    e per la composizione della popolazione differiscono dalle regioni propriamente 
    russe».
    Il Martov, nel mettere in discussione questo punto al II Congresso, lo giustificò 
    dicendo che «l’immensità della Russia e l’esperienza 
    del nostro governo centralizzato ci danno motivo di ritener necessaria e opportuna 
    l’esistenza di un’amministrazione regionale per grandi territori 
    come la Finlandia, la Polonia, la Lituania e il Caucaso».
    Ne consegue che per autoamministrazione regionale bisogna intendere autonomia 
    regionale.
    Ma N. va più in là. Secondo lui, l’autonomia regionale 
    del Caucaso abbraccia «soltanto un lato della questione».
    
    «Finora abbiamo parlato soltanto dello sviluppo materiale della vita 
    locale. Ma allo sviluppo economico del paese contribuisce non solo l’attività 
    economica, ma anche quella spirituale-culturale... «Una nazione forte 
    nel campo della cultura è forte anche nella sfera economica...». 
    «Ma lo sviluppo culturale di una nazione è possibile solo nella 
    lingua nazionale... Perciò tutte le questioni relative alla lingua 
    materna sono questioni culturali nazionali. Sono queste le questioni dell’istruzione, 
    dell’amministrazione della giustizia, della chiesa, della letteratura, 
    dell’arte, della scienza, del teatro, ecc.. Se la questione dello sviluppo 
    materiale del paese unisce le nazioni, i problemi nazional-culturali le separano, 
    chiudono ciascuna di esse nel suo proprio recinto. L’attività 
    economica è legata ad un territorio ben definito». «Non 
    così i problemi culturali nazionali. Essi non sono legati ad un territorio 
    determinato, ma all’esistenza di una determinata nazione. Le sorti della 
    lingua georgiana interessano ugualmente tutti i georgiani, dovunque essi vivano. 
    Sarebbe dar prova di grande ignoranza dire che la cultura georgiana riguarda 
    solo i georgiani che vivono nella Georgia. Prendiamo per esempio la chiesa 
    armena. Alla amministrazione dei suoi affari prendono parte gli armeni di 
    diverse località e di diversi stati. In questo caso il territorio non 
    ha nessuna importanza. Un altro esempio: alla creazione di un museo georgiano 
    sono interessati tanto il georgiano di Tiflis quanto quello di Bakù, 
    di Kutais, di Pietroburgo, ecc. Ciò significa che l’amministrazione 
    e la direzione di tutti gli affari culturali nazionali deve essere lasciata 
    alle nazioni interessate. Noi proclamiamo l’autonomia culturale nazionale 
    delle nazionalità del Caucaso».
Insomma, siccome la cultura non è il territorio e 
    il territorio non è la cultura, è necessaria l’autonomia 
    culturale nazionale. Questo è tutto quello che N. sa dire in favore 
    di quest’ultima.
    Non ritorneremo qui ancora una volta sull’autonomia nazional-culturale 
    in genere: ne abbiamo già rilevato il carattere negativo. Vorremmo 
    soltanto osservare che l’autonomia culturale nazionale, inutile in generale, 
    è ancor più insensata e assurda dal punto di vista delle condizioni 
    del Caucaso.
    Ed ecco perché.
    L’autonomia culturale nazionale presuppone nazionalità più 
    o meno sviluppate, con una cultura ed una letteratura progredite. Senza queste 
    condizioni, l’autonomia perde ogni significato e si trasforma in un’assurdità. 
    Ma nel Caucaso c’è tutta una serie di popolazioni con una cultura 
    primitiva, con una lingua propria, ma senza una propria letteratura; una serie 
    di popolazioni, per giunta, che sono in un periodo di transizione; che in 
    parte si assimilano, in parte invece si sviluppano ulteriormente. Come applicare 
    a queste popolazioni l’autonomia culturale nazionale? Come comportarsi 
    con queste popolazioni? Come «organizzarle» in unioni culturali 
    nazionali separate, che sono indubbiamente il presupposto dell’autonomia 
    culturale nazionale?
    Come regolarsi con i mingreli, con gli abkhasi, con gli adzeri, con gli svani, 
    con i lezghini e altri, che parlano lingue diverse, ma non hanno una letteratura 
    propria? A quali nazioni attribuirli? È possibile «organizzarli» 
    in unioni nazionali? Intorno a quali «questioni culturali» è 
    possibile «organizzarli»?
    Come regolarsi con gli osseti, dei quali i transcaucasici si vanno assimilando 
    ai georgiani (ma sono ancora lontani dall’essersi assimilati), e i ciscaucasici 
    in parte si assimilano ai russi e in parte si sviluppano ancora, dando origine 
    ad una propria letteratura? Come «organizzarli» in una sola unione 
    nazionale?
    A quale unione nazionale assegnare gli adzeri, che parlano la lingua georgiana, 
    ma sono di cultura turca e professano la religione musulmana? Non si dovrebbe 
    «organizzarli» separatamente dai georgiani sulla base delle questioni 
    religiose e insieme ai georgiani sulla base delle altre questioni culturali? 
    E i cobuleti? E gli ingusci? E gli inghiloizi?
    Che cos’è quest’autonomia che esclude dall’elenco 
    tutta una serie di nazionalità?
    No, questa non è una soluzione della questione nazionale, questo è 
    il parto di una fantasia oziosa.
    Ma ammettiamo pure l’inammissibile e supponiamo che l’autonomia 
    culturale nazionale del nostro N. venga realizzata. A che cosa condurrà? 
    A quali risultati? Prendiamo, per esempio, i tartari della Transcaucasia con 
    la loro bassissima percentuale di persone che sappiano leggere e scrivere, 
    con le loro scuole, a capo delle quali stanno gli onnipotenti mullah, con 
    la loro cultura impregnata di spirito religioso... Non è difficile 
    comprendere che «organizzarli» in un’unione culturale nazionale 
    significa mettere alla loro testa i mullah reazionari, significa creare una 
    nuova fortezza per l’asservimento spirituale delle masse tartare al 
    loro peggiore nemico.
    Da quando in qua i socialdemocratici portano acqua al mulino dei reazionari?
    È possibile che i liquidatori del Caucaso non avessero nulla di meglio 
    da «proclamare» che i tartari della Transcaucasia dovessero essere 
    confinati in un’unione culturale nazionale destinata ad asservire le 
    masse ai peggiori reazionari? 
    No, questa non è una soluzione della questione nazionale.
    La questione nazionale nel Caucaso può esser risolta solo nel senso 
    di attirare le nazioni e le popolazioni arretrate nell’alveo comune 
    di una cultura superiore. Solo questa soluzione può essere progressiva 
    e può essere accettata dalla socialdemocrazia. L’autonomia regionale 
    del Caucaso può essere accettata perchè trascina le nazioni 
    arretrate nel generale sviluppo culturale, le aiuta a uscire dal loro guscio 
    angusto di piccole nazionalità, le spinge in avanti e facilita il loro 
    accesso ai benefici di una cultura più alta. Invece l’autonomia 
    culturale nazionale agisce in senso addirittura opposto, perchè rinchiude 
    le nazioni nel vecchio guscio, le incatena ai gradini più bassi dello 
    sviluppo culturale, impedisce loro di innalzarsi ai gradi più elevati 
    della cultura.
    In questo modo l’autonomia nazionale paralizza i lati positivi dell’autonomia 
    regionale, li riduce a zero.
    Appunto per questo è inutile anche quel tipo misto di autonomia proposto 
    da N., consistente nel combinare l’autonomia culturale nazionale con 
    quella regionale. Questa combinazione contro natura non migliora la situazione, 
    ma la peggiora, perchè, oltre ad ostacolare lo sviluppo delle nazioni 
    arretrate, trasforma anche l’autonomia regionale in un’arena di 
    scontri tra le nazioni organizzate nelle unioni nazionali.
    Così l’autonomia nazional-culturale, inutile in generale, si 
    trasformerebbe nel Caucaso in un insensato tentativo reazionario.
    Questa è l’autonomia culturale nazionale,di N. e dei suoi amici 
    caucasiani.
    Il futuro mostrerà se i liquidatori caucasiani faranno ancora «un 
    passo avanti» e seguiranno le orme del Bund anche nella questione organizzativa. 
    Finora nella storia della socialdemocrazia il federalismo organizzativo ha 
    sempre preceduto l’inclusione,dell’autonomia nazionale nel programma.
    I socialdemocratici austriaci hanno applicato il federalismo organizzativo 
    fin dal 1897 e solo due anni dopo (1899) hanno approvato l’autonomia 
    nazionale. I bundisti hanno parlato esplicitamente di autonomia nazionale 
    per la prima volta nel 1901, mentre avevano applicato il federalismo organizzativo 
    fin dal 1897.
    I liquidatori caucasiani hanno incominciato dalla fine, dall’autonomia 
    nazionale. Se vorranno spingersi più avanti sulle orme del Bund, dovranno 
    distruggere preventivamente tutto l’attuale edificio organizzativo, 
    costruito alla fine del secolo scorso sulle basi dell’internazionalismo.
    Ma se è stato facile approvare l’autonomia nazionale, che per 
    ora non è compresa dagli operai, altrettanto difficile sarà 
    distruggere un edificio costruito nel corso di anni e anni, amato ed esaltato 
    dagli operai di tutte le nazionalità del Caucaso. Basterà accingersi 
    a quest’impresa degna di Erostrato, perchè gli operai aprano 
    gli occhi e comprendano l’essenza nazionalistica dell’autonomia 
    culturale nazionale.
    Se i caucasiani risolvono la questione nazionale seguendo i metodi abituali, 
    attraverso i dibattiti orali e la discussione sulla stampa, la conferenza 
    dei liquidatori di tutta la Russia (10) ha escogitato un metodo del tutto 
    eccezionale. Un metodo facile e semplice. Ascoltate:
«Udita la comunicazione della delegazione del Caucaso... sulla necessità di avanzare la rivendicazione della autonomia culturale nazionale, la conferenza, senza pronunziarsi sulla sostanza della rivendicazione, constata che tale interpretazione del punto del programma, che riconosce ad ogni nazionalità il diritto di autodecisione, non è in contrasto col preciso significato del programma stesso».
E così, prima «non si pronuncia sulla sostanza» 
    della questione, e poi «constata». Metodo originale...
    Che cosa mai «constata» questa conferenza originale?
    Che la «rivendicazione» dell’autonomia culturale nazionale 
    «non è in contrasto col preciso significato» del programma, 
    che riconosce il diritto delle nazioni all’autodecisione.
    Esaminiamo questa tesi.
    Il punto sull’autodecisione parla dei diritti delle nazioni. Secondo 
    questo punto, le nazioni hanno diritto non solo all’autonomia, ma anche 
    alla separazione. Si tratta dell’autodecisione politica. Chi volevano 
    ingannare i liquidatori, tentando di interpretare a rovescio questo diritto 
    di autodecisione politica delle nazioni, da tanto tempo affermato da tutta 
    la socialdemocrazia internazionale?
    O forse i liquidatori vogliono farla franca ricorrendo a un sofisma: non è 
    vero, dicono, che l’autonomia culturale nazionale «non è 
    in contrasto» con i diritti delle nazioni? Cioè, se tutte le 
    nazioni di un determinato stato si accordano per organizzarsi secondo i princìpi 
    dell’autonomia culturale nazionale, esse (cioè quel certo numero 
    di nazioni) hanno tutto il diritto di farlo e nessuno può costringerle 
    per forza ad un’altra forma di vita politica. Questo è nuovo 
    e intelligente. Perchè non aggiungere anche che, in linea generale, 
    le nazioni hanno il diritto di mutare la loro costituzione, di sostituirla 
    con un regime dispotico, di tornare ai vecchi ordinamenti, perchè le 
    nazioni e soltanto le nazioni stesse hanno il diritto di decidere il loro 
    destino? Ripetiamo: in questo senso, nè l’autonomia culturale 
    nazionale nè qualsiasi forma di reazione nazionale «è 
    in contrasto» con i diritti delle nazioni.
    Non voleva dir questo l’onorata conferenza?
    No, non voleva dir questo. Essa afferma esplicitamente che l’autonomia 
    culturale nazionale «non è in contrasto» non già 
    con i diritti delle nazioni, ma «col significato preciso del programma». 
    Non si è parlato dei diritti delle nazioni, ma del programma.
    Il perchè è chiaro. Se una qualsiasi nazione avesse interpellato 
    la conferenza dei liquidatori, la conferenza avrebbe potuto senz’altro 
    constatare che la nazione ha diritto all’autonomia culturale nazionale. 
    Invece, la conferenza è stata interpellata non da una nazione, ma da 
    una «delegazione» di socialdemocratici del Caucaso; di cattivi 
    socialdemocratici, in verità, ma ad ogni modo socialdemocratici. Ed 
    essi non hanno interpellato la conferenza sui diritti delle nazioni, ma le 
    hanno chiesto se l’autonomia culturale nazionale non è in contraddizione 
    coi princìpi della socialdemocrazia, e se non è «in contrasto» 
    «col significato preciso» del programma socialdemocratico.
    Dunque, i diritti delle nazioni e il «significato preciso» del 
    programma socialdemocratico non sono la stessa cosa.
    Evidentemente ci sono rivendicazioni che, pur non essendo in contrasto coi 
    diritti delle nazioni, possono esserlo col «significato preciso» 
    del programma.
    Un esempio. Nel programma dei socialdemocratici c’è un punto 
    sulla libertà di culto. Secondo questo punto, ogni gruppo di persone 
    ha il diritto di praticare qualsiasi religione: il cattolicesimo, l’ortodossia, 
    ecc. La socialdemocrazia combatterà ogni forma di repressione religiosa, 
    combatterà le persecuzioni contro ortodossi, cattolici e protestanti. 
    Ma questo significa forse che il cattolicesimo, il protestantesimo, ecc., 
    «non sono in contrasto col significato preciso» del programma? 
    No, non significa questo. La socialdemocrazia protesterà sempre contro 
    le persecuzioni anticattoliche e antiprotestanti, difenderà sempre 
    il diritto delle nazioni a praticare qualsiasi religione, ma nel tempo stesso, 
    partendo da una giusta comprensione degli interessi del proletariato, condurrà 
    un’agitazione sia contro il cattolicesimo che contro il protestantesimo 
    e contro l’ortodossia, allo scopo di preparare il trionfo della concezione 
    socialista.
    E farà questo perchè il protestantesimo, il cattolicesimo, l’ortodossia, 
    ecc., sono indubbiamente «in contrasto col preciso significato» 
    del programma, cioè contro gli interessi giustamente intesi del proletariato.
    Lo stesso si deve dire dell’autodecisione. Le nazioni hanno il diritto 
    di organizzarsi come desiderano, hanno il diritto di conservare qualsiasi 
    loro istituzione nazionale nociva o utile, e nessuno può (non ne ha 
    il diritto!) intervenire con la violenza nella vita di una nazione. Ma questo 
    non significa ancora che la socialdemocrazia non lotterà e non condurrà 
    un’agitazione contro le istituzioni nazionali nocive, contro le rivendicazioni 
    nazionali inadeguate. Al contrario, la socialdemocrazia ha l’obbligo 
    di condurre questa agitazione e di influire sulla volontà delle nazioni 
    in modo che le nazioni si organizzino nella forma meglio rispondente agli 
    interessi del proletariato. Appunto per questo, pur lottando per il diritto 
    delle nazioni all’autodecisione, condurrà nello stesso tempo 
    un’agitazione, per esempio, contro la separazione dei tartari e contro 
    l’autonomia culturale nazionale delle nazioni del Caucaso, perchè 
    sia l’una che l’altra, pur non essendo in contrasto con i diritti 
    di quelle nazioni, sono tuttavia in contrasto «col significato preciso» 
    del programma, cioè contro gli interessi del proletariato del Caucaso.
    Evidentemente i «diritti delle nazioni» e il «significato 
    preciso» del programma sono due cose completamente diverse. Mentre il 
    «significato preciso» del programma esprime gli interessi del 
    proletariato, scientificamente formulati nel programma di quest’ultimo, 
    i diritti delle nazioni possono esprimere gli interessi di qualsiasi classe: 
    della borghesia, dell’aristocrazia, del clero, ecc., secondo la forza 
    e l’influenza di queste classi. Là i doveri,del marxista, qui 
    i diritti delle nazioni che comprendono varie classi. I diritti delle nazioni 
    ed i princìpi della socialdemocrazia possono essere o non essere «in 
    contrasto», nello stesso modo che la piramide di Cheope può essere 
    o non essere in contrasto con la famosa conferenza dei liquidatori. Si tratta 
    semplicemente di cose che non possono essere messe a confronto.
    Ma ne consegue che l’onorata conferenza ha confuso nella maniera più 
    ingiustificabile due cose completamente diverse. Ne è risultato non 
    una risoluzione sulla questione nazionale, ma un’assurdità, in 
    virtù della quale i diritti delle nazioni e i princìpi della 
    socialdemocrazia «non sono in contrasto» gli uni con gli altri 
    e per conseguenza ogni rivendicazione della nazione può essere compatibile 
    con gli interessi del proletariato e quindi nessuna rivendicazione delle nazioni, 
    che aspirano all’autodecisione, può «essere in contrasto 
    col preciso significato» del programma!
    Povera logica...
    Sulla base di quest’assurdità è nata la decisione ormai 
    celebre della conferenza dei liquidatori, secondo cui la rivendicazione dell’autonomia 
    culturale nazionale «non è in contrasto col preciso significato» 
    del programma.
    Ma la conferenza dei liquidatori non ha violato soltanto le leggi della logica.
    Sanzionando l’autonomia culturale nazionale, essa è venuta meno 
    anche al suo dovere verso la socialdemocrazia della Russia. Essa ha falsato 
    nella maniera più aperta il «significato preciso» del programma, 
    perchè è noto che il II Congresso, che approvò il programma, 
    respinse decisamente l’autonomia culturale nazionale. Ecco quello che 
    si disse a questo proposito al II Congresso:
«Goldblatt (bundista): ... Ritengo necessario creare 
    istituzioni particolari che garantiscano la libertà di sviluppo culturale 
    delle nazionalità e perciò propongo di aggiungere al § 
    8: “e la creazione di istituzioni che garantiscano la piena libertà 
    di sviluppo culturale” (questa, com’è noto, è la 
    formulazione data dal Bund all’autonomia culturale nazionale. G. St.).
    Martynov rileva che le istituzioni generali devono essere organizzate in maniera 
    tale che siano garantiti anche gli interessi particolari. Non è possibile 
    creare nessuna istituzione particolare che garantisca la libertà di 
    sviluppo culturale delle nazionalità.
    Jegorov: Sul problema delle nazionalità dobbiamo accogliere solo le 
    proposte negative vale a dire: noi siamo contro qualsiasi costrizione ai danni 
    delle varie nazionalità. Ma come socialdemocratici diciamo che non 
    è affar nostro se determinate nazionalità si sviluppano in quanto 
    tali. Si tratta di un processo spontaneo.
    Koltsov: I delegati del Bund si offendono sempre quando si parla del loro 
    nazionalismo. Eppure, l’emendamento proposto dal delegato del Bund ha 
    un carattere nettamente nazionalistico. Ci si chiedono misure nettamente aggressive 
    per sostenere perfino quelle nazionalità che vanno scomparendo ».
    ... In conclusione, «l’emendamento di Goldblatt viene respinto 
    dalla maggioranza con tre voti contrari».
È dunque chiaro che la conferenza dei liquidatori 
    si è messa «in contrasto» col significato preciso del programma. 
    Essa ha violato il programma.
    I liquidatori tentano ora di giustificarsi, riferendosi al congresso di Stoccolma, 
    che avrebbe sanzionato l’autonomia culturale nazionale. Così 
    Vl. Kossovski scrive:
    «Come è noto, secondo l’accordo raggiunto al Congresso 
    di Stoccolma, il Bund è stato autorizzato a conservare il suo programma 
    nazionale (fino alla soluzione della questione nazionale al congresso generale 
    del partito). Questo congresso ha riconosciuto che l’autonomia culturale 
    nazionale, in ogni caso, non è in contraddizione col programma generale 
    del partito».
Ma i tentativi dei liquidatori sono vani. Il Congresso di Stoccolma non ha per nulla pensato di sanzionare il programma del Bund, ha solo consentito a lasciare aperta temporaneamente la questione. Il bravo Kossovski non ha avuto il coraggio di dire tutta la verità. Ma i fatti parlano da soli.
«Galin propone un emendamento: “La questione 
    del programma nazionale rimane aperta perchè non è stata esaminata 
    dal Congresso” (50 voti a favore, 32 contro).
    Una voce: Che cosa vuol dire: aperta?
    Presidente: Se diciamo che la questione nazionale rimane aperta, ciò 
    significa che il Bund può mantenere fino al prossimo congresso la propria 
    decisione su questa questione» (il corsivo è nostro. G. St.).
Come vedete, il congresso «non esaminò» 
    neppure la questione del programma nazionale del Bund; semplicemente, la lasciò 
    «aperta», dando al Bund stesso facoltà di decidere le sorti 
    del proprio programma fino al seguente congresso generale. In altri termini: 
    il Congresso di Stoccolma si è disinteressato della questione e non 
    ha dato un giudizio sull’autonomia nazionale, nè in un senso 
    nè nell’altro.
    Invece la conferenza dei liquidatori entra nel merito della questione in una 
    maniera ben precisa, dichiara accettabile l’autonomia culturale nazionale 
    e la sanziona in nome del programma del partito.
    La differenza salta agli occhi.
    In tal modo la conferenza dei liquidatori, malgrado tutte le astuzie, non 
    ha fatto progredire neppure di un passo la questione nazionale.
    Scodinzolare davanti al Bund ed ai nazional-liquidatori del Caucaso: ecco 
    tutto quello di cui si è dimostrata capace.
VII. La questione nazionale in Russia
Ci rimane da indicare una soluzione positiva della questione 
    nazionale.
    Noi partiamo dalla premessa che la questione può essere risolta solo 
    connettendola strettamente al momento che attraversa la Russia.
    La Russia vive in un periodo di transizione, in cui non si è ancora 
    stabilizzata una «normale» vita «costituzionale» e 
    non si è ancora risolta la crisi politica. Ci attendono giorni di tempeste 
    e di «complicazioni». Di qui il movimento, quello in corso e quello 
    incombente, che ha come obiettivo la democratizzazione completa.
    Anche la questione nazionale deve essere esaminata in relazione a questo movimento.
    Dunque, democratizzazione completa del paese come fondamento e condizione 
    della soluzione della questione nazionale.
    Nel risolvere la questione nazionale bisogna tener conto non solo della situazione 
    interna, ma anche di quella estera. La Russia si trova tra l’Europa 
    e l’Asia, tra l’Austria e la Cina. Lo sviluppo della democrazia 
    in Asia è inevitabile. Lo sviluppo dell’imperialismo in Europa 
    non è un fenomeno casuale. In Europa il capitale non ha più 
    spazio sufficiente e si riversa in altri paesi, cercando nuovi mercati, manodopera 
    a buon prezzo, nuove zone d’investimento. Ma ciò porta a complicazioni 
    estere, alla guerra. Nessuno può dire se la guerra balcanica sia la 
    fine e non il principio di complicazioni. È possibilissimo un concorso 
    di circostanze interne ed estere per cui una determinata nazionalità 
    in Russia ritenga necessario porre e risolvere la questione della sua indipendenza. 
    E non è certo compito dei marxisti creare degli ostacoli ad una simile 
    eventualità.
    Ne consegue che i marxisti russi non rinunzieranno al diritto delle nazioni 
    all’autodecisione.
    Dunque, il diritto di autodecisione come elemento indispensabile per la soluzione 
    della questione nazionale.
    Ancora. Come regolarsi con le nazioni che per una ragione o per l’altra 
    preferiranno restare entro uno stato unico?
    Abbiamo visto che l’autonomia culturale nazionale non serve. Prima di 
    tutto è artificiosa, non naturale, perchè presuppone che siano 
    incluse artificialmente in una sola nazione persone che la vita, la vita effettiva, 
    ha separato e disperso nelle varie regioni periferiche dello stato. In secondo 
    luogo, fa deviare verso il nazionalismo, perchè presuppone il principio 
    del «raggruppamento» delle persone in curie nazionali, il principio 
    della «organizzazione» delle nazioni, il principio della «conservazione» 
    e dello sviluppo delle «particolarità nazionali», e ciò 
    non conviene affatto alla socialdemocrazia. Non a caso al Reichsrat i separatisti 
    moravi, dopo essersi staccati dai deputati socialdemocratici tedeschi, si 
    sono uniti con i deputati borghesi della Moravia in un unico «circolo» 
    moravo, per così dire. E non a caso i separatisti russi del Bund si 
    sono impantanati nel nazionalismo, esaltando il «sabato» e il 
    «gergo». Nella Duma non vi sono ancora deputati del Bund, ma nel 
    campo di azione del Bund c’è una comunità ebraica clerical-reazionaria, 
    nelle cui «istituzioni dirigenti» il Bund realizza, per il momento, 
    1’«unione» degli ebrei, operai e borghesi. Questa è 
    la logica dell’autonomia culturale nazionale. 
    L’autonomia nazionale non risolve dunque la questione.
    Qual è allora la via d’uscita?
    L’unica soluzione giusta è l’autonomia regionale, l’autonomia 
    di determinate unità, come la Polonia, la Lituania, l’Ucraina, 
    il Caucaso, ecc.
    La superiorità dell’autonomia regionale sta innanzi tutto nel 
    fatto che, grazie ad essa, non si ha a che fare con un’entità 
    fittizia, senza territorio, ma con una popolazione determinata che vive in 
    un determinato territorio.
    Inoltre, essa non divide la popolazione per nazioni, non consolida barriere 
    nazionali; al contrario, spezza queste barriere ed unisce la popolazione per 
    aprire la strada ad un raggruppamento di altro genere, al raggruppamento di 
    classe. Infine, offre la possibilità di utilizzare nel modo migliore 
    le ricchezze naturali della regione e di sviluppare le forze produttive senza 
    attendere le decisioni del centro comune, funzioni, tutte queste, estranee 
    all’autonomia culturale nazionale.
    Dunque: autonomia regionale, come elemento necessario per la soluzione della 
    questione nazionale.
    È fuor di dubbio che nessuna regione costituisce un’unità 
    nazionale compatta, perchè in ogni regione esistono delle minoranze 
    nazionali. Tali gli ebrei in Polonia, i lettoni in Lituania, i russi nel Caucaso, 
    i polacchi in Ucraina, ecc. Si può temere, perciò, che le minoranze 
    vengano oppresse dalle maggioranze nazionali. Ma i timori hanno un fondamento 
    solo nel caso in cui il paese conservi i vecchi ordinamenti. Date al paese 
    una democrazia completa e i timori perderanno ogni ragion d’essere.
    C’è chi propone di collegare le minoranze sparse in una sola 
    unione nazionale. Ma le minoranze non hanno bisogno di un’unione artificiale, 
    bensì di diritti reali nel luogo dove vivono. Che cosa può offrir 
    loro una tale unione, se non esiste democrazia completa? Oppure: che bisogno 
    c’è di unione nazionale, se esiste una democrazia completa?
    Che cosa particolarmente mette in agitazione le minoranze nazionali?
    Le minoranze nazionali sono malcontente non perchè non esista un’unione 
    nazionale, ma perchè non esiste il diritto di usare la lingua materna. 
    Concedete loro il diritto di usare la lingua materna e il malcontento sparirà 
    da sè.
    Le minoranze sono malcontente non perchè non esiste un’unione 
    artificiosa, ma perchè non esiste una loro scuola. Concedete loro questa 
    scuola e il malcontento perderà ogni ragione d’essere.
    Le minoranze sono malcontente non perchè non esista un’unione 
    nazionale, ma perchè non esiste la libertà di coscienza (libertà 
    di culto), di trasferimento, ecc. Concedete loro queste libertà ed 
    esse non saranno più malcontente.
    Dunque, uguaglianza nazionale di diritti in tutti i suoi aspetti (lingua, 
    scuola, ecc.) come elemento necessario per la soluzione della questione nazionale. 
    Occorre una legge generale dello stato, emanata sulla base di una completa 
    democratizzazione del paese, che proibisca senza eccezioni tutte le forme 
    di privilegi nazionali e qualsiasi oppressione o limitazione dei diritti delle 
    minoranze nazionali.
    In questo, e solo in questo, può consistere la garanzia effettiva, 
    e non solo sulla carta, dei diritti delle minoranze.
    Si può contestare o non contestare l’esistenza di un legame logico 
    tra il federalismo organizzativo e l’autonomia culturale nazionale. 
    Ma non si può contestare il fatto che quest’ultima crei un’atmosfera 
    propizia per un federalismo sfrenato, che si trasforma in rottura completa, 
    in separatismo. Se i cechi in Austria e i bundisti in Russia, dopo aver incominciato 
    con l’autonomia ed esser passati alla federazione, hanno finito col 
    cadere nel separatismo, non c’è dubbio che in questa faccenda 
    abbia avuto una parte grandissima l’atmosfera nazionalistica che l’autonomia 
    culturale nazionale diffonde naturalmente. Non è un caso che l’autonomia 
    nazionale e la federazione organizzativa vadano a braccetto. È anzi 
    naturale. L’una e l’altra rivendicano un raggruppamento sulla 
    base della nazionalità. L’una e l’altra presuppongono un’organizzazione 
    sulla base della nazionalità. L’analogia è fuori dubbio. 
    La differenza consiste solo in questo, che in base alla prima si divide lapopolazione 
    in generale, in base alla seconda si dividono gli operai socialdemocratici.
    Sappiamo a che cosa conduce il raggruppamento degli operai per nazionalità: 
    distruzione del partito operaio unico, scissione dei sindacati in base alle 
    nazionalità, acutizzazione degli attriti nazionali, crumiraggio nazionale, 
    demoralizzazione completa nelle file della socialdemocrazia: questi sono i 
    risultati del federalismo organizzativo. La storia della socialdemocrazia 
    in Austria e l’attività del Bund in Russia lo dimostrano eloquentemente.
    L’unico mezzo per evitare tutto questo è l’organizzazione 
    secondo i princìpi dell’internazionalismo.
    Unificare sul posto gli operai di tutte le nazionalità della Russia 
    in collettività uniche e compatte, unificare queste collettività 
    in un unico partito: questo è il compito.
    Va da sè che una tale organizzazione di partito non esclude ma presuppone 
    una larga autonomia regionale all’interno del partito unico.
    L’esperienza del Caucaso dimostra quanto sia conveniente un’organizzazione 
    di questo genere. Se i caucasiani sono riusciti a superare gli attriti nazionali 
    tra gli operai armeni e tartari, se sono riusciti a proteggere la popolazione 
    da eventuali massacri e sparatorie, se oggi, a Bakù, in questo caleidoscopio 
    di gruppi nazionali, non sono più possibili conflitti nazionali, se 
    là si è riusciti a convogliare gli operai nell’alveo unico 
    di un movimento potente, in tutto questo ha avuto una parte non indifferente 
    l’organizzazione internazionale della socialdemocrazia del Caucaso.
    Il tipo dell’organizzazione non influisce soltanto sul lavoro pratico. 
    Esso imprime un suggello indelebile su tutta la vita intellettuale dell’operaio. 
    L’operaio vive la vita della sua organizzazione, in essa si sviluppa 
    intellettualmente e si educa. Recandosi nella sua organizzazione ed incontrandovisi 
    sempre con i suoi compagni di altre nazionalità, partecipando insieme 
    a loro a una lotta comune sotto la direzione di una collettività comune, 
    egli si compenetra profondamente dell’idea che gli operai sono, prima 
    di tutto, membri di un’unica famiglia di classe, membri di un unico 
    esercito socialista. E questo non può non avere un’immensa importanza 
    educativa per larghi strati della classe operaia.
    Perciò l’organizzazione di tipo internazionale è la scuola 
    dei sentimenti di fraternità, della più grande propaganda dell’internazionalismo.
    Non si può dire la stessa cosa per l’organizzazione sulla base 
    della nazionalità. Organizzandosi sulla base della nazionalità, 
    gli operai si chiudono nel loro guscio nazionale, divisi l’uno dall’altro 
    da barriere organizzative. Si mette in rilievo non ciò che vi è 
    di comune tra gli operai, ma ciò che li distingue l’uno dall’altro. 
    Qui l’operaio è prima di tutto membro della sua nazione: è 
    ebreo, polacco, ecc. Non c’è da meravigliarsi se il federalismo 
    nazionale nell’organizzazione alimenta negli operai lo spirito del particolarismo 
    nazionale.
    Perciò il tipo di organizzazione nazionale è la scuola della 
    ristrettezza e del particolarismo nazionale.
    Abbiamo così davanti a noi due tipi di organizzazione differenti in 
    linea di principio: il tipo della unità internazionale e il tipo della 
    «separazione» organizzativa degli operai secondo le nazionalità.
    Finora, i tentativi di conciliare questi due tipi non hanno avuto successo. 
    Lo statuto conciliatore della socialdemocrazia austriaca, elaborato a Wimberg 
    nel 1897, è rimasto campato in aria. Il partito austriaco è 
    andato in pezzi, trascinando dietro di sè i sindacati. La «conciliazione» 
    si è dimostrata, oltre che utopistica, anche dannosa. Aveva ragione 
    lo Strasser, quando affermava che «il separatismo ha riportato la sua 
    prima vittoria al Congresso di Wimberg». La stessa cosa è accaduta 
    in Russia. La «conciliazione» col federalismo del Bund, tentata 
    al Congresso di Stoccolma (11), è terminata con un fallimento completo. 
    Il Bund ha rotto il compromesso di Stoccolma. Già all’indomani 
    di Stoccolma il Bund diveniva un ostacolo al processo di fusione degli operai 
    delle varie località in un’unica organizzazione che abbracciasse 
    gli operai di tutte le nazionalità. E il Bund ha persistito ostinatamente 
    nella sua tattica separatista malgrado che nel 1907 e nel 1908 la socialdemocrazia 
    della Russia avesse ripetutamente chiesto che si realizzasse finalmente l’unità 
    dal basso tra gli operai di tutte le nazionalità. Il Bund, che aveva 
    incominciato con l’autonomia nazionale organizzativa, è passato 
    di fatto alla federazione, per finire poi con la rottura completa, con il 
    separatismo. Rompendo con la socialdemocrazia della Russia, ha portato nelle 
    sue file confusione e disorganizzazione. Basti ricordare il caso Iaghello 
    (12).
    Perciò la strada della «conciliazione», dev’essere 
    abbandonata, come utopistica e nociva.
    Una delle due: o il federalismo del Bund, e allora la socialdemocrazia della 
    Russia si organizzerà secondo i princìpi della «divisione» 
    degli operai secondo la nazionalità; o l’organizzazione di tipo 
    internazionale, e allora il Bund si riorganizzerà secondo i princìpi 
    dell’autonomia territoriale, a somiglianza della socialdemocrazia del 
    Caucaso, della Lettonia e della Polonia, aprendo la strada all’unione 
    immediata degli operai ebrei con gli operai delle altre nazionalità 
    della Russia.
    Non c’è via di mezzo: i princìpi vincono, ma non «si 
    conciliano».
    Dunque: il principio dell’unione internazionale degli operai, come elemento 
    indispensabile per la soluzione della questione nazionale.
Vienna, gennaio 1913 (13).
    Pubblicato per la prima volta nella Prosvestcenie, nn. 3-5, marzo-maggio 1913. 
    Firmato: K. Stalin.
Note:
1. Assemblea elettiva concessa dallo zar il 17 ottobre 1905 (chiamata Duma di Witte o legislativa, per distinguerla dalla precedente Duma di Bulyghin, puramente consultiva e fallita prima ancora di essere convocata, per il boicottaggio attivo dei bolscevichi. La Duma di Witte non era eletta a suffragio universale, ma a suffragio ristretto e con gli elettori divisi in quattro "curie" (proprietari fondiari, borghesia, contadini, operai), con la prevalenza assicurata alle prime due curie. I bolscevichi boicottarono anche questa Duma , che fu sciolta dopo 72 giorni. Due anni dopo, il 20 febbraio 1907, venne convocata una seconda Duma legislativa, che fu sciolta dallo zar con un colpo di Stato il 3 giugno dello stesso anno. La terza Duma (detta Duma di Stolypin) fu eletta alla fine del 1907 con una nuova legge elettorale che assicurava il predominio dei partiti più reazionari. Alla quarta Duma, che fu eletta nell'autunno del 1912 e che durò fino alla Rivoluzione del 1917, i bolscevichi parteciparono come gruppo indipendente dal gruppo parlamentare socialdemocratico.
2. Unione generale degli operai ebrei di Lituania, Polonia e Russia, costituitasi nel settembre 1897 al Congresso di Vilna. Aderì nel 1898 al Partito Operaio Socialdemocratico Russo, assumendo negli anni successivi un atteggiamento sempre più nazionalistico. Chiese al P.O.S.D.R. che il partito fosse riorganizzato su basi federative, ma la richiesta fu respinta al II Congresso del P.O.S.D.R. (1903) in conformità alle posizioni espresse da Lenin. Uscito dal partito, il Bund vi fu riammesso nel 1906, continuando a sviluppare la sua propaganda nazionalista e schierandosi sempre, sulle fondamentali questioni politiche ed organizzative, dalla parte dei menscevichi e dei liquidatori. Durante la prima guerra mondiale e nel corso della Rivoluzione di febbraio del 1917, il Bund lottò contro i bolscevichi, disgregandosi a poco a poco. Nel 1921, alla conferenza di Minsk, i bundisti di sinistra deliberarono l'adesione al Partito bolscevico.
3. Furono chiamati "liquidatori" quei menscevichi i quali, negli anni di reazione che seguirono alla sconfitta della rivoluzione russa del 1905, si lasciarono vincere dallo scetticismo e dal panico, negarono che fosse possibile una nuova ascesa della rivoluzione e abbandonarono le parole d'ordine rivoluzionarie, sostenendo che era necessario liquidare le organizzazioni illegali del partito per utilizzare soltanto le forme di lotta e le forme organizzative legali permesse dallo zarismo. I principali esponenti di questa tendenza furono, in quegli anni, Fiodor Dan, Pavel Axelrod e Alexandr Potresov.
4. Rudolf Springer. Pseudonimo di Karl Renner (1870-1950), 
    giurista e uomo politico austriaco, uno dei principali esponenti dell'austro-marxismo. 
    Nel corso della sua lunga vita, ricoprì numerose cariche pubbliche 
    e svolse un'ampia attività pubblicistica strettamente legata alla sua 
    attività politica. Nel 1919-20 fu Cancelliere e dal 1945 al 1950 Presidente 
    della Repubblica Austriaca. Sulla questione nazionale, oltre al saggio citato 
    da Stalin, scrisse Was ist die Nationale Autonomie?(Che cos'è l'autonomia 
    nazionale?), Vienna 1913. Altre sue opere: Staat und Parlament(Stato e Parlamento), 
    Vienna 1901; Die soziale Funktion der Rechtsinstitute, besonders des Eigentums(La 
    funzione sociale degli istituti giuridici, in particolare della proprietà), 
    Vienna 1904; Marxismus, Krieg und lnternational(Marxismo, guerra ed Internazionale), 
    Vienna 1917; Staatswirtscbaft, Weltwirtschaft und Sozialismus(Economia statale, 
    economia mondiale e socialismo), Berlino 1929.
    
    5. Otto Bauer(1882-1938), teorico e dirigente della socialdemocrazia austriaca 
    e della II Internazionale, fu uno dei principali esponenti dell'austromarxismo. 
    Dopo il crollo della monarchia asburgica, ricoprì prima la carica di 
    Sottosegretario di Stato e poi quella di Ministro degli Esteri (1918-1919). 
    Fu il principale artefice del prevalere della linea centrista austro marxista 
    nel Partito socialista austriaco, per il quale redasse il nuovo programma 
    approvato dal Congresso di Linz (1926). Su di lui principalmente pesa la responsabilità 
    di non aver risposto con la piena mobilitazione del partito, delle masse e 
    delle milizie operaie armate di Vienna (Scbutzbund) alle crescenti illegalità 
    dei movimenti di destra, che culminarono con la sanguinosa repressione condotta 
    dal cancelliere Dollfuss contro l'insurrezione proletaria del febbraio 1934 
    nella capitale austriaca. Dopo lo scioglimento del Partito socialista ad opera 
    del governo, Bauer abbandonò 1'Austria nel 1934 e si trasferì 
    prima in Cecoslovacchia e poi a Parigi. Fra le sue opere (oltre al saggio 
    sulla questione nazionale citato da Stalin): Die russische Revolution und 
    das europaische Proletariat(La rivoluzione russa e il proletariato europeo), 
    Vienna 1917; Der Weg zum Sozialismus(La via al socialismo), Vienna 1919; Bolschewismus 
    oder Sozialdemokratie? (Bolscevismo o socialdemocrazia?), Vienna 1920; Die 
    osterreichisce Revolution(La rivoluzione austriaca), Vienna 1923; Der Kampf 
    um die Macht(La lotta per il potere), Vienna 1924; Der Aufstand der osterreichischen 
    Arbeiter (L'insurrezione dei lavoratori austriaci), Vienna- Praga 1934; Zwischen 
    zwei Weltkriegen?(Fra due guerre mondiali?), Bratislava 1936. 
6. Dal 24 al 29 settembre 1899 si tenne a Brünn (l'attuale Brno in Moravia) un congresso della socialdemocrazia austriaca, nel quale fu ampiamente dibattuta la questione nazionale. Due furono le tesi in contrasto: la prima rivendicava l'autonomia territoriale delle varie realtà nazionali che componevano lo Stato austriaco, il quale avrebbe dovuto trasformarsi in uno Stato federale; la seconda sosteneva semplicemente l'autonomia culturale-nazionale. Il Congresso approvò la prima tesi, ma senza introdurre nel programma del partito il riconoscimento del diritto di autodecisione delle nazioni fino alla separazione.
7. Personaggio del grande romanzo di Nikolaj Gogol Le anime morte(1842). Il nome di Manilov, agiato proprietario terriero di provincia dal temperamento indolente e sognatore, diventò proverbiale in Russia per indicare un particolare atteggiamento psicologico, chiamato appunto "manilovismo".
8. L' "Iskra" ("La scintilla") fu il primo giornale marxista illegale per tutta la Russia. Fondata da Lenin nel 1900 all'estero e diffusa clandestinamente in Russia, svolse un ruolo di eccezionale importanza nella creazione del partito marxista rivoluzionario della classe operaia, conducendo una serrata battaglia politica e ideologica contro l'economicismo e il primitivismo organizzativo. Dopo il II Congresso del P.O.S.D.R., tenutosi a Londra nel 1903, passò (a partire dal n. 52) nelle mani dei menscevichi e fu chiamata dai bolscevichi "nuova Iskra" per distinguerla dalla "vecchia Iskra" leninista (nn. 1-51).
9. Pseudonimo di Noè Giordania, capo del menscevichi georgiani. Dopo il 1917, negli anni del guerra civile, fu per breve tempo capo della Repubblica menscevica della Georgia, che ebbe fine il 27 febbraio 1921.
10. Nell'agosto 1912 si tenne a Vienna (su iniziativa di Trotzki, che ne fu il principale organizzatore) una conferenza alla quale parteciparono i liquidatori, il Bund, i socialdemocratici lettoni e una parte dei socialdemocratici caucasiani, i quali si allearono (formando quel- lo che fu chiamato il "blocco d'agosto") per disconoscere e contrastare le conclusioni della Conferenza di Praga del gennaio 1912, nella quale i bolscevichi si erano costituiti in partito indipendente, espellendo i menscevichi. li "blocco d'agosto", in conseguenza della politica conciliatrice ed opportunista da esso condotta sui principali problemi del partito e della rivoluzione, si disgregò nel 1914.
11. È il IV Congresso del P.O.S.D.R., tenutosi a Stoccolma nell'aprile del 1906, che sancì la temporanea, e solo formale, riunificazione dei bolscevichi e del menscevichi. A quel Congresso prese parte anche il Bund.
12. Deputato di Varsavia alla IV Duma, in rappresentanza del Partito Socialista Polacco. Contro la volontà degli elettori socialdemocratici polacchi, portò avanti una politica di blocco del P.S.P. con i bundisti e i nazionalisti borghesi.
13. Questo fondamentale saggio di Stalin, scritto tra la 
    fine del 1912 e il principio del 1913 a Vienna, fu pubblicato per la prima 
    volta nel 1913 nei nn. 3-5 della rivista teorica bolscevica "Prosvestcenie" 
    ("L'istruzione"), a firma K. [Koba] Stalin e col titolo La questione 
    nazionale e la socialdemocrazia. (Koba era allora il nome di battaglia di 
    Stalin). L'anno dopo fu ripubblicato in volume dalla Casa Editrice "Priboi" 
    ("L'ondata") di Pietroburgo, col titolo La questione nazionale e 
    il marxismo. Ebbe poi numerose edizioni, sia separatamente che in varie raccolte 
    di scritti di Stalin e fu tradotto nelle principali lingue, con ampia diffusione 
    non solo in Russia ma su scala internazionale. 
    La permanenza di Stalin a Vienna fu il più lungo soggiorno all'estero 
    della sua vita di militante e dirigente comunista. Era trascorso un anno dal 
    gennaio 1912, nel quale la Conferenza di Praga del Partito Operaio Socialdemocratico 
    Russo, espellendo i menscevichi dall'organizzazione, aveva dato vita a un 
    "partito di tipo nuovo", il partito bolscevico, leninista. Ed erano 
    trascorsi pochi mesi dalla pubblicazione (il 22 aprile 1912) del primo numero 
    della "Pravda", il quotidiano bolscevico di massa, di cui Stalin 
    era redattore. Il saggio di Stalin fu molto apprezzato da Lenin. Nella seconda 
    metà del febbraio 1913 Lenin così scriveva, da Cracovia, a Massimo 
    Gorki: "Sulla questione del nazionalismo sono pienamente d'accordo con 
    voi che bisogna occuparsene un po' più seriamente. Da noi ci si è 
    messo un magnifico georgiano, e ora sta scrivendo per il "Prosvestcenie" 
    un lungo articolo, dopo aver raccolto tutti i materiali austriaci e d'altra 
    provenienza". Un mese dopo, in due lettere indirizzate alla redazione 
    del "Sozial-demokrat", definiva "molto buono" il saggio 
    di Stalin e dichiarava "Koba ha fatto in tempo a scrivere un lungo articolo 
    (per tre numeri di "Prosvestcenie") sulla questione nazionale. Bene! 
    Bisogna lottare per la verità contro i separatisti e gli opportunisti 
    del Bund e i liquidatori".