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La scienza nuova


 

PRINCIPI DI SCIENZA NUOVA D'INTORNO ALLA COMUNE NATURA DELLE NAZIONI, IN QUESTA TERZA IMPRESSIONE DAL MEDESIMO AUTORE IN UN GRAN NUMERO DI LUOGHI CORRETTA, SCHIARITA. E NOTABILMENTE ACCRESCIUTA 1744



IDEA DELL'OPERA SPIEGAZIONE DELLA DIPINTURA PROPOSTA AL FRONTISPIZIO CHE SERVE PER L'INTRODUZIONE DELL'OPERA.
Quale Cebete tebano fece delle morali, tale noi qui diamo a vedere una Tavola delle cose civili, la quale serva al leggitore per concepire l'idea di quest'opera avanti di leggerla, e per ridurla più facilmente a memoria, con tal aiuto che gli somministri la fantasia, dopo di averla letta. La donna con le tempie alate che sovrasta al globo mondano, o sia al mondo della natura, è la metafisica, ché tanto suona il suo nome. Il triangolo luminoso con ivi dentro un occhio veggente egli è Iddio con l'aspetto della sua provvedenza, per lo qual aspetto la metafisica in atto di estatica il contempla sopra l'ordine delle cose naturali, per lo quale finora l'hanno contemplato i filosofi; perch'ella, in quest'opera, più in suso innalzandosi, contempla in Dio il mondo delle menti umane, ch'è 'l mondo metafisico, per dimostrarne la provvedenza nel mondo degli animi umani, ch'è 'l mondo civile, o sia il mondo delle nazioni; il quale, come da suoi elementi, è formato da tutte quelle cose le quali la dipintura qui rappresenta co' geroglifici che spone in mostra al di sotto. Perciò il globo, o sia il mondo fisico ovvero naturale, in una sola parte egli dall'altare vien sostenuto; perché i filosofi, infin ad ora, avendo contemplato la divina provvedenza per lo sol ordine naturale, ne hanno solamente dimostrato una parte, per la quale a Dio, come a Mente signora libera ed assoluta della natura (perocché, col suo eterno consiglio, ci ha dato naturalmente l'essere, e naturalmente lo ci conserva), si danno dagli uomini l'adorazioni co' sagrifici ed altri divini onori; ma nol contemplarono già per la parte ch'era più propia degli uomini, la natura de' quali ha questa principale propietà: d'essere socievoli. Alla qual Iddio provvedendo, ha così ordinate e disposte le cose umane, che gli uomini, caduti dall'intiera giustizia per lo peccato originale, intendendo di fare quasi sempre tutto il diverso e, sovente ancora, tutto il contrario - onde, per servir all'utilità, vivessero in solitudine da fiere bestie, - per quelle stesse loro diverse e contrarie vie, essi dall'utilità medesima sien tratti da uomini a vivere con giustizia e conservarsi in società, e sì a celebrare la loro natura socievole: la quale, nell'opera, si dimostrerà essere la vera civil natura dell'uomo, e sì esservi diritto in natura. La qual condotta della provvedenza divina è una delle cose che principalmente s'occupa questa Scienza di ragionare; ond'ella, per tal aspetto, vien ad essere una teologia civile ragionata della provvedenza divina. Nella fascia del zodiaco che cinge il globo mondano, più che gli altri, compariscono in maestà o, come dicono, in prospettiva i soli due segni di Lione e di Vergine, per significare che questa Scienza ne' suoi princìpi contempla primieramente Ercole (poiché si truova ogni nazione gentile antica narrarne uno, che la fondò); e 'l contempla dalla maggior sua fatiga, che fu quella con la qual uccise il lione, il quale, vomitando fiamme, incendiò la selva nemea, della cui spoglia adorno, Ercole fu innalzato alle stelle (il qual lione qui si truova essere stata la gran selva antica della terra, a cui Ercole, il quale si truova essere stato il carattere degli eroi politici, i quali dovettero venire innanzi agli eroi delle guerre, diede il fuoco e la ridusse a coltura); - e per dar altresì il principio de' tempi, il quale, appo i greci (da' quali abbiamo tutto ciò ch'abbiamo dell'antichità gentilesche), incominciarono dalle olimpiadi co' giuochi olimpici, de' quali pur ci si narra essere stato Ercole il fondatore (i quali giuochi dovettero incominciar da' nemei, introdutti per festeggiare la vittoria d'Ercole riportata dell'ucciso lione); e sì i tempi de' greci cominciarono da che tra loro incominciò la coltivazione de' campi. E la Vergine, che da' poeti venne descritta agli astronomi andar coronata di spighe, vuol dire che la storia greca cominciò dall'età dell'oro, ch'i poeti apertamente narrano essere stata la prima età del lor mondo, nella quale, per lunga scorsa di secoli, gli anni si noverarono con le messi del grano, il quale si truova essere stato il primo oro del mondo; alla qual età dell'oro de' greci risponde a livello l'età di Saturno per li latini, detto a «satis», da' seminati. Nella qual età dell'oro pur ci dissero fedelmente i poeti che gli dèi in terra praticavano con gli eroi: perché dentro si mostrerà ch'i primi uomini del gentilesimo, semplici e rozzi, per forte inganno di robustissime fantasie, tutte ingombre da spaventose superstizioni, credettero veramente veder in terra gli dèi; e poscia si truoverà ch'egualmente, per uniformità d'idee, senza saper nulla gli uni degli altri, appo gli orientali, egizi, greci e latini, furono da terra innalzati gli dèi all'erranti e gli eroi alle stelle fisse. E così, da Saturno, ch'è Chrónos a' greci (e chrónos è il tempo ai medesimi), si danno altri princìpi alla cronologia o sia alla dottrina de' tempi. Né dee sembrarti sconcezza che l'altare sta sotto e sostiene il globo. Perché truoverassi che i primi altari del mondo s'alzarono da' gentili nel primo ciel de' poeti; i quali, nelle loro favole, fedelmente ci trammandarono il Cielo avere in terra regnato sopra degli uomini ed aver lasciato de' grandi benefìci al gener umano, nel tempo ch'i primi uomini, come fanciulli del nascente gener umano, credettero che 'l cielo non fusse più in suso dell'alture de' monti (come tuttavia or i fanciulli il credono di poco più alto de' tetti delle lor case); - che poi, vieppiù spiegandosi le menti greche, fu innalzato sulle cime degli altissimi monti, come d'Olimpo, dove Omero narra a' suoi tempi starsi gli dèi; - e finalmente alzossi sopra le sfere, come or ci dimostra l'astronomia, e l'Olimpo si alzò sopra il cielo stellato. Ove, insiememente, l'altare, portato in cielo, vi forma un segno celeste; e 'l fuoco, che vi è sopra, passò nella casa vicina, come tu vedi qui, del Lione (il quale, come testé si è avvisato, fu la selva nemea, a cui Ercole diede il fuoco per ridurla a coltura); e ne fu alzata, in trofeo d'Ercole, la spoglia del lione alle stelle. Il raggio della divina provvedenza, ch'alluma un gioiello convesso di che adorna il petto la metafisica, dinota il cuor terso e puro che qui la metafisica dev'avere, non lordo né sporcato da superbia di spirito o da viltà di corporali piaceri; col primo de' quali Zenone diede il fato, col secondo Epicuro diede il caso, ed entrambi perciò niegarono la provvedenza divina. Oltracciò, dinota che la cognizione di Dio non termini in essolei, perch'ella privatamente s'illumini dell'intellettuali, e quindi regoli le sue sole morali cose, siccome finor han fatto i filosofi; lo che si sarebbe significato con un gioiello piano. Ma convesso, ove il raggio si rifrange e risparge al di fuori, perché la metafisica conosca Dio provvedente nelle cose morali pubbliche, o sia ne' costumi civili, co' quali sono provenute al mondo e si conservan le nazioni. Lo stesso raggio si risparge da petto della metafisica nella statua d'Omero, primo autore della gentilità che ci sia pervenuto, perché, in forza della metafisica (la quale si è fatta da capo sopra una storia dell'idee umane, da che cominciaron tal'uomini a umanamente pensare), si è da noi finalmente disceso nelle menti balorde de' primi fondatori delle nazioni gentili, tutti robustissimi sensi e vastissime fantasie; e - per questo istesso che non avevan altro che la sola facultà, e pur tutta stordita e stupida, di poter usare l'umana mente e ragione - da quelli che se ne sono finor pensati si truovano tutti contrari, nonché diversi, i princìpi della poesia dentro i finora, per quest'istesse cagioni, nascosti principi della sapienza poetica, o sia la scienza de' poeti teologi, la quale senza contrasto fu la prima sapienza del mondo per gli gentili. E la statua d'Omero sopra una rovinosa base vuol dire la discoverta del vero Omero (che nella Scienza nuova la prima volta stampata si era da noi sentita ma non intesa, e in questi libri, riflettuta, pienamente si è dimostrata); il quale, non saputosi finora, ci ha tenuto nascoste le cose vere del tempo favoloso delle nazioni, e molto più le già da tutti disperate a sapersi del tempo oscuro, e 'n conseguenza le prime vere origini delle cose del tempo storico: che sono gli tre tempi del mondo, che Marco Terenzio Varrone ci lasciò scritto (lo più dotto scrittore delle romane antichità) nella sua grand'opera intitolata Rerum divinarum et humanarum, che si è perduta. Oltracciò, qui si accenna che 'n quest'opera, con una nuova arte critica, che finor ha mancato, entrando nella ricerca del vero sopra gli autori delle nazioni medesime (nelle quali deono correre assai più di mille anni per potervi provvenir gli scrittori d'intorno ai quali la critica si è finor occupata), qui la filosofia si pone ad esaminare la filologia (o sia la dottrina di tutte le cose le quali dipendono dall'umano arbitrio, come sono tutte le storie delle lingue, de' costumi e de' fatti così della pace come della guerra de' popoli), la quale, per la di lei deplorata oscurezza delle cagioni e quasi infinita varietà degli effetti, ha ella avuto quasi un orrore di ragionarne; e la riduce in forma di scienza, col discovrirvi il disegno di una storia ideal eterna, sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni: talché, per quest'altro principale suo aspetto, viene questa Scienza ad esser una filosofia dell'autorità. Imperciocché, in forza d'altri princìpi qui scoverti di mitologia, che vanno di séguito agli altri princìpi qui ritruovati della poesia, si dimostra le favole essere state vere e severe istorie de' costumi delle antichissime genti di Grecia, e, primieramente, che quelle degli dèi furon istorie de' tempi che gli uomini della più rozza umanità gentilesca credettero tutte le cose necessarie o utili al gener umano essere deitadi; della qual poesia furon autori i primi popoli, che si truovano essere stati tutti di poeti teologi, i quali, senza dubbio, ci si narrano aver fondato le nazioni gentili con le favole degli dèi. E quivi, co' princìpi di questa nuov'arte critica, si va meditando a quali determinati tempi e particolari occasioni di umane necessità o utilità, avvertiti da' primi uomini del gentilesimo, eglino, con ispaventose religioni, le quali essi stessi si finsero e si credettero, fantasticarono prima tali e poi tali dèi; la qual teogonia naturale, o sia generazione degli dèi, fatta naturalmente nelle menti di tai primi uomini, ne dia una cronologia ragionata della storia poetica degli dèi. Le favole eroiche furono storie vere degli eroi e de' lor eroici costumi, i quali si ritruovano aver fiorito in tutte le nazioni nel tempo della loro barbarie; sicché i due poemi d'Omero si truovano essere due grandi tesori di discoverte del diritto naturale delle genti greche ancor barbare. Il qual tempo si determina nell'opera aver durato tra' greci infino a quello d'Erodoto, detto padre della greca storia, i cui libri sono ripieni la più parte di favole e lo stile ritiene moltissimo dell'omerico; nella qual possessione si sono mantenuti tutti gli storici che sono venuti appresso, i quali usano una frase mezza tra la poetica e la volgare. Ma Tucidide, primo severo e grave storico della Grecia, sul principio de' suoi racconti professa che, fin al tempo di suo padre (ch'era quello di Erodoto, il qual era vecchio quando esso era fanciullo), i greci, nonché delle straniere (le quali, a riserba delle romane, noi abbiamo tutte da' greci), eglino non seppero nulla affatto dell'antichità loro propie: che sono le dense tenebre, le quali la dipintura spiega nel fondo, dalle quali, al lume del raggio della provvedenza divina dalla metafisica risparso in Omero, escono alla luce tutti i geroglifici, che significano i princìpi conosciuti solamente finor per gli effetti di questo mondo di nazioni. Tra questi la maggior comparsa vi fa un altare, perché 'l mondo civile cominciò appo tutti i popoli con le religioni, come dianzi si è divisato alquanto, e più se ne diviserà quindi a poco. Sull'altare, a man destra, il primo a comparire è un lituo, o sia verga, con la quale gli àuguri prendevan gli augùri ed osservavan gli auspìci; il quale vuol dar ad intendere la divinazione, dalla qual appo i gentili tutti incominciarono le prime divine cose. Perché, per l'attributo della di lui provvedenza, così vera appo gli ebrei - i quali credevano Dio esser una Mente infinita e, 'n conseguenza, che vede tutti i tempi in un punto d'eternità; onde Iddio (o esso, o per gli angioli che sono menti, o per gli profeti de' quali parlava Iddio alle menti) egli avvisava le cose avvenire al suo popolo, - come immaginata appresso i gentili - i quali fantasticarono i corpi esser dèi, che perciò con segni sensibili avvisassero le cose avvenire alle genti, - fu universalmente da tutto il gener umano dato alla natura di Dio il nome di «divinità» da un'idea medesima, la quale i latini dissero «divinari» «avvisar l'avvenire»; ma con questa fondamentale diversità che si è detta, dalla quale dipendono tutte l'altre (che da questa Scienza si dimostrano) essenziali differenze tra 'l diritto natural degli ebrei e 'l diritto natural delle genti, che i romani giureconsulti diffinirono essere stato con essi umani costumi dalla divina provvedenza ordinato. Laonde ad un colpo, con sì fatto lituo, si accenna il principio della storia universal gentilesca, la quale, con pruove fisiche e filologiche, si dimostra aver avuto il suo cominciamento dal diluvio universale: dopo il quale, a capo di due secoli, il Cielo (come pure la storia favolosa il racconta) regnò in terra e fece de' molti e grandi benefìci al gener umano, e, per uniformità d'idee tra gli orientali, egizi, greci, latini ed altre nazioni gentili, sursero egualmente le religioni di tanti Giovi. Perché, a capo di tanto tempo dopo il diluvio, si pruova che dovette fulminare e tuonare il cielo, e da' fulmini e tuoni, ciascuna del suo Giove, incominciarono a prendere tai nazioni gli auspìci (la qual moltiplicità di Giovi, onde gli egizi dicevano il loro Giove Ammone essere lo più antico di tutti, ha fatto finora maraviglia a' filologi); e con le medesime pruove se ne dimostra l'antichità della religion degli ebrei sopra quelle con le quali si fondaron le genti, e quindi la verità della cristiana. Sullo stesso altare, appresso il lituo, si vede l'acqua e 'l fuoco, e l'acqua contenuta dentro un urciuolo; perché, per cagione della divinazione, appresso i gentili provennero i sacrifiZ da quel comune loro costume ch'i latini dicevano «procurare auspicia», o sia sagrificare per ben intender gli augùri a fin di ben eseguire i divini avvisi, ovvero comandi di Giove. E queste sono le divine cose appresso i gentili, dalle quali provvennero poscia loro tutte le cose umane. La prima delle quali furon i matrimoni, significati dalla fiaccola accesa al fuoco sopra esso altare ed appoggiata all'urciuolo; i quali, come tutti i politici vi convengono, sono il seminario delle famiglie, come le famiglie lo sono delle repubbliche. E, per ciò dinotare, la fiaccola, quantunque sia geroglifico di cosa umana, è allogata sull'altare tra l'acqua e 'l fuoco, che sono geroglifici di cerimonie divine; appunto come i romani antichi celebrarono «aqua et igni» le nozze, perché queste due cose comuni (e, prima del fuoco, l'acqua perenne, come cosa più necessaria alla vita) dappoi s'intese che, per divino consiglio, avevano menato gli uomini a viver in società. La seconda delle cose umane, per la quale a' latini, da «humando», «seppellire», prima e propiamente vien detta «humanitas», sono le seppolture, le quali sono rappresentate da un'urna ceneraria, riposta in disparte dentro le selve, la qual addita le seppolture essersi ritruovate fin dal tempo che l'umana generazione mangiava poma l'estate, ghiande l'inverno. Ed è nell'urna iscritto «D. M.», che vuol dire: «All'anime buone de' seppelliti»; il qual motto divisa il comun consentimento di tutto il gener umano in quel placito, dimostrato vero poi da Platone, che le anime umane non muoiano co' loro corpi, ma che sieno immortali. Tal urna accenna altresì l'origine tra' gentili medesimi della divisione de' campi, nella quale si deon andar a truovare l'origini della distinzione delle città e de' popoli e alfin delle nazioni. Perché truoverassi che le razze, prima di Cam, poi di Giafet e finalmente di Sem, elleno, senza la religione del loro padre Noè, ch'avevano rinniegata (la qual sola, nello stato ch'era allor di natura, poteva, co' matrimoni, tenergli in società di famiglie) - essendosi sperdute, con un errore o sia divagamento ferino, dentro la gran selva di questa terra, per inseguire le schive e ritrose donne, per campar dalle fiere (delle quali doveva la grande antica selva abbondare), e, sì sbandati, per truovare pascolo ed acqua, e, per tutto ciò, a capo di lunga età essendo andate in uno stato di bestie, - quivi, a certe occasioni dalla divina provvedenza ordinate (che da questa Scienza si meditano e si ritruovano), scosse e destate da un terribile spavento d'una da essi stessi finta e creduta divinità del Cielo e di Giove, finalmente se ne ristarono alquanti e si nascosero in certi luoghi; ove, fermi con certe donne, per lo timore dell'appresa divinità, al coverto, coi congiugnimenti carnali religiosi e pudichi, celebrarono i matrimoni e fecero certi figliuoli, e così fondarono le famiglie. E, con lo star quivi fermi lunga stagione e con le seppolture degli antenati, si ritruovarono aver ivi fondati e divisi i primi domìni della terra, i cui signori ne furon detti «giganti» (ché tanto suona tal voce in greco quanto «figliuoli della terra», cioè discendenti da' seppelliti), e quindi se ne riputarono nobili, estimando, in quel primo stato di cose umane, con giuste idee, la nobiltà dall'essere stati umanamente eglino generati col timore della divinità; dalla qual maniera di umanamente generare e non altronde, come provvenne, così fu detta l'«umana generazione», dalla quale le case diramate in più così fatte famiglie, per cotal generazione, se ne dissero le prime «genti». Dal qual punto di tempo antichissimo, siccome ne incomincia la materia, così s'incomincia qui la dottrina del diritto natural delle genti, ch'è altro principal aspetto con cui si dee guardar questa Scienza. Or tai giganti, con ragioni come fisiche così morali, oltre l'autorità dell'istorie, si truovano essere stati di sformate forze e stature: le quali cagioni non essendo cadute ne' credenti del vero Dio, criatore del mondo e del principe di tutto l'uman genere Adamo, gli ebrei, fin dal principio del mondo, furono di giusta corporatura. Così - dopo il primo d'intorno alla provvedenza divina, e 'l secondo il qual è de' matrimoni solenni - l'universal credenza dell'immortalità dell'anima, che cominciò con le seppolture, egli è il terzo degli tre princìpi, sopra i quali questa Scienza ragiona d'intorno all'origini di tutte l'innumerabili varie diverse cose che tratta. Dalle selve ov'è riposta l'urna s'avvanza in fuori un aratro, il qual divisa ch'i padri delle prime genti furono i primi forti della storia; onde si truovano gli Ercoli fondatori delle prime nazioni gentili che si sono mentovati di sopra (de' quali Varrone noverò ben quaranta, e gli egizi dicevano che il loro era lo più antico di tutti), perché tali Ercoli domarono le prime terre del mondo e le ridussero alla coltura. Onde i primi padri delle nazioni gentili - ch'erano giusti per la creduta pietà di osservare gli auspìci, che credevano divini comandi di Giove (dal quale, appo i latini chiamato Ious, ne fu anticamente detto «ious» il gius, che poi, contratto, si disse «ius»; onde la giustizia appo tutte le nazioni s'insegna naturalmente con la pietà); erano prudenti co' sagrifizi fatti per proccurar o sia ben intender gli auspìci, e sì ben consigliarsi di ciò che per comandi di Giove dovevan operar nella vita; erano temperati co' matrimoni - furono, come qui s'accenna, anco forti. Quinci si danno altri princìpi alla moral filosofia, onde la sapienza riposta de' filosofi debba cospirare con la sapienza volgare de' legislatori; per gli quali princìpi tutte le virtù mettano le loro radici nella pietà e nella religione, per le quali sole son efficaci ad operar le virtù, e 'n conseguenza de' quali gli uomini si debbano proporre per bene tutto ciò che Dio vuole. Si danno altri princìpi alla dottrina iconomica, onde i figliuoli, mentre sono in potestà de' lor padri, si deono stimare essere nello stato delle famiglie, e, 'n conseguenza, non sono in altro da formarsi e fermarsi, in tutti i loro studi, che nella pietà e nella religione; e, quando non son ancor capaci d'intender repubblica e leggi, vi riveriscano e temano i padri come vivi simolacri di Dio; onde si truovino poi naturalmente disposti a seguire la religione de' loro padri ed a difender la patria, che conserva lor le famiglie, e, così, ad ubbidir alle leggi, ordinate alla conservazione della religione e della patria (siccome la provvedenza divina ordinò le cose umane con tal eterno consiglio: che prima si fondassero le famiglie con le religioni, sopra le quali poi avevan da surgere le repubbliche con le leggi). L'aratro appoggia con certa maestà il manico in faccia all'altare, per darci ad intendere che le terre arate furono i primi altari della gentilità; e per dinotar altresì la superiorità di natura la quale credevano avere gli eroi sopra i loro soci (i quali, quindi a poco, vedremo significarsici dal timone, che si vede in atto d'inchinarsi presso al zoccolo dell'altare); nella qual superiorità di natura si mostrerà ch'essi eroi riponevano la ragione, la scienza e quindi l'amministrazione ch'essi avevano delle cose divine, o sia de' divini auspìci. L'aratro scuopre la sola punta del dente e ne nasconde la curvatura (che, prima d'intendersi l'uso del ferro, dovett'esser un legno curvo ben duro, che potesse fender le terre ed ararle) - la qual curvatura da' latini fu detta «urbs», ond'è l'antico «urbum», «curvo» - per significare che le prime città, le quali tutte si fondarono in campi colti, sursero con lo stare le famiglie lunga età ben ritirate e nascoste tra' sagri orrori de' boschi religiosi, i quali si truovano appo tutte le nazioni gentili antiche e, con l'idea comune a tutte, si dissero dalle genti latine «luci», ch'erano «terre bruciate dentro il chiuso de' boschi», i quali sono condennati da Mosè a doversi bruciar anch'essi ovunque il popolo di Dio stendesse le sue conquiste. E ciò per consiglio della provvedenza divina, acciocché gli già venuti all'umanità non si confondessero di nuovo co' vagabondi, rimasti nella nefaria comunione sì delle cose sì delle donne. Si vede al lato destro del medesimo altare un timone, il qual significa l'origine della trasmigrazione de' popoli fatta per mezzo della navigazione. E, per ciò che sembra inchinarsi a piè dell'altare, significa gli antenati di coloro che furono poi gli autori delle trasmigrazioni medesime: i quali furono dapprima uomini empi, che non conoscevano niuna divinità; nefari, ché, per non esser tra loro distinti i parentadi co' matrimoni, giacevano sovente i figliuoli con le madri, i padri con le figliuole; e finalmente, perché, come fiere bestie, non intendevano società in mezzo ad essa infame comunion delle cose, tutti soli e quindi deboli e finalmente miseri ed infelici, perché bisognosi di tutti i beni che fan d'uopo per conservare con sicurezza la vita. Essi, con la fuga de' propi mali, sperimentati nelle risse ch'essa ferina comunità produceva, per loro scampo e salvezza, ricorsero alle terre colte da' pii, casti, forti ed anco potenti, siccome coloro ch'erano già uniti in società di famiglie. Dalle quali terre si truoveranno le città essere state dette «are» dappertutto il mondo antico della gentilità: che dovetter essere i primi altari delle nazioni gentili, sopra i quali il primo fuoco il qual vi si accese fu quello che fu dato alle selve per isboscarle e ridurle a coltura, e la prima acqua fu quella delle fontane perenni, ch'abbisognarono acciocché coloro ch'avevano da fondare l'umanità non più, per truovar acqua, divagassero in uno ferino errore, anzi dentro circoscritte terre stassero fermi ben lunga età, onde si disavvezzassero dallo andar vagabondi. E, perché questi altari si truovan essere stati i primi asili del mondo (i quali Livio generalmente diffinisce «vetus urbes condentium consilium», come dentro l'asilo aperto nel Luco ci è narrato aver Romolo fondato Roma), quindi le prime città quasi tutte si disser «are». Tal minor discoverta, con quest'altra maggiore: che appo i greci (da' quali, come si è sopra detto, abbiamo tutto ciò ch'abbiamo dell'antichità gentilesche) la prima Tracia o Scizia (o sia il primo Settentrione), la prima Asia e la prima India (o sia il primo Oriente), la prima Mauritania o Libia (o sia il primo Mezzodì) e la prima Europa o prima Esperia (o sia il primo Occidente) e, con queste, il primo Oceano, nacquero tutte dentro essa Grecia; e che poi i greci, ch'uscirono per lo mondo, dalla somiglianza de' siti diedero sì fatti nomi alle di lui quattro parti ed all'oceano che 'l cinge; - tali discoverte diciamo dar altri princìpi alla geografia, i quali, come gli altri princìpi accennati darsi alla cronologia (che son i due occhi della storia), bisognavano per leggere la storia ideal eterna che sopra si è mentovata. A questi altari, adunque, gli empi-vagabondi-deboli, inseguiti alla vita da' più robusti, essendo ricorsi, i pii-forti v'uccisero i violenti e vi riceverono in protezione i deboli, i quali, perché altro non vi avevano portato che la sola vita, ricevettero in qualità di famoli, con somministrar loro i mezzi di sostentare la vita; da' quali famoli principalmente si dissero le famiglie, i quali furono gli abbozzi degli schiavi, che poi vennero appresso con le cattività nelle guerre. Quinci, come da un tronco più rami, escono l'origini degli asili, come si è veduto; - l'origine delle famiglie, sulle quali poi sursero le città, come spiegherassi più sotto; - l'origine di celebrarsi le città, che fu per viver sicuri gli uomini dagl'ingiusti violenti; - l'origine delle giurisdizioni da esercitarsi dentro i propi territori; - l'origine di stender gl'imperi, che si fa con usar giustizia, fortezza e magnanimità, che sono le virtù più luminose de' prìncipi e degli Stati; - l'origine dell'armi gentilizie, delle quali i primi campi d'armi si truovano questi primi campi da semina; - l'origine della fama, dalla quale tai famoli furon detti, e della gloria, che eternalmente è riposta in giovar il gener umano; - l'origini della nobiltà vera, che naturalmente nasce dall'esercizio delle morali virtù; - l'origine del vero eroismo, ch'è di domar superbi e soccorrere a' pericolanti (nel qual eroismo il romano avvanzò tutti i popoli della terra, e ne divenne signor del mondo); - le origini, finalmente, della guerra e della pace, e che la guerra cominciò al mondo per la propia difesa, nella quale consiste la virtù vera della fortezza. Ed in tutte queste origini si scuopre disegnata la pianta eterna delle repubbliche, sulla quale gli Stati, quantunque acquistati con violenza e con froda, per durare, debbon fermarsi; come, allo 'ncontro, gli acquistati con queste origini virtuose, poscia, con la froda e con la forza rovinano. E cotal pianta di repubbliche è fondata sopra i due princìpi eterni di questo mondo di nazioni, che sono la mente e 'l corpo degli uomini che le compongono. Imperocché - costando gli uomini di queste due parti, delle quali una è nobile, che, come tale, dovrebbe comandare, e l'altra vile, la qual dovrebbe servire; e, per la corrotta natura umana, senza l'aiuto della filosofia (la quale non può soccorrere ch'a pochissimi), non potendo l'universale degli uomini far sì che privatamente la mente di ciascheduno comandasse, e non servisse, al suo corpo - la divina provvedenza ordinò talmente le cose umane con quest'ordine eterno: che, nelle repubbliche, quelli che usano la mente vi comandino e quelli che usano il corpo v'ubbidiscano. Il timone s'inchina a piè dell'altare, perché tali famoli, siccome uomini senza dèi, non avevano la comunione delle cose divine e, 'n conseguenza delle quali, nemmeno la comunità delle cose umane insieme co' nobili, e principalmente la ragione di celebrare nozze solenni, ch'i latini dissero «connubium», delle quali la maggior solennità era riposta negli auspìci, per gli qual i nobili si riputavano esser d'origine divina e tenevano quelli essere d'origine bestiale, siccome generati da' nefari concubiti. Nella qual differenza di natura più nobile si truova, egualmente tra gli egizi, greci e latini, che consisteva un creduto natural eroismo, il quale troppo spiegatamente ci vien narrato dalla storia romana antica. Finalmente il timone è in lontananza dall'aratro, ch'in faccia dell'altare gli si mostra infesto e minaccevole con la punta, perché i famoli, non avendo parte, come si è divisato, nel dominio de' terreni, che tutti eran in signoria de' nobili, ristucchi di dover servire sempre a' signori, dopo lunga età finalmente faccendone la pretensione e perciò ammutinati, si rivoltarono contro gli eroi in sì fatte contese agrarie, che si truoveranno assai più antiche e di gran lunga diverse da quelle che si leggono sopra la storia romana ultima. E quivi molti capi d'esse caterve di famoli, sollevate e vinte da' lor eroi (come spesso i villani d'Egitto lo furono da' sacerdoti, all'osservare di Pier Cuneo, De republica hebræorum), per non esser oppressi e truovare scampo e salvezza, con quelli delle loro fazioni, si commisero alla fortuna del mare ed andarono a truovar terre vacue per gli lidi del Mediterraneo, verso occidente, ch'a que' tempi non era abitato nelle marine. Ch'è l'origine della trasmigrazione de' popoli già dalla religione umanati, fatta da Oriente, da Egitto, e dall'Oriente sopra tutti dalla Fenicia, come, per le stesse cagioni, avvenne de' greci appresso. In cotal guisa, non le innondazioni de' popoli, che per mare non posson farsi; - non la gelosia di conservare gli acquisti lontani con le colonie conosciute, perché dall'Oriente, da Egitto, da Grecia non si legge essersi nell'Occidente alcun imperio disteso; - non la cagione de' traffichi, perché l'Occidente in tali tempi si truova non essere stato ancora sulle marine abitato; - ma il diritto eroico fece la necessità a sì fatte brigate d'uomini di tali nazioni d'abbandonare le propie terre, le quali, naturalmente, senonsé per qualche estrema necessità s'abbandonano. E con sì fatte colonie, le quali perciò saranno appellate «eroiche oltramarine», propagossi il gener umano, anco per mare, nel resto del nostro mondo; siccome con l'error ferino, lunga età innanzi, vi si era propagato per terra. Esce più in fuori, innanzi l'aratro, una tavola con iscrittovi un alfabeto latino antico (che, come narra Tacito, fu somigliante all'antico greco) e, più sotto, l'alfabeto ultimo che ci restò. Egli dinota l'origine delle lingue e delle lettere che sono dette volgari, che si truovano essere venute lunga stagione dopo fondate le nazioni, ed assai più tardi quella delle lettere che delle lingue; e, per ciò significare, la tavola giace sopra un rottame di colonna d'ordine corintiaco, assai moderno tra gli ordini dell'architettura. Giace la tavola molto dapresso all'aratro e lontana assai dal timone, per significare l'origine delle lingue natie, le quali si formarono prima ciascuna nelle propie lor terre, ove finalmente si ritruovarono a sorte, fermati dal loro divagamento ferino, gli autori delle nazioni, che si erano, come sopra si è detto, sparsi e dispersi per la gran selva della terra; con le quali lingue natie, lunga età dopo, si mescolarono le lingue orientali o egiziache o greche, con la trasmigrazione de' popoli fatta nelle marine del Mediterraneo e dell'Oceano che si è sopra accennata. E qui si danno altri princìpi d'etimologia (e se ne fanno spessissimi saggi per tutta l'opera), per gli quali si distinguono l'origini delle voci natie da quelle che sono d'origini indubitate straniere, con tal importante diversità: che l'etimologie delle lingue natie sieno istorie di cose significate da esse voci su quest'ordine naturale d'idee, che prima furono le selve, poi i campi colti e i tuguri, appresso le picciole case e le ville, quindi le città, finalmente l'accademie e i filosofi (sopra il qual ordine ne devono dalle prime lor origini camminar i progressi); e l'etimologie delle lingue straniere sieno mere storie di voci le quali una lingua abbia ricevute da un'altra. La tavola mostra i soli princìpi degli alfabeti e giace rimpetto alla statua d'Omero, perché le lettere, come delle greche si ha dalle greche tradizioni, non si ritruovarono tutte a un tempo; ed è necessario ch'almeno tutte non si fussero ritruovate nel tempo d'Omero, che si dimostra non aver lasciato scritto niuno de' suoi poemi. Ma dell'origine delle lingue natie si dà un avviso più distinto qui appresso. Finalmente, nel piano più illuminato di tutti, perché vi si espongono i geroglifici significanti le cose umane più conosciute, in capricciosa acconcezza l'ingegnoso pittore fa comparire un fascio romano, una spada ed una borsa appoggiate al fascio, una bilancia e 'l caduceo di Mercurio. De' quali geroglifici il primo è 'l fascio, perché i primi imperi civili sursero sull'unione delle paterne potestadi de' padri, i quali, tra' gentili, erano sappienti in divinità d'auspìci, sacerdoti per proccurargli (o sia ben intendergli) co' sacrifizi, re, e certamente monarchi, i quali comandavano ciò che credevano volesser gli dèi con gli auspìci, e 'n conseguenza non ad altri soggetti ch'a Dio. Così egli è un fascio di litui, che si truovano i primi scettri del mondo. Tai padri, nelle turbolenze agrarie di sopra dette, per resistere alle caterve de' famoli sollevati contro essoloro, furono naturalmente menati ad unirsi e chiudersi ne' primi ordini di senati regnanti (o senati di tanti re famigliari) sotto certi loro capi-ordini, che si truovano essere stati i primi re delle città eroiche, i quali pur ci narra, quantunque troppo oscuramente, la storia antica che, nel primo mondo de' popoli, si criavano gli re per natura, de' quali qui si medita e se ne truova la guisa. Or tai senati regnanti, per contentare le sollevate caterve de' famoli e ridurle all'ubbidienza, accordarono loro una legge agraria, che si truova essere stata la prima di tutte le leggi civili che nacque al mondo; e, naturalmente, de' famoli, con tal legge ridutti, si composero le prime plebi delle città. L'accordato da' nobili a tai plebei fu il dominio naturale de' campi, restando il civile appo essi nobili, i quali soli furono i cittadini delle città eroiche, e ne surse il dominio eminente appo essi ordini, che furono le prime civili potestà, o sieno potestà sovrane de' popoli; le quali tutte e tre queste spezie di domìni si formarono e si distinsero col nascere di esse repubbliche, le quali, da per tutte le nazioni, con un'idea spiegata in favellari diversi, si truovano essere state dette «repubbliche erculee», ovvero di cureti, ossia di armati in pubblica ragunanza. E quindi si schiariscono i princìpi del famoso «ius quiritium», che gl'interpetri della romana ragione han creduto esser propio de' cittadini romani, perché negli ultimi tempi tale lo era; ma ne' tempi antichi romani si truova essere stato diritto naturale di tutte le genti eroiche. E quindi sgorgano, come da un gran fonte più fiumi, l'origine delle città, che sursero sopra le famiglie non sol de' figliuoli ma anco de' famoli (onde si truovarono naturalmente fondate sopra due comuni: uno di nobili che vi comandassero, altro di plebei ch'ubbidissero; delle quali due parti si compone tutta la polizia, o sia la ragione de' civili governi); le quali prime città, sopra le famiglie sol di figliuoli, si dimostra che non potevano, né tali né di niuna sorta, affatto nascer nel mondo; - l'origini degl'imperi pubblici, che nacquero dall'unione degl'imperi privati paterni-sovrani nello stato delle famiglie; - l'origini della guerra e della pace, onde tutte le repubbliche nacquero con la mossa dell'armi, e poi si composero con le leggi; della qual natura di cose umane restò questa eterna propietà: che le guerre si fanno perché i popoli vivano sicuri in pace; - l'origini de' feudi, perché con una spezie di feudi rustici i plebei s'assoggettirono a' nobili, e con un'altra di feudi nobili, ovvero armati, i nobili, ch'eran sovrani nelle loro famiglie, s'assoggettirono alla maggiore sovranità de' lor ordini eroici; e si ritruova che sopra i feudi sono sempre surti al mondo i reami de' tempi barbari, e se ne schiarisce la storia de' nuovi reami d'Europa, surti ne' tempi barbari ultimi, i quali ci sono riusciti più oscuri de' tempi barbari primi che Varrone diceva. Perché tai primi campi da' nobili furon dati a' plebei col peso di pagarne loro la «decima» che fu detta «d'Ercole» appresso i greci, ovvero «censo» (che si truova quello da Servio Tullio ordinato a' romani), ovvero «tributo», il quale portava anco l'obbligazione di servir a propie spese i plebei a' nobili nelle guerre, come pur ben si legge apertamente nella storia romana antica. E quivi si scuopre l'origine del censo, che poi restò pianta delle repubbliche popolari; la qual ricerca ci ha costo la maggior fatiga di tutte sulle cose romane, in ritruovare la guisa come in questo si cangiò il censo di Servio Tullio, che si truoverà essere stato la pianta delle antiche repubbliche aristocratiche; lo che ha fatto cadere tutti in errore di credere Servio Tullio aver ordinato il censo della libertà popolare. Dallo stesso principio esce l'origine de' commerzi, che, 'n cotal guisa qual abbiam detto, cominciarono di beni stabili col cominciare d'esse città, che si dissero «commerzi» da questa prima mercede che nacque al mondo, la quale gli eroi, con tali campi, diedero a' famoli sotto la legge ch'abbiam detto di dover questi ad essoloro servire; - l'origine degli erari, che si abbozzarono col nascere delle repubbliche, e poi i propiamente detti da «æs æris», in senso di «danaio», s'intesero con la necessità di somministrare dal pubblico il danaio a' plebei nelle guerre; - l'origine delle colonie, che si truovano caterve, prima di contadini che servivano agli eroi per lo sostentamento della lor vita, poi di vassalli che ne coltivavano per sé i campi sotto i reali e personali pesi già divisati; le quali si appelleranno «colonie eroiche mediterranee», a differenza delle oltramarine già sopra dette; - e, finalmente, l'origini delle repubbliche, le quali nacquero al mondo di forma severissima aristocratica, nelle quali i plebei non avevano niuna parte di diritto civile. E quindi si ritruova il romano essere stato regno aristocratico, il quale cadde sotto la tirannia di Tarquinio Superbo, il quale avea fatto pessimo governo de' nobili e spento quasi tutto il senato; ché Giunio Bruto, il quale nel fatto di Lugrezia afferrò l'occasione di commuovere la plebe contro i Tarquini e, avendo liberato Roma dalla tirannide, ristabilì il senato e riordinò la repubblica sopra i suoi princìpi e, per un re a vita, con due consoli annali, non introdusse la popolare, ma vi raffermò la libertà signorile. La qual si truova che visse fin alla legge Publilia, con la quale Publilio Filone dittatore, detto perciò «popolare», dichiarò la repubblica romana esser divenuta popolare di stato, e spirò finalmente con la legge Petelia, la quale liberò affatto la plebe dal diritto feudale rustico del carcere privato, ch'avevano i nobili sopra i plebei debitori: sulle quali due leggi, che contengono i due maggiori punti della storia romana, non si è punto riflettuto né da' politici né da' giureconsulti né dagl'interpetri eruditi della romana ragione, per la favola della legge delle XII Tavole venuta da Atene libera per ordinar in Roma la libertà popolare, la quale queste due leggi dichiarano essersi ordinata in casa co' suoi naturali costumi (la qual favola si è scoverta ne' Princìpi del Diritto universale, usciti molti anni fa dalle stampe). Laonde, perché le leggi si deono interpetrare acconciamente agli stati delle repubbliche, da sì fatti princìpi di governo romano si danno altri princìpi alla romana giurisprudenza. La spada che s'appoggia al fascio dinota che 'l diritto eroico fu diritto della forza, ma prevenuta dalla religione, la qual sola può tener in ufizio la forza e l'armi ove non ancora si sono ritruovate (o, ritruovate, non hanno più luogo) le leggi giudiziarie; il qual diritto è quell'appunto d'Achille, ch'è l'eroe cantato da Omero a' popoli della Grecia in esemplo dell'eroica virtù, il qual riponeva tutta la ragione nell'armi. E qui si scuopre l'origine de' duelli; i quali, come certamente si celebrarono ne' tempi barbari ultimi, così egli si truova essersi praticati ne' tempi barbari primi, ne' quali non erano ancor i potenti addimesticati di vendicare tra loro le offese e i torti con le leggi giudiziarie, e si esercitavano con certi giudizi divini, ne' quali protestavano Dio testimone e si richiamavano a Dio giudice dell'offesa, e dalla fortuna, qual fusse mai, dell'abbattimento ne ossequiavano con tanta riverenza la dicisione che, se essa parte oltraggiata vi cadesse mai vinta, riputavasi rea. Alto consiglio della provvedenza divina, acciocché, in tempi barbari e fieri ne' quali non s'intendeva ragione, la stimassero dall'avere propizio o contrario Dio, onde da tali guerre private non si seminassero guerre ch'andassero a spegnere finalmente il gener umano; il quale natural senso barbaro non può in altro rifondersi che nel concetto innato c'hanno gli uomini di essa provvedenza divina, con la quale si devono conformare, ove vedano opprimersi i buoni e prosperarsi gli scellerati. Per le quali cagioni tutte funne il duello creduto una spezie di purgazione divina; onde, quanto oggi, in questa umanità, la quale con le leggi ha ordinato i giudizi criminali e civili, sono vietati, tanto ne' tempi barbari furono creduti necessari i duelli. In tal guisa ne' duelli, o sieno guerre private, si truova l'origine delle guerre pubbliche, che le faccino le civili potestà, non ad altri soggette ch'a Dio, perché Iddio le diffinisca con la fortuna delle vittorie, perché 'l gener umano riposasse sulla certezza degli Stati civili: ch'è 'l principio della «giustizia esterna», che dicesi, delle guerre. La borsa pur sopra il fascio dimostra ch'i commerzi i quali si celebrano con danaio non cominciarono che tardi - dopo fondati già gl'imperi civili; - talché la moneta coniata non si legge in niuno de' due poemi d'Omero. Lo stesso geroglifico accenna l'origine di esse monete coniate, la qual si truova provvenire da quelle dell'armi gentilizie, le quali si scuoprono (come sopra se n'è alquanto accennato de' primieri campi d'armi) aver significato diritti e ragioni di nobiltà appartenenti più ad una famiglia che ad altra; onde poi nacque l'origine dell'imprese pubbliche, o sien insegne de' popoli, le quali poi s'innalberarono nell'insegne militari (e se ne serve, come di parole mute, la militar disciplina), e finalmente diedero l'impronto per tutti i popoli alle monete. E qui si danno altri princìpi alla scienza delle medaglie, e quindi altri alla scienza, che dicono, del blasone; ch'è uno degli tre luoghi de' quali ci truoviamo soddisfatti della Scienza nuova la prima volta stampata. La bilancia dopo la borsa dà a divedere che, dopo i governi aristocratici, che furono governi eroici, vennero i governi umani, di spezie prima popolari; ne' qual' i popoli, perché avevano già finalmente inteso la natura ragionevole (ch'è la vera natura umana) esser uguale in tutti, da sì fatta ugualità naturale (per le cagioni che si meditano nella storia ideal eterna e si rincontrano appuntino nella romana) trassero gli eroi, tratto tratto, all'egualità civile nelle repubbliche popolari; la quale ci è significata dalla bilancia, perché, come dicevano i greci, nelle repubbliche popolari tutto corre a sorte o bilancia. Ma finalmente, non potendo i popoli liberi mantenersi in civile egualità con le leggi per le fazioni de' potenti, e andando a perdersi con le guerre civili, avvenne naturalmente che, per esser salvi, con una legge regia naturale la qual si truova comune a tutti i popoli di tutti i tempi in tali Stati popolari corrotti (perché la legge regia civile, che dicesi comandata dal popolo romano per legittimare la romana monarchia nella persona d'Augusto, ella ne' Princìpi del Diritto universale si dimostra esser una favola, la quale, con la favola ivi dimostrata della legge delle XII Tavole venuta da Atene, sono due luoghi per li quali stimiamo non avere scritto inutilmente quell'opera), con tal legge o più tosto costume naturale delle genti umane, vanno a ripararsi sotto le monarchie, ch'è l'altra spezie degli umani governi. Talché queste due forme ultime de' governi, che sono umani, nella presente umanità si scambiano vicendevolmente tra loro; ma niuna delle due passano per natura in istati aristocratici, ch'i soli nobili vi comandino e tutti gli altri vi ubbidiscano; onde son oggi rimaste al mondo tanto rade le repubbliche de' nobili: in Germania, Norimberga; in Dalmazia, Ragugia; in Italia, Vinegia, Genova e Lucca. Perché queste sono le tre spezie degli Stati che la divina provvedenza, con essi naturali costumi delle nazioni, ha fatto nascere al mondo, e con quest'ordine naturale succedono l'una all'altra; perché altre per provvedenza umana di queste tre mescolate, perché essa natura delle nazioni non le sopporta, da Tacito (che vidde gli effetti soli delle cagioni che qui si accennano e dentro ampiamente si ragionano) son diffinite che «sono più da lodarsi che da potersi mai conseguire, e, se per sorta ve n'hanno, non sono punto durevoli». Per la qual discoverta si danno altri princìpi alla dottrina politica, non sol diversi ma affatto contrari a quelli che se ne sono immaginati finora. Il caduceo è l'ultimo de' geroglifici, per farci avvertiti ch'i primi popoli, ne' tempi lor eroici ne' quali regnava il diritto natural della forza, si guardavano tra loro da perpetui nimici, con continove rube e corseggi (e come, ne' tempi barbari primi, gli eroi si recavano a titolo d'onore d'esser chiamati ladroni, così, a' tempi barbari ritornati, d'esser i potenti detti corsali), perché, essendo le guerre eterne tra loro, non bisognava intimarle; ma, venuti poi i governi umani, o popolari o monarchici, dal diritto delle genti umane furon introdutti gli araldi ch'intimasser le guerre, e s'incominciarono a finire l'ostilità con le paci. E ciò per alto consiglio della provvedenza divina, perché, ne' tempi della loro barbarie, le nazioni che novelle al mondo dovevano germogliare si stassero circoscritte dentro i loro confini, né, essendo feroci e indomite, uscissero quindi a sterminarsi tra essolor con le guerre; ma poi che, con lo stesso tempo, fussero cresciute e si truovassero insiememente addimesticate, e perciò fatte comportevoli de' costumi l'une dall'altre, indi fusse facile a' popoli vincitori di risparmiare la vita a' vinti con le giuste leggi delle vittorie. Così questa Nuova Scienza, o sia la metafisica, al lume della provvedenza divina meditando la comune natura delle nazioni, avendo scoverte tali origini delle divine ed umane cose tralle nazioni gentili, ne stabilisce un sistema del diritto natural delle genti, che procede con somma egualità e costanza per le tre età che gli egizi ci lasciaron detto aver camminato per tutto il tempo del mondo corso loro dinanzi, cioè: l'età degli dèi, nella quale gli uomini gentili credettero vivere sotto divini governi, e ogni cosa essere lor comandata con gli auspìci e con gli oracoli, che sono le più vecchie cose della storia profana; - l'età degli eroi, nella quale dappertutto essi regnarono in repubbliche aristocratiche, per una certa da essi riputata differenza di superior natura a quella de' lor plebei; - e finalmente l'età degli uomini, nella quale tutti si riconobbero esser uguali in natura umana, e perciò vi si celebrarono prima le repubbliche popolari e finalmente le monarchie, le quali entrambe sono forme di governi umani, come poco sopra si è detto. Convenevolmente a tali tre sorte di natura e governi, si parlarono tre spezie di lingue, che compongono il vocabolario di questa Scienza: la prima, nel tempo delle famiglie, che gli uomini gentili si erano di fresco ricevuti all'umanità; la qual si truova essere stata una lingua muta per cenni o corpi ch'avessero naturali rapporti all'idee ch'essi volevan significare; - la seconda si parlò per imprese eroiche, o sia per simiglianze, comparazioni, immagini, metafore e naturali descrizioni, che fanno il maggior corpo della lingua eroica, che si truova essersi parlata nel tempo che regnaron gli eroi; - la terza fu la lingua umana per voci convenute da' popoli, della quale sono assoluti signori i popoli, propia delle repubbliche popolari e degli Stati monarchici, perché i popoli dieno i sensi alle leggi, a' quali debbano stare con la plebe anco i nobili; onde, appo tutte le nazioni, portate le leggi in lingue volgari, la scienza delle leggi esce di mano a' nobili, delle quali, innanzi, come di cosa sagra, appo tutte si truova che ne conservavano una lingua segreta i nobili, i quali, pur da per tutte, si truova che furono sacerdoti: ch'è la ragion natural dell'arcano delle leggi appo i patrizi romani, finché vi surse la libertà popolare. Queste sono appunto le tre lingue che pur gli egizi dissero essersi parlate innanzi nel loro mondo, corrispondenti a livello, così nel numero come nell'ordine, alle tre età che nel loro mondo erano corse loro dinanzi: la geroglifica, ovvero sagra o segreta, per atti muti, convenevole alle religioni, alle quali più importa osservarle che favellarne; - la simbolica, o per somiglianze, qual testé abbiam veduto essere stata l'eroica; - e finalmente la pistolare, o sia volgare, che serviva loro per gli usi volgari della lor vita. Le quali tre lingue si truovano tra' caldei, sciti, egizi, germani e tutte le altre nazioni gentili antiche; quantunque la scrittura geroglifica più si conservò tra gli egizi, perché più lungo tempo che le altre furono chiusi a tutte le nazioni straniere (per la stessa cagione onde si è truovata durare tuttavia tra' chinesi), e quindi si forma una dimostrazione d'esser vana la lor immaginata lontanissima antichità. Però qui si danno gli schiariti princìpi come delle lingue così delle lettere, d'intorno alle quali ha finora la filologia disperato, e se ne darà un saggio delle stravaganti e mostruose oppenioni che se ne sono finor avute. L'infelice cagione di tal effetto si osserverà ch'i filologi han creduto nelle nazioni esser nate prima le lingue, dappoi le lettere; quando (com'abbiamo qui leggiermente accennato e pienamente si pruoverà in questi libri) nacquero esse gemelle e caminarono del pari, in tutte e tre le loro spezie, le lettere con le lingue. E tai princìpi si rincontrano appuntino nelle cagioni della lingua latina, ritruovate nella Scienza nuova stampata la prima volta - ch'è l'altro luogo degli tre onde di quel libro non ci pentiamo; - per le quali ragionate cagioni si sono fatte tante discoverte dell'istoria, governo e diritto romano antico, come in questi libri potrai, o leggitore, a mille pruove osservare. Al qual esemplo, gli eruditi delle lingue orientali, greca e, tralle presenti, particolarmente della tedesca, ch'è lingua madre, potranno fare discoverte d'antichità fuori d'ogni loro e nostra aspettazione. Principio di tal'origini e di lingue e di lettere si truova essere stato ch'i primi popoli della gentilità, per una dimostrata necessità di natura, furon poeti, i quali parlarono per caratteri poetici; la qual discoverta, ch'è la chiave maestra di questa Scienza, ci ha costo la ricerca ostinata di quasi tutta la nostra vita letteraria, perocché tal natura poetica di tai primi uomini, in queste nostre ingentilite nature, egli è affatto impossibile immaginare e a gran pena ci è permesso d'intendere. Tali caratteri si truovano essere stati certi generi fantastici (ovvero immagini, per lo più di sostanze animate o di dèi o d'eroi, formate dalla lor fantasia), ai quali riducevano tutte le spezie o tutti i particolari a ciascun genere appartenenti; appunto come le favole de' tempi umani, quali sono quelle della commedia ultima, sono i generi intelligibili, ovvero ragionati dalla moral filosofia, de' quali i poeti comici formano generi fantastici (ch'altro non sono l'idee ottime degli uomini in ciascun suo genere), che sono i personaggi delle commedie. Quindi sì fatti caratteri divini o eroici si truovano essere state favole, ovvero favelle vere; e se ne scuoprono l'allegorie, contenenti sensi non già analoghi ma univoci, non filosofici ma istorici di tali tempi de' popoli della Grecia. Di più, perché tali generi (che sono, nella lor essenza, le favole) erano formati da fantasie robustissime, come d'uomini di debolissimo raziocinio, se ne scuoprono le vere sentenze poetiche, che debbon essere sentimenti vestiti di grandissime passioni, e perciò piene di sublimità e risveglianti la maraviglia. Inoltre, i fonti di tutta la locuzion poetica si truovano questi due, cioè povertà di parlari e necessità di spiegarsi e di farsi intendere; da' quali proviene l'evidenza della favella eroica, che immediatamente succedette alla favella mutola per atti o corpi ch'avessero naturali rapporti all'idee che si volevan significare, la quale ne' tempi divini si era parlata. E finalmente, per tal necessario natural corso di cose umane, le lingue, appo gli assiri, siri, fenici, egizi, greci e latini, si truovano aver cominciato da versi eroici, indi passati in giambici, che finalmente si fermarono nella prosa; e se ne dà la certezza alla storia degli antichi poeti, e si rende la ragione perché nella lingua tedesca, particolarmente nella Slesia, provincia tutta di contadini, nascono naturalmente verseggiatori, e nella lingua spagnuola, francese ed italiana i primi autori scrissero in versi. Da sì fatte tre lingue si compone il vocabolario mentale, da dar le propie significazioni a tutte le lingue articolate diverse, e se ne fa uso qui sempre, ove bisogna. E nella Scienza nuova la prima volta stampata se ne fa un pieno saggio particolare, ove se ne dà essa idea: che dall'eterne propietà de' padri, che noi, in forza di questa Scienza, meditammo aver quelli avuto nello stato delle famiglie e delle prime eroiche città nel tempo che si formaron le lingue, se ne truovano le significazioni propie in quindeci lingue diverse, così morte come viventi, nelle quali furono, ove da una ove da un'altra propietà, diversamente appellati (ch'è 'l terzo luogo nel quale ci compiacciamo di quel libro di già stampato). Un tal lessico si truova esser necessario per sapere la lingua con cui parla la storia ideal eterna, sulla quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni, e per potere con iscienza arrecare l'autorità da confermare ciò che si ragiona in diritto natural delle genti, e quindi in ogni giurisprudenza particolare. Con tali tre lingue - propie di tali tre età, nelle quali si celebrarono tre spezie di governi, conformi a tre spezie di nature civili, che cangiano nel corso che fanno le nazioni - si truova aver camminato con lo stess'ordine, in ciascun suo tempo, un'acconcia giurisprudenza. Delle quali si truova la prima essere stata una teologia mistica, che si celebrò nel tempo ch'a' gentili comandavano i dèi; della quale furono sappienti i poeti teologi (che si dicono aver fondato l'umanità gentilesca), ch'interpetravano i misteri degli oracoli, i quali da per tutte le nazioni risposero in versi. Quindi si truova nelle favole essere stati nascosti i misteri di sì fatta sapienza volgare; e si medita così nelle cagioni onde poi i filosofi ebbero tanto disiderio di conseguire la sapienza degli antichi, come nelle occasioni ch'essi filosofi n'ebbero di destarsi a meditare altissime cose in filosofia e nelle comodità d'intrudere nelle favole la loro sapienza riposta. La seconda si truova essere stata la giurisprudenza eroica, tutta scrupolosità di parole (della quale si truova essere stato prudente Ulisse), la quale guardava quella che da' giureconsulti romani fu detta «æquitas civilis» e noi diciamo «ragion di Stato», per la quale, con le loro corte idee, estimarono appartenersi loro naturalmente quello diritto, ch'era ciò, quanto e quale si fusse con le parole spiegato; come pur tuttavia si può osservare ne' contadini ed altri uomini rozzi, i quali, in contese di parole e di sentimenti, ostinatamente dicono la lor ragione star per essi nelle parole. E ciò, per consiglio della provvedenza divina, acciocché gli uomini gentili, non essendo ancor capaci d'universali, quali debbon esser le buone leggi, da essa particolarità delle loro parole fussero tratti ad osservare le leggi universalmente; e se per cotal equità in alcun caso riuscivan le leggi non solo dure ma anco crudeli, naturalmente il sopportavano, perché naturalmente tale stimavano essere il loro diritto. Oltreché, gli vi attirava ad osservarle un sommo privato interesse, che si truova aver avuto gli eroi medesimato con quello delle loro patrie, delle quali essi soli erano cittadini; onde non dubitavano, per la salvezza delle lor patrie, consagrare sé e le loro famiglie alla volontà delle leggi, le quali, con la salvezza comune delle loro patrie, mantenevano loro salvi certi privati regni monarchici sopra le loro famiglie. Altronde, tal privato grande interesse, congionto col sommo orgoglio propio de' tempi barbari, formava loro la natura eroica, dalla quale uscirono tante eroiche azioni per la salvezza delle lor patrie. Con le quali eroiche azioni si componghino l'insopportabil superbia, la profonda avarizia e la spietata crudeltà con la quale i patrizi romani antichi trattavano gl'infelici plebei, come apertamente si leggono sulla storia romana nel tempo che lo stesso Livio dice essere stata l'età della romana virtù e della più fiorente finor sognata romana libertà popolare; e truoverassi che tal pubblica virtù non fu altro che un buon uso che la provvedenza faceva di sì gravi, laidi e fieri vizi privati, perché si conservassero le città ne' tempi che le menti degli uomini, essendo particolarissime, non potevano naturalmente intendere ben comune. Per lo che si danno altri princìpi per dimostrare l'argomento che tratta sant'Agostino, De virtute romanorum, e si dilegua l'oppinione che da' dotti finor si è avuta dell'eroismo de' primi popoli. Sì fatta civil equità si truova naturalmente celebrata dalle nazioni eroiche così in pace come in guerra (e se n'arrecano luminosissimi esempli così della storia barbara prima come dell'ultima); e da' romani essersi praticata privatamente finché fu quella repubblica aristocratica, che si truova esserlo stata fin a' tempi delle leggi Publilia e Petelia, ne' quali si celebrò tutta sulla legge delle XII Tavole. L'ultima giurisprudenza fu dell'equità naturale, che regna naturalmente nelle repubbliche libere, ove i popoli, per un bene particolare di ciascheduno, ch'è eguale in tutti, senza intenderlo, sono portati a comandar leggi universali, e perciò naturalmente le disiderano benignamente pieghevoli inverso l'ultime circostanze de' fatti che dimandano l'ugual utilità; ch'è l'«æquum bonum», subbietto della giurisprudenza romana ultima, la quale da' tempi di Cicerone si era incominciata a rivoltare all'editto del pretore romano. È ella ancora, e forse anco più, connaturale alle monarchie, nelle qual'i monarchi hanno avvezzati i sudditi ad attendere alle loro private utilità, avendosi essi preso la cura di tutte le cose pubbliche, e vogliono tutte le nazioni soggette uguagliate tra lor con le leggi, perché tutte sieno egualmente interessate allo Stato. Onde Adriano imperadore riformò tutto il diritto naturale eroico romano col diritto naturale umano delle provincie, e comandò che la giurisprudenza si celebrasse sull'Editto perpetuo, che da Salvio Giuliano fu composto quasi tutto d'editti provinciali. Ora - per raccogliere tutti i primi elementi di questo mondo di nazioni da' geroglifici che gli significano - il lituo, l'acqua e 'l fuoco sopra l'altare, l'urna ceneraria dentro le selve, l'aratro che s'appoggia all'altare e 'l timone prostrato a piè dell'altare, significano la divinazione, i sagrifizi, le famiglie prima de' figliuoli, le seppolture, la coltivazione de' campi e la division de' medesimi, gli asili, le famiglie appresso de' famoli, le prime contese agrarie, e quindi le prime colonie eroiche mediterranee e, 'n difetto di queste, l'oltramarine e, con queste, le prime trasmigrazioni de' popoli, esser avvenute tutte nell'età degli dèi degli egizi, che, non sappiendo o traccurando, «tempo oscuro» chiamò Varrone, come si è sopra avvisato; - il fascio significa le prime repubbliche eroiche, la distinzione degli tre domini (cioè naturale, civile e sovrano), i primi imperi civili, le prime alleanze ineguali accordate con la prima legge agraria, per la quale si composero esse prime città sopra feudi rustici de' plebei, che furono suffeudi di feudi nobili degli eroi, ch'essendo sovrani, divennero soggetti a maggior sovranità di essi ordini eroici regnanti; - la spada che s'appoggia al fascio significa le guerre pubbliche che si fanno da esse città, incominciate da rube innanzi e corseggi (perché i duelli, ovvero guerre private, dovettero nascere molto prima, come qui sarà dimostrato, dentro lo stato d'esse famiglie); - la borsa significa divise di nobiltà o insegne gentilizie passate in medaglie, che furono le prime insegne de' popoli, che quindi passarono in insegne militari e finalmente in monete, ch'accennano i commerzi di cose anco mobili con danaio (perché i commerzi di robe stabili, con prezzi naturali di frutti e fatighe, avevan innanzi cominciato fin da' tempi divini con la prima legge agraria, sulla quale nacquero le repubbliche); - la bilancia significa le leggi d'ugualità, che sono propiamente le leggi; - e finalmente il caduceo significa le guerre pubbliche intimate, che si terminano con le paci. Tutti i quali geroglifici sono lontani dall'altare, perché sono tutte cose civili de' tempi ne' quali andarono tratto tratto a svanire le false religioni, incominciando dalle contese eroiche agrarie, le quali diedero il nome all'età degli eroi degli egizi, che «tempo favoloso» chiamò Varrone. La tavola degli alfabeti è posta in mezzo a' geroglifici divini ed umani, perché le false religioni incominciaron a svanir con le lettere, dalle quali ebbero il principio le filosofie; a differenza della vera, ch'è la nostra cristiana, la quale dalle più sublimi filosofie, cioè dalla platonica e dalla peripatetica (in quanto con la platonica si conforma), anco umanamente ci è confermata. Laonde tutta l'idea di quest'opera si può chiudere in questa somma. Le tenebre nel fondo della dipintura sono la materia di questa Scienza, incerta, informe, oscura, che si propone nella Tavola cronologica e nelle a lei scritte Annotazioni. Il raggio del quale la divina provvedenza alluma il petto alla metafisica sono le Dignità, le Diffinizioni e i Postulati, che questa Scienza si prende per Elementi di ragionar i Princìpi co' quali si stabilisce e 'l Metodo con cui si conduce: le quali cose tutte son contenute nel libro primo. Il raggio che da petto alla metafisica si risparge nella statua d'Omero è la luce propia che si dà alla Sapienza poetica nel libro secondo, dond'è il vero Omero schiarito nel libro terzo. Dalla Discoverta del vero Omero vengono poste in chiaro tutte le cose che compongono questo mondo di nazioni, dalle lor origini progredendo secondo l'ordine col quale al lume del vero Omero n'escono i geroglifici: ch'è il Corso delle nazioni, che si ragiona nel libro quarto; e, pervenute finalmente a' piedi della statua d'Omero, con lo stess'ordine ricominciando, ricorrono: lo che si ragiona nel quinto ed ultimo libro. E alla fin fine, per restrignere l'idea dell'opera in una somma brievissima, tutta la figura rappresenta gli tre mondi secondo l'ordine col quale le menti umane della gentilità da terra si sono al cielo levate. Tutti i geroglifici che si vedono in terra dinotano il mondo delle nazioni, al quale prima di tutt'altra cosa applicarono gli uomini. Il globo ch'è in mezzo rappresenta il mondo della natura, il quale poi osservarono i fisici. I geroglifici che vi sono al di sopra significano il mondo delle menti e di Dio, il quale finalmente contemplarono i metafisici.
TABELLA:
EBREI: Diluvio universale ANNI DEL MONDO: 1656
CALDEI: Zoroaste o regno de' Caldei (VII) ANNI DEL MONDO 1756
EGIZI: Dinastie in Egitto GRECI: Deucalione (XI)
EBREI Chiamata d'Abramo EGIZI: Mercurio Trimegisto il vecchio ovvero età degli dei d'Egitto (XII) GRECI: Età dell'oro, ovvero età degli dei di Grecia (XIII)
GRECI: Elleno, figliuolo di Deucalione, nipote di Prometeo, pronipote di Giapeto, per tre suoi figliuoli sparge nella Grecia tre dialetti (XIV) ANNI DEL MONDO 2082
GRECI: Cecrope egizio mena dodici colonie nell'Attica, delle quali poi Teseo compose Atene (XV)
GRECI: Cadmo fenice fonda Tebe in Beozia, ed introduce in Grecia le lettere volgari (XVI) ANNI DEL MONDO 2448
EBREI: Iddio dà la legge scritta a Mosè ROMANI: Sarturno, ovvero l'età degli dei del Lazio (XVII) ANNI DEL MONDO 2491
EGIZI: Mercurio Trimegisto il giovane ovvero età degli eroi d'Egitto (XVII) GRECI: Danao caccia gl'Inachidi dal regno d'Argo (XIX). Pelope frigio regna nel Peloponneso ANNI DEL MONDO 2553
GRECI: Eraclidi sparsi per tutta Grecia, che vi fanno l'età degli eroi. Cureti in Creta, Saturnia, ovvero Italia, ed in Asia, che vi fanno regni di sacerdoti (XX) ROMANI: Aborigini ANNI DEL MONDO 2682
CALDEI: Nino regna con gli assiri ANNI DEL MONDO 2737
FENICI: Didone da Tiro va a fondare Cartagine (XXI)
FENICI: Tiro celebre per la navigazione e per le colonie GRECI: Minosse re di Creta, primo legislatore delle genti e primo corsale dell'Egeo. ANNI DEL MONDO 2752
GRECI: Orfeo, e con essolui l'età de' poeti teologi (XXII). Ercole, con cui è al colmo il tempo eroico di Grecia (XXIII) ROMANI: Arcadi
CALDEI: Sancuniate scrive storie in lettere volgari (XXIV) GRECI: Giasone dà principio alle guerre navali con quella di Ponto. Teseo fonda Atene e vi ordina l'Areopago ROMANI: Ercole appo Evandro nel Lazio, ovvero età degli eroi d'Italia ANNI DEL MONDO: 2800
GRECI: Guerra troiana (XXV) ANNI DEL MONDO 2820
GRECI: Errori degli eroi, ed in ispezie d'Ulisse e di Enea
ROMANI: Regno d'Alba ANNI DEL MONDO: 2830
EBREI: Regno di Saulle ANNI DEL MONDO 2909
EGIZI: Sesotride regna in Tebe (XXVI) GRECI: Colonie greche in Asia, in Sicilia, in Italia (XXVII) ANNI DEL MONDO: 2949
GRECI: Ligurco dà le leggi a' Lacedemoni ANNI DEL MONDO: 3120
GRECI: Giuochi olimpici, prima ordinati da Ercole poi intermessi e restituiti da Isifilo (XXVIII) ANNI DEL MONDO: 3223
ROMANI: Fondazione di Roma (XXIX) ANNI DI ROMA: 1
GRECI: Omero, il quale venne che non si eran ancor truovate le lettere volgari, e 'l quale non vidde l'Egitto (XXX) ROMANI: Numa re. ANNI DEL MONDO: 3290 ANNI DI ROMA: 37
EGIZI: Psammetico apre l'Egitto a' soli greci di Inia e di Caria (XXXI) GRECI: Esopo, moral filosofo volgare (XXXII) ANNI DEL MONDO: 3334
GRECI: Sette savi di Grecia: de' quali uno, Solone, ordina la libertà popolare d'Atene: l'altro, Talete Milesio, dà incominciamento alla filosofia con la fisica (XXXIII) ANNI DEL MONDO: 3406
CALDEI: Ciro regna in Assiria co' persiani GRECI: Pittagora, cui vivo dice Livio che nemmeno il nome potè sapersi in Roma (XXXIV) ROMA: Servio Tullio re (XXXV) ANNI DEL MONDO: 3468 ANNI DI ROMA: 225
GRECI: I Pisistratidi tiranni cacciati da Atene ANNI DEL MONDO: 3491
ROMANI: I Tarquini tiranni cacciati da Roma ANNI DEL MONDO: 3499 ANNI DI ROMA: 245
GRECI: Esiodo (XXXVI) Erodoto, Ippocrate (XXXVII) ANNI DEL MONDO: 3500
SCITI: Idantura re di Scizia (XXXVIII) GRECI: Guerra peloponnesiaca. Tucidide, il qual scrive che fin a suo padre i greci non seppero nulla delle antichità loro proprie; onde si diede a scrivere di cotal guerra (XXXIX) ANNI DEL MONDO: 3530
GRECI: Socrate dà principio alla filosofia morale ragionata. Platone fiorisce nella metafisica. Atene sfolgora di tutte l'arti della più colta umanità (XL). ROMANI: Legge delle XII Tavole. ANNI DEL MONDO: 3553 ANNI DI ROMA: 303
GRECIA: Senofonte, con portar l'armi greche nelle viscere della Persia, è 'l primo a sapere con qualche certezza le cose persiane (XLI) ANNI DEL MONDO: 3583 ANNI DI ROMA: 333
ROMANI: Legge Pubilia (XLII) ANNI DEL MONDO: 3658 ANNI DI ROMA: 416
GRECI: Alessandro Magno rovescia nella Macedonia la monarchia persiana; ed Aristotile, che vi si porta in persona, osserva ch'i greci innanzi avevano detto favole delle cose dell'Oriente ANNI DEL MONDO: 3660
ROMANI: Legge Petelia (XLIII). ANNI DEL MONDO: 3661 ANNI DI ROMA: 419
ROMANI: Guerra di Taranto, ove s'incomincian a conoscer tra loro i latini co' greci (XLIV) ANNI DEL MONDO: 3708 ANNI DI ROMA: 489
ROMANI: Guerra cartaginese seconda, da cui incomincia la storia certa romana a Livio, il qual pur professa non saperne tre massime circostanze (XLV) ANNI DEL MONDO: 3849 ANNI DI ROMA: 552
LIBRO PRIMO
DELLO STABILIMENTO DE' PRINCÌPI. ANNOTAZIONI ALLA TAVOLA CRONOLOGICA NELLE QUALI SI FA L'APPARECCHIO DELLE MATERIE. I [Tavola cronologica, descritta sopra le tre epoche de' tempi degli egizi, che dicevano tutto il mondo innanzi essere scorso per tre età: degli dèi, degli eroi e degli uomini ] Questa Tavola cronologica spone in comparsa il mondo delle nazioni antiche, il quale dal diluvio universale girasi dagli ebrei per gli caldei, sciti, fenici, egizi, greci e romani fin alla loro guerra seconda cartaginese. E vi compariscono uomini o fatti romorosissimi, determinati in certi tempi o in certi luoghi dalla comune de' dotti, i quali uomini o fatti o non furono ne' tempi o ne' luoghi ne' quali sono stati comunemente determinati, non furon affatto nel mondo; e da lunghe densissime tenebre, ove giaciuti erano seppelliti, v'escon uomini insigni e fatti rilevantissimi, da' quali e co' quali son avvenuti grandissimi momenti di cose umane. Lo che tutto si dimostra in queste Annotazioni, per dar ad intendere quanto l'umanità delle nazioni abbia incerti a sconci o difettuosi o vani i princìpi. Di più, ella si propone tutta contraria al Canone cronico egiziaco, ebraico e greco di Giovanni Marshamo, ove vuol provare che gli egizi nella polizia e nella religione precedettero a tutte le nazioni del mondo, e che i di loro riti sagri ed ordinamenti civili, trasportati ad altri popoli, con qualche emendazione si ricevettero dagli ebrei. Nella qual oppenione il seguitò lo Spencero nella dissertazione De Urim et Thummim, ove oppina che gl'israeliti avessero apparato dagli egizi tutta la scienza delle divine cose per mezzo della sagra Cabbala. Finalmente al Marshamo acclamò l'Ornio nell'Antichità della barbaresca filosofia, ove, nel libro intitolato Chaldaicus, scrive che Mosè, addottrinato nella scienza delle divine cose dagli egizi, l'avesse portate nelle sue leggi agli ebrei. Surse allo 'ncontro Ermanno Witzio, nell'opera intitolata Ægyptiaca sive de ægyptiacorum sacrorum cum hebraicis collatione, e stima che 'l primo autor gentile, che n'abbia dato le prime certe notizie degli egizi, egli sia stato Dion Cassio, il quale fiorì sotto Marco Antonino filosofo. Di che può essere confutato con gli Annali di Tacito, ove narra che Germanico, passato nell'Oriente, quindi portossi in Egitto per vedere l'antichità famose di Tebe, e quivi da un di quei sacerdoti si fece spiegare i geroglifici iscritti in alcune moli, il quale, vaneggiando, gli riferì che que' caratteri conservavano le memorie della sterminata potenza ch'ebbe il loro re Ramse nell'Affrica, nell'Oriente e fino nell'Asia Minore, eguale alla potenza romana di quelli tempi, che fu grandissima: il qual luogo, perché gli era contrario, forse il Witzio si tacque. Ma, certamente, cotanto sterminata antichità non fruttò molto di sapienza riposta agli egizi mediterranei. Imperciocché ne' tempi di Clemente l'alessandrino, com'esso narra negli Stromati, andavano attorno i loro libri detti «sacerdotali» al numero di quarantadue, i quali in filosofia ed astronomia contenevano de' grandissimi errori, de' quali Cheremone, maestro di san Dionigi areopagita, sovente è messo in favola da Strabone; - le cose della medicina si truovano da Galeno ne' libri de medicina mercuriali essere manifeste ciance e mere imposture; - la morale era dissoluta, la quale, nonché tollerate o lecite, faceva oneste le meretrici; - la teologia era piena di superstizioni, prestigi e stregonerie. E la magnificenza delle loro moli e piramidi poté ben esser parto della barbarie, la quale si comporta col grande: però la scoltura e la fonderia egiziaca s'accusano ancor oggi essere state rozzissime. Perché la dilicatezza è frutto delle filosofie; onde la Grecia, che fu la nazion de' filosofi, sola sfolgorò di tutte le belle arti ch'abbia giammai truovato l'ingegno umano: pittura, scoltura, fonderia, arte d'intagliare, le quali sono dilicatissime, perché debbon astrarre le superficie da' corpi ch'imitano. Innalzò alle stelle cotal antica sapienza degli egizi la fondatavi sul mare da Alessandro Magno Alessandria, la qual, unendo l'acutezza affricana con la dilicatezza greca, vi produsse chiarissimi filosofi in divinità, per li quali ella pervenne in tanto splendore d'alto divin sapere che 'l Museo alessandrino funne poi celebrato quanto unitamente erano stat'innanzi l'Accademia, il Liceo, la Stoa e 'l Cinosargi in Atene; e funne detta «la madre delle scienze» Alessandria e, per cotanta eccellenza, fu appellata da' greci Pólis come Aùstu Atene, «Urbs» Roma. Quindi provenne Maneto, o sia Manetone, sommo pontefice egizio, il quale trasportò tutta la storia egiziaca ad una sublime teologia naturale, appunto come i greci filosofi avevano fatto innanzi delle lor favole, quali qui truoverassi esser state le lor antichissime storie; onde s'intenda lo stesso esser avvenuto delle favole greche che de' geroglifici egizi. Con tanto fasto d'alto sapere, la nazione, di sua natura boriosa (che ne furono motteggiati «gloriæ animalia»), in una città ch'era un grand'emporio del Mediterraneo e, per lo Mar Rosso, dell'Oceano e dell'Indie (tra gli cui costumi vituperevoli da Tacito, in un luogo d'oro, si narra questo: «novarum religionum avida»), tra per la pregiudicata oppenione della loro sformata antichità, la quale vanamente vantavano sopra tutte l'altre nazioni del mondo, e quindi d'aver signoreggiato anticamente ad una gran parte del mondo; e perché non sapevano la guisa come tra gentili, senza ch'i popoli sapessero nulla gli uni degli altri, divisamente nacquero idee uniformi degli dèi e degli eroi (lo che dentro appieno sarà dimostro), tutte le false divinitadi, ch'essi dalle nazioni che vi concorrevano per gli marittimi traffichi udivano essere sparse per lo resto del mondo, credettero esser uscite dal lor Egitto, e che 'l loro Giove Ammone fusse lo più antico di tutti (de' quali ogni nazione gentile n'ebbe uno), e che gli Ercoli di tutte l'altre nazioni (de' quali Varrone giunse a noverare quaranta) avessero preso il nome dal lor Ercole egizio, come l'uno e l'altro ci vien narrato da Tacito. E, con tutto ciò che Diodoro sicolo, il quale visse a' tempi d'Augusto, gli adorni di troppo vantaggiosi giudizi, non dà agli egizi maggior antichità che di duemila anni; e i di lui giudizi sono rovesciati da Giacomo Cappello nella sua Storia sagra ed egiziaca, che gli stima tali quali Senofonte aveva innanzi attaccati a Ciro e (noi aggiugniamo) Platone sovente finge de' persiani. Tutto ciò, finalmente, d'intorno alla vanità dell'altissima antica sapienza egiziaca si conferma con l'impostura del Pimandro smaltito per dottrina ermetica, il quale si scuopre dal Casaubuono non contenere dottrina più antica di quella de' platonici spiegata con la medesima frase, nel rimanente giudicata dal Salmasio per una disordinata e mal composta raccolta di cose. Fece agli egizi la falsa oppenione di cotanta lor antichità questa propietà della mente umana - d'esser indiffinita, - per la quale, delle cose che non sa, ella sovente crede sformatamente più di quello che son in fatti esse cose. Perciò gli egizi furon in ciò somiglianti a' chinesi, i quali crebbero in tanto gran nazione chiusi a tutte le nazioni straniere, come gli egizi lo erano stati fino a Psammetico e gli sciti fin ad Idantura, da' quali è volgar tradizione che furono vinti gli egizi in pregio d'antichità. La qual volgar tradizione è necessario ch'avesse avuto indi motivo onde incomincia la storia universale profana, la qual, appresso Giustino, come antiprincìpi propone innanzi alla monarchia degli assiri due potentissimi re, Tanai scita e Sesostride egizio, i quali finor han fatto comparire il mondo molto più antico di quel ch'è in fatti; e che per l'Oriente prima Tanai fusse ito con un grandissimo esercito a soggiogare l'Egitto, il qual è per natura difficilissimo a penetrarsi con l'armi, e che poi Sesostride con altrettante forze si fusse portato a soggiogare la Scizia, la qual visse sconosciuta ad essi persiani (ch'avevano stesa la loro monarchia sopra quella de' medi, suoi confinanti) fin a' tempi di Dario detto «maggiore», il qual intimò al di lei re Idantura la guerra; il qual si truova cotanto barbaro a' tempi dell'umanissima Persia, che gli risponde con cinque parole reali di cinque corpi, che non seppe nemmeno scrivere per geroglifici. E questi due potentissimi re attraversano con due grandissimi eserciti l'Asia, e non la fanno provincia o di Scizia o d'Egitto, e la lasciano in tanta libertà ch'ivi poi surse la prima monarchia delle quattro più famose del mondo, che fu quella d'Assiria! Perciò, forse, in cotal contesa d'antichità non mancarono d'entrar in mezzo i caldei, pur nazione mediterranea e, come dimostreremo, più antica dell'altre due, i quali vanamente vantavano di conservare le osservazioni astronomiche di ben ventiottomila anni: che forse diede il motivo a Flavio Giuseppe ebreo di credere con errore l'osservazioni avantidiluviane descritte nelle due colonne, una di marmo ed un'altra di mattoni, innalzate incontro a' due diluvi, e d'aver esso veduta nella Siria quella di marmo. Tanto importava alle nazioni antiche di conservare le memorie astronomiche, il qual senso fu morto affatto tralle nazioni che loro vennero appresso! Onde tal colonna è da riporsi nel museo della credulità. Ma così i chinesi si sono trovati scriver per geroglifici, come anticamente gli egizi e, più degli egizi, gli sciti, i quali nemmeno gli sapevano scrivere. E, non avendo per molte migliaia d'anni avuto commerzio con altre nazioni dalle quali potesser esser informati della vera antichità del mondo, com'uomo, che dormendo sia chiuso in un'oscura picciolissima stanza, nell'orror delle tenebre la crede certamente molto maggiore di quello che con mani la toccherà; così, nel buio della loro cronologia, han fatto i chinesi e gli egizi e, con entrambi, i caldei. Pure, benché il padre Michel di Ruggiero, gesuita, affermi d'aver esso letti libri stampati innanzi la venuta di Gesù Cristo; e benché il padre Martini, pur gesuita, nella sua Storia chinese narri una grandissima antichità di Confucio, la qual ha indotti molti nell'ateismo, al riferire di Martino Scoockio in Demonstratione Diluvii universalis, onde Isacco Pereyro, autore della Storia preadamitica, forse perciò abbandonò la fede catolica, e quindi scrisse che 'l diluvio si sparse sopra la terra de' soli ebrei: però Niccolò Trigaulzio, meglio del Ruggieri e del Martini informato, nella sua Christiana expeditione apud Sinas scrive la stampa appo i chinesi essersi truovata non più che da due secoli innanzi degli europei, e Confucio aver fiorito non più che cinquecento anni innanzi di Gesù Cristo. E la filosofia confuciana, conforme a' libri sacerdotali egiziaci, nelle poche cose naturali ella è rozza e goffa, e quasi tutta si rivolge ad una volgar morale, o sia moral comandata a que' popoli con le leggi. Da sì fatto ragionamento d'intorno alla vana oppenione ch'avevano della lor antichità queste gentili nazioni, e sopra tutte gli egizi, doveva cominciare tutto lo scibile gentilesco, tra per sapere con iscienza quest'importante principio: - dove e quando egli ebbe i suoi primi incominciamenti nel mondo, - e per assistere con ragioni anco umane a tutto il credibile cristiano, il quale tutto incomincia da ciò: che 'l primo popolo del mondo fu egli l'ebreo, di cui fu principe Adamo, il quale fu criato dal vero Dio con la criazione del mondo. E che la prima scienza da doversi apparare sia la mitologia, ovvero l'interpetrazion delle favole (perché, come si vedrà, tutte le storie gentilesche hanno favolosi i princìpi), e che le favole furono le prime storie delle nazioni gentili. E con sì fatto metodo rinvenire i princìpi come delle nazioni così delle scienze, le quali da esse nazioni son uscite e non altrimente: come per tutta quest'opera sarà dimostro ch'alle pubbliche necessità o utilità de' popoli elleno hanno avuto i lor incominciamenti, e poi, con applicarvi la riflessione acuti particolari uomini, si sono perfezionate. E quindi cominciar debbe la storia universale, che tutti i dotti dicono mancare ne' suoi princìpi. E, per ciò fare, l'antichità degli egizi in ciò grandemente ci gioverà, che ne serbarono due grandi rottami non meno maravigliosi delle loro piramidi, che sono queste due grandi verità filologiche. Delle quali una è narrata da Erodoto: ch'essi tutto il tempo del mondo ch'era corso loro dinanzi riducevano a tre età: la prima degli dèi, la seconda degli eroi e la terza degli uomini. L'altra è che, con corrispondente numero ed ordine, per tutto tal tempo si erano parlate tre lingue: la prima geroglifica ovvero per caratteri sagri, la seconda simbolica o per caratteri eroici, la terza pistolare o per caratteri convenuti da' popoli, al riferire dello Scheffero, De philosophia italica. La qual divisione de' tempi egli è necessario che Marco Terenzio Varrone - perch'egli, per la sua sterminata erudizione, meritò l'elogio con cui fu detto il «dottissimo de' romani» ne' tempi loro più illuminati, che furon quelli di Cicerone - dobbiam dire, non già ch'egli non seppe seguire, ma che non volle; perché, forse, intese della romana ciò che, per questi princìpi, si truoverà vero di tutte le nazioni antiche, cioè che tutte le divine ed umane cose romane erano native del Lazio: onde si studiò dar loro tutte latine origini nella sua gran opera Rerum divinarum et humanarum, della quale l'ingiuria del tempo ci ha privi (tanto Varrone credette alla favola della legge delle XII Tavole venuta da Atene in Roma!), e divise tutti i tempi del mondo in tre, cioè: tempo oscuro, ch'è l'età degli dèi; quindi tempo favoloso, ch'è l'età degli eroi; e finalmente tempo istorico, ch'è l'età degli uomini che dicevano gli egizi. Oltracciò, l'antichità degli egizi gioveracci con due boriose memorie, di quella boria delle nazioni, le quali osserva Diodoro sicolo che, o barbare o umane si fussero, ciascheduna si è tenuta la più antica di tutte e serbare le sue memorie fin dal principio del mondo; lo che vedremo essere stato privilegio de' soli ebrei. Delle quali due boriose memorie una osservammo esser quella che 'l loro Giove Ammone era il più vecchio di tutti gli altri del mondo, l'altra che tutti gli altri Ercoli dell'altre nazioni avevano preso il nome dal loro Ercole egizio: cioè ch'appo tutte prima corse l'età degli dèi, re de' quali appo tutte fu creduto esser Giove; e poscia l'età degli eroi, che si tenevano esser figliuoli degli dèi, il massimo de' quali fu creduto esser Ercole. II [Ebrei ] S'innalza la prima colonna agli ebrei, i quali, per gravissime autorità di Flavio Giuseppe ebreo e di Lattanzio Firmiano ch'appresso s'arrecheranno, vissero sconosciuti a tutte le nazioni gentili. E pur essi contavano giusta la ragione de' tempi corsi del mondo, oggi dagli più severi critici ricevuta per vera, secondo il calcolo di Filone giudeo; la qual se varia da quel d'Eusebio, il divario non è che di mille e cinquecento anni, ch'è brievissimo spazio di tempo a petto di quanto l'alterarono i caldei, gli sciti, gli egizi e, fin al dì d'oggi, i chinesi. Che dev'esser un invitto argomento che gli ebrei furono il primo popolo del nostro mondo ed hanno serbato con verità le loro memorie nella storia sagra fin dal principio del mondo. III [Caldei ] Si pianta la seconda colonna a' caldei, tra perché in geografia si mostra in Assiria essere stata la monarchia più mediterranea di tutto il mondo abitabile, e perché in quest'opera si dimostra che si popolarono prima le nazioni mediterranee, dappoi le marittime. E certamente i caldei furono i primi sappienti della gentilità, il principe de' quali dalla comune de' filologi è ricevuto Zoroaste caldeo. E senza veruno scrupolo la storia universale prende principio dalla monarchia degli assiri, la quale aveva dovuto incominciar a formarsi dalla gente caldea; dalla quale, cresciuta in un grandissimo corpo, dovette passare nella nazion degli assiri sotto di Nino, il quale vi dovette fondare tal monarchia, non già con gente menata colà da fuori, ma nata dentro essa Caldea medesima, con la qual egli spense il nome caldeo e vi produsse l'assirio: che dovetter esser i plebei di quella nazione, con le forze de' quali Nino vi surse monarca, come in quest'opera tal civile costume di quasi tutte, come si ha certamente della romana, vien dimostrato. Ed essa storia pur ci racconta che fu Zoroaste ucciso da Nino; lo che truoveremo esser stato detto, con lingua eroica, in senso che 'l regno, il qual era stato aristocratico de' caldei (de' quali era stato carattere eroico Zoroaste), fu rovesciato per mezzo della libertà popolare da' plebei di tal gente, i quali ne' tempi eroici si vedranno essere stati altra nazione da' nobili, e che col favore di tal nazione Nino vi si fusse stabilito monarca. Altrimente, se non istanno così queste cose, n'uscirebbe questo mostro di cronologia nella storia assiriaca; che nella vita d'un sol uomo, di Zoroaste, da vagabondi eslegi si fusse la Caldea portata a tanta grandezza d'imperio che Nino vi fondò una grandissima monarchia. Senza i quali princìpi, avendoci Nino dato il primo incominciamento della storia universale, ci ha fatto finor sembrare la monarchia dell'Assiria, come una ranocchia in una pioggia d'està, esser nata tutta ad un tratto. IV [Sciti ] Si fonda la terza colonna agli sciti, i quali vinsero gli egizi in contesa d'antichità, come testé l'hacci narrato una tradizione volgare. V [Fenici ] La quarta colonna si stabilisce a' fenici innanzi degli egizi, ai quali i fenici, da' caldei, portarono la pratica del quadrante e la scienza dell'elevazione del polo, di che è volgare tradizione; e appresso dimostraremo che portarono anco i volgari caratteri. VI [Egizi ] Per tutte le cose sopra qui ragionate, quelli egizi che nel suo Canone vuol il Marshamo essere stati gli più antichi di tutte le nazioni, meritano il quinto luogo su questa Tavola cronologica. VII [Zoroaste, o regno de' caldei. - Anni del mondo 1756 ] Zoroaste si truova in quest'opera essere stato un carattere poetico di fondatori di popoli in Oriente, onde se ne truovano tanti sparsi per quella gran parte del mondo quanti sono gli Ercoli per l'altra opposta dell'Occidente; e forse gli Ercoli, i quali con l'aspetto degli occidentali osservò Varrone anco in Asia (come il tirio, il fenicio), dovettero agli orientali essere Zoroasti. Ma la boria de' dotti, i quali ciò ch'essi sanno vogliono che sia antico quanto ch'è il mondo, ne ha fatto un uomo particolare ricolmo d'altissima sapienza riposta e gli ha attaccato gli oracoli della filosofia, i quali non ismaltiscono altro che per vecchia una troppo nuova dottrina, ch'è quella de' pittagorici e de' platonici. Ma tal boria de' dotti non si fermò qui, ché gonfiò più col fingerne anco la succession delle scuole per le nazioni: che Zoroaste addottrinò Beroso, per la Caldea; Beroso, Mercurio Trimegisto, per l'Egitto; Mercurio Trimegisto, Atlante, per l'Etiopia; Atlante, Orfeo, per la Tracia; e che, finalmente, Orfeo fermò la sua scuola in Grecia. Ma quindi a poco si vedrà quanto furono facili questi lunghi viaggi per le prime nazioni, le quali, per la loro fresca selvaggia origine, dappertutto vivevano sconosciute alle loro medesime confinanti, e non si conobbero tra loro che con l'occasion delle guerre o per cagione de' traffichi. Ma de' caldei gli stessi filologi, sbalorditi dalle varie volgari tradizioni che ne hanno essi raccolte, non sanno s'eglino fussero stati particolari uomini o intiere famiglie o tutto un popolo o nazione. Le quali dubbiezze tutte si solveranno con questi princìpi: che prima furono particolari uomini, dipoi intiere famiglie, appresso tutto un popolo e finalmente una gran nazione, sulla quale si fondò la monarchia dell'Assiria; e 'l lor sapere fu prima in volgare divinità (con la qual indovinavano l'avvenire dal tragitto delle stelle cadenti la notte) e poi in astrologia giudiziaria, com'a' latini l'astrologo giudiziario restò detto «chaldæus». VIII [Giapeto, dal quale provvengon i giganti - Anni del mondo 1856 ] I quali, con istorie fisiche truovate dentro le greche favole, e pruove come fisiche così morali tratte da dentro l'istorie civili, si dimostreranno essere stati in natura appo tutte le prime nazioni gentili. IX [Nebrod, o confusione delle lingue. - Anni del mondo 1856 ] La quale avvenne in una maniera miracolosa, onde all'istante si formarono tante favelle diverse. Per la qual confusione di lingue vogliono i Padri che si venne tratto tratto a perdere la purità della lingua santa avantidiluviana. Lo che si deve intendere delle lingue de' popoli d'Oriente, tra' quali Sem propagò il gener umano. Ma delle nazioni di tutto il restante mondo altrimente dovette andar la bisogna. Perocché le razze di Cam e Giafet dovettero disperdersi per la gran selva di questa terra con un error ferino di dugento anni; e così, raminghi e soli, dovettero produrre i figliuoli, con una ferina educazione, nudi d'ogni umano costume e privi d'ogni umana favella, e sì in uno stato di bruti animali. E tanto tempo appunto vi bisognò correre, che la terra, disseccata dall'umidore dell'universale diluvio, potesse mandar in aria delle esalazioni secche a potervisi ingenerare de' fulmini, da' quali gli uomini storditi e spaventati si abbandonassero alle false religioni di tanti Giovi, che Varrone giunse a noverarne quaranta e gli egizi dicevano il loro Giove Ammone essere lo più antico di tutti. E si diedero ad una spezie di divinazione d'indovinar l'avvenire da' tuoni e da' fulmini e da' voli dell'aquile, che credevano essere uccelli di Giove. Ma appo gli orientali nacque una spezie di divinazione più dilicata dall'osservare i moti de' pianeti e gli aspetti degli astri: onde il primo sapiente della gentilità si celebra Zoroaste, che 'l Bocarto vuol detto «contemplatore degli astri». E, siccome tra gli orientali nacque la prima volgar sapienza, così tra essi surse la prima monarchia, che fu quella d'Assiria. Per sì fatto ragionamento vengono a rovinare tutti gli etimologi ultimi, che vogliono rapportare tutte le lingue del mondo all'origini dell'orientali; quando tutte le nazioni provenute da Cam e Giafet si fondarono prima le lingue natie dentro terra, e poi, calate al mare, cominciarono a praticar co' fenici, che furono celebri ne' lidi del Mediterraneo e dell'Oceano per la navigazione e per le colonie. Come nella Scienza nuova la prima volta stampata l'abbiam dimostro nelle origini della lingua latina, e, ad esempio della latina, doversi lo stesso intendere dell'altre tutte. X [Un de' quali [giganti], Prometeo, ruba il fuoco dal sole. - Anni del mondo 1856 ] Da questa favola si scorge il Cielo avere regnato in terra, quando fu creduto tant'alto quanto le cime de' monti, come ve n'ha la volgare tradizione, che narra anco aver lasciato de' molti e grandi benefizi al gener umano. XI [Deucalione ] Al cui tempo Temi, o sia la giustizia divina, aveva un templo sopra il monte Parnaso; e ch'ella giudicava in terra le cose degli uomini. XII [Mercurio Trimegisto il vecchio, ovvero età degli dèi d'Egitto ] Questo è 'l Mercurio, ch'al riferire di Cicerone, De natura deorum, fu dagli egizi detto «Theut» (dal quale a' greci fusse provenuto theós), il quale truovò le lettere e le leggi agli egizi, e questi (per lo Marshamo) l'avesser insegnate all'altre nazioni del mondo. Però i greci non iscrissero le loro leggi co' geroglifici, ma con le lettere volgari, che finora si è oppinato aver loro portato Cadmo dalla Fenicia, delle quali, come vedrassi, non si servirono per settecento anni e più appresso. Dentro il qual tempo venne Omero, che in niuno de' suoi poemi nomina nómos (ch'osservò il Feizio nell'Omeriche antichità), e lasciò i suoi poemi alla memoria de' suoi rapsòdi, perché al di lui tempo le lettere volgari non si erano ancor truovate, come risolutamente Flavio Giuseffo ebreo il sostiene contro Appione, greco gramatico. E pure, dopo Omero, le lettere greche uscirono tanto diverse dalle fenicie. Ma queste sono minori difficultà a petto di quelle: come le nazioni, senza le leggi, possano truovarsi di già fondate? e come dentro esso Egitto, innanzi di tal Mercurio, si erano già fondate le dinastie? Quasi fussero d'essenza delle leggi le lettere, e sì non fussero leggi quelle di Sparta, ove per legge d'esso Ligurgo erano proibiti saper di lettera! Quasi non vi avesse potuto essere quest'ordine in natura civile: - di concepire a voce le leggi e pur a voce di pubblicarle, - e non si truovassero di fatto appo Omero due sorte d'adunanze: una detta bulé segreta, dove si adunavano gli eroi per consultar a voce le leggi; ed un'altra detta agorá, pubblica, nella quale pur a voce le pubblicavano! Quasi, finalmente, la provvedenza non avesse provveduto a questa umana necessità: che, per la mancanza delle lettere, tutte le nazioni nella loro barbarie si fondassero prima con le consuetudini e, ingentilite, poi si governassero con le leggi! Siccome nella barbarie ricorsa i primi diritti delle nazioni novelle d'Europa sono nati con le consuetudini, delle quali tutte le più antiche son le feudali; lo che si dee ricordare per ciò ch'appresso diremo: ch'i feudi sono state le prime sorgive di tutti i diritti che vennero appresso appo tutte le nazioni così antiche come moderne, e quindi il diritto natural delle genti, non già con leggi, ma con essi costumi umani essersi stabilito. Ora, per ciò ch'attiensi a questo gran momento della cristiana religione: - che Mosè non abbia apparato dagli egizi la sublime teologia degli ebrei, - sembra fortemente ostare la cronologia, la qual alloga Mosè dopo di questo Mercurio Trimegisto. Ma tal difficultà, oltre alle ragioni con le quali sopra si è combattuta, ella si vince affatto per questi princìpi, fermati in un luogo veramente d'oro di Giamblico, De mysteriis ægyptiorum, dove dice che gli egizi tutti i loro ritruovati necessari o utili alla vita umana civile riferivano a questo loro Mercurio; talché egli dee essere stato, non un particolare uomo ricco di sapienza riposta che fu poi consagrato dio, ma un carattere poetico de' primi uomini dell'Egitto sappienti di sapienza volgare, che vi fondarono prima le famiglie e poi i popoli che finalmente composero quella gran nazione. E per questo stesso luogo arrecato testé di Giamblico, perché gli egizi costino con la loro divisione delle tre età degli dèi, degli eroi e degli uomini, e questo Trimegisto fu loro dio, perciò nella vita di tal Mercurio dee correre tutta l'età degli dèi degli egizi. XIII [Età dell'oro, ovvero età degli dèi di Grecia ] Una delle cui particolarità la storia favolosa ci narra: che gli dèi praticavano in terra con gli uomini. E, per dar certezza a' princìpi della cronologia, meditiamo in quest'opera una teogonia naturale, o sia generazione degli dèi, fatta naturalmente nelle fantasie de' greci a certe occasioni di umane necessità o utilità, ch'avvertirono essere state loro soccorse o somministrate ne' tempi del primo mondo fanciullo, sorpreso da spaventosissime religioni: che tutto ciò che gli uomini o vedevano o immaginavano o anco essi stessi facevano, apprendevano essere divinità. E, de' famosi dodici dèi delle genti che furon dette «maggiori», o sieno dèi consagrati dagli uomini nel tempo delle famiglie, faccendo dodici minute epoche, con una cronologia ragionata della storia poetica si determina all'età degli dèi la durata di novecento anni; onde si danno i princìpi alla storia universale profana. XIV [Elleno, figliuolo di Deucalione, nipote di Prometeo, pronipote di Giapeto, per tre suoi figliuoli sparge nella Grecia tre dialetti. - Anni del mondo 2082 ] Da quest'Elleno i greci natii si disser «elleni»; ma i greci d'Italia si dissero «graii»; e la loro terra Graikía, onde «græci» vennero detti a' latini. Tanto i greci d'Italia seppero il nome della nazion greca principe, che fu quella oltramare, ond'essi erano venuti colonie in Italia! Perché tal voce Graikía non si truova appresso greco scrittore, come osserva Giovanni Palmerio nella Descrizion della Grecia. XV [Cecrope egizio mena dodici colonie nell'Attica, delle quali poi Teseo compose Atene ] Ma Strabone stima che l'Attica, per l'asprezza delle sue terre, non poteva invitare stranieri che vi venissero ad abitare, per pruovare che 'l dialetto attico è de' primi tra gli altri natii di Grecia. XVI [Cadmo fenice fonda Tebe in Beozia, ed introduce in Grecia le lettere volgari. - Anni del mondo 2448 ] E vi porrò le lettere fenicie: onde Beozia, fin dalla sua fondazione letterata, doveva essere la più ingegnosa di tutte l'altre nazioni di Grecia; ma produsse uomini di menti tanto balorde che passò in proverbio «beoto» per uomo d'ottuso ingegno. XVII [Saturno, ovvero l'età degli dèi del Lazio. - Anni del mondo 2491 ] Questa è l'età degli dèi che comincia alle nazioni del Lazio, corrispondente nelle propietà all'età dell'oro de' greci, a' quali il primo oro si ritruoverà per la nostra mitologia essere stato il frumento, con le cui raccolte per lunghi secoli le prime nazioni numerarono gli anni. E Saturno da' latini fu detto a «satis», da' seminati, e si dice Chrónos da' greci, appo i quali chrónos è il tempo, da cui vien detta essa «cronologia». XVIII [Mercurio Trimegisto il giovine, o età degli eroi d'Egitto. Anni del mondo 2553 ] Questo Mercurio il giovine dev'essere carattere poetico dell'età degli eroi degli egizi. La qual a' greci non succedé che dopo novecento anni, per gli quali va a finire l'età degli dèi di Grecia; ma agli egizi corre per un padre, figlio e nipote. A tal anacronismo nella storia egiziaca osservammo uno somigliante nella storia assiriaca nella persona di Zoroaste. XIX [Danao egizio caccia gl'Inachidi dal regno d'Argo. Anni del mondo 2553 ] Queste successioni reali sono gran canoni di cronologia: come Danao occupa il regno d'Argo, signoreggiato innanzi da nove re della casa d'Inaco, per gli quali dovevano correre trecento anni (per la regola de' cronologi), come presso a cinquecento per gli quattordici re latini che regnarono in Alba. Ma Tucidide dice che ne' tempi eroici gli re si cacciavano tutto giorno di sedia l'un l'altro; come Amulio caccia Numitore dal regno d'Alba, e Romolo ne caccia Amulio e rimettevi Numitore. Lo che avveniva tra per la ferocia de' tempi, e perch'erano smurate l'eroiche città, né eran in uso ancor le fortezze, come dentro si rincontra de' tempi barbari ritornati. XX [Eraclidi sparsi per tutta Grecia, che vi fanno l'età degli eroi. - Cureti in Creta, Saturnia, ovvero Italia, ed in Asia, che vi fanno regni di sacerdoti. - Anni del mondo 2682 ] Questi due grandi rottami d'antichità si osservano da Dionigi Petavio gittati dentro la greca storia avanti il tempo eroico de' greci. E sono sparsi per tutta Grecia gli Eraclidi, o sieno i figliuoli d'Ercole, più di cento anni innanzi di provenirvi Ercole loro padre, il quale, per propagarli in tanta generazione, doveva esser nato molti secoli prima. XXI [Didone da Tiro va a fondar Cartagine ] La quale noi poniamo nel fine del tempo eroico de' fenici, e sì, cacciata da Tiro perché vinta in contesa eroica, com'ella il professa d'esserne uscita per l'odio del suo cognato. Tal moltitudine d'uomini tirii con frase eroica fu detta «femmina», perché di deboli e vinti. XXII [Orfeo, e con essolui l'età de' poeti teologi ] Quest'Orfeo, che riduce le fiere di Grecia all'umanità, si truova esser un vasto covile di mille mostri. Viene da Tracia, patria di fieri Marti, non d'umani filosofi, perché furono, per tutto il tempo appresso, cotanto barbari ch'Androzione filosofo tolse Orfeo dal numero de' sappienti solamente per ciò che fusse nato egli in Tracia. E, ne' di lei princìpi, ne uscì tanto dotto di greca lingua che vi compose in versi di maravigliosissima poesia, con la quale addimestica i barbari per gli orecchi; i quali, composti già in nazioni, non furono ritenuti dagli occhi di non dar fuoco alle città piene di maraviglie. E truova i greci ancor fiere bestie; a' quali Deucalione, da un mille anni innanzi, aveva insegnato la pietà col riverire e temere la giustizia divina, col cui timore, innanzi al di lei templo posto sopra il monte Parnaso (che fu poi la stanza delle muse e d'Apollo, che sono lo dio e l'arti dell'umanità), insieme con Pirra sua moglie, entrambi co' capi velati (cioè col pudore del concubito umano, volendo significare col matrimonio), le pietre ch'erano loro dinanzi i piedi (cioè gli stupidi della vita innanzi ferina), gittandole dietro le spalle, fanno divenir uomini (cioè con l'ordine della disciplina iconomica, nello stato delle famiglie); - Elleno, da settecento anni innanzi, aveva associati con la lingua e v'aveva sparso per tre suoi figliuoli tre dialetti; - la casa d'Inaco dimostrava esservi da trecento anni innanzi fondati i regni e scorrervi le successioni reali. Viene finalmente Orfeo ad insegnarvi l'umanità; e, da un tempo che la truova tanto selvaggia, porta la Grecia a tanto lustro di nazione ch'esso è compagno di Giasone nell'impresa navale del vello d'oro (quando la navale e la nautica sono gli ultimi ritruovati de' popoli), e vi s'accompagna con Castore e Polluce, fratelli d'Elena, per cui fu fatta la tanto romorosa guerra di Troia. E, nella vita d'un sol uomo, tante civili cose fatte, alle quali appena basta la scorsa di ben mill'anni! Tal mostro di cronologia sulla storia greca nella persona d'Orfeo è somigliante agli altri due osservati sopra: uno sulla storia assiriaca nella persona di Zoroaste, ed un altro sull'egiziaca in quelle de' due Mercuri. Per tutto ciò, forse, Cicerone, De natura deorum, sospettò ch'un tal Orfeo non fusse giammai stato nel mondo. A queste grandissime difficultà cronologiche s'aggiungono non minori altre morali e politiche: che Orfeo fonda l'umanità della Grecia sopra esempli d'un Giove adultero, d'una Giunione nimica a morte della virtù degli Ercoli, d'una casta Diana che solecita gli addormentati Endimioni di notte, d'un Apollo che risponde oracoli ed infesta fin alla morte le pudiche donzelle Dafni, d'un Marte che, come non bastasse agli dèi di commettere adultèri in terra, gli trasporta fin dentro il mare con Venere. Né tale sfrenata libidine degli dèi si contenta de' vietati concubiti con le donne: arde Giove di nefandi amori per Ganimede; né pur qui si ferma: eccede finalmente alla bestiale, e Giove, trasformato in cigno, giace con Leda: la qual libidine, esercitata negli uomini e nelle bestie, fece assolutamente l'infame nefas del mondo eslege. Tanti dèi e dèe nel cielo non contraggono matrimoni; ed uno ve n'ha, di Giove con Giunone, ed è sterile; né solamente sterile, ma anco pieno d'atroci risse; talché Giove appicca in aria la pudica gelosa moglie, ed esso partorisce Minerva dal capo; ed infine, se Saturno fa figliuoli, gli si divora. I quali esempli, e potenti esempli divini (contengansi pure cotali favole tutta la sapienza riposta, disiderata da Platone infino a' nostri tempi da Bacone di Verulamio, De sapientia veterum), come suonano, dissolverebbero i popoli più costumati e gl'istigherebbero ad imbrutirsi in esse fiere d'Orfeo: tanto sono acconci e valevoli a ridurre gli uomini da bestie fiere all'umanità! Della qual riprensione è una particella quella che degli dèi della gentilità fa sant'Agostino nella Città di Dio, per questo motivo dell'Eunuco di Terenzio: che 'l Cherea, scandalezzato da una dipintura di Giove ch'in pioggia d'oro si giace con Danae, prende quell'ardire, che non aveva avuto, di violare la schiava, della quale pur era impazzato d'un violentissimo amore. Ma questi duri scogli di mitologia si schiveranno co' princìpi di questa Scienza, la quale dimostrerà che tali favole, ne' loro princìpi, furono tutte vere e severe e degne di fondatori di nazioni, e che poi, con lungo volger degli anni, da una parte oscurandosene i significati, e dall'altra col cangiar de' costumi che da severi divennero dissoluti, perché gli uomini per consolarne le lor coscienze volevano peccare con l'autorità degli dèi, passarono ne' laidi significati co' quali sonoci pervenute. L'aspre tempeste cronologiche ci saranno rasserenate dalla discoverta de' caratteri poetici, un de' quali fu Orfeo, guardato per l'aspetto di poeta teologo, il quale con le favole, nel primo loro significato, fondò prima e poi raffermò l'umanità della Grecia. Il quale carattere spiccò più che mai nell'eroiche contese co' plebei delle greche città; ond'in tal età si distinsero i poeti teologi, com'esso Orfeo, Lino, Museo, Anfione, il quale de' sassi semoventi (de' balordi plebei) innalzò le mura di Tebe, che Cadmo aveva da trecento anni innanzi fondata; appunto come Appio, nipote del decemviro, circa altrettanto tempo dalla fondazione di Roma, col cantar alla plebe la forza degli dèi negli auspìci, della quale avevano la scienza i patrizi, ferma lo stato eroico a' romani. Dalle quali eroiche contese ebbe nome il secolo eroico. XXIII [Ercole, con cui è al colmo il tempo eroico di Grecia ] Le stesse difficultà ricorrono in Ercole, preso per un uom vero, compagno di Giasone nella spedizione di Colco; quando egli non sia, come si truoverà, carattere eroico di fondatore di popoli per l'aspetto delle fatighe. XXIV [Sancuniate scrive storie in lettere volgari. - Anni del mondo 2800 ] Detto anco Sancunazione, chiamato «lo storico della verità» (al riferire di Clemente alessandrino negli Stromati), il quale scrisse in caratteri volgari la storia fenicia, mentre gli egizi e gli sciti, come abbiam veduto, scrivevano per geroglifici, come si sono truovati scrivere fin al dì d'oggi i chinesi, i quali non meno degli sciti ed egizi vantano una mostruosa antichità, perché al buio del loro chiuso, non praticando con altre nazioni, non videro la vera luce de' tempi. E Sancuniate scrisse in caratteri fenici volgari, mentre le lettere volgari non si erano ancor truovate tra' greci, come sopra si è detto. XXV [Guerra troiana. - Anni del mondo 2820 ] La quale, com'è narrata da Omero, avveduti critici giudicano non essersi fatta nel mondo; e i Ditti cretesi e i Dareti frigi, che la scrissero in prosa come storici del lor tempo, da' medesimi critici sono mandati a conservarsi nella libraria dell'impostura. XXVI [Sesostride regna in Tebe. - Anni del mondo 2949 ] Il quale ridusse sotto il suo imperio le tre altre dinastie dell'Egitto; che si truova esser il re Ramse che 'l sacerdote egizio narra a Germanico appresso Tacito. XXVII [Colonie greche in Asia, in Sicilia, in Italia. Anni del mondo 2949 ] Questa è una delle pochissime cose nelle quali non seguiamo l'autorità d'essa cronologia, forzati da una prepotente cagione. Onde poniamo le colonie de' greci menate in Italia ed in Sicilia da cento anni dopo la guerra troiana, e sì da un trecento anni innanzi al tempo ove l'han poste i cronologi, cioè vicino a' tempi ne' quali i cronologi pongono gli errori degli eroi, come di Menelao, di Enea, d'Antenore, di Diomede e d'Ulisse. Né dee recare ciò maraviglia, quando essi variano di quattrocensessant'anni d'intorno al tempo d'Omero, ch'è 'l più vicino autore a sì fatte cose de' greci. Perché la magnificenza e dilicatezza di Siragosa a' tempi delle guerre cartaginesi non avevano che invidiare a quelle d'Atene medesima; quando nell'isole più tardi che ne' continenti s'introducono la morbidezza e lo splendor de' costumi, e, ne' di lui tempi, Cotrone fa compassione a Livio del suo poco numero d'abitatori, la quale aveva abitato innanzi più millioni. XXVIII [Giuochi olimpici, prima ordinati da Ercole, poi intermessi, e restituiti da Isifilo. - Anni del mondo 3223 ] Perché si truova che da Ercole si noveravano gli anni con le raccolte; da Isifilo in poi, col corso del sole, per gli segni del zodiaco: onde da questi incomincia il tempo certo de' greci. XXIX [Fondazione di Roma. - Anni di Roma 1 ] Ma, qual sole le nebbie, così sgombra tutte le magnifiche oppenioni che finora si sono avute de' princìpi di Roma, e di tutte l'altre città che sono state capitali di famosissime nazioni, un luogo d'oro di Varrone (appo sant'Agostino nella Città di Dio): ch'ella sotto gli re, che vi regnarono da dugencinquant'anni, manomise da più di venti popoli, e non distese più di venti miglia l'imperio. XXX [Omero, il quale venne in tempo che non si eran ancor truovate le lettere volgari, e 'l quale non vidde l'Egitto. Anni del mondo 3290, di Roma 35 ] Del qual primo lume di Grecia ci ha lasciato al buio la greca storia d'intorno alle principali sue parti, cioè geografia e cronologia, poiché non ci è giunto nulla di certo né della di lui patria né dell'età. Il quale nel terzo di questi libri si truoverà tutt'altro da quello ch'è stato finor creduto. Ma, qualunque egli sia stato, non vide certamente l'Egitto; il quale nell'Odissea narra che l'isola ov'è il faro or d'Alessandria fosse lontana da terraferma quanto una nave scarica, con rovaio in poppa, potesse veleggiar un intiero giorno. Né vide la Fenicia; ove narra l'isola di Calipso, detta Ogigia, esser tanto lontana che Mercurio dio, e dio alato, difficilissimamente vi giunse, come se da Grecia, dove sul monte Olimpo egli nell'Iliade canta starsi gli dèi, fusse la distanza che vi è dal nostro mondo in America. Talché, se i greci a' tempi d'Omero avessero trafficato in Fenicia ed Egitto, egli n'arebbe perduto il credito a tutti e due i suoi poemi. XXXI [Psammetico apre l'Egitto a' soli greci di Ionia e di Caria. Anni del mondo 3334 ] Onde da Psammetico comincia Erodoto a raccontar cose più accertare degli egizi. E ciò conferma che Omero non vide l'Egitto; e le tante notizie, ch'egli narra e di Egitto e d'altri paesi del mondo, o sono cose e fatti dentro essa Grecia, come si dimostrerà nella Geografia poetica; o sono tradizioni, alterate col lungo tempo, de' fenici, egizi, frigi, ch'avevano menate le loro colonie tra' greci; o sono novelle de' viaggiatori fenici, che da molto innanzi a' tempi d'Omero mercantavano nelle marine di Grecia. XXXII [Esopo, moral filosofo volgare. - Anni del mondo 3334 ] Nella Logica poetica si truoverà Esopo non essere stato un particolar uomo in natura, ma un genere fantastico, ovvero un carattere poetico de' soci ovvero famoli degli eroi, i quali certamente furon innanzi a' sette saggi di Grecia. XXXIII [Sette savi di Grecia; de' quali uno, Solone, ordina la libertà popolare d'Atene; l'altro, Talete milesio, dà incominciamento alla filosofia con la fisica. - Anni del mondo 3406 ] E cominciò da un principio troppo sciapito - dall'acqua, - forse perché aveva osservato con l'acqua crescer le zucche. XXXIV [Pittagora, di cui vivo dice Livio che nemmeno il nome poté sapersi in Roma. - Anni del mondo 3468, di Roma 225 ] Ch'esso Livio pone a' tempi di Servio Tullio (tanto ebbe per vero che Pittagora fosse stato maestro di Numa in divinità!); e ne' medesimi tempi di Servio Tullio, che sono presso a dugento anni dopo di Numa, dice che 'n quelli tempi barbari dell'Italia mediterranea fosse stato impossibile, nonché esso Pittagora, il di lui nome, per tanti popoli di lingue e costumi diversi, avesse potuto da Cotrone giugnere a Roma. Onde s'intenda quanto furono spediti e facili tanti lunghi viaggi d'esso Pittagora in Tracia dagli scolari d'Orfeo, da' maghi nella Persia, da' caldei in Babillonia, da' ginnosofisti nell'India; quindi, nel ritorno, da' sacerdoti in Egitto e, quanto è larga l'Affrica attraversando, dagli scolari d'Atlante nella Mauritania; e di là, rivalicando il mare, da' druidi nella Gallia; ed indi fusse ritornato, ricco della sapienza barbaresca che dice l'Ornio, nella sua patria: da quelle barbare nazioni, alle quali, lunga età innanzi, Ercole tebano con uccider mostri e tiranni era andato per lo mondo disseminando l'umanità; ed alle quali medesime, lunga età dopo, essi greci vantavano d'averla insegnata, ma non con tanto profitto che pure non restassero barbare. Tanto ha di serioso e grave la succession delle scuole della filosofia barbaresca che dice l'Ornio, alquanto più sopra accennata, alla quale la boria de' dotti ha cotanto applaudito! Che hassi a dire se fa necessità qui l'autorità di Lattanzio, che risolutamente niega Pittagora essere stato discepolo d'Isaia? La qual autorità si rende gravissima per un luogo di Giuseffo ebreo nell'Antichità giudaiche, che pruova gli ebrei, a' tempi di Omero e di Pittagora, aver vivuto sconosciuti ad esse vicine loro mediterranee, nonché all'oltramarine lontanissime nazioni. Perché a Tolomeo Filadelfo, che si maravigliava perché delle leggi mosaiche né poeta né storico alcuno avesse fatto veruna menzione giammai, Demetrio ebreo rispose essere stati puniti miracolosamente da Dio alcuni che attentato avevano di narrarle a' gentili, come Teopompo che ne fu privato del senno, e Teodette che lo fu della vista. Quindi esso Giuseffo confessa generosamente questa lor oscurezza, e ne rende queste cagioni: «Noi - dic'egli - non abitiamo sulle marine, né ci dilettiamo di mercantare e per cagione di traffichi praticare con gli stranieri». Sul qual costume Lattanzio riflette essere stato ciò consiglio della provvedenza divina, acciocché coi commerzi gentileschi non si profanasse la religione del vero Dio; nel qual detto egli è Lattanzio seguito da Pier Cuneo, De republica hebræorum. Tutto ciò si ferma con una confession pubblica d'essi ebrei, i quali per la versione de' Settanta facevan ogni anno un solenne digiuno nel dì otto di tebet, ovvero dicembre; perocché, quando ella uscì, tre giorni di tenebre furon per tutto il mondo, come sui libri rabbinici l'osservarono il Casaubuono nell'Esercitazioni sopra gli Annali del Baronio, il Buxtorfio nella Sinagoga giudaica e l'Ottingero nel Tesoro filologico. E perché i giudei grecanti, dett'«ellenisti», tra' quali fu Aristea, detto capo di essa versione, le attribuivano una divina autorità, i giudei gerosolomitani gli odiavano mortalmente. Ma per la natura di queste cose civili [è da reputare impossibile] che, per confini vietati anco dagli umanissimi egizi (i quali furono così inospitali a' greci lunga età dopo ch'avevano aperto loro l'Egitto, ch'erano vietati d'usar pentola, schidone, coltello ed anco carne tagliata col coltello che fusse greco), per cammini aspri ed infesti, senza alcuna comunanza di lingue, tra gli ebrei, che solevano motteggiarsi da' gentili ch'allo straniero assetato non additassero il fonte, i profeti avessero profanato la loro sagra dottrina a' stranieri, uomini nuovi e ad essolor sconosciuti, la quale in tutte le nazioni del mondo i sacerdoti custodivano arcana al volgo delle loro medesime plebi, ond'ella ha avuto appo tutte il nome di «sagra», ch'è tanto dire quanto «segreta». E ne risulta una pruova più luminosa per la verità della cristiana religione: che Pittagora, che Platone, in forza di umana sublimissima scienza, si fussero alquanto alzati alla cognizione delle divine verità, delle quali gli ebrei erano stati addottrinati dal vero Dio; e, al contrario, ne nasce una grave confutazione dell'errore de' mitologi ultimi, i quali credono che le favole sieno storie sagre, corrotte dalle nazioni gentili e sopra tutti da' greci. E, benché gli egizi praticarono con gli ebrei nella loro cattività, però, per un costume comune de' primi popoli, che qui dentro sarà dimostro, di tener i vinti per uomini senza dèi, eglino della religione e storia ebraica fecero anzi beffe che conto; i quali, come narra il sagro Genesi, sovente per ischerno domandavano agli ebrei perché lo Dio ch'essi adoravano non veniva a liberargli dalle lor mani. XXXV [Servio Tullio re. - Anni del mondo 3468, di Roma 225 ] Il quale, con comun errore, è stato finor creduto d'aver ordinato in Roma il censo pianta della libertà popolare, il quale dentro si truoverà essere stato censo pianta di libertà signorile. Il qual errore va di concerto con quell'altro onde si è pur creduto finora che, ne' tempi ne' quali il debitor ammalato doveva comparire sull'asinello o dentro la carriuola innanzi al pretore, Tarquinio Prisco avesse ordinato l'insegne, le toghe, le divise e le sedie d'avolio (de' denti di quelli elefanti che, perché i romani avevano veduto la prima volta in Lucania nella guerra con Pirro, dissero «boves lucas») e finalmente i cocchi d'oro da trionfare; nella quale splendida comparsa rifulse la romana maestà ne' tempi della repubblica popolare più luminosa. XXXVI [Esiodo. - Anni del mondo 3500 ] Per le pruove che si faranno d'intorno al tempo che fra i greci si truovò la scrittura volgare, poniamo Esiodo circa i tempi d'Erodoto e alquanto innanzi; il quale da' cronologi con troppo risoluta franchezza si pone trent'anni innanzi d'Omero, della cui età variano quattrocensessant'anni gli autori. Oltreché, Porfirio (appresso Suida) e Velleo Patercolo voglion ch'Omero avesse di gran tempo preceduto ad Esiodo. E 'l treppiedi ch'Esiodo consagrò in Elicona ad Apollo, con iscrittovi ch'esso aveva vinto Omero nel canto, quantunque il riconosca Varrone (appresso Aulo Gellio), egli è da conservarsi nel museo dell'impostura, perché fu una di quelle che fanno tuttavia a' nostri tempi i falsatori delle medaglie per ritrarne con tal frode molto guadagno. XXXVII [Erodoto, Ippocrate. - Anni del mondo 3500 ] Egli è Ippocrate posto da' cronologi nel tempo de' sette savi della Grecia. Ma, tra perché la di lui vita è troppo tinta di favole (ch'è raccontato figliuolo d'Eusculapio e nipote d'Apollo), e perch'è certo autore d'opere scritte in prosa con volgari caratteri, perciò egli è qui posto circa i tempi d'Erodoto, il qual egualmente e scrisse in prosa con volgari caratteri e tessé la sua storia quasi tutta di favole. XXXVIII [Idantura re di Scizia. - Anni del mondo 3530 ] Il quale a Dario il maggiore, che gli aveva intimato la guerra, risponde con cinque parole reali (le quali, come dentro si mostrerà, i primi popoli dovettero usare prima che le vocali e, finalmente, le scritte); le quali parole reali furono una ranocchia, un topo, un uccello, un dente d'aratro ed un arco da saettare. Dentro, con tutta naturalezza e propietà se ne spiegheranno i significati; e c'incresce rapportare ciò che san Cirillo alessandrino riferisce del consiglio che Dario tenne su tal risposta, che da se stesso accusa le ridevoli interpetrazioni che le diedero i consiglieri. E questo è re di quelli sciti i quali vinsero gli egizi in contesa d'antichità, ch'a tali tempi sì bassi non sapevano nemmeno scrivere per geroglifici! Talché Idantura dovett'essere un degli re chinesi, che, fin a pochi secoli fa chiusi a tutto il rimanente del mondo, vantano vanamente un'antichità maggiore di quella del mondo e, 'n tanta lunghezza di tempi, si sono truovati scrivere ancora per geroglifici, e, quantunque per la gran mollezza del cielo abbiano dilicatissimi ingegni, co' quali fanno tanti a maraviglia dilicati lavori, però non sanno ancora dar l'ombre nella pittura, sopra le quali risaltar possano i lumi; onde, non avendo sporti né addentrati, la loro pittura è goffissima. E le statuette, ch'indi ci vengon di porcellana, gli ci accusano egualmente rozzi quanto lo furono gli egizi nella fonderia; ond'è da stimarsi che, come ora i chinesi, così furono rozzi gli egizi nella pittura. Di questi sciti è quell'Anacarsi, autore degli oracoli scitici, come Zoroaste lo fu de' caldaici; che dovettero dapprima esser oracoli d'indovini, che poi per la boria de' dotti passarono in oracoli di filosofi. Se dagli iperborei della Scizia presente, o da altra nata anticamente dentro essa Grecia, sieno venuti a' greci i due più famosi oracoli del gentilesimo, il delfico e 'l dodoneo, come il credette Erodoto e, dopo lui, Pindaro e Ferenico, seguiti da Cicerone, De natura deorum, onde forse Anacarsi fu gridato famoso autore d'oracoli e fu noverato tra gli antichissimi dèi fatidici, si vedrà nella Geografia poetica. Vaglia, per ora intendere quanto la Scizia fusse stata dotta in sapienza riposta, che gli sciti ficcavano un coltello in terra e l'adoravan per dio, perché con quello giustificassero l'uccisioni ch'avevan essi da fare; dalla qual fiera religione uscirono le tante virtù morali e civili narrate da Diodoro sicolo, Giustino, Plinio, e innalzate con le lodi al cielo da Orazio. Laonde Abari, volendo ordinare la Scizia con le leggi di Grecia, funne ucciso da Cadvido, suo fratello. Tanto egli profittò nella filosofia barbaresca dell'Ornio, che non intese da sé le leggi valevoli di addimesticare una gente barbara ad un'umana civiltà, e dovette appararle da' greci! Ch'è lo stesso, appunto, de' greci in rapporto degli sciti, che poco fa abbiam detto de' medesimi a riguardo degli egizi: che, per la vanità di dar al loro sapere romorose origini d'antichità forastiera, meritarono con verità la riprensione ch'essi stessi sognarono d'aver fatta il sacerdote egizio a Solone (riferita da Crizia, appresso Platone in uno degli Alcibiadi): ch'i greci fussero sempre fanciulli. Laonde hassi a dire che per cotal boria i greci, a riguardo degli sciti e degli egizi, quanto essi guadagnarono di vanagloria, tanto perderono di vero merito. XXXIX [Guerra peloponnesiaca. Tucidide, il qual scrive che fin a suo padre i greci non seppero nulla delle antichità loro propie, onde si diede a scrivere di cotal guerra. - Anni del mondo 3530 ] Il qual era giovinetto nel tempo ch'era Erodoto vecchio, che gli poteva esser padre, e visse nel tempo più luminoso di Grecia, che fu quello della guerra peloponnesiaca, di cui fu contemporaneo, e perciò, per iscrivere cose vere, ne scrisse la storia; da cui fu detto ch'i greci fin al tempo di suo padre, ch'era quello d'Erodoto, non seppero nulla dell'antichità loro propie. Che hassi a stimare delle cose straniere che essi narrano, e quanto essi ne narrano tanto noi sappiamo dell'antichità gentilesche barbare? Che hassi a stimare, fin alle guerre cartaginesi, delle cose antiche di que' romani che fin a que' tempi non avevan ad altro atteso ch'all'agricoltura ed al mestiero dell'armi, quando Tucidide stabilisce questa verità de' suoi greci, che provennero tanto prestamente filosofi? Se non, forse, vogliam dire ch'essi romani n'avesser avuto un particolar privilegio da Dio. XL [Socrate dà principio alla filosofia morale ragionata. Platone fiorisce nella metafisica. Atene sfolgora di tutte l'arti della più colta umanità ] Nel qual tempo da Atene si porta in Roma la legge delle XII Tavole, tanto incivile, rozza, inumana, crudele e fiera quanto ne' Princìpi del Diritto universale sta dimostrata. XLI [Senofonte, con portar l'armi greche nelle viscere della Persia, è 'l primo a sapere con qualche certezza le cose persiane. Anni del mondo 3583, di Roma 333 ] Come osserva san Girolamo, Sopra Daniello. E dopo che, per l'utilità de' commerzi, avevano cominciato i greci sotto Psammetico a sapere le cose di Egitto (onde da quel tempo Erodoto incomincia a scrivere cose più accertate degli egizi), da Senofonte la prima volta, per la necessità delle guerre, cominciaron a saper i greci cose più accertare de' persiani; de' quali pure Aristotile, portatovisi con Alessandro magno, scrive che, innanzi, da' greci se n'erano dette favole, come si accenna in questa Tavola cronologica. In cotal guisa cominciaron i greci ad avere certa contezza delle cose straniere. XLII [Legge Publilia. - Anni del mondo 3658, di Roma 416 ] Questa legge fu comandata negli anni di Roma CCCCXVI, e contiene un punto massimo d'istoria romana, ché con questa legge si dichiarò la romana repubblica mutata di stato da aristocratica in popolare; onde Publilio Filone, che ne fu autore, ne fu detto «dittator popolare». E non si è avvertita, perché non si è saputo intendere il di lei linguaggio. Lo che appresso sarà da noi ad evidenza dimostrato di fatto: basta qui che ne diamo un'idea per ipotesi. Giacque sconosciuta questa e la seguente legge Petelia, ch'è d'ugual importanza che la Publilia, per queste tre parole non diffinite: «popolo», «regno» e «libertà», per le quali si è con comun errore creduto che 'l popolo romano fin da' tempi di Romolo fusse stato di cittadini come nobili così plebei, che 'l romano fusse stato regno monarchico, e che la ordinatavi da Bruto fusse stata libertà popolare. E queste tre voci non diffinite han fatto cader in errore tutti i critici, storici, politici e giureconsulti, perché da niuna delle presenti poterono far idea delle repubbliche eroiche, le quali furono d'una forma aristocratica severissima e quindi a tutto cielo diverse da queste de' nostri tempi. Romolo dentro l'asilo aperto nel luco egli fondò Roma sopra le clientele, le quali furono protezioni nelle quali i padri di famiglia tenevano i rifuggiti all'asilo in qualità di contadini giornalieri, che non avevano niun privilegio di cittadino, e sì niuna parte di civil libertà; e, perché v'erano rifuggiti per aver salva la vita, i padri proteggevano loro la libertà naturale col tenergli partitamente divisi in coltivar i di loro campi, de' quali così dovette comporsi il fondo pubblico del territorio romano, come di essi padri Romolo compose il senato. Appresso, Servio Tullio vi ordinò il censo, con permettere a' giornalieri il dominio bonitario de' campi ch'erano propi de' padri, i quali essi coltivassero per sé, sotto il peso del censo, con l'obbligo di servir loro a propie spese nelle guerre, conforme, di fatto, i plebei ad essi patrizi servirono dentro cotesta finor sognata libertà popolare. La qual legge di Servio Tullio fu la prima legge agraria del mondo, ordinatrice del censo pianta delle repubbliche eroiche, ovvero antichissime aristocrazie di tutte le nazioni. Dappoi, Giunio Bruto, con la discacciata de' tiranni Tarquini, restituì la romana repubblica a' suoi princìpi, e, con ordinarvi i consoli, quasi due re aristocratici annali (come Cicerone gli appella nelle sue Leggi) invece di uno re a vita, vi riordinò la libertà de' signori da' lor tiranni, non già la libertà del popolo da' signori. Ma, i nobili mal serbando l'agraria di Servio a' plebei, questi si criarono i tribuni della plebe, e gli si fecero giurare dalla nobiltà, i quali difendessero alla plebe tal parte di natural libertà del dominio bonitario de' campi: siccome perciò, disiderando i plebei riportarne da' nobili il dominio civile, i tribuni della plebe cacciarono da Roma Marcio Coriolano, per aver detto ch'i plebei andassero a zappare, cioè che, poiché non eran contenti dell'agraria di Servio Tullio e volevano un'agraria più piena e più ferma, si riducessero a' giornalieri di Romolo. Altrimente, che stolto fasto de' plebei sdegnare l'agricoltura, la quale certamente sappiamo che si recavano ad onore esercitar essi nobili? e per sì lieve cagione accendere sì crudel guerra, che Marcio, per vendicarsi dell'esiglio, era venuto a rovinar Roma, senonsé le pietose lagrime della madre e della moglie l'avessero distolto dall'empia impresa? Per tutto ciò, pur seguitando i nobili a ritogliere i campi a' plebei poi che quelli gli avevano coltivati, né avendo questi azion civile da vendicargli, quivi i tribuni della plebe fecero la pretensione della legge delle XII Tavole (dalla quale, come ne' Princìpi del Diritto universale si è dimostrato, non si dispose altro affare che questo), con la qual legge i nobili permisero il dominio quiritario de' campi a' plebei; il qual dominio civile, per diritto natural delle genti, permettesi agli stranieri. E questa fu la seconda legge agraria dell'antiche nazioni. Quindi - accorti i plebei che non potevan essi trammandar ab intestato i campi a' loro congionti, perché non avevano suità, agnazioni, gentilità (per le quali ragioni correvano allora le successioni legittime), perché non celebravano matrimoni solenni, e nemmeno ne potevano disponere in testamento, perché non avevano privilegio di cittadini - fecero la pretensione de' connubi de' nobili, o sia della ragione di contrarre nozze solenni (ché tanto suona «connubium»), la cui maggior solennità erano gli auspìci, ch'erano propi de' nobili (i quali auspìci furono il gran fonte di tutto il diritto romano, privato e pubblico); e sì fu da' padri comunicata a' plebei la ragion delle nozze, le quali, per la diffinizione di Modestino giureconsulto, essendo «omnis divini et humani iuris communicatio», ch'altro non è la cittadinanza, dieder essi a' plebei il privilegio di cittadini. Quindi, secondo la serie degli umani disidèri, ne riportarono i plebei da' padri comunicate tutte le dipendenze degli auspìci ch'erano di ragion privata, come patria potestà, suità, agnazioni, gentilità e, per questi diritti, le successioni legittime, i testamenti e le tutele. Dipoi ne pretesero le dipendenze di ragion pubblica, e prima ne riportarono comunicati gl'imperi coi consolati, e finalmente i sacerdozi e i ponteficati e, con questi, la scienza ancor delle leggi. In cotal guisa i tribuni della plebe, sulla pianta sopra la qual erano stati criati di proteggerle la libertà naturale, tratto tratto si condussero a farle conseguire tutta la libertà civile. E 'l censo ordinato da Servio Tullio - con disponersi dappoi che non più si pagasse privatamente a' nobili, ma all'erario, perché l'erario somministrasse le spese nelle guerre a' plebei, - da pianta di libertà signorile, andò da se stesso, naturalmente, a formar il censo pianta della libertà popolare; di che dentro truoverassi la guisa. Con uguali passi i medesimi tribuni s'avanzarono nella potestà di comandare le leggi. Perché le due leggi Orazia ed Ortensia non poterono accordar alla plebe ch'i di lei plebisciti obbligassero tutto il popolo senonsé nelle due particolari emergenze, per la prima delle quali la plebe si era ritirata nell'Aventino gli anni di Roma CCCIV, nel qual tempo, come qui si è detto per ipotesi e dentro mostrerassi di fatto, i plebei non erano ancor cittadini; e per la seconda ritirossi nel Gianicolo gli anni CCCLXVII, quando la plebe ancora contendeva con la nobiltà di comunicarlesi il consolato. Ma, sulla pianta delle suddette due leggi, la plebe finalmente si avanzò a comandare leggi universali: per lo che dovetter avvenire in Roma de' grandi movimenti e rivolte; onde fu bisogno di criare Publilio Filone dittatore, il quale non si criava se non negli ultimi pericoli della repubblica, siccome in questo, ch'ella era caduta in un tanto grande disordine di nudrire dentro il suo corpo due potestà somme legislatrici, senza essere di nulla distinte né di tempi né di materie né di territori, con le quali doveva prestamente andare in una certa rovina. Quindi Filone, per rimediare a tanto civil malore, ordinò che ciò che la plebe avesse co' plebisciti comandato ne' comizi tributi, «omnes quirites teneret», obbligasse tutto il popolo ne' comizi centuriati, ne' quali «omnes quirites» si ragunavano (perché i romani non si appellavano «quirites» che nelle pubbliche ragunanze, né «quirites» nel numero del meno si disse in volgar sermone latino giammai); con la qual formola Filone volle dire che non si potessero ordinar leggi le quali fussero a' plebisciti contrarie. Per tutto ciò - essendo già, per leggi nelle quali essi nobili erano convenuti, la plebe in tutto e per tutto uguagliata alla nobiltà; e per quest'ultimo tentativo, al quale i nobili non potevano resistere senza rovinar la repubblica, ella era divenuta superiore alla nobiltà, ché senza l'autorità del senato comandava leggi generali a tutto il popolo; e sì essendo già naturalmente la romana repubblica divenuta libera popolare; - Filone, con questa legge, tale la dichiarò e ne fu detto «dittator popolare». In conformità di tal cangiata natura, le diede due ordinamenti, che si contengono negli altri due capi della legge Publilia. Il primo fu che l'autorità del senato, la qual era stata autorità di signori, per la quale, di ciò che 'l popolo avesse disposto prima, «deinde patres fierent autores» (talché le criazioni de' consoli, l'ordinazioni delle leggi, fatte dal popolo per lo innanzi, erano state pubbliche testimonianze di merito e domande pubbliche di ragione), questo dittatore ordinò ch'indi in poi fussero i padri autori al popolo, ch'era già sovrano libero, «in incertum comitiorum eventum», come tutori del popolo, signor del romano imperio; che, se volesse comandare le leggi, le comandasse secondo la formola portata a lui dal senato, altrimente si servisse del suo sovrano arbitrio e l'«antiquasse» (cioè dichiarasse di non voler novità); talché tutto ciò ch'indi in poi ordinasse il senato d'intorno a' pubblici affari, fussero o istruzioni da esso date al popolo, o commessioni del popolo date a lui. Restava finalmente che, perché il censo, per tutto il tempo innanzi, essendo stato l'erario de' nobili, i soli nobili se n'erano criati censori: poi che egli per cotal legge divenne patrimonio di tutto il popolo, ordinasse Filone nel terzo capo che si comunicasse alla plebe ancor la censura, il qual maestrato solo restava da comunicarsi alla plebe. Se sopra quest'ipotesi si legga quindi innanzi la storia romana, a mille pruove si truoverà che vi reggono tutte le cose che narra, le quali, per le tre voci non diffinite anzidette, non hanno né alcun fondamento comune, né tra loro alcun convenevole rapporto particolare; onde quest'ipotesi perciò si dovrebbe ricever per vera. Ma, se ben si considera, questa non è tanto ipotesi quanto una verità meditata in idea, che poi con l'autorità truoverassi di fatto. E - posto ciò che Livio dice generalmente: gli asili essere stati «vetus urbes condentium consilium», come Romolo entro l'asilo aperto nel luco egli fondò la romana - ne dà l'istoria di tutte l'altre città del mondo de' tempi finora disperati a sapersi. Lo che è un saggio d'una storia ideal eterna (la quale dentro si medita e si ritruova), sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni. XLIII [Legge Petelia. - Anni del mondo 3661, di Roma 419 ] Quest'altra legge fu comandata negli anni di Roma CCCCXIX, detta de nexu (e, sì, tre anni dopo la Publilia), da' consoli Caio Petelio e Lucio Papirio Mugilano; e contiene un altro punto massimo di cose romane, poiché con quella si rillasciò a' plebei la ragion feudale d'essere vassalli ligi de' nobili per cagion di debiti, per gli quali quelli tenevano questi, sovente tutta la vita, a lavorare per essi nelle loro private prigioni. Ma restò al senato il sovrano dominio ch'esso aveva sopra i fondi dell'imperio romano, ch'era già passato nel popolo, e per lo senato consulto che chiamavano «ultimo», finché la romana fu repubblica libera, se 'l mantenne con la forza dell'armi; onde, quante volte il popolo ne volle disponere con le leggi agrarie de' Gracchi, tante il senato armò i consoli, i quali dichiararono rubelli ed uccisero i tribuni della plebe che n'erano stati gli autori. Il quale grand'effetto non può altrove reggere che sopra una ragione di feudi sovrani soggetti a maggiore sovranità; la qual ragione ci vien confermata con un luogo di Cicerone in una Catilinaria, dove afferma che Tiberio Gracco con la legge agraria guastava lo stato della repubblica, e che con ragione da Publio Scipione Nasica ne fu ammazzato, per lo diritto dettato nella formola con la qual il consolo armava il popolo contro gli autori di cotal legge: «Qui rempublicam salvam velit consulem sequatur». XLIV [Guerra di Taranto, ove s'incomincian a conoscer tra loro i latini co' greci. - Anni del mondo, 3708, di Roma 489 ] La cui cagione fu ch'i tarantini maltrattarono le navi romane ch'approdavano al loro lido e gli ambasciadori altresì, perché, per dirla con Floro, essi si scusavano che «qui essent aut unde venirent ignorabant». Tanto tra loro, quantunque dentro brievi continenti, si conoscevano i primi popoli! XLV [Guerra cartaginese seconda, da cui comincia la storia certa romana a Livio, il qual pur professa non saperne tre massime circostanze. - Anni del mondo 3849, di Roma 552 ] Della qual guerra pur Livio - il quale si era professato dalla seconda guerra cartaginese scrivere la storia romana con alquanto più di certezza, promettendo di scrivere una guerra la più memorabile di quante mai si fecero da' romani, e, 'n conseguenza di cotanta incomparabil grandezza, ne debbono, come di tutte più romorose, esser più certe le memorie che scrive - non ne seppe, ed apertamente dice di non sapere, tre gravissime circostanze. La prima, sotto quali consoli, dopo aver espugnato Sagunto, avesse Annibale preso dalla Spagna il cammino verso l'Italia. La seconda, per quali Alpi vi giunse, se per le Cozie o l'Appennine. La terza, con quante forze; di che truova negli antichi annali tanto divario, ch'altri avevano lasciato scritto seimila cavalieri e ventimila pedoni, altri ventimila di quelli e ottantamila di questi. [Conclusione] Per lo che tutto ragionato in queste Annotazioni, si vede che quanto ci è giunto dell'antiche nazioni gentili, fin a' tempi diterminati su questa Tavola, egli è tutto incertissimo. Onde noi in tutto ciò siamo entrati come in cose dette «nullius», delle quali è quella regola di ragione che «occupanti conceduntur», e perciò non crediamo d'offendere il diritto di niuno se ne ragioneremo spesso diversamente ed alle volte tutto il contrario all'oppenioni che finora si hanno avute d'intorno a' principi dell'umanità delle nazioni. E, con far ciò, gli ridurremo a princìpi di scienza, per gli quali ai fatti della storia certa si rendano le loro primiere origini, sulle quali reggano e per le quali tra essoloro convengano; i quali finora non sembrano aver alcun fondamento comune né alcuna perpetuità di séguito né alcuna coerenza tra lor medesimi. II DEGLI ELEMENTI. Per dar forma adunque alle materie qui innanzi apparecchiate sulla Tavola cronologica, proponiamo ora qui i seguenti assiomi o degnità così filosofiche come filologiche, alcune poche, ragionevoli e discrete domande, con alquante schiarite diffinizioni; le quali, come per lo corpo animato il sangue, così deono per entro scorrervi ed animarla in tutto ciò che questa Scienza ragiona della comune natura delle nazioni. I L'uomo, per l'indiffinita natura della mente umana, ove questa si rovesci nell'ignoranza, egli fa sé regola dell'universo. Questa degnità è la cagione di que' due comuni costumi umani: uno che «fama crescit eundo», l'altro che «minuit præsentia famam», la qual, avendo fatto un cammino lunghissimo quanto è dal principio del mondo, è stata la sorgiva perenne di tutte le magnifiche oppenioni che si sono finor avute delle sconosciute da noi lontanissime antichità, per tal proprietà della mente umana avvertita da Tacito nella Vita d'Agricola con quel motto: «Omne ignotum pro magnifico est». II È altra propietà della mente umana ch'ove gli uomini delle cose lontane e non conosciute non possono fare niuna idea, le stimano dalle cose loro conosciute e presenti. Questa degnità addita il fonte inesausto di tutti gli errori presi dall'intiere nazioni e da tutt'i dotti d'intorno a' princìpi dell'umanità; perocché da' loro tempi illuminati, colti e magnifici, ne' quali cominciarono quelle ad avvertirle, questi a ragionarle, hanno estimato l'origini dell'umanità, le quali dovettero per natura essere picciole, rozze, oscurissime. A questo genere sono da richiamarsi due spezie di borie che si sono sopra accennate: una delle nazioni un'altra de' dotti. III Della boria delle nazioni udimmo quell'aureo detto di Diodoro sicolo: che le nazioni, o greche o barbare, abbiano avuto tal boria: d'aver esse prima di tutte l'altre ritruovati i comodi della vita umana e conservar le memorie delle loro cose fin dal principio del mondo. Questa degnità dilegua ad un fiato la vanagloria de' caldei, sciti, egizi, chinesi, d'aver essi i primi fondato l'umanità dell'antico mondo. Ma Flavio Giuseffo ebreo ne purga la sua nazione, con quella confessione magnanima ch'abbiamo sopra udito: che gli ebrei avevano vivuto nascosti a tutti i gentili; e la sagra storia ci accerta l'età del mondo essere quasi giovine a petto della vecchiezza che ne credettero i caldei, gli sciti, gli egizi e fin al dì d'oggi i chinesi. Lo che è una gran pruova della verità della storia sagra. IV A tal boria di nazioni s'aggiugne qui la boria de' dotti, i quali, ciò ch'essi sanno, vogliono che sia antico quanto che 'l mondo. Questa degnità dilegua tutte le oppinioni de' dotti d'intorno alla sapienza innarrivabile degli antichi; convince d'impostura gli oracoli di Zoroaste caldeo, d'Anacarsi scita, che non ci son pervenuti, il Pimandro di Mercurio Trimegisto, gli orfici (o sieno versi d'Orfeo), il Carme aureo di Pittagora, come tutti gli più scorti critici vi convengono; e riprende d'importunità tutti i sensi mistici dati da' dotti a' geroglifici egizi e l'allegorie filosofiche date alle greche favole. V La filosofia, per giovar al gener umano, dee sollevar e reggere l'uomo caduto e debole, non convellergli la natura né abbandonarlo nella sua corrozione. Questa degnità allontana dalla scuola di questa Scienza gli stoici, i quali vogliono l'ammortimento de' sensi, e gli epicurei, che ne fanno regola, ed entrambi niegano la provvedenza, quelli faccendosi strascinare dal fato, questi abbandonandosi al caso, e i secondi oppinando che muoiano l'anime umane coi corpi, i quali entrambi si dovrebbero dire «filosofi monastici o solitari». E vi ammette i filosofi politici, e principalmente i platonici, i quali convengono con tutti i legislatori in questi tre principali punti: che si dia provvedenza divina, che si debbano moderare l'umane passioni e farne umane virtù, e che l'anime umane sien immortali. E, 'n conseguenza, questa degnità ne darà gli tre princìpi di questa Scienza. VI La filosofia considera l'uomo quale dev'essere, e sì non può fruttare ch'a pochissimi, che vogliono vivere nella repubblica di Platone, non rovesciarsi nella feccia di Romolo. VII La legislazione considera l'uomo qual è, per farne buoni usi nell'umana società; come della ferocia, dell'avarizia, dell'ambizione, che sono gli tre vizi che portano a travverso tutto il gener umano, ne fa la milizia, la mercatanzia e la corte, e sì la fortezza, l'opulenza e la sapienza delle repubbliche; e di questi tre grandi vizi, i quali certamente distruggerebbero l'umana generazione sopra la terra, ne fa la civile felicità. Questa degnità pruova esservi provvedenza divina e che ella sia una divina mente legislatrice, la quale delle passioni degli uomini, tutti attenuti alle loro private utilità, per le quali viverebbono da fiere bestie dentro le solitudini, ne ha fatto gli ordini civili per gli quali vivano in umana società. VIII Le cose fuori del loro stato naturale né vi si adagiano né vi durano. Questa degnità sola, poiché 'l gener umano, da che si ha memoria del mondo, ha vivuto e vive comportevolmente in società, ella determina la gran disputa, della quale i migliori filosofi e i morali teologi ancora contendono con Carneade scettico e con Epicuro (né Grozio l'ha pur inchiovata): se vi sia diritto in natura, o se l'umana natura sia socievole, che suonano la medesima cosa. Questa medesima degnità, congionta con la settima e 'l di lei corollario, pruova che l'uomo abbia libero arbitrio, però debole, di fare delle passioni virtù; ma che da Dio è aiutato naturalmente con la divina provvedenza, e soprannaturalmente dalla divina grazia. IX Gli uomini che non sanno il vero delle cose proccurano d'attenersi al certo, perché, non potendo soddisfare l'intelletto con la scienza, almeno la volontà riposi sulla coscienza. X La filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero; la filologia osserva l'autorità dell'umano arbitrio, onde viene la coscienza del certo. Questa degnità per la seconda parte diffinisce i filologi essere tutti i gramatici, istorici, critici, che son occupati d'intorno alla cognizione delle lingue e de' fatti de' popoli, così in casa, come sono i costumi e le leggi, come fuori, quali sono le guerre, le paci, l'alleanze, i viaggi, i commerzi. Questa medesima degnità dimostra aver mancato per metà così i filosofi che non accertarono le loro ragioni con l'autorità de' filologi, come i filologi che non curarono d'avverare le loro autorità con la ragion de' filosofi; lo che se avessero fatto, sarebbero stati più utili alle repubbliche e ci avrebbero prevenuto nel meditar questa Scienza. XI L'umano arbitrio, di sua natura incertissimo, egli si accerta e determina col senso comune degli uomini d'intorno alle umane necessità o utilità, che son i due fonti del diritto naturale delle genti. XII Il senso comune è un giudizio senz'alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il gener umano. Questa degnità con la seguente diffinizione ne darà una nuova arte critica sopra essi autori delle nazioni, tralle quali devono correre assai più di mille anni per provenirvi gli scrittori, sopra i quali finora si è occupata la critica. XIII Idee uniformi nate appo intieri popoli tra essoloro non conosciuti debbon avere un motivo comune di vero. Questa degnità è un gran principio, che stabilisce il senso comune del gener umano esser il criterio insegnato alle nazioni dalla provvedenza divina per diffinire il certo d'intorno al diritto natural delle genti, del quale le nazioni si accertano con intendere l'unità sostanziali di cotal diritto, nelle quali con diverse modificazioni tutte convengono. Ond'esce il dizionario mentale, da dar l'origini a tutte le lingue articolate diverse, col quale sta conceputa la storia ideal eterna che ne dia le storie in tempo di tutte le nazioni; del qual dizionario e della qual istoria si proporranno appresso le degnità loro propie. Questa stessa degnità rovescia tutte l'idee che si sono finor avute d'intorno al diritto natural delle genti, il quale si è creduto esser uscito da una prima nazione da cui l'altre l'avessero ricevuto; al qual errore diedero lo scandalo gli egizi e i greci, i quali vanamente vantavano d'aver essi disseminata l'umanità per lo mondo: il qual error certamente dovette far venire la legge delle XII Tavole da' greci a' romani. Ma, in cotal guisa, egli sarebbe un diritto civile comunicato ad altri popoli per umano provvedimento, e non già un diritto con essi costumi umani naturalmente dalla divina provvidenza ordinato in tutte le nazioni. Questo sarà uno de' perpetui lavori che si farà in questi libri: in dimostrare che 'l diritto natural delle genti nacque privatamente appo i popoli senza sapere nulla gli uni degli altri; e che poi, con l'occasioni di guerre, ambasciarie, allianze, commerzi, si riconobbe comune a tutto il gener umano. XIV Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose. XV Le propietà inseparabili da' subbietti devon essere produtte dalla modificazione o guisa con che le cose son nate; per lo che esse ci posson avverare tale e non altra essere la natura o nascimento di esse cose. XVI Le tradizioni volgari devon avere avuto pubblici motivi di vero, onde nacquero e si conservarono da intieri popoli per lunghi spazi di tempi. Questo sarà altro grande lavoro di questa Scienza: di ritruovarne i motivi del vero, il quale, col volger degli anni e col cangiare delle lingue e costumi, ci pervenne ricoverto di falso. XVII I parlari volgari debbon esser i testimoni più gravi degli antichi costumi de' popoli, che si celebrarono nel tempo ch'essi si formaron le lingue. XVIII Lingua di nazione antica, che si è conservata regnante finché pervenne al suo compimento, dev'esser un gran testimone de' costumi de' primi tempi del mondo. Questa degnità ne assicura che le pruove filologiche del diritto naturale delle genti (del quale, senza contrasto, sappientissima sopra tutte l'altre del mondo fu la romana) tratte da' parlari latini sieno gravissime. Per la stessa ragione potranno far il medesimo i dotti della lingua tedesca, che ritiene questa stessa propietà della lingua romana antica. XIX Se la legge delle XII Tavole furono costumi delle genti del Lazio, incominciativisi a celebrare fin dall'età di Saturno, altrove sempre andanti e da' romani fissi nel bronzo e religiosamente custoditi dalla romana giurisprudenza, ella è un gran testimone dell'antico diritto naturale delle genti del Lazio. Ciò si è da noi dimostro esser vero di fatto, da ben molti anni fa, ne' Princìpi del Diritto universale; lo che più illuminato si vedrà in questi libri. XX Se i poemi d'Omero sono storie civili degli antichi costumi greci, saranno due grandi tesori del diritto naturale delle genti di Grecia. Questa degnità ora qui si suppone: dentro sarà dimostrata di fatto. XXI I greci filosofi affrettarono il natural corso che far doveva la loro nazione, col provenirvi essendo ancor cruda la lor barbarie, onde passarono immediatamente ad una somma dilicatezza, e nello stesso tempo serbaronv'intiere le loro storie favolose così divine com'eroiche; ove i romani, i quali ne' lor costumi caminarono con giusto passo, affatto perderono di veduta la loro storia degli dèi (onde l'«età degli dèi», che gli egizi dicevano, Varrone chiama «tempo oscuro» d'essi romani), e conservarono con favella volgare la storia eroica che si stende da Romolo fino alle leggi Publilia e Petelia, che si truoverà una perpetua mitologia storica dell'età degli eroi di Grecia. Questa natura di cose umane civili ci si conferma nella nazione francese, nella quale perché di mezzo alla barbarie del mille e cento s'aprì la famosa scuola parigina, dove il celebre maestro delle sentenze Piero Lombardo si diede ad insegnare di sottilissima teologia scolastica, vi restò come un poema omerico la storia di Turpino vescovo di Parigi, piena di tutte le favole degli eroi di Francia che si dissero «i paladini», delle quali s'empieron appresso tanti romanzi e poemi. E, per tal immaturo passaggio dalla barbarie alle scienze più sottili, la francese restonne una lingua dilicatissima, talché, di tutte le viventi, sembra avere restituito a' nostri tempi l'atticismo de' greci e più ch'ogni altra è buona a ragionar delle scienze, come la greca; e come a' greci così a' francesi restarono tanti dittonghi, che sono propi di lingua barbara, dura ancor e difficile a comporre le consonanti con le vocali. In confermazione di ciò ch'abbiamo detto di tutte e due queste lingue, aggiugniamo l'osservazione che tuttavia si può fare ne' giovani, i quali, nell'età nella qual è robusta la memoria, vivida la fantasia e focoso l'ingegno - ch'eserciterebbero con frutto con lo studio delle lingue e della geometria lineare, senza domare con tali esercizi cotal acerbezza di menti contratta dal corpo, che si potrebbe dire la barbarie degl'intelletti, - passando ancor crudi agli studi troppo assottigliati di critica metafisica e d'algebra, divengono per tutta la vita affilatissimi nella loro maniera di pensare e si rendono inabili ad ogni grande lavoro. Ma, col più meditare quest'opera, ritruovammo altra cagione di tal effetto, la qual forse è più propia: che Romolo fondò Roma in mezzo ad altre più antiche città del Lazio, e fondolla con aprirvi l'asilo, che Livio diffinisce generalmente «vetus urbes condentium consilium», perché, durando ancora le violenze, egli naturalmente ordinò la romana sulla pianta sulla quale si erano fondate le prime città del mondo. Laonde, da tali stessi princìpi progredendo i romani costumi, in tempi che le lingue volgari del Lazio avevano fatto di molti avvanzi, dovette avvenire che le cose civili romane, le qual'i popoli greci avevano spiegato con lingua eroica, essi spiegarono con lingua volgare; onde la storia romana antica si truoverà essere una perpetua mitologia della storia eroica de' greci. E questa dev'essere la cagione perché i romani furono gli eroi del mondo: perocché Roma manomise l'altre città del Lazio, quindi l'Italia e per ultimo il mondo, essendo tra' romani giovine l'eroismo; mentre tra gli altri popoli del Lazio, da' quali, vinti, provenne tutta la romana grandezza, aveva dovuto incominciar a invecchiarsi. XXII È necessario che vi sia nella natura delle cose umane una lingua mentale comune a tutte le nazioni, la quale uniformemente intenda la sostanza delle cose agibili nell'umana vita socievole, e la spieghi con tante diverse modificazioni per quanti diversi aspetti possan aver esse cose; siccome lo sperimentiamo vero ne' proverbi, che sono massime di sapienza volgare, l'istesse in sostanza intese da tutte le nazioni antiche e moderne, quante elleno sono, per tanti diversi aspetti significate. Questa lingua è propia di questa Scienza, col lume della quale se i dotti delle lingue v'attenderanno, potranno formar un vocabolario mentale comune a tutte le lingue articolate diverse, morte e viventi, di cui abbiamo dato un saggio particolare nella Scienza nuova la prima volta stampata, ove abbiamo provato i nomi de' primi padri di famiglia, in un gran numero di lingue morte e viventi, dati loro per le diverse propietà ch'ebbero nello stato delle famiglie e delle prime repubbliche, nel qual tempo le nazioni si formaron le lingue. Del qual vocabolario noi, per quanto ci permette la nostra scarsa erudizione, facciamo qui uso in tutte le cose che ragioniamo. Di tutte l'anzidette proposizioni, la prima, seconda, terza e quarta ne danno i fondamenti delle confutazioni di tutto ciò che si è finor oppinato d'intorno a' princìpi dell'umanità, le quali si prendono dalle inverisimiglianze, assurdi, contradizioni, impossibilità di cotali oppenioni. Le seguenti, dalla quinta fin alla decimaquinta, le quali ne danno i fondamenti del vero, serviranno a meditare questo mondo di nazioni nella sua idea eterna, per quella propietà di ciascuna scienza, avvertita da Aristotile, che «scientia debet esse de universalibus et æternis». L'ultime, dalla decimaquinta fin alla ventesimaseconda, le quali ne daranno i fondamenti del certo, si adopreranno a veder in fatti questo mondo di nazioni quale l'abbiamo meditato in idea, giusta il metodo di filosofare più accertato di Francesco Bacone signor di Verulamio, dalle naturali, sulle quali esso lavorò il libro Cogitata visa, trasportato all'umane cose civili. Le proposizioni finora proposte sono generali e stabiliscono questa Scienza per tutto; le seguenti sono particolari, che la stabiliscono partitamente nelle diverse materie che tratta. XXIII La storia sagra è più antica di tutte le più antiche profane che ci son pervenute, perché narra tanto spiegatamente e per lungo tratto di più di ottocento anni lo stato di natura sotto de' patriarchi, o sia lo stato delle famiglie, sopra le quali tutti i politici convengono che poi sursero i popoli e le città; del quale stato la storia profana ce ne ha o nulla o poco e assai confusamente narrato. Questa degnità pruova la verità della storia sagra contro la boria delle nazioni che sopra ci ha detto Diodoro sicolo, perocché gli ebrei han conservato tanto spiegatamente le loro memorie fin dal principio del mondo. XXIV La religion ebraica fu fondata dal vero Dio sul divieto della divinazione, sulla quale sursero tutte le nazioni gentili. Questa degnità è una delle principali cagioni per le quali tutto il mondo delle nazioni antiche si divise tra ebrei e genti. XXV Il diluvio universale si dimostra non già per le pruove filologiche di Martino Scoockio, le quali sono troppo leggieri; né per l'astrologiche di Piero cardinale d'Alliac, seguìto da Giampico della Mirandola, le quali sono troppo incerte, anzi false, rigredendo sopra le Tavole alfonsine, confutate dagli ebrei ed ora da' cristiani, i quali, disappruovato il calcolo d'Eusebio e di Beda, sieguon oggi quello di Filone giudeo: ma si dimostra con istorie fisiche osservate dentro le favole, come nelle degnità qui appresso si scorgerà. XXVI I giganti furon in natura di vasti corpi, quali in piedi dell'America, nel paese detto de los patacones, dicono viaggiatori essersi truovati goffi e fierissimi. E, lasciate le vane o sconce o false ragioni che ne hanno arrecato i filosofi, raccolte e seguite dal Cassanione, De gigantibus, se n'arrecano le cagioni, parte fisiche e parte morali, osservate da Giulio Cesare e da Cornelio Tacito ove narrano della gigantesca statura degli antichi germani; e, da noi considerate, si compongono sulla ferina educazion de' fanciulli. XXVII La storia greca, dalla qual abbiamo tutto ciò ch'abbiamo (dalla romana in fuori) di tutte l'altre antichità gentilesche, ella dal diluvio e da' giganti prende i princìpi. Queste due degnità mettono in comparsa tutto il primo gener umano diviso in due spezie: una di giganti, altra d'uomini di giusta corporatura; quelli gentili, questi ebrei (la qual differenza non può essere nata altronde che dalla ferina educazione di quelli e dall'umana di questi); e, 'n conseguenza, che gli ebrei ebbero altra origine da quella c'hanno avuto tutti i gentili. XXVIII Ci sono pur giunti due gran rottami dell'egiziache antichità, che si sono sopra osservati. De' quali uno è che gli egizi riducevano tutto il tempo del mondo scorso loro dinanzi a tre età, che furono: età degli dèi, età degli eroi ed età degli uomini. L'altro, che per tutte queste tre età si fussero parlate tre lingue, nell'ordine corrispondenti a dette tre età, che furono: la lingua geroglifica ovvero sagra, la lingua simbolica o per somiglianze, qual è l'eroica, e la pistolare o sia volgare degli uomini, per segni convenuti da comunicare le volgari bisogne della lor vita. XXIX Omero, in cinque luoghi di tutti e due i suoi poemi che si rapporteranno dentro, mentova una lingua più antica della sua, che certamente fu lingua eroica, e la chiama «lingua degli dèi». XXX Varrone ebbe la diligenza di raccogliere trentamila nomi di dèi (ché tanti pure ne noverano i greci), i quali nomi si rapportavano ad altrettante bisogne della vita o naturale o morale o iconomica o finalmente civile de' primi tempi. Queste tre degnità stabiliscono che 'l mondo de' popoli dappertutto cominciò dalle religioni: che sarà il primo degli tre princìpi di questa Scienza. XXXI Ove i popoli son infieriti con le armi, talché non vi abbiano più luogo l'umane leggi, l'unico potente mezzo di ridurgli è la religione. Questa degnità stabilisce che nello stato eslege la provvedenza divina diede principio a' fieri e violenti di condursi all'umanità ed ordinarvi le nazioni, con risvegliar in essi un'idea confusa della divinità, ch'essi per la lor ignoranza attribuirono a cui ella non conveniva; e così, con lo spavento di tal immaginata divinità, si cominciarono a rimettere in qualche ordine. Tal principio di cose, tra i suoi «fieri e violenti», non seppe vedere Tommaso Obbes, perché ne andò a truovar i princìpi errando col «caso» del suo Epicuro; onde, con quanto magnanimo sforzo, con altrettanto infelice evento, credette d'accrescere la greca filosofia di questa gran parte, della quale certamente aveva mancato (come riferisce Giorgio Paschio, De eruditis huius sæculi inventis), di considerar l'uomo in tutta la società del gener umano. Né Obbes l'arebbe altrimente pensato, se non gliene avesse dato il motivo la cristiana religione, la quale inverso tutto il gener umano, nonché la giustizia, comanda la carità. E quindi incomincia a confutarsi Polibio di quel falso suo detto: che, se fussero al mondo filosofi, non farebber uopo religioni; ché, se non fussero al mondo repubbliche, le quali non posson esser nate senza religioni, non sarebbero al mondo filosofi. XXXII Gli uomini ignoranti delle naturali cagioni che producon le cose, ove non le possono spiegare nemmeno per cose simili, essi danno alle cose la loro propia natura, come il volgo, per esemplo, dice la calamita esser innamorata del ferro. Questa degnità è una particella della prima: che la mente umana, per la sua indiffinita natura, ove si rovesci nell'ignoranza, essa fa sé regola dell'universo d'intorno a tutto quello che ignora. XXXIII La fisica degl'ignoranti è una volgar metafisica, con la quale rendono le cagioni delle cose ch'ignorano alla volontà di Dio, senza considerare i mezzi de' quali la volontà divina si serve. XXXIV Vera propietà di natura umana è quella avvertita da Tacito, ove disse «mobiles ad superstitionem perculsæ semel mentes»: ch'una volta che gli uomini sono sorpresi da una spaventosa superstizione, a quella richiamano tutto ciò ch'essi immaginano, vedono ed anche fanno. XXXV La maraviglia è figliuola dell'ignoranza; e quanto l'effetto ammirato è più grande, tanto più a proporzione cresce la maraviglia. XXXVI La fantasia tanto è più robusta quanto è più debole il raziocinio. XXXVII Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione, ed è propietà de' fanciulli di prender cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità filologico-filosofica ne appruova che gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti. XXXVIII È un luogo d'oro di Lattanzio Firmiano quello ove ragiona dell'origini dell'idolatria, dicendo: «Rudes initio homines deos appellarunt sive ob miraculum virtutis (hoc vere putabant rudes adhuc et simplices); sive, ut fieri solet, in admirationem præsentis potentiæ; sive ob beneficia, quibus erant ad humanitatem compositi». XXXIX La curiosità, propietà connaturale dell'uomo, figliuola dell'ignoranza, che partorisce la scienza, all'aprire che fa della nostra mente la maraviglia, porta questo costume: ch'ove osserva straordinario effetto in natura, come cometa, parelio o stella di mezzodì, subito domanda che tal cosa voglia dire o significare. XL Le streghe, nel tempo stesso che sono ricolme di spaventose superstizioni, sono sommamente fiere ed immani; talché, se bisogna per solennizzare le loro stregonerie, esse uccidono spietatamente e fanno in brani amabilissimi innocenti bambini. Tutte queste proposizioni, dalla ventesimottava incominciando fin alla trentesimottava, ne scuoprono i princìpi della poesia divina o sia della teologia poetica; dalla trentesimaprima, ne danno i princìpi dell'idolatria; dalla trentesimanona, i princìpi della divinazione; e la quarantesima finalmente ne dà con sanguinose religioni i princìpi de' sagrifizi, che da' primi crudi fierissimi uomini incominciarono con voti e vittime umane. Le quali, come si ha da Plauto, restarono a' latini volgarmente dette «Saturni hostiæ», e furono i sagrifizi di Moloc appresso i fenici, i quali passavano per mezzo alle fiamme i bambini consegrati a quella falsa divinità; delle quali consegrazioni si serbarono alquante nella legge delle XII Tavole. Le quali cose, come danno il diritto senso a quel motto: Primos in orbe deos fecit timor - che le false religioni non nacquero da impostura d'altrui, ma da propia credulità; - così l'infelice voto e sagrifizio che fece Agamennone della pia figliuola Ifigenia, a cui empiamente Lucrezio acclama: Tantum relligio potuit suadere malorum!, rivolgono in consiglio della provvedenza. Ché tanto vi voleva per addimesticare i figliuoli de' polifemi e ridurgli all'umanità degli Aristidi e de' Socrati, de' Leli e degli Scipioni affricani. XLI Si domanda, e la domanda è discreta, che per più centinaia d'anni la terra, insoppata dall'umidore dell'universale diluvio, non abbia mandato esalazioni secche, o sieno materie ignite, in aria, a ingenerarvisi i fulmini. XLII Giove fulmina ed atterra i giganti, ed ogni nazione gentile n'ebbe uno. Questa degnità contiene la storia fisica che ci han conservato le favole: che fu il diluvio universale sopra tutta la terra. Questa stessa degnità, con l'antecedente postulato, ne dee determinare che dentro tal lunghissimo corso d'anni le razze empie degli tre figliuoli di Noè fussero andate in uno stato ferino, e con un ferino divagamento si fussero sparse e disperse per la gran selva della terra, e con l'educazione ferina vi fussero provenuti e ritruovati giganti nel tempo che la prima volta fulminò il cielo dopo il diluvio. XLIII Ogni nazione gentile ebbe un suo Ercole, il quale fu figliuolo di Giove; e Varrone, dottissimo dell'antichità, ne giunse a noverare quaranta. Questa degnità è 'l principio dell'eroismo de' primi popoli, nato da una falsa oppenione: gli eroi provenir da divina origine. Questa stessa degnità con l'antecedente, che ne danno prima tanti Giovi, dappoi tanti Ercole tralle nazioni gentili - oltreché ne dimostrano che non si poterono fondare senza religione né ingrandire senza virtù, essendono elle ne' lor incominciamenti selvagge e chiuse, e perciò non sappiendo nulla l'una dell'altra, per la degnità che «idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti, debbon aver un motivo comune di vero», - ne danno di più questo gran principio: che le prime favole dovettero contenere verità civili, e perciò essere state le storie de' primi popoli. XLIV I primi sappienti del mondo greco furon i poeti teologi, i quali senza dubbio fioriron innanzi agli eroici, siccome Giove fu padre d'Ercole. Questa degnità con le altre due antecedenti stabiliscono che tutte le nazioni gentili, poiché tutte ebbero i loro Giovi, i lor Ercoli, furono ne' loro incominciamenti poetiche; e che prima tra loro nacque la poesia divina: dopo, l'eroica. XLV Gli uomini sono naturalmente portati a conservar le memorie delle leggi e degli ordini che gli tengono dentro la loro società. XLVI Tutte le storie barbare hanno favolosi princìpi. Tutte queste degnità, dalla quarantesimaseconda, ne danno il principio della nostra mitologia istorica. XLVII La mente umana è naturalmente portata a dilettarsi dell'uniforme. Questa degnità, a proposito delle favole, si conferma dal costume c'ha il volgo, il quale degli uomini nell'una o nell'altra parte famosi, posti in tali o tali circostanze, per ciò che loro in tale stato conviene, ne finge acconce favole. Le quali sono verità d'idea in conformità del merito di coloro de' quali il volgo le finge; e in tanto sono false talor in fatti, in quanto al merito di quelli non sia dato ciò di che essi son degni. Talché, se bene vi si rifletta, il vero poetico è un vero metafisico, a petto del quale il vero fisico, che non vi si conforma, dee tenersi a luogo di falso. Dallo che esce questa importante considerazione in ragion poetica: che 'l vero capitano di guerra, per esemplo, è 'l Goffredo che finge Torquato Tasso; e tutti i capitani che non si conformano in tutto e per tutto a Goffredo, essi non sono veri capitani di guerra. XLVIII È natura de' fanciulli che con l'idee e nomi degli uomini, femmine, cose che la prima volta hanno conosciuto, da esse e con essi dappoi apprendono e nominano tutti gli uomini, femmine, cose c'hanno con le prime alcuna somiglianza o rapporto. XLIX È un luogo d'oro quel di Giamblico, De mysteriis ægyptiorum, sopra arrecato, che gli egizi tutti i ritruovati utili o necessari alla vita umana richiamavano a Mercurio Trimegisto. Cotal detto, assistito dalla degnità precedente, rovescerà a questo divino filosofo tutti i sensi di sublime teologia naturale ch'esso stesso ha dato a' misteri degli egizi. E queste tre degnità ne danno il principio de' caratteri poetici, i quali costituiscono l'essenza delle favole. E la prima dimostra la natural inchinazione del volgo di fingerle, e fingerle con decoro. La seconda dimostra ch'i primi uomini, come fanciulli del gener umano, non essendo capaci di formar i generi intelligibili delle cose, ebbero naturale necessità di fingersi i caratteri poetici, che sono generi o universali fantastici, da ridurvi come a certi modelli, o pure ritratti ideali, tutte le spezie particolari a ciascun suo genere simiglianti; per la qual simiglianza, le antiche favole non potevano fingersi che con decoro. Appunto come gli egizi tutti i loro ritruovati utili o necessari al gener umano, che sono particolari effetti di sapienza civile, riducevano al genere del «sappiente civile», da essi fantasticato Mercurio Trimegisto, perché non sapevano astrarre il gener intelligibile di «sappiente civile», e molto meno la forma di civile sapienza della quale furono sappienti cotal'egizi. Tanto gli egizi, nel tempo ch'arricchivan il mondo de' ritruovati o necessari o utili al gener umano, furon essi filosofi e s'intendevano di universali, o sia di generi intelligibili! E quest'ultima degnità, in séguito dell'antecedenti, è 'l principio delle vere allegorie poetiche, che alle favole davano significati univoci, non analogi, di diversi particolari compresi sotto i loro generi poetici: le quali perciò si dissero «diversiloquia», cioè parlari comprendenti in un general concetto diverse spezie di uomini o fatti o cose. L Ne' fanciulli è vigorosissima la memoria; quindi vivida all'eccesso la fantasia, ch'altro non è che memoria o dilatata o composta. Questa degnità è 'l principio dell'evidenza dell'immagini poetiche che dovette formare il primo mondo fanciullo. LI In ogni facultà uomini, i quali non vi hanno la natura, vi riescono con ostinato studio dell'arte; ma in poesia è affatto niegato di riuscire con l'arte chiunque non vi ha la natura. Questa degnità dimostra che, poiché la poesia fondò l'umanità gentilesca, dalla quale e non altronde dovetter uscire tutte le arti, i primi poeti furono per natura. LII I fanciulli vagliono potentemente nell'imitare, perché osserviamo per lo più trastullarsi in assembrare ciò che son capaci d'apprendere. Questa degnità dimostra che 'l mondo fanciullo fu di nazioni poetiche, non essendo altro la poesia che imitazione. E questa degnità daranne il principio di ciò: che tutte l'arti del necessario, utile, comodo e 'n buona parte anco dell'umano piacere si ritruovarono ne' secoli poetici innanzi di venir i filosofi, perché l'arti non sono altro ch'imitazioni della natura e poesie in un certo modo reali. LIII Gli uomini prima sentono senz'avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura. Questa degnità è 'l principio delle sentenze poetiche, che sono formate con sensi di passioni e d'affetti, a differenza delle sentenze filosofiche, che si formano dalla riflessione con raziocinî: onde queste più s'appressano al vero quanto più s'innalzano agli universali, e quelle sono più certe quanto più s'appropriano a' particolari. LIV Gli uomini le cose dubbie ovvero oscure, che lor appartengono, naturalmente interpetrano secondo le loro nature e quindi uscite passioni e costumi. Questa degnità è un gran canone della nostra mitologia, per lo quale le favole, trovate da' primi uomini selvaggi e crudi tutte severe, convenevolmente alla fondazione delle nazioni che venivano dalla feroce libertà bestiale, poi, col lungo volger degli anni e cangiar de' costumi, furon impropiate, alterate, oscurate ne' tempi dissoluti e corrotti anco innanzi d'Omero. Perché agli uomini greci importava la religione, temendo di non avere gli dèi così contrari a' loro voti come contrari eran a' loro costumi, attaccarono i loro costumi agli dèi, e diedero sconci, laidi, oscenissimi sensi alle favole. LV È un aureo luogo quello d'Eusebio (dal suo particolare della sapienza degli egizi innalzato a quella di tutti gli altri gentili) ove dice: «Primam ægyptiorum theologiam mere historiam fuisse fabulis interpolatam; quarum quum postea puderet posteros, sensim coeperunt mysticos iis significatus affingere». Come fece Maneto, o sia Manetone, sommo pontefice egizio, che trasportò tutta la storia egiziaca ad una sublime teologia naturale, come pur sopra si è detto. Queste due degnità sono due grandi pruove della nostra mitologia istorica, e sono insiememente due grandi turbini per confondere l'oppenioni della sapienza innarrivabile degli antichi, come due grandi fondamenti della verità della religion cristiana, la quale nella sagra storia non ha ella narrazioni da vergognarsene. LVI I primi autori tra gli orientali, egizi, greci e latini e, nella barbarie ricorsa, i primi scrittori nelle nuove lingue d'Europa si truovano essere stati poeti. LVII I mutoli si spiegano per atti o corpi c'hanno naturali rapporti all'idee ch'essi vogliono significare. Questa degnità è 'l principio del parlar naturale, che congetturò Platone nel Cratilo, e, dopo di lui, Giamblico, De mysteriis ægyptiorum, essersi una volta parlato nel mondo. Co' quali sono gli stoici ed Origene, Contra Celso; e, perché 'l dissero indovinando, ebbero contrari Aristotile nella Perì ermeneia e Galeno, De decretis Hippocratis et Platonis: della qual disputa ragiona Publio Nigidio appresso Aulo Gellio. Alla qual favella naturale dovette succedere la locuzion poetica per immagini, somiglianze, comparazioni e naturali propietà. LVIII I mutoli mandan fuori i suoni informi cantando, e gli scilinguati pur cantando spediscono la lingua a prononziare. LIX Gli uomini sfogano le grandi passioni dando nel canto, come si sperimenta ne' sommamente addolorati e allegri. Queste due degnità supposte [danno a congetturare]che gli autori delle nazioni gentili [poich']eran andat'in uno stato ferino di bestie mute; e che, per quest'istesso balordi, non si fussero risentiti ch'a spinte di violentissime passioni - dovettero formare le prime loro lingue cantando. LX Le lingue debbon aver incominciato da voci monosillabe; come, nella presente copia di parlari articolati ne' quali nascon ora, i fanciulli, quantunque abbiano mollissime le fibbre dell'istrumento necessario ad articolare la favella, da tali voci incominciano. LXI Il verso eroico è lo più antico di tutti e lo spondaico il più tardo, e dentro si truoverà il verso eroico esser nato spondaico. LXII Il verso giambico è 'l più somigliante alla prosa, e 'l giambo è «piede presto», come vien diffinito da Orazio. Queste due degnità ultime danno a congetturare che andarono con pari passi a spedirsi e l'idee e le lingue. Tutte queste degnità, dalla quarantesimasettima incominciando, insieme con le sopra proposte per princìpi di tutte l'altre, compiono tutta la ragion poetica nelle sue parti, che sono: la favola, il costume e suo decoro, la sentenza, la locuzione e la di lei evidenza, l'allegoria, il canto e per ultimo il verso. E le sette ultime convincon altresì che fu prima il parlar in verso e poi il parlar in prosa appo tutte le nazioni. LXIII La mente umana è inchinata naturalmente co' sensi a vedersi fuori nel corpo, e con molta difficultà per mezzo della riflessione ad intendere se medesima. Questa degnità ne dà l'universal principio d'etimologia in tutte le lingue, nelle qual'i vocaboli sono trasportati da' corpi e dalle propietà de' corpi a significare le cose della mente e dell'animo. LXIV L'ordine dell'idee dee procedere secondo l'ordine delle cose. LXV L'ordine delle cose umane procedette: che prima furono le selve, dopo i tuguri, quindi i villaggi, appresso le città, finalmente l'accademie. Questa degnità è un gran principio d'etimologia: che secondo questa serie di cose umane si debbano narrare le storie delle voci delle lingue natie, come osserviamo nella lingua latina quasi tutto il corpo delle sue voci aver origini selvagge e contadinesche. Come, per cagion d'esemplo, «lex», che dapprima dovett'essere «raccolta di ghiande», da cui crediamo detta «ilex», quasi «illex», l'elce (come certamente «aquilex» è 'l raccoglitore dell'acque), perché l'elce produce la ghianda, alla quale s'uniscono i porci. Dappoi «lex» fu «raccolta di legumi», dalla quale questi furon detti «legumina». Appresso, nel tempo che le lettere volgari non si eran ancor truovate con le quali fussero scritte le leggi, per necessità di natura civile «lex» dovett'essere «raccolta di cittadini», o sia il pubblico parlamento; onde la presenza del popolo era la legge che solennizzava i testamenti che si facevano «calatis comitiis». Finalmente il raccoglier lettere e farne com'un fascio in ciascuna parola fu detto «legere». LXVI Gli uomini prima sentono il necessario, dipoi badano all'utile, appresso avvertiscono il comodo, più innanzi si dilettano del piacere, quindi si dissolvono nel lusso, e finalmente impazzano in istrappazzar le sostanze. LXVII La natura de' popoli prima è cruda, dipoi severa, quindi benigna, appresso dilicata, finalmente dissoluta. LXVIII Nel gener umano prima surgono immani e goffi, qual'i Polifemi; poi magnanimi ed orgogliosi, quali gli Achilli; quindi valorosi e giusti, quali gli Aristidi, gli Scipioni affricani; più a noi gli appariscenti con grand'immagini di virtù che s'accompagnano con grandi vizi, ch'appo il volgo fanno strepito di vera gloria, quali gli Alessandri e i Cesari; più oltre i tristi riflessivi, qual'i Tiberi; finalmente i furiosi dissoluti e sfacciati, qual'i Caligoli, i Neroni, i Domiziani. Questa degnità dimostra che i primi abbisognarono per ubbidire l'uomo all'uomo nello stato delle famiglie, e disporlo ad ubbidir alle leggi nello stato ch'aveva a venire delle città; i secondi, che naturalmente non cedevano a' loro pari, per istabilire sulle famiglie le repubbliche di forma aristocratica; i terzi per aprirvi la strada alla libertà popolare; i quarti per introdurvi le monarchie; i quinti per istabilirle; i sesti per rovesciarle. E questa con l'antecedenti degnità danno una parte de' princìpi della storia ideal eterna, sulla quale corrono in tempo tutte le nazioni ne' loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini. LXIX I governi debbon essere conformi alla natura degli uomini governati. Questa degnità dimostra che per natura di cose umane civili la scuola pubblica de' principi è la morale de' popoli. LXX Si conceda ciò che non ripugna in natura e qui poi truoverassi vero di fatto: che dallo stato nefario del mondo eslege si ritirarono prima alquanti pochi più robusti, che fondarono le famiglie, con le quali e per le quali ridussero i campi a coltura; e gli altri molti lunga età dopo se ne ritirarono, rifuggendo alle terre colte di questi padri. LXXI I natii costumi, e sopra tutto quello della natural libertà, non si cangiano tutti ad un tratto, ma per gradi e con lungo tempo. LXXII Posto che le nazioni tutte cominciarono da un culto di una qualche divinità, i padri nello stato delle famiglie dovetter esser i sappienti in divinità d'auspìci, i sacerdoti che sagrificavano per proccurargli o sia ben intendergli, e gli re che portavano le divine leggi alle loro famiglie. LXXIII È volgar tradizione che i primi i quali governarono il mondo furono re. LXXIV È altra volgar tradizione ch'i primi re si criavano per natura i più degni. LXXV È volgar tradizione ancora ch'i primi re furono sappienti, onde Platone con vano voto disiderava questi antichissimi tempi ne' quali o i filosofi regnavano o filosofavano i re. Tutte queste degnità dimostrano che nelle persone de' primi padri andarono uniti sapienza, sacerdozio e regno, e 'l regno e 'l sacerdozio erano dipendenze della sapienza, non già riposta di filosofi, ma volgare di legislatori. E perciò, dappoi, in tutte le nazioni i sacerdoti andarono coronati. LXXVI È volgar tradizione che la prima forma di governo al mondo fusse ella stata monarchica. LXXVII Ma la degnità sessantesimasettima con l'altre seguenti, e 'n particolare col corollario della sessantesimanona, ne danno che i padri nello stato delle famiglie dovettero esercitare un imperio monarchico, solamente soggetto a Dio, così nelle persone come negli acquisti de' lor figliuoli e molto più de' famoli che si erano rifuggiti alle loro terre, e sì che essi furono i primi monarchi del mondo de' quali la storia sagra hassi da intendere ove gli appella «patriarchi», cioè «padri principi». Il qual diritto monarchico fu loro serbato dalla legge delle XII Tavole per tutti i tempi della romana repubblica: «Patrifamilias ius vitæ et necis in liberos esto»; di che è conseguenza: «Quicquid filius acquirit, patri acquirit». LXXVIII Le famiglie non posson essere state dette, con propietà d'origine, altronde che da questi famoli de' padri nello stato allor di natura. LXXIX I primi soci, che propiamente sono compagni per fine di comunicare tra loro l'utilità, non posson al mondo immaginarsi né intendersi innanzi di questi rifuggiti per aver salva la vita da' primi padri anzidetti e, ricevuti per la lor vita, obbligati a sostentarla con coltivare i campi di tali padri. Tali si truovano i veri soci degli eroi, che poi furono i plebei dell'eroiche città, e finalmente le provincie de' popoli principi. LXXX Gli uomini vengono naturalmente alla ragione de' benefizi, ove scorgano o ritenerne o ritrarne buona e gran parte d'utilità, che son i benefizi che si possono sperare nella vita civile. LXXXI È propietà de' forti gli acquisti fatti con virtù non rillasciare per infingardaggine, ma, o per necessità o per utilità, rimetterne a poco a poco e quanto meno essi possono. Da queste due degnità sgorgano le sorgive perenni de' feudi, i quali con romana eleganza si dicono «beneficia». LXXXII Tutte le nazioni antiche si truovano sparse di clienti e di clientele, che non si possono più acconciamente intendere che per vassalli e per feudi, né da' feudisti eruditi si truovano più acconce voci romane per ispiegarsi che «clientes» e «clientelæ». Queste tre ultime degnità con dodici precedenti, dalla settantesima incominciando, ne scuoprono i princìpi delle repubbliche, nate da una qualche grande necessità (che dentro si determina) a' padri di famiglia fatta da' famoli, per la quale andarono da se stesse naturalmente a formarsi aristocratiche. Perocché i padri si unirono in ordini per resister a' famoli ammutinati contro essoloro; e, così uniti, per far contenti essi famoli e ridurgli all'ubbidienza, concedettero loro una spezie di feudi rustici; ed essi si truovaron assoggettiti i loro sovrani imperi famigliari (che non si posson intendere che sulla ragione di feudi nobili) all'imperio sovrano civile de' lor ordini regnanti medesimi; e i capi ordini se ne dissero «re», i quali, più animosi, dovettero lor far capo nelle rivolte de' famoli. Tal origine delle città se fusse data per ipotesi (che dentro si ritruova di fatto), ella, per la sua naturalezza e semplicità e per l'infinito numero degli effetti civili che sopra, come a lor propia cagione, vi reggono, dee fare necessità di esser ricevuta per vera. Perché in altra guisa non si può al mondo intendere come delle potestà famigliari si formò la potestà civile e de' patrimoni privati il patrimonio pubblico, e come truovossi apparecchiata la materia alle repubbliche d'un ordine di pochi che vi comandi e della moltitudine de' plebei la qual v'ubbidisca: che sono le due parti che compiono il subbietto della politica. La qual generazione degli Stati civili, con le famiglie sol di figliuoli, si dimostrerà dentro essere stata impossibile. LXXXIII Questa legge d'intorno a' campi si stabilisce la prima agraria del mondo; né per natura si può immaginar o intendere un'altra che possa essere più ristretta. Questa legge agraria distinse gli tre domìni, che posson esser di natura civile, appo tre spezie di persone: il bonitario, appo i plebei; il quiritario, conservato con l'armi e, 'n conseguenza, nobile, appo i padri; e l'eminente, appo esso ordine, ch'è la Signoria, o sia la sovrana potestà, nelle repubbliche aristocratiche. LXXXIV È un luogo d'oro d'Aristotile ne' Libri politici ove, nella divisione delle repubbliche, novera i regni eroici, ne' quali gli re in casa ministravan le leggi, fuori amministravan le guerre, ed erano capi della religione. Questa degnità cade tutta a livello ne' due regni eroici di Teseo e di Romolo, come di quello si può osservar in Plutarco nella di lui Vita, e di questo sulla storia romana, con supplire la storia greca con la romana, ove Tullo Ostilio ministra la legge nell'accusa d'Orazio. E gli re romani erano ancora re delle cose sagre, detti «reges sacrorum»; onde, cacciati gli re da Roma, per la certezza delle cerimonie divine ne criavano uno che si dicesse «rex sacrorum», ch'era il capo de' feciali o sia degli araldi. LXXXV È pur luogo d'oro d'Aristotile ne' medesimi libri, ove riferisce che l'antiche repubbliche non avevano leggi da punire l'offese ed ammendar i torti privati; e dice tal costume esser de' popoli barbari, perché i popoli per ciò ne' lor incominciamenti sono barbari perché non sono addimesticati ancor con le leggi. Questa degnità dimostra la necessità de' duelli e delle ripresaglie ne' tempi barbari, perché in tali tempi mancano le leggi giudiziarie. LXXXVI È pur aureo negli stessi libri d'Aristotile quel luogo ove dice che nell'antiche repubbliche i nobili giuravano d'esser eterni nemici della plebe. Questa degnità ne spiega la cagione de' superbi, avari e crudeli costumi de' nobili sopra i plebei, ch'apertamente si leggono sulla storia romana antica: che, dentro essa finor sognata libertà popolare, lungo tempo angariarono i plebei di servir loro a propie spese nelle guerre, gli anniegavano in un mar d'usure, che non potendo quelli meschini poi soddisfare, gli tenevano chiusi tutta la vita nelle loro private prigioni, per pagargliele co' lavori e fatighe, e quivi con maniera tirannica gli battevano a spalle nude con le verghe come vilissimi schiavi. LXXXVII Le repubbliche aristocratiche sono rattenutissime di venir alle guerre per non agguerrire la moltitudine de' plebei. Questa degnità è 'l principio della giustizia dell'armi romane fin alle guerre cartaginesi. LXXXVIII Le repubbliche aristocratiche conservano le ricchezze dentro l'ordine de' nobili, perché conferiscono alla potenza di esso ordine. Questa degnità è 'l principio della clemenza romana nelle vittorie, che toglievano a' vinti le sole armi e, sotto la legge di comportevol tributo, rillasciavano il dominio bonitario di tutto. Ch'è la cagione per che i padri resistettero sempre all'agrarie de' Gracchi: perché non volevano arricchire la plebe. LXXXIX L'onore è 'l più nobile stimolo del valor militare. XC I popoli debbon eroicamente portarsi in guerra, se esercitano gare di onore tra lor in pace, altri per conservarglisi, altri per farsi merito di conseguirgli. Questa degnità è un principio dell'eroismo romano dalla discacciata de' tiranni fin alle guerre cartaginesi, dentro il qual tempo i nobili naturalmente si consagravano per la salvezza della lor patria, con la quale avevano salvi tutti gli onori civili dentro il lor ordine, e i plebei facevano delle segnalatissime imprese per appruovarsi meritevoli degli onori de' nobili. XCI Le gare, ch'esercitano gli ordini nelle città, d'uguagliarsi con giustizia sono lo più potente mezzo d'ingrandir le repubbliche. Questo è l'altro principio dell'eroismo romano, assistito da tre pubbliche virtù: dalla magnanimità della plebe di volere le ragioni civili comunicate ad essolei con le leggi de' padri, dalla fortezza de' padri nel custodirle dentro il lor ordine e dalla sapienza de' giureconsulti nell'interpetrarle e condurne fil filo l'utilità a' nuovi casi che domandavano la ragione. Che sono le tre cagioni propie onde si distinse al mondo la giurisprudenza romana. Tutte queste degnità, dalla otantesimaquarta incominciando, espongono nel suo giusto aspetto la storia romana antica: le seguenti tre vi si adoprano in parte. XCII I deboli vogliono le leggi; i potenti le ricusano; gli ambiziosi, per farsi séguito, le promuovono; i principi, per uguagliar i potenti co' deboli, le proteggono. Questa degnità, per la prima e seconda parte, è la fiaccola delle contese eroiche nelle repubbliche aristocratiche, nelle qual'i nobili vogliono appo l'ordine arcane tutte le leggi, perché dipendano dal lor arbitrio e le ministrino con la mano regia: che sono le tre cagioni ch'arreca Pomponio giureconsulto, ove narra che la plebe romana desidera la legge delle XII Tavole, con quel motto che l'erano gravi «ius latens, incertum et manus regia». Ed è la cagione della ritrosia ch'avevano i padri di dargliele, dicendo «mores patrios servandos, leges ferri non oportere», come riferisce Dionigi d'Alicarnasso, che fu meglio informato che Tito Livio delle cose romane (perché le scrisse istrutto delle notizie di Marco Terenzio Varrone, il qual fu acclamato «il dottissimo de' romani»), e in questa circostanza è per diametro opposto a Livio, che narra intorno a ciò: i nobili, per dirla con lui, «desideria plebis non aspernari». Onde, per questa ed altre maggiori contrarietà osservate ne' Princìpi del Diritto universale, essendo cotanto tra lor opposti i primi autori che scrissero di cotal favola da presso a cinquecento anni dopo, meglio sarà di non credere a niun degli due. Tanto più che ne' medesimi tempi non la credettero né esso Varrone, il quale nella grande opera Rerum divinarum et humanarum diede origini tutte natie del Lazio a tutte le cose divine ed umane d'essi romani; né Cicerone, il qual in presenza di Quinto Muzio Scevola, principe de' giureconsulti della sua età, fa dire a Marco Crasso oratore che la sapienza de' decemviri di gran lunga superava quella di Dragone e di Solone, che diedero le leggi agli ateniesi, e quella di Ligurgo, che diedele agli spartani: ch'è lo stesso che la legge delle XII Tavole non era né da Sparta né da Atene venuta in Roma. E crediamo in ciò apporci al vero: che non per altro Cicerone fece intervenire Q. Muzio in quella sola prima giornata che - essendo al suo tempo cotal favola troppo ricevuta tra' letterati, nata dalla boria de' dotti di dare origini sappientissime al sapere ch'essi professavano (lo che s'intende da quelle parole che 'l medesimo Crasso dice: «Fremant omnes: dicam quod sentio») - perché non potessero opporgli ch'un oratore parlasse della storia del diritto romano, che si appartiene saper da' giureconsulti (essendo allora queste due professioni tra lor divise); se Crasso avesse d'intorno a ciò detto falso, Muzio ne l'avrebbe certamente ripreso, siccome, al riferir di Pomponio, riprese Servio Sulpizio, ch'interviene in questi stessi ragionamenti, dicendogli «turpe esse patricio viro ius, in quo versaretur ignorare». Ma, più che Cicerone e Varrone, ci dà Polibio un invitto argomento di non credere né a Dionigi né a Livio, il quale senza contrasto seppe più di politica di questi due e fiorì da dugento anni più vicino a' decemviri che questi due. Egli (nel libro sesto, al numero quarto e molti appresso, dell'edizione di Giacomo Gronovio) a piè fermo si pone a contemplare la costituzione delle repubbliche libere più famose de' tempi suoi, ed osserva la romana esser diversa da quelle d'Atene e di Sparta e, più che di Sparta, esserlo da quella d'Atene, dalla quale, più che da Sparta, i pareggiatori del gius attico col romano vogliono esser venute le leggi per ordinarvi la libertà popolare già innanzi fondata da Bruto. Ma osserva, al contrario, somiglianti tra loro la romana e la cartaginese, la quale niuno mai si è sognato essere stata ordinata libera con le leggi di Grecia; lo che è tanto vero ch'in Cartagine era espressa legge che vietava a' cartaginesi sapere di greca lettera. Ed uno scrittore sappientissimo di repubbliche non fa sopra ciò questa cotanto naturale e cotanto ovvia riflessione, e non ne investiga la cagion della differenza: - Le repubbliche romana ed ateniese, diverse, ordinate con le medesime leggi; e le repubbliche romana e cartaginese, simili, ordinate con leggi diverse? - Laonde, per assolverlo d'un'oscitanza sì dissoluta, è necessaria cosa a dirsi che nell'età di Polibio non era ancor nata in Roma cotesta favola delle leggi greche venute da Atene ad ordinarvi il governo libero popolare. Questa stessa degnità, per la terza parte, apre la via agli ambiziosi nelle repubbliche popolari di portarsi alla monarchia, col secondare tal disiderio natural della plebe, che, non intendendo universali, d'ogni particolare vuol una legge. Onde Silla, capoparte di nobiltà, vinto Mario, capoparte di plebe, riordinando lo Stato popolare con governo aristocratico, rimediò alla moltitudine delle leggi con le «quistioni perpetue». E questa degnità medesima per l'ultima parte è la ragione arcana perché, da Augusto incominciando, i romani prìncipi fecero innumerevoli leggi di ragion privata, e perché i sovrani e le potenze d'Europa dappertutto, ne' loro Stati reali e nelle repubbliche libere, ricevettero il Corpo del diritto civile romano e quello del diritto canonico. XCIII Poiché la porta degli onori nelle repubbliche popolari tutta si è con le leggi aperta alla moltitudine avara che vi comanda, non resta altro in pace che contendervi di potenza non già con le leggi ma con le armi, e per la potenza comandare leggi per arricchire, quali in Roma furon l'agrarie de' Gracchi; onde provengono nello stesso tempo guerre civili in casa ed ingiuste fuori. Questa degnità, per lo suo opposto, conferma per tutto il tempo innanzi de' Gracchi il romano eroismo. XCIV La natural libertà è più feroce quanto i beni più a' propi corpi son attaccati, e la civil servitù s'inceppa co' beni di fortuna non necessari alla vita. Questa degnità, per la prima parte, è altro principio del natural eroismo de' primi popoli; per la seconda, ella è 'l principio naturale delle monarchie. XCV Gli uomini prima amano d'uscir di suggezione e disiderano ugualità: ecco le plebi nelle repubbliche aristocratiche, le quali finalmente cangiano in popolari; dipoi si sforzano superare gli uguali: ecco le plebi nelle repubbliche popolari, corrotte in repubbliche di potenti; finalmente vogliono mettersi sotto le leggi: ecco l'anarchie, o repubbliche popolari sfrenate, delle quali non si dà piggiore tirannide, dove tanti son i tiranni quanti sono gli audaci e dissoluti delle città. E quivi le plebi, fatte accorte da' propi mali, per truovarvi rimedio vanno a salvarsi sotto le monarchie; ch'è la legge regia naturale con la quale Tacito legittima la monarchia romana sotto di Augusto, «qui cuncta, bellis civilibus fessa, nomine "principis" sub imperium accepit». XCVI Dalla natia libertà eslege i nobili, quando sulle famiglie si composero le prime città, furono ritrosi ed a freno ed a peso: ecco le repubbliche aristocratiche nelle qual'i nobili son i signori; dappoi dalle plebi, cresciute in gran numero ed agguerrite, indutti a sofferire e leggi e pesi egualmente coi lor plebei: ecco i nobili nelle repubbliche popolari; finalmente, per aver salva la vita comoda, naturalmente inchinati alla suggezione d'un solo: ecco i nobili sotto le monarchie. Queste due degnità con l'altre innanzi, dalla sessantesimasesta incominciando, sono i princìpi della storia ideal eterna la quale si è sopra detta. XCVII Si conceda ciò che ragion non offende, col dimandarsi che dopo il diluvio gli uomini prima abitarono sopra i monti, alquanto tempo appresso calarono alle pianure, dopo lunga età finalmente si assicurarono di condursi a' lidi del mare. XCVIII Appresso Strabone è un luogo d'oro di Platone, che dice, dopo i particolari diluvi ogigio e deucalionio, aver gli uomini abitato nelle grotte sui monti, e gli riconosce ne' Polifemi, ne' quali altrove rincontra i primi padri di famiglia del mondo; dipoi, sulle falde, e gli avvisa in Dardano che fabbricò Pergamo, che divenne poi la ròcca di Troia; finalmente, nelle pianure, e gli scorge in Ilo, dal quale Troia fu portata nel piano vicino al mare e fu detta Ilio. XCIX È pur antica tradizione che Tiro prima fu fondata entro terra, e dipoi portata nel lido del mar Fenicio; com'è certa istoria indi essere stata tragittata in un'isola ivi da presso, quindi da Alessandro Magno riattaccata al suo continente. L'antecedente postulato e le due degnità che gli vanno appresso ne scuoprono che prima si fondarono le nazioni mediterranee, dappoi le marittime. E ne danno un grand'argomento che dimostra l'antichità del popolo ebreo, che da Noè si fondò nella Mesopotamia, ch'è la terra più mediterranea del primo mondo abitabile, e sì fu l'antichissima di tutte le nazioni. Lo che vien confermato perché ivi fondossi la prima monarchia, che fu quella degli assiri, sopra la gente caldea, dalla qual eran usciti i primi sappienti del mondo, de' quali fu principe Zoroaste. C Gli uomini non s'inducono ad abbandonar affatto le propie terre, che sono naturalmente care a' natii, che per ultime necessità della vita; o di lasciarle a tempo che o per l'ingordigia d'arricchire co' traffichi, o per gelosia di conservare gli acquisti. Questa degnità è 'l principio delle trasmigrazioni de' popoli, fatte con le colonie eroiche marittime, con le innondazioni de' barbari (delle quali sole scrisse Wolfango Lazio), con le colonie romane ultime conosciute e con le colonie degli europei nell'Indie. E questa stessa degnità ci dimostra che le razze perdute degli tre figliuoli di Noè dovettero andar in un error bestiale, perché, col fuggire le fiere (delle quali la gran selva della terra doveva pur troppo abbondare) e coll'inseguire le schive e ritrose donne (ch'in tale stato selvaggio dovevan essere sommamente ritrose e schive), e poi per cercare pascolo ed acqua, si ritruovassero dispersi per tutta la terra nel tempo che fulminò la prima volta il cielo dopo il diluvio: onde ogni nazione gentile cominciò da un suo Giove. Perché, se avessero durato nell'umanità come il popolo di Dio vi durò, si sarebbero, come quello, ristati nell'Asia, che, tra per la vastità di quella gran parte del mondo e per la scarsezza allora degli uomini, non avevano niuna necessaria cagione d'abbandonare, quando non è natural costume ch'i paesi natii s'abbandonino per capriccio. CI I fenici furono i primi navigatori del mondo antico. CII Le nazioni nella loro barbarie sono impenetrabili, che si debbono irrompere da fuori con le guerre, o da dentro spontaneamente aprire agli stranieri per l'utilità de' commerzi. Come Psammetico aprì l'Egitto a' greci dell'Ionia e della Caria, i quali, dopo i fenici, dovetter essere celebri nella negoziazione marittima; onde, per le grandi ricchezze, nell'Ionia si fondò il templo di Giunione samia e nella Caria si alzò il mausoleo d'Artemisia, che furono due delle sette maraviglie del mondo: la gloria della qual negoziazione restò a quelli di Rodi, nella bocca del cui porto ergerono il gran colosso del Sole, ch'entrò nel numero delle maraviglie suddette. Così il Chinese, per l'utilità de' commerzi, ha ultimamente aperto la China a' nostri europei. Queste tre degnità ne danno il principio d'un altro etimologico delle voci d'origine certa straniera, diverso da quello sopra detto delle voci natie. Ne può altresì dare la storia di nazioni dopo altre nazioni portatesi con colonie in terre straniere: come Napoli si disse dapprima Sirena con voce siriaca - ch'è argomento che i siri, ovvero fenici, vi avessero menato prima di tutti una colonia per cagione di traffichi; - dopo si disse Partenope con voce eroica greca, e finalmente con lingua greca volgare si disse Napoli - che sono pruove che vi fussero appresso passati i greci per aprirvi società di negozi: - ove dovette provenire una lingua mescolata di fenicia e di greca, della quale, più che della greca pura, si dice Tiberio imperadore essersi dilettato. Appunto come ne' lidi di Taranto vi fu una colonia siriaca detta Siri, i cui abitatori erano chiamati «siriti», e poi da' greci fu detta Polieo, e ne fu appellata Minerva «poliade», che ivi aveva un suo templo. Questa degnità altresì dà i princìpi di scienza all'argomento di che scrisse il Giambullari: che la lingua toscana sia d'origine siriaca. La quale non poté provenire che dagli più antichi fenici, che furono i primi navigatori del mondo antico, come poco sopra n'abbiamo proposto una degnità; perché, appresso, tal gloria fu de' greci della Caria e dell'Ionia, e restò per ultimo a' rodiani. CIII Si domanda ciò ch'è necessario concedersi: che nel lido del Lazio fusse stata menata alcuna greca colonia, che poi, da' romani vinta e distrutta, fusse restata seppellita nelle tenebre dell'antichità. Se ciò non si concede, chiunque riflette e combina sopra l'antichità, è sbalordito dalla storia romana ove narra Ercole, Evandro, arcadi, frigi dentro del Lazio, Servio Tullio greco, Tarquinio Prisco figliuolo di Demarato corintio, Enea fondatore della gente romana. Certamente le lettere latine Tacito osserva somiglianti all'antiche greche, quando a' tempi di Servio Tullio, per giudizio di Livio, non poterono i romani nemmeno udire il famoso nome di Pittagora, ch'insegnava nella sua celebratissima scuola in Cotrone, e non incominciaron a conoscersi co' greci d'Italia che con l'occasione della guerra di Taranto, che portò appresso quella di Pirro co' greci oltramare. CIV È un detto degno di considerazione quello di Dion Cassio: che la consuetudine è simile al re e la legge al tiranno; che deesi intendere della consuetudine ragionevole e della legge non animata da ragion naturale. Questa degnità dagli effetti diffinisce altresì la gran disputa: «se vi sia diritto in natura o sia egli nell'oppenione degli uomini», la qual è la stessa che la proposta nel corollario dell'VIII: «se la natura umana sia socievole». Perché, il diritto natural delle genti essendo stato ordinato dalla consuetudine (la qual Dione dice comandare da re con piacere), non ordinato con legge (che Dion dice comandare da tiranno con forza), perocché egli è nato con essi costumi umani usciti dalla natura comune delle nazioni (ch'è 'l subbietto adeguato di questa Scienza), e tal diritto conserva l'umana società; né essendovi cosa più naturale (perché non vi è cosa che piaccia più) che celebrare i naturali costumi: per tutto ciò la natura umana, dalla quale sono usciti tali costumi, ella è socievole. Questa stessa degnità, con l'ottava e 'l di lei corollario, dimostra che l'uomo non è ingiusto per natura assolutamente, ma per natura caduta e debole. E 'n conseguenza dimostra il primo principio della cristiana religione, ch'è Adamo intiero, qual dovette nell'idea ottima essere stato criato da Dio. E quindi dimostra i catolici princìpi della grazia: ch'ella operi nell'uomo, ch'abbia la privazione, non la niegazione delle buon'opere, e sì ne abbia una potenza inefficace, e perciò sia efficace la grazia; che perciò non può stare senza il principio dell'arbitrio libero, il quale naturalmente è da Dio aiutato con la di lui provvedenza (come si è detto sopra, nel secondo corollario della medesima ottava), sulla quale la cristiana conviene con tutte l'altre religioni. Ch'era quello sopra di che Grozio, Seldeno, Pufendorfio dovevano, innanzi ogni altra cosa, fondar i loro sistemi e convenire coi romani giureconsulti, che diffiniscono il diritto natural delle genti essere stato dalla divina provvedenza ordinato. CV Il diritto natural delle genti è uscito coi costumi delle nazioni, tra loro conformi in un senso comune umano, senza alcuna riflessione e senza prender essemplo l'una dall'altra. Questa degnità, col detto di Dione riferito nell'antecedente, stabilisce la provvedenza essere l'ordinatrice del diritto natural delle genti, perch'ella è la regina delle faccende degli uomini. Questa stessa stabilisce la differenza del diritto natural degli ebrei, del diritto natural delle genti e diritto natural de' filosofi. Perché le genti n'ebbero i soli ordinari aiuti dalla provvedenza; gli ebrei n'ebbero anco aiuti estraordinari dal vero Dio, per lo che tutto il mondo delle nazioni era da essi diviso tra ebrei e genti; e i filosofi il ragionano più perfetto di quello che 'l costuman le genti, i quali non vennero che da un duemila anni dopo essersi fondate le genti. Per tutte le quali tre differenze non osservate, debbon cadere gli tre sistemi di Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio. CVI Le dottrine debbono cominciare da quando cominciano le materie che trattano. Questa degnità, allogata qui per la particolar materia del diritto natural delle genti, ella è universalmente usata in tutte le materie che qui si trattano; ond'era da proporsi tralle degnità generali: ma si è posta qui, perché in questa più che in ogni altra particolar materia fa vedere la sua verità e l'importanza di farne uso. CVII Le genti cominciarono prima delle città, e sono quelle che da' latini si dissero «gentes maiores», o sia case nobili antiche, come quelle de' padri de' quali Romolo compose il senato e, col senato, la romana città: come, al contrario, si dissero «gentes minores» le case nobili nuove fondate dopo le città, come furono quelle de' padri de' quali Giunio Bruto, cacciati gli re, riempiè il senato, quasi esausto per le morti de' senatori fatti morire da Tarquinio Superbo. CVIII Tale fu la divisione degli dèi: tra quelli delle genti maggiori, ovvero dèi consagrati dalle famiglie innanzi delle città, - i quali appo i greci e latini certamente (e qui pruoverassi appo i primi assiri ovvero caldei, fenici, egizi) furono dodici (il qual novero fu tanto famoso tra i greci che l'intendevano con la sola parola dódeka), e vanno confusamente raccolti in un distico latino riferito ne' Princìpi del Diritto universale; i quali però qui, nel libro secondo, con una teogonia naturale, o sia generazione degli dèi naturalmente fatta nelle menti de' greci, usciranno così ordinati: Giove, Giunone; Diana, Apollo; Vulcano, Saturno, Vesta; Marte, Venere; Minerva, Mercurio; Nettunno; - e gli dèi delle genti minori, ovvero dèi consegrati appresso dai popoli, come Romolo, il qual, morto, il popolo romano appellò dio Quirino. Per queste tre degnità, gli tre sistemi di Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio mancano ne loro princìpi, ch'incominciano dalle nazioni guardate tra loro nella società di tutto il gener umano, il quale, appo tutte le prime nazioni, come sarà qui dimostrato, cominciò dal tempo delle famiglie, sotto gli dèi delle genti dette «maggiori». CIX Gli uomini di corte idee stimano diritto quanto si è spiegato con le parole. CX È aurea la diffinizione ch'Ulpiano assegna dell'equità civile: ch'ella è «probabilis quædam ratio, non omnibus hominibus naturaliter cognita (com'è l'equità naturale), sed paucis tantum, qui, prudentia, usu, doctrina præditi, didicerunt quæ ad societatis humanæ conservationem sunt necessaria». La quale in bell'italiano si chiama «ragion di Stato». CXI Il certo delle leggi è un'oscurezza della ragione unicamente sostenuta dall'autorità, che le ci fa sperimentare dure nel praticarle, e siamo necessitati praticarle per lo di lor «certo», che in buon latino significa «particolarizzato» o, come le scuole dicono, «individuato»; nel qual senso «certum» e «commune», con troppa latina eleganza, son opposti tra loro. Questa degnità, con le due seguenti diffinizioni, costituiscono il principio della ragion stretta, della qual è regola l'equità civile, al cui certo, o sia alla determinata particolarità delle cui parole, i barbari, d'idee particolari, naturalmente s'acquetano, e tale stimano il diritto che lor si debba. Onde ciò che in tali casi Ulpiano dice: «lex dura est, sed scripta est», tu diresti, con più bellezza latina e con maggior eleganza legale: «lex dura est, sed certa est». CXII Gli uomini intelligenti stimano diritto tutto ciò che detta essa uguale utilità delle cause. CXIII Il vero delle leggi è un certo lume e splendore di che ne illumina la ragion naturale; onde spesso i giureconsulti usan dire «verum est» per «æquum est». Questa diffinizione come la centoundecimo sono proposizioni particolari per far le pruove nella particolar materia del diritto natural delle genti, uscite dalle due generali, nona e decima, che trattano del vero e del certo generalmente, per far le conchiusioni in tutte le materie che qui si trattano. CXIV L'equità naturale della ragion umana tutta spiegata è una pratica della sapienza nelle faccende dell'utilità, poiché «sapienza», nell'ampiezza sua, altro non è che scienza di far uso delle cose qual esse hanno in natura. Questa degnità con l'altre due seguenti diffinizioni costituiscono il principio della ragion benigna, regolata dall'equità naturale, la qual è connaturale alle nazioni ingentilite; dalla quale scuola pubblica si dimostrerà esser usciti i filosofi. Tutte queste sei ultime proposizioni fermano che la provvedenza fu l'ordinatrice del diritto natural delle genti, la qual permise che, poiché per lunga scorsa di secoli le nazioni avevano a vivere incapaci del vero e dell'equità naturale (la quale più rischiararono, appresso, i filosofi), esse si attenessero al certo ed all'equità civile, che scrupolosamente custodisce le parole degli ordini e delle leggi, e da queste fussero portate ad osservarle generalmente anco ne' casi che riuscissero dure, perché si serbassero le nazioni. E queste istesse sei proposizioni, sconosciute dagli tre principi della dottrina del diritto natural delle genti, fecero ch'essi, tutti e tre, errassero di concerto nello stabilirne i loro sistemi; perc'han creduto che l'equità naturale nella sua idea ottima fusse stata intesa dalle nazioni gentili fin da' loro primi incominciamenti, senza riflettere che vi volle da un duemila anni perché in alcuna fussero provenuti i filosofi, e senza privilegiarvi un popolo con particolarità assistito dal vero Dio. III DE' PRINCÌPI. Ora, per fare sperienza se le proposizioni noverate finora per elementi di questa Scienza debbano dare la forma alle materie apparecchiate nel principio sulla Tavola cronologica, preghiamo il leggitore che rifletta a quanto si è scritto d'intorno a' princìpi di qualunque materia di tutto lo scibile divino ed umano della gentilità, e combini se egli faccia sconcezza con esse proposizioni, o tutte o più o una; perché tanto si è con una quanto sarebbe con tutte, perché ogniuna di quelle fa acconcezza con tutte. Ché certamente egli, faccendo cotal confronto, s'accorgerà che sono tutti luoghi di confusa memoria, tutte immagini di mal regolata fantasia, e niun essere parto d'intendimento, il qual è stato trattenuto ozioso dalle due borie che nelle Degnità noverammo. Laonde, perché la boria delle nazioni, d'essere stata ogniuna la prima del mondo, ci disanima di ritruovare i princìpi di questa Scienza da' filologi; altronde la boria de' dotti, i quali vogliono ciò ch'essi sanno essere stato eminentemente inteso fin dal principio del mondo, ci dispera di ritruovargli da' filosofi: quindi, per questa ricerca, si dee far conto come se non vi fussero libri nel mondo. Ma, in tal densa notte di tenebre ond'è coverta la prima da noi lontanissima antichità, apparisce questo lume eterno, che non tramonta, di questa verità, la quale non si può a patto alcuno chiamar in dubbio; che questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i princìpi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana. Lo che, a chiunque vi rifletta, dee recar maraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale, perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza; e traccurarono di meditare su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l'avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli uomini. Il quale stravagante effetto è provenuto da quella miseria, la qual avvertimmo nelle Degnità, della mente umana, la quale, restata immersa e seppellita nel corpo, è naturalmente inchinata a sentire le cose del corpo e dee usare troppo sforzo e fatiga per intendere se medesima, come l'occhio corporale che vede tutti gli obbietti fuori di sé ed ha dello specchio bisogno per vedere se stesso. Or, poiché questo mondo di nazioni egli è stato fatto dagli uomini, vediamo in quali cose hanno con perpetuità convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli uomini, perché tali cose ne potranno dare i princìpi universali ed eterni, quali devon essere d'ogni scienza, sopra i quali tutte sursero e tutte vi si conservano in nazioni. Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lontane, divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; né tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consagrate solennità che religioni, matrimoni e seppolture. Ché, per la degnità che «idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti tra loro, debbon aver un principio comune di vero», dee essere stato dettato a tutte: che da queste tre cose incominciò appo tutte l'umanità, e per ciò si debbano santissimamente custodire da tutte perché 'l mondo non s'infierisca e si rinselvi di nuovo. Perciò abbiamo presi questi tre costumi eterni ed universali per tre primi princìpi di questa Scienza. Né ci accusino di falso il primo i moderni viaggiatori, i quali narrano che popoli del Brasile, di Cafra ed altre nazioni del mondo nuovo (e Antonio Arnaldo crede lo stesso degli abitatori dell'isole chiamate Antille) vivano in società senza alcuna cognizione di Dio; da' quali forse persuaso, Bayle afferma nel Trattato delle comete che possano i popoli senza lume di Dio vivere con giustizia; che tanto non osò affermare Polibio, al cui detto da taluni s'acclama: che, se fussero al mondo filosofi, che 'n forza della ragione non delle leggi vivessero con giustizia, al mondo non farebbero uopo religioni. Queste sono novelle di viaggiatori, che proccurano smaltimento a' lor libri con mostruosi ragguagli. Certamente Andrea Rudigero nella sua Fisica magnificamente intitolata divina, che vuole che sia l'unica via di mezzo tra l'ateismo e la superstizione, egli da' censori dell'università di Genevra (nella qual repubblica, come libera popolare, dee essere alquanto più di libertà nello scrivere) è di tal sentimento gravemente notato che «'l dica con troppo di sicurezza», ch'è lo stesso dire che con non poco d'audacia. Perché tutte le nazioni credono in una divinità provvedente, onde quattro e non più si hanno potuto truovare religioni primarie per tutta la scorsa de' tempi e per tutta l'ampiezza di questo mondo civile: una degli ebrei, e quindi altra de' cristiani, che credono nella divinità d'una mente infinita libera; la terza de' gentili, che la credono di più dèi, immaginati composti di corpo e di mente libera, onde, quando vogliono significare la divinità che regge e conserva il mondo, dicono «deos immortales»; la quarta ed ultima de' maomettani, che la credono d'un dio infinita mente libera in un infinito corpo, perché aspettano piaceri de' sensi per premi nell'altra vita. Niuna credette in un dio tutto corpo o pure in un dio tutto mente la quale non fusse libera. Quindi né gli epicurei, che non danno altro che corpo e, col corpo, il caso, né gli stoici, che danno Dio in infinito corpo infinita mente soggetta al fato (che sarebbero per tal parte gli spinosisti), poterono ragionare di repubblica né di leggi, e Benedetto Spinosa parla di repubblica come d'una società che fusse di mercadanti. Per lo che aveva la ragion Cicerone, il qual ad Attico, perch'egli era epicureo, diceva non poter esso con lui ragionar delle leggi, se quello non gli avesse conceduto che vi sia provvedenza divina. Tanto le due sètte stoica ed epicurea sono comportevoli con la romana giurisprudenza, la quale pone la provvedenza divina per principal suo principio! L'oppenione poi ch'i concubiti, certi di fatto, d'uomini liberi con femmine libere senza solennità di matrimoni non contengano niuna naturale malizia, ella da tutte le nazioni del mondo è ripresa di falso con essi costumi umani, co' quali tutte religiosamente celebrano i matrimoni e con essi diffiniscono che, 'n grado benché rimesso, sia tal peccato di bestia. Perciocché, quanto è per tali genitori, non tenendogli congionti niun vincolo necessario di legge, essi vanno a disperdere i loro figliuoli naturali, i quali, potendosi i loro genitori ad ogni ora dividere, eglino, abbandonati da entrambi, deono giacer esposti per esser divorati da' cani; e, se l'umanità o pubblica o privata non gli allevasse, dovrebbero crescere senza avere chi insegnasse loro religione, né lingua, né altro umano costume. Onde, quanto è per essi, di questo mondo di nazioni, di tante belle arti dell'umanità arricchito ed adorno, vanno a fare la grande antichissima selva per entro a cui divagavano con nefario ferino errore le brutte fiere d'Orfeo, delle qual'i figliuoli con le madri, i padri con le figliuole usavano la venere bestiale. Ch'è l'infame nefas del mondo eslege, che Socrate con ragioni fisiche poco propie voleva pruovare esser vietato dalla natura, essendo egli vietato dalla natura umana, perché tali concubiti appo tutte le nazioni sono naturalmente abborriti, né da talune furono praticati che nell'ultima loro corrozione, come da' persiani. Finalmente, quanto gran principio dell'umanità sieno le seppolture, s'immagini uno stato ferino nel quale restino inseppolti i cadaveri umani sopra la terra ad esser ésca de' corvi e cani; ché certamente con questo bestiale costume dee andar di concerto quello d'esser incolti i campi nonché disabitate le città, e che gli uomini a guisa di porci anderebbono a mangiar le ghiande, còlte dentro il marciume de' loro morti congionti. Onde a gran ragione le seppolture con quella espressione sublime «foedera generis humani» ci furono diffinite e, con minor grandezza, «humanitatis commercia» ci furono descritte da Tacito. Oltrecché, questo è un placito nel quale certamente son convenute tutte le nazioni gentili: che l'anime restassero sopra la terra inquiete ed andassero errando intorno a' loro corpi inseppolti, e 'n conseguenza che non muoiano co' loro corpi, ma che sieno immortali. E che tale consentimento fusse ancora stato dell'antiche barbare, ce ne convincono i popoli di Guinea, come attesta Ugone Linschotano; di quei del Perù e del Messico, Acosta, De indicis; degli abitatori della Virginia, Tommaso Ariot; di quelli della Nuova Inghilterra, Riccardo Waitbornio; di quelli del regno di Sciam, Giuseffo Scultenio. Laonde Seneca conchiude: «Quum de immortalitate loquimur non leve momentum apud nos habet consensus hominum aut timentium inferos aut colentium: hac persuasione publica utor». IV DEL METODO. Per lo intiero stabilimento de' princìpi, i quali si sono presi di questa Scienza, ci rimane in questo primo libro di ragionare del metodo che debbe ella usare. Perché dovendo ella cominciare donde ne incominciò la materia, siccome si è proposto nelle Degnità, e sì avendo noi a ripeterla, per gli filologi, dalle pietre di Deucalione e Pirra, da' sassi d'Anfione, dagli uomini nati o da' solchi di Cadmo o dalla dura rovere di Virgilio e, per gli filosofi, dalle ranocchie d'Epicuro, dalle cicale di Obbes, da' semplicioni di Grozio, da' gittati in questo mondo senza niuna cura o aiuto di Dio di Pufendorfio, goffi e fieri quanto i giganti detti «los patacones», che dicono ritrovarsi presso lo stretto di Magaglianes, cioè da' polifemi d'Omero, ne' quali Platone riconosce i primi padri nello stato delle famiglie (questa scienza ci han dato de' princìpi dell'umanità così i filologi come i filosofi!); - e dovendo noi incominciar a ragionarne da che quelli incominciaron a umanamente pensare; - e, nella loro immane fierezza e sfrenata libertà bestiale, non essendovi altro mezzo, per addimesticar quella ed infrenar questa, ch'uno spaventoso pensiero d'una qualche divinità, il cui timore, come si è detto nelle Degnità, è 'l solo potente mezzo di ridurre in ufizio una libertà inferocita: - per rinvenire la guisa di tal primo pensiero umano nato nel mondo della gentilità, incontrammo l'aspre difficultà che ci han costo la ricerca di ben venti anni, e [dovemmo] discendere da queste nostre umane ingentilite nature a quelle affatto fiere ed immani, le quali ci è affatto niegato d'immaginare e solamente a gran pena ci è permesso d'intendere. Per tutto ciò dobbiamo cominciare da una qualche cognizione di Dio, della quale non sieno privi gli uomini, quantunque selvaggi, fieri ed immani. Tal cognizione dimostriamo esser questa: che l'uomo, caduto nella disperazione di tutti i soccorsi della natura, disidera una cosa superiore che lo salvasse. Ma cosa superiore alla natura è Iddio, e questo è il lume ch'Iddio ha sparso sopra tutti gli uomini. Ciò si conferma con questo comune costume umano: che gli uomini libertini, invecchiando, perché si sentono mancare le forze naturali, divengono naturalmente religiosi. Ma tali primi uomini, che furono poi i principi delle nazioni gentili, dovevano pensare a forti spinte di violentissime passioni, ch'è il pensare da bestie. Quindi dobbiamo andare da una volgar metafisica (la quale si è avvisata nelle Degnità, e truoveremo che fu la teologia de' poeti), e da quelle ripetere il pensiero spaventoso d'una qualche divinità, ch'alle passioni bestiali di tal'uomini perduti pose modo e misura e le rendé passioni umane. Da cotal pensiero dovette nascere il conato, il qual è propio dell'umana volontà, di tener in freno i moti impressi alla mente dal corpo, per o affatto acquetargli, ch'è dell'uomo sappiente, o almeno dar loro altra direzione ad usi migliori, ch'è dell'uomo civile. Questo infrenar il moto de' corpi certamente egli è un effetto della libertà dell'umano arbitrio, e sì della libera volontà, la qual è domicilio e stanza di tutte le virtù e, tralle altre, della giustizia, da cui informata la volontà è 'l subbietto di tutto il giusto e di tutti i diritti che sono dettati dal giusto. Perché dar conato a' corpi tanto è quanto dar loro libertà di regolar i lor moti, quando i corpi tutti sono agenti necessari in natura; e que' ch'i meccanici dicono «potenze», «forze», «conati» sono moti insensibili d'essi corpi, co' quali essi o s'appressano, come volle la meccanica antica, a' loro centri di gravità, o s'allontanano, come vuole la meccanica nuova, da' loro centri del moto. Ma gli uomini, per la loro corrotta natura, essendo tiranneggiati dall'amor propio, per lo quale non sieguono principalmente che la propia utilità; onde eglino, volendo tutto l'utile per sé e niuna parte per lo compagno, non posson essi porre in conato le passioni per indirizzarle a giustizia. Quindi stabiliamo: che l'uomo nello stato bestiale ama solamente la sua salvezza; presa moglie e fatti figliuoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle famiglie; venuto a vita civile, ama la sua salvezza con la salvezza delle città; distesi gl'imperi sopra più popoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle nazioni; unite le nazioni in guerre, paci, allianze, commerzi, ama la sua salvezza con la salvezza di tutto il gener umano: l'uomo in tutte queste circostanze ama principalmente l'utilità propia. Adunque, non da altri che dalla provvedenza divina deve esser tenuto dentro tali ordini a celebrare con giustizia la famigliare, la civile e finalmente l'umana società; per gli quali ordini, non potendo l'uomo conseguire ciò che vuole, almeno voglia conseguire ciò che dee dell'utilità: ch'è quel che dicesi «giusto». Onde quella che regola tutto il giusto degli uomini è la giustizia divina, la quale ci è ministrata dalla divina provvedenza per conservare l'umana società. Perciò questa Scienza, per uno de' suoi principali aspetti, dev'essere una teologia civile ragionata della provvedenza divina. La quale sembra aver mancato finora, perché i filosofi o l'hanno sconosciuta affatto, come gli stoici e gli epicurei, de' quali questi dicono che un concorso cieco d'atomi agita, quelli che una sorda catena di cagioni e d'effetti strascina le faccende degli uomini; o l'hanno considerata solamente sull'ordine delle naturali cose, onde «teologia naturale» essi chiamano la metafisica, nella quale contemplano questo attributo di Dio, e 'l confermano con l'ordine fisico che si osserva ne' moti de' corpi, come delle sfere, degli elementi, e nella cagion finale sopra l'altre naturali cose minori osservata. E pure sull'iconomia delle cose civili essi ne dovevano ragionare con tutta la propietà della voce, con la quale la provvedenza fu appellata «divinità» da «divinari», «indovinare», ovvero intendere o 'l nascosto agli uomini, ch'è l'avvenire, o 'l nascosto degli uomini, ch'è la coscienza; ed è quella che propiamente occupa la prima e principal parte del subbietto della giurisprudenza, che son le cose divine, dalle quali dipende l'altra che 'l compie, che sono le cose umane. Laonde cotale Scienza dee essere una dimostrazione, per così dire, di fatto istorico della provvedenza, perché dee essere una storia degli ordini che quella, senza verun umano scorgimento o consiglio, e sovente contro essi proponimenti degli uomini, ha dato a questa gran città del gener umano, ché, quantunque questo mondo sia stato criato in tempo e particolare, però gli ordini ch'ella v'ha posto sono universali ed eterni. Per tutto ciò, entro la contemplazione di essa provvedenza infinita ed eterna questa Scienza ritruova certe divine pruove, con le quali si conferma e dimostra. Impercioché la provvedenza divina, avendo per sua ministra l'onnipotenza, vi debbe spiegar i suoi ordini per vie tanto facili quanto sono i naturali costumi umani; perc'ha per consigliera la sapienza infinita, quanto vi dispone debbe essere tutto ordine; perc'ha per suo fine la sua stessa immensa bontà, quanto vi ordina debb'esser indiritto a un bene sempre superiore a quello che si han proposto essi uomini. Per tutto ciò, nella deplorata oscurità de' princìpi e nell'innumerabile varietà de' costumi delle nazioni, sopra un argomento divino che contiene tutte le cose umane, qui pruove non si possono più sublimi disiderare che queste istesse che ci daranno la naturalezza, l'ordine e 'l fine, ch'è essa conservazione del gener umano. Le quali pruove vi riusciranno luminose e distinte, ove rifletteremo con quanta facilità le cose nascono ed a quali occasioni, che spesso da lontanissime parti, e talvolta tutte contrarie ai proponimenti degli uomini, vengono e vi si adagiano da se stesse; e tali pruove ne somministra l'onnipotenza. Combinarle e vederne l'ordine, a quali tempi e luoghi loro propi nascono le cose ora, che vi debbono nascer ora, e l'altre si differiscono nascer ne' tempi e ne' luoghi loro, nello che, all'avviso d'Orazio, consiste tutta la bellezza dell'ordine; e tali pruove ci apparecchia l'eterna sapienza. E finalmente considerare se siam capaci d'intendere se, a quelle occasioni, luoghi e tempi, potevano nascere altri benefìci divini, co' quali, in tali o tali bisogni o malori degli uomini, si poteva condurre meglio a bene e conservare l'umana società; e tali pruove ne darà l'eterna bontà di Dio. Onde la propia continua pruova che qui farassi sarà il combinar e riflettere se la nostra mente umana, nella serie de' possibili la quale ci è permesso d'intendere, e per quanto ce n'è permesso, possa pensare o più o meno o altre cagioni di quelle ond'escono gli effetti di questo mondo civile. Lo che faccendo, il leggitore pruoverà un divin piacere, in questo corpo mortale, di contemplare nelle divine idee questo mondo di nazioni per tutta la distesa de' loro luoghi, tempi e varietà; e truoverassi aver convinto di fatto gli epicurei che 'l loro caso non può pazzamente divagare e farsi per ogni parte l'uscita, e gli stoici che la loro catena eterna delle cagioni, con la qual vogliono avvinto il mondo, ella penda dall'onnipotente, saggia e benigna volontà dell'Ottimo Massimo Dio. Queste sublimi pruove teologiche naturali ci saran confermate con le seguenti spezie di pruove logiche: che, nel ragionare dell'origini delle cose divine ed umane della gentilità, se ne giugne a que' primi oltre i quali è stolta curiosità di domandar altri primi, ch'è la propia caratteristica de' princìpi; se ne spiegano le particolari guise del loro nascimento, che si appella «natura», ch'è la nota propissima della scienza; e finalmente si confermano con l'eterne propietà che conservano, le quali non posson altronde esser nate che da tali e non altri nascimenti, in tali tempi, luoghi e con tali guise, o sia da tali nature, come se ne sono proposte sopra due Degnità. Per andar a truovare tali nature di cose umane procede questa Scienza con una severa analisi de' pensieri umani d'intorno all'umane necessità o utilità della vita socievole, che sono i due fonti perenni del diritto natural delle genti, come pure nelle Degnità si è avvisato. Onde, per quest'altro principale suo aspetto, questa Scienza è una storia dell'umane idee, sulla quale sembra dover procedere la metafisica della mente umana; la qual regina delle scienze, per la Degnità che «le scienze debbono incominciare da che n'incominciò la materia», cominciò d'allora ch'i primi uomini cominciarono a umanamente pensare, non già da quando i filosofi cominciaron a riflettere sopra l'umane idee (come ultimamente n'è uscito alla luce un libricciuolo erudito e dotto col titolo Historia de ideis, che si conduce fin all'ultime controversie che ne hanno avuto i due primi ingegni di questa età, il Leibnizio e 'l Newtone). E per determinar i tempi e i luoghi a sì fatta istoria, cioè quando e dove essi umani pensieri nacquero, e sì accertarla con due sue propie cronologia e geografia, per dir così, metafisiche, questa Scienza usa un'arte critica, pur metafisica, sopra gli autori d'esse medesime nazioni, tralle quali debbono correre assai più di mille anni per potervi provenir gli scrittori, sopra i quali la critica filologica si è finor occupata. E 'l criterio di che si serve, per una Degnità sovraposta, è quello, insegnato dalla provvedenza divina, comune a tutte le nazioni; ch'è il senso comune d'esso gener umano, determinato dalla necessaria convenevolezza delle medesime umane cose, che fa tutta la bellezza di questo mondo civile. Quindi regna in questa Scienza questa spezie di pruove: che tali dovettero, debbono e dovranno andare le cose delle nazioni quali da questa Scienza son ragionate, posti tali ordini dalla provvedenza divina, fusse anco che dall'eternità nascessero di tempo in tempo mondi infiniti; lo che certamente è falso di fatto. Onde questa Scienza viene nello stesso tempo a descrivere una storia ideal eterna, sopra la quale corron in tempo le storie di tutte le nazioni ne' loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini. Anzi ci avvanziamo ad affermare ch'in tanto chi medita questa Scienza egli narri a se stesso questa storia ideal eterna, in quanto - essendo questo mondo di nazioni stato certamente fatto dagli uomini (ch'è 'l primo principio indubitato che se n'è posto qui sopra), e perciò dovendosene ritruovare la guisa dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana - egli, in quella pruova «dovette, deve, dovrà», esso stesso sel faccia; perché, ove avvenga che chi fa le cose esso stesso le narri, ivi non può essere più certa l'istoria. Così questa Scienza procede appunto come la geometria, che, mentre sopra i suoi elementi il costruisce o 'l contempla, essa stessa si faccia il mondo delle grandezze; ma con tanto più di realità quanta più ne hanno gli ordini d'intorno alle faccende degli uomini, che non ne hanno punti, linee, superficie e figure. E questo istesso è argomento che tali pruove sieno d'una spezie divina e che debbano, o leggitore, arrecarti un divin piacere, perocché in Dio il conoscer e 'l fare è una medesima cosa. Oltracciò, quando, per le diffinizioni del vero e del certo sopra proposte, gli uomini per lunga età non poteron esser capaci del vero e della ragione, ch'è 'l fonte della giustizia interna, della quale si soddisfano gl'intelletti - la qual fu praticata dagli ebrei, ch'illuminati dal vero Dio erano proibiti dalla di lui divina legge di far anco pensieri meno che giusti, de' quali niuno di tutti i legislatori mortali mai s'impacciò (perché gli ebrei credevano in un Dio tutto mente che spia nel cuor degli uomini, e i gentili credevano negli dèi composti di corpi e mente che nol potevano); e fu poi ragionata da' filosofi, i quali non provennero che duemila anni dopo essersi le loro nazioni fondate; - frattanto si governassero col certo dell'autorità, cioè con lo stesso criterio ch'usa questa critica metafisica, il qual è 'l senso comune d'esso gener umano (di cui si è la diffinizione sopra, negli Elementi, proposta), sopra il quale riposano le coscienze di tutte le nazioni. Talché, per quest'altro principale riguardo, questa Scienza vien ad essere una filosofia dell'autorità, ch'è 'l fonte della «giustizia esterna» che dicono i morali teologi. Della qual autorità dovevano tener conto gli tre principi della dottrina d'intorno al diritto natural delle genti, e non di quella tratta da' luoghi degli scrittori; della quale niuna contezza aver poterono gli scrittori, perché tal autorità regnò tralle nazioni assai più di mille anni innanzi di potervi provenir gli scrittori. Onde Grozio, più degli altri due come dotto così erudito, quasi in ogni particolar materia di tal dottrina combatte i romani giureconsulti; ma i colpi tutti cadono a vuoto, perché quelli stabilirono i loro princìpi del giusto sopra il certo dell'autorità del gener umano, non sopra l'autorità degli addottrinati. Queste sono le pruove filosofiche ch'userà questa Scienza, e 'n conseguenza quelle che per conseguirla son assolutamente necessarie. Le filologiche vi debbono tenere l'ultimo luogo, le quali tutte a questi generi si riducono. Primo, che sulle cose le quali si meditano vi convengono le nostre mitologie, non isforzate e contorte, ma diritte, facili e naturali, che si vedranno essere istorie civili de' primi popoli, i quali si truovano dappertutto essere stati naturalmente poeti. Secondo, vi convengono le frasi eroiche, che vi si spiegano con tutta la verità de' sentimenti e tutta la propietà dell'espressioni. Terzo, che vi convengono l'etimologie delle lingue natie, che ne narrano le storie delle cose ch'esse voci significano, incominciando dalla propietà delle lor origini e prosieguendone i naturali progressi de' lor trasporti secondo l'ordine dell'idee, sul quale dee procedere la storia delle lingue, come nelle Degnità sta premesso. Quarto, vi si spiega il vocabolario mentale delle cose umane socievoli, sentite le stesse in sostanza da tutte le nazioni e per le diverse modificazioni spiegate con lingue diversamente, quale si è nelle Degnità divisato. Quinto, vi si vaglia dal falso il vero in tutto ciò che per lungo tratto di secoli ce ne hanno custodito le volgari tradizioni, le quali, perocché sonosi per sì lunga età e da intieri popoli custodite, per una Degnità sopraposta debbon avere avuto un pubblico fondamento di vero. Sesto, i grandi frantumi dell'antichità, inutili finor alla scienza perché erano giaciuti squallidi, tronchi e slogati, arrecano de' grandi lumi, tersi, composti ed allogati ne' luoghi loro. Settimo ed ultimo, sopra tutte queste cose, come loro necessarie cagioni, vi reggono tutti gli effetti i quali ci narra la storia certa. Le quali pruove filologiche servono per farci vedere di fatto le cose meditate in idea d'intorno a questo mondo di nazioni, secondo il metodo di filosofare del Verulamio, ch'è «cogitare videre»; ond'è che, per le pruove filosofiche innanzi fatte, le filologiche, le quali succedono appresso, vengono nello stesso tempo e ad aver confermata l'autorità loro con la ragione ed a confermare la ragione con la loro autorità. Conchiudiamo tutto ciò che generalmente si è divisato d'intorno allo stabilimento de' princìpi di questa Scienza: che, poiché i di lei princìpi sono provvedenza divina, moderazione di passioni co' matrimoni e immortalità dell'anime umane con le seppolture; e 'l criterio che usa è che ciò che si sente giusto da tutti o la maggior parte degli uomini debba essere la regola della vita socievole (ne' quali princìpi e criterio conviene la sapienza volgare di tutti i legislatori e la sapienza riposta degli più riputati filosofi): questi deon esser i confini dell'umana ragione. E chiunque se ne voglia trar fuori, egli veda di non trarsi fuori da tutta l'umanità. LIBRO SECONDO DELLA SAPIENZA POETICA. Per ciò che sopra si è detto nelle Degnità: che tutte le storie delle nazioni gentili hanno avuto favolosi princìpi, e che appo i greci (da' quali abbiamo tutto ciò ch'abbiamo dell'antichità gentilesche) i primi sappienti furon i poeti teologi, e la natura delle cose che sono mai nate o fatte porta che sieno rozze le lor origini; tali e non altrimenti si deono stimare quelle della sapienza poetica. E la somma e sovrana stima con la qual è fin a noi pervenuta, ella è nata dalle due borie nelle Degnità divisate, una delle nazioni, l'altra de' dotti, e più che da quella delle nazioni ella è nata dalla boria de' dotti, per la quale come Manetone, sommo pontefice egizio, portò tutta la storia favolosa egiziaca ad una sublime teologia naturale, come dicemmo nelle Degnità, così i filosofi greci portarono la loro alla filosofia. Né già solamente per ciò - perché, come sopra pur vedemmo nelle Degnità, erano loro entrambe cotal'istorie pervenute laidissime, - ma per queste cinque altre cagioni. La prima fu la riverenza della religione, perché con le favole furono le gentili nazioni dappertutto sulla religione fondate. La seconda fu il grande effetto indi seguìto di questo mondo civile, sì sappientemente ordinato che non poté esser effetto che d'una sovraumana sapienza. La terza furono l'occasioni che, come qui dentro vedremo, esse favole, assistite dalla venerazione della religione e dal credito di tanta sapienza, dieder a' filosofi di porsi in ricerca e di meditare altissime cose in filosofia. La quarta furono le comodità, come pur qui dentro farem conoscere, di spiegar essi le sublimi da lor meditate cose in filosofia con l'espressioni che loro n'avevano per ventura lasciato i poeti. La quinta ed ultima, che val per tutte, per appruovar essi filosofi le cose da essolor meditate con l'autorità della religione e con la sapienza de' poeti. Delle quali cinque cagioni le due prime contengono le lodi, l'ultima le testimonianze, che, dentro i lor errori medesimi, dissero i filosofi della sapienza divina, la quale ordinò questo mondo di nazioni; la terza e quarta sono inganni permessi dalla divina provvedenza ond'essi provenisser filosofi per intenderla e riconoscerla, qual ella è veramente, attributo del vero Dio. E per tutto questo libro si mostrerà che quanto prima avevano sentito d'intorno alla sapienza volgare i poeti, tanto intesero poi d'intorno alla sapienza riposta i filosofi; talché si possono quelli dire essere stati il senso e questi l'intelletto del gener umano; di cui anco generalmente sia vero quello da Aristotile detto particolarmente di ciascun uomo: «Nihil est in intellectu quin prius fuerit in sensu», cioè che la mente umana non intenda cosa della quale non abbia avuto alcun motivo (ch'i metafisici d'oggi dicono «occasione») da' sensi, la quale allora usa l'intelletto quando, da cosa che sente, raccoglie cosa che non cade sotto de' sensi; lo che propiamente a' latini vuol dir «intelligere». 1. DELLA SAPIENZA GENERALMENTE. Ora, innanzi di ragionare della sapienza poetica, ci fa mestieri di vedere generalmente che cosa sia essa sapienza. Ella è sapienza la facultà che comanda a tutte le discipline, dalle quali s'apprendono tutte le scienze e l'arti che compiono l'umanità. Platone diffinisce la sapienza esser la perfezionatrice dell'uomo. Egli è l'uomo non altro, nel propio esser d'uomo, che mente ed animo, o vogliam dire intelletto e volontà. La sapienza dee compier all'uomo entrambe queste due parti, e la seconda in séguito della prima, acciocché dalla mente il luminata con la cognizione delle cose altissime l'animo s'induca all'elezione delle cose ottime. Le cose altissime in quest'universo son quelle che s'intendono e si ragionan di Dio; le cose ottime son quelle che riguardano il bene di tutto il gener umano: quelle «divine» e queste si dicono «umane cose». Adunque la vera sapienza deve la cognizione delle divine cose insegnare per condurre a sommo bene le cose umane. Crediamo che Marco Terenzio Varrone, il quale meritò il titolo di «dottissimo de' romani», su questa pianta avesse innalzata la sua grand'opera Rerum divinarum et humanarum, della quale l'ingiuria del tempo ci fa sentire la gran mancanza. Noi in questo libro ne trattiamo secondo la debolezza della nostra dottrina e scarsezza della nostra erudizione. La sapienza tra' gentili cominciò dalla musa, la qual è da Omero in un luogo d'oro dell'Odissea diffinita «scienza del bene e del male», la qual poi fu detta «divinazione»; sul cui natural divieto, perché di cosa naturalmente niegata agli uomini, Iddio fondò la vera religione agli ebrei, onde uscì la nostra de' cristiani, come se n'è proposta una Degnità. Sicché la musa dovett'essere propiamente dapprima la scienza in divinità d'auspìci; la quale, come innanzi nelle Degnità si è detto (e più, appresso, se ne dirà), fu la sapienza volgare di tutte le nazioni di contemplare Dio per l'attributo della sua provvedenza, per la quale, da «divinari», la di lui essenza appellossi divinità. E di tal sapienza vedremo appresso essere stati sappienti i poeti teologi, i quali certamente fondarono l'umanità della Grecia; onde restò a' latini dirsi professori di sapienza gli astrologhi giudiziari. Quindi sapienza fu poi detta d'uomini chiari per avvisi utili dati al gener umano, onde furono detti i sette sappienti della Grecia. Appresso sapienza s'avanzò a dirsi d'uomini ch'a bene de' popoli e delle nazioni saggiamente ordinano repubbliche e le governano. Dappoi s'innoltrò la voce «sapienza» a significare la scienza delle divine cose naturali, qual è la metafisica, che perciò si chiama scienza divina, la quale, andando a conoscere la mente dell'uomo in Dio, per ciò che riconosce Dio fonte d'ogni vero, dee riconoscerlo regolator d'ogni bene; talché la metafisica dee essenzialmente adoperarsi a bene del gener umano, il quale si conserva sopra questo senso universale: che sia, la divinità, provvedente; onde forse Platone, che la dimostra, meritò il titolo di divino, e perciò quella che niega a Dio un tale e tanto attributo, anziché «sapienza», dee «stoltezza» appellarsi. Finalmente «sapienza» tra gli ebrei, e quindi tra noi cristiani, fu detta la scienza di cose eterne rivelate da Dio, la quale appo i toscani, per l'aspetto di scienza del vero bene e del vero male, forse funne detta, col suo primo vocabolo, «scienza in divinità». Quindi si deon fare tre spezie di teologia, con più di verità di quelle che ne fece Varrone: una, teologia poetica, la qual fu de' poeti teologi, che fu la teologia civile di tutte le nazioni gentili; un'altra, teologia naturale, ch'è quella de' metafisici; e 'n luogo della terza che ne pose Varrone, ch'è la poetica, la qual appo i gentili fu la stessa che la civile (la qual Varrone distinse dalla civile e dalla naturale, perocché, entrato nel volgare comun errore che dentro le favole si contenessero alti misteri di sublime filosofia, la credette mescolata dell'una dell'altra), poniamo per terza spezie la nostra teologia cristiana, mescolata di civile e di naturale e di altissima teologia rivelata, e tutte e tre tra loro congionte dalla contemplazione della provvedenza divina. La quale così condusse le cose umane che, dalla teologia poetica che le regolava a certi segni sensibili, creduti divini avvisi mandati agli uomini dagli dèi, per mezzo della teologia naturale, che dimostra la provvedenza per eterne ragioni che non cadono sotto i sensi, le nazioni si disponessero a ricevere la teologia rivelata in forza d'una fede sopranaturale, nonché a' sensi, superiore ad esse umane ragioni. 2. PROPOSIZIONE E PARTIZIONE DELLA SAPIENZA POETICA. Ma, perché la metafisica è la scienza sublime, che ripartisce i certi loro subbietti a tutte le scienze che si dicono «subalterne»; e la sapienza degli antichi fu quella de' poeti teologi, i quali senza contrasto furono i primi sappienti del gentilesimo, come si è nelle Degnità stabilito; e le origini delle cose tutte debbono per natura esser rozze: dobbiamo per tutto ciò dar incominciamento alla sapienza poetica da una rozza lor metafisica, dalla quale, come da un tronco, si diramino per un ramo la logica, la morale, l'iconomica e la politica, tutte poetiche; e per un altro ramo, tutte eziandio poetiche, la fisica, la qual sia stata madre della loro cosmografia, e quindi dell'astronomia, che ne dia accertate le due sue figliuole, che sono cronologia e geografia. E con ischiarite e distinte guise farem vedere come i fondatori dell'umanità gentilesca con la loro teologia naturale (o sia metafisica) s'immaginarono gli dèi, con la loro logica si truovarono le lingue, con la morale si generarono gli eroi, con l'iconomica si fondarono le famiglie, con la politica le città; come con la loro fisica si stabilirono i princìpi delle cose tutte divini, con la fisica particolare dell'uomo in un certo modo generarono se medesimi, con la loro cosmografia si finsero un lor universo tutto di dèi, con l'astronomia portarono da terra in cielo i pianeti e le costellazioni, con la cronologia diedero principio ai tempi, e con la geografia i greci, per cagion di esemplo, si descrissero il mondo dentro la loro Grecia. Di tal maniera questa Scienza vien ad essere ad un fiato una storia dell'idee, costumi e fatti del gener umano. E da tutti e tre si vedranno uscir i princìpi della storia della natura umana, e questi esser i princìpi della storia universale, la quale sembra ancor mancare ne' suoi princìpi. 3. DEL DILUVIO UNIVERSALE E DE' GIGANTI. Gli autori dell'umanità gentilesca dovetter essere uomini delle razze di Cam, che molto prestamente, di Giafet, che alquanto dopo, e finalmente di Sem, ch'altri dopo altri tratto tratto rinnunziarono alla vera religione del loro comun padre Noè, la qual sola nello stato delle famiglie poteva tenergli in umana società con la società de' matrimoni, e quindi di esse famiglie medesime. E perciò dovetter andar a dissolver i matrimoni e disperdere le famiglie coi concubiti incerti; e, con un ferino error divagando per la gran selva della terra - quella di Cam per l'Asia meridionale, per l'Egitto e 'l rimanente dell'Affrica; quella di Giafet per l'Asia settentrionale, ch'è la Scizia, e di là per l'Europa; quella di Sem per tutta l'Asia di mezzo ad esso Oriente, - per campar dalle fiere, delle quali la gran selva ben doveva abbondare, e per inseguire le donne, ch'in tale stato dovevan esser selvagge, ritrose e schive, e sì sbandati per truovare pascolo ed acqua, le madri abbandonando i loro figliuoli, questi dovettero tratto tratto crescere senza udir voce umana nonché apprender uman costume, onde andarono in uno stato affatto bestiale e ferino. Nel quale le madri, come bestie, dovettero lattare solamente i bambini e lasciargli nudi rotolare dentro le fecce loro propie, ed appena spoppati abbandonargli per sempre; e questi - dovendosi rotolare dentro le loro fecce, le quali co' sali nitri maravigliosamente ingrassano i campi; - e sforzarsi per penetrare la gran selva, che per lo fresco diluvio doveva esser foltissima, per gli quali sforzi dovevano dilatar altri muscoli per tenderne altri, onde i sali nitri in maggior copia s'insinuavano ne' loro corpi; - e senza alcuno timore di dèi, di padri, di maestri, il qual assidera il più rigoglioso dell'età fanciullesca; - dovettero a dismisura ingrandire le carni e l'ossa, e crescere vigorosamente robusti, e sì provenire giganti. Ch'è la ferina educazione, ed in grado più fiera di quella nella quale, come nelle Degnità si è sopra avvisato, Cesare e Tacito rifondono la cagione della gigantesca statura degli antichi germani, onde fu quella de' goti che dice Procopio, e qual oggi è quella de los patacones che si credono presso lo stretto di Magaglianes; d'intorno alla quale han detto tante inezie i filosofi in fisica, raccolte dal Cassanione che scrisse De gigantibus. De' quali giganti si sono truovati e tuttavia si truovano, per lo più sopra i monti (la qual particolarità molto rileva per le cose ch'appresso se n'hanno a dire), i vasti teschi e le ossa d'una sformata grandezza, la quale poi con le volgari tradizioni si alterò all'eccesso, per ciò che a suo luogo diremo. Di giganti così fatti fu sparsa la terra dopo il diluvio, poiché, come gli abbiamo veduti sulla storia favolosa de' greci, così i filologi latini, senza avvedersene, gli ci hanno narrati sulla vecchia storia d'Italia, ov'essi dicono che gli antichissimi popoli dell'Italia detti «aborigini» si dissero autóchthones, che tanto suona quanto «figliuoli della Terra», ch'a' greci e latini significano «nobili». E con tutta propietà i figliuoli della Terra da' greci furon detti «giganti», onde madre de' giganti dalle favole ci è narrata la Terra; ed autóchthones de' greci si devono voltare in latino «indigenæ», che sono propiamente i natii d'una terra, siccome gli dèi natii d'un popolo o nazione si dissero «dii indigetes», quasi «inde geniti», ed oggi più speditamente si direbbono «ingeniti». Perocché la sillaba «de», qui, è una delle ridondanti delle prime lingue de' popoli, le quali qui appresso ragioneremo; come ne giunsero de' latini quella «induperator» per «imperator», e nelle leggi delle XII Tavole quella «endoiacito» per «iniicito» (onde forse rimasero dette «induciæ» gli armistizi, quasi «iniiciæ», perché debbon essere state così dette da «icere foedus», «far patto di pace»). Siccome, al nostro proposito, dagl'«indigeni», ch'or ragioniamo, restarono detti «ingenui», i quali, prima e propiamente, significarono «nobili» (onde restarono dette «artes ingenuæ», «arti nobili»), e finalmente restarono a significar «liberi» (ma pur «artes liberales» restaron a significar «arti nobili»), perché di soli nobili, come appresso sarà dimostro, si composero le prime città, nelle qual'i plebei furono schiavi o abbozzi di schiavi. Gli stessi latini filologi osservano che tutti gli antichi popoli furon detti «aborigini», e la sagra storia ci narra esserne stati intieri popoli, che si dissero emmei e zanzummei, ch'i dotti della lingua santa spiegano «giganti», uno de' quali fu Nebrot; e i giganti innanzi il diluvio la stessa storia sagra gli diffinisce «uomini forti, famosi, potenti del secolo». Perché gli ebrei, con la pulita educazione e col timore di Dio e de' padri, durarono nella giusta statura, nella qual Iddio aveva criato Adamo, e Noè aveva procriato i suoi tre figliuoli; onde, forse in abbominazione di ciò, gli ebrei ebbero tante leggi cerimoniali, che s'appartenevano alla pulizia de' lor corpi. E ne serbarono un gran vestigio i romani nel pubblico sagrifizio con cui credevano purgare la città da tutte le colpe de' cittadini, il quale facevano con l'acqua e 'l fuoco; con le quali due cose essi celebravano altresì le nozze solenni, e nella comunanza delle stesse due cose riponevano di più la cittadinanza, la cui privazione perciò dissero «interdictum aqua et igni»; e tal sagrifizio chiamavano «lustrum», che, perché dentro tanto tempo si ritornava a fare, significò lo spazio di cinque anni, come l'olimpiade a' greci significò quel di quattro; e «lustrum» appo i medesimi significò «covile di fiere», ond'è «lustrari», che significa egualmente e «spiare» e «purgare», che dovette significar dapprima spiare sì fatti lustri e purgargli dalle fiere ivi dentro intanate; e «aqua lustralis» restò detta quella ch'abbisognava ne' sagrifizi. E i romani, con più accorgimento forse che i greci, che incominciarono a noverare gli anni dal fuoco che attaccò Ercole alla selva nemea per seminarvi il frumento (ond'esso, come accennammo nell'Idea dell'opera e appieno vedremo appresso, ne fondò l'olimpiadi); con più accorgimento, diciamo, i romani dall'acqua delle sagre lavande cominciarono a noverare i tempi per lustri, perocché dall'acqua, la cui necessità s'intese prima del fuoco (come, nelle nozze e nell'interdetto, dissero prima «aqua» e poi «igni»), avesse incominciato l'umanità. E questa è l'origine delle sagre lavande che deono precedere a' sagrifizi, il qual costume fu ed è comune di tutte le nazioni. Con tal pulizia de' corpi e col timore degli dèi e de' padri, il quale si troverà, e degli uni e degli altri, essere ne' primi tempi stato spaventosissimo, avvenne che i giganti degradarono alle nostre giuste stature: il perché forse da politéia, ch'appo i greci vuol dir «governo civile», venne a latini detto «politus», «nettato» e «mondo». Tal degradamento dovette durar a farsi fin a' tempi umani delle nazioni, come il dimostravano le smisurate armi de' vecchi eroi, le quali, insieme con l'ossa e i teschi degli antichi giganti, Augusto, al riferire di Suetonio, conservava nel suo museo. Quindi, come si è nelle Degnità divisato, di tutto il primo mondo degli uomini si devono fare due generi: cioè uno d'uomini di giusta corporatura, che furon i soli ebrei, e l'altro di giganti, che furono gli autori delle nazioni gentili; e de' giganti fare due spezie: una de' figliuoli della Terra, ovvero nobili, che diedero il nome all'età de' giganti, con tutta la propietà di tal voce, come si è detto (e la sagra storia gli ci ha diffiniti «uomini forti, famosi, potenti del secolo»); l'altra, meno propiamente detta, degli altri giganti signoreggiati. Il tempo di venire gli autori delle nazioni gentili in sì fatto stato si determina cento anni dal diluvio per la razza di Sem, e duecento per quelle di Giafet e di Cam, come sopra ve n'ha un postulato; e quindi a poco se n'arrecherà la storia fisica, narrataci bensì dalle greche favole, ma finora non avvertita, la quale nello stesso tempo ne darà un'altra storia fisica dell'universale diluvio. I METAFISICA POETICA. 1. DELLA METAFISICA POETICA, CHE NE DÀ L'ORIGINI DELLA POESIA, DELL'IDOLATRIA, DELLA DIVINAZIONE E DE' SAGRIFIZI. Da sì fatti primi uomini, stupidi, insensati ed orribili bestioni, tutti i filosofi e filologi dovevan incominciar a ragionare la sapienza degli antichi gentili, cioè da' giganti, testé presi nella loro propia significazione, de' quali il padre Boulduc, De ecclesia ante Legem, dice che i nomi de' giganti ne' sagri libri significano «uomini pii, venerabili, illustri»; lo che non si può intendere che de' giganti nobili, i quali con la divinazione fondarono le religioni a' gentili e diedero il nome all'età de' giganti. E dovevano incominciarla dalla metafisica, siccome quella che va a prendere le sue pruove non già da fuori ma da dentro le modificazioni della propia mente di chi la medita, dentro le quali, come sopra dicemmo, perché questo mondo di nazioni egli certamente è stato fatto dagli uomini, se ne dovevan andar a truovar i princìpi; e la natura umana, in quanto ella è comune con le bestie, porta seco questa propietà: ch'i sensi sieno le sole vie ond'ella conosce le cose. Adunque la sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilità, dovette incominciare da una metafisica, non ragionata ed astratta qual è questa or degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovett'essere di tai primi uomini, siccome quelli ch'erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie, com'è stato nelle Degnità stabilito. Questa fu la loro propia poesia, la qual in essi fu una facultà loro connaturale (perch'erano di tali sensi e di sì fatte fantasie naturalmente forniti), nata da ignoranza di cagioni, la qual fu loro madre di maraviglia di tutte le cose, che quelli, ignoranti di tutte le cose, fortemente ammiravano, come si è accennato nelle Degnità. Tal poesia incominciò in essi divina, perché nello stesso tempo ch'essi immaginavano le cagioni delle cose, che sentivano ed ammiravano, essere dèi, come nelle Degnità il vedemmo con Lattanzio (ed ora il confermiamo con gli americani, i quali tutte le cose che superano la loro picciola capacità dicono esser dèi; a' quali aggiugniamo i germani antichi, abitatori presso il mar Agghiacciato, de' quali Tacito narra che dicevano d'udire la notte il Sole, che dall'occidente passava per mare nell'oriente, ed affermavano di vedere gli dèi: le quali rozzissime e semplicissime nazioni ci danno ad intendere molto più di questi autori della gentilità, de' quali ora qui si ragiona); nello stesso tempo, diciamo, alle cose ammirate davano l'essere di sostanze dalla propia lor idea, ch'è appunto la natura de' fanciulli, che, come se n'è proposta una degnità, osserviamo prendere tra mani cose inanimate e trastullarsi e favellarvi come fusser, quelle, persone vive. In cotal guisa i primi uomini delle nazioni gentili, come fanciulli del nascente gener umano, quali gli abbiamo pur nelle Degnità divisato, dalla lor idea criavan essi le cose, ma con infinita differenza però dal criare che fa Iddio: perocché Iddio, nel suo purissimo intendimento, conosce e, conoscendole, cria le cose; essi, per la loro robusta ignoranza, il facevano in forza d'una corpolentissima fantasia, e, perch'era corpolentissima, il facevano con una maravigliosa sublimità, tal e tanta che perturbava all'eccesso essi medesimi che fingendo le si criavano, onde furon detti «poeti», che lo stesso in greco suona che «criatori». Che sono gli tre lavori che deve fare la poesia grande, cioè di ritruovare favole sublimi confacenti all'intendimento popolaresco, e che perturbi all'eccesso, per conseguir il fine, ch'ella si ha proposto, d'insegnar il volgo a virtuosamente operare, com'essi l'insegnarono a se medesimi; lo che or ora si mostrerà. E di questa natura di cose umane restò eterna propietà, spiegata con nobil espressione da Tacito: che vanamente gli uomini spaventati «fingunt simul creduntque». Con tali nature si dovettero ritruovar i primi autori dell'umanità gentilesca quando - dugento anni dopo il diluvio per lo resto del mondo e cento nella Mesopotamia, come si è detto in un postulato (perché tanto di tempo v'abbisognò per ridursi la terra nello stato che, disseccata dall'umidore dell'universale innondazione, mandasse esalazioni secche, o sieno materie ignite, nell'aria ad ingenerarvisi i fulmini) - il cielo finalmente folgorò, tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi, come dovett'avvenire per introdursi nell'aria la prima volta un'impressione sì violenta. Quivi pochi giganti, che dovetter esser gli più robusti, ch'erano dispersi per gli boschi posti sull'alture de' monti, siccome le fiere più robuste ivi hanno i loro covili, eglino, spaventati ed attoniti dal grand'effetto di che non sapevano la cagione, alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo. E perché in tal caso la natura della mente umana porta ch'ella attribuisca all'effetto la sua natura, come si è detto nelle Degnità, e la natura loro era, in tale stato, d'uomini tutti robuste forze di corpo, che, urlando, brontolando, spiegavano le loro violentissime passioni; si finsero il cielo esser un gran corpo animato, che per tal aspetto chiamarono Giove, il primo dio delle genti dette «maggiori», che col fischio de' fulmini e col fragore de' tuoni volesse dir loro qualche cosa; e sì incominciarono a celebrare la naturale curiosità, ch'è figliuola dell'ignoranza e madre della scienza, la qual partorisce, nell'aprire che fa della mente dell'uomo, la maraviglia, come tra gli Elementi ella sopra si è diffinita. La qual natura tuttavia dura ostinata nel volgo, ch'ove veggano o una qualche cometa o parelio o altra stravagante cosa in natura, e particolarmente nell'aspetto del cielo, subito danno nella curiosità e, tutti anziosi nella ricerca, domandano che quella tal cosa voglia significare, come se n'è data una Degnità; ed ove ammirano gli stupendi effetti della calamita col ferro, in questa stessa età di menti più scorte e benanco erudite dalle filosofie, escono colà: che la calamita abbia una simpatia occulta col ferro, e sì fanno di tutta la natura un vasto corpo animato che senta passioni ed affetti, conforme nelle Degnità anco si è divisato. Ma, siccome ora (per la natura delle nostre umane menti, troppo ritirata da' sensi nel medesimo volgo con le tante astrazioni di quante sono piene le lingue con tanti vocaboli astratti, e di troppo assottigliata con l'arte dello scrivere, e quasi spiritualezzata con la pratica de' numeri, ché volgarmente sanno di conto e ragione) ci è naturalmente niegato di poter formare la vasta immagine di cotal donna che dicono «Natura simpatetica» (che mentre con la bocca dicono, non hanno nulla in lor mente, perocché la lor mente è dentro il falso, ch'è nulla, né sono soccorsi già dalla fantasia a poterne formare una falsa vastissima immagine); così ora ci è naturalmente niegato di poter entrare nella vasta immaginativa di que' primi uomini, le menti de' quali di nulla erano astratte, di nulla erano assottigliate, di nulla spiritualezzate, perch'erano tutte immerse ne' sensi, tutte rintuzzate dalle passioni, tutte seppellite ne' corpi: onde dicemmo sopra ch'or appena intender si può, affatto immaginar non si può, come pensassero i primi uomini che fondarono l'umanità gentilesca. In tal guisa i primi poeti teologi si finsero la prima favola divina, la più grande di quante mai se ne finsero appresso, cioè Giove, re e padre degli uomini e degli dèi, ed in atto di fulminante; sì popolare, perturbante ed insegnativa, ch'essi stessi, che sel finsero, sel credettero e con ispaventose religioni, le quali appresso si mostreranno, il temettero, il riverirono e l'osservarono. E per quella propietà della mente umana che nelle Degnità udimmo avvertita da Tacito, tali uomini tutto ciò che vedevano, immaginavano ed anco essi stessi facevano, credettero esser Giove, ed a tutto l'universo di cui potevan esser capaci ed a tutte le parti dell'universo diedero l'essere di sostanza animata. Ch'è la storia civile di quel motto: ... Iovis omnia plena, che poi Platone prese per l'etere, che penetra ed empie tutto; ma per gli poeti teologi, come quindi a poco vedremo, Giove non fu più alto della cima de' monti. Quivi i primi uomini, che parlavan per cenni, dalla loro natura credettero i fulmini, i tuoni fussero cenni di Giove (onde poi da «nuo», «cennare» fu detta «numen» la «divina volontà», con una troppo sublime idea e degna da spiegare la maestà divina), che Giove comandasse co' cenni, e tali cenni fussero parole reali, e che la natura fusse la lingua di Giove; la scienza della qual lingua credettero universalmente le genti essere la divinazione, la qual da' greci ne fu detta «teologia», che vuol dire «scienza del parlar degli dèi». Così venne a Giove il temuto regno del fulmine, per lo qual egli è 'l re degli uomini e degli dèi; e vennero i due titoli: uno di «ottimo», in significato di «fortissimo» (come a rovescio appo i primi latini «fortus» significò ciò che agli ultimi significa «bonus»), e l'altro di «massimo», dal di lui vasto corpo quant'egli è 'l cielo. E da questo primo gran beneficio fatto al gener umano vennegli il titolo di «sotere» o di «salvadore», perché non gli fulminò (ch'è il primo degli tre princìpi ch'abbiamo preso di questa Scienza); e vennegli quel di «statore» o di «fermatore», perché fermò que' pochi giganti dal loro ferino divagamento, onde poi divennero i principi delle genti. Lo che i filologi latini troppo ristrinsero al fatto: perocché Giove, invocato da Romolo, avesse fermato i romani che nella battaglia co' sabini si erano messi in fuga. Quindi tanti Giovi, che fanno maraviglia a' filologi, perché ogni nazione gentile n'ebbe uno (de' quali tutti, gli egizi, come si è sopra detto nelle Degnità, per la loro boria dicevano il loro Giove Ammone essere lo più antico), sono tante istorie fisiche conservateci dalle favole, che dimostravano essere stato universale il diluvio, come il promettemmo nelle Degnità. Così, per ciò che si è detto nelle Degnità d'intorno a' princìpi de' caratteri poetici, Giove nacque in poesia naturalmente carattere divino, ovvero un universale fantastico, a cui riducevano tutte le cose degli auspìci tutte le antiche nazioni gentili, che tutte perciò dovetter essere per natura poetiche; che incominciarono la sapienza poetica da questa poetica metafisica di contemplare Dio per l'attributo della sua provvedenza; e se ne dissero «poeti teologi», ovvero sappienti che s'intendevano del parlar degli dèi conceputo con gli auspìci di Giove, e ne furono detti propiamente «divini», in senso d'«indovinatori», da «divinari», che propiamente è «indovinare» o «predire»: la quale scienza fu detta «musa», diffinitaci sopra da Omero essere la scienza del bene e del male, cioè la divinazione, sul cui divieto ordinò Iddio ad Adamo la sua vera religione, come nelle Degnità si è pur detto. Dalla qual mistica teologia i poeti da' greci furono chiamati «mystæ», che Orazio con iscienza trasporta «interpetri degli dèi», che spiegavano i divini misteri degli auspìci e degli oracoli: nella quale scienza ogni nazione gentile ebbe una sua sibilla, delle quali ce ne sono mentovate pur dodici; e le sibille e gli oracoli sono le cose più antiche della gentilità. Così con le cose tutte qui ragionate accorda quel d'Eusebio riferito nelle Degnità, ove ragiona de' princìpi dell'idolatria: che la prima gente, semplice e rozza, si finse gli dèi «ob terrorem præsentis potentiæ». Così il timore fu quello che finse gli dèi nel mondo; ma, come si avvisò nelle Degnità, non fatto da altri ad altri uomini, ma da essi a se stessi. Con tal principio dell'idolatria si è dimostrato altresì il principio della divinazione, che nacquero al mondo ad un parto; a' quali due princìpi va di séguito quello de' sagrifizi, ch'essi facevano per «proccurare» o sia ben intender gli auspìci. Tal generazione della poesia ci è finalmente confermata da questa sua eterna propietà: che la di lei propia materia è l'impossibile credibile, quanto egli è impossibile ch'i corpi sieno menti (e fu creduto che 'l cielo tonante si fusse Giove); onde i poeti non altrove maggiormente si esercitano che nel cantare le maraviglie fatte dalle maghe per opera d'incantesimi: lo che è da rifondersi in un senso nascosto c'hanno le nazioni dell'onnipotenza di Dio, dal quale nasce quell'altro per lo quale tutti i popoli sono naturalmente portati a far infiniti onori alla divinità. E in cotal guisa i poeti fondarono le religioni a' gentili. E per tutte le finora qui ragionate cose si rovescia tutto ciò che dell'origine della poesia si è detto prima da Platone, poi da Aristotile, infin a' nostri Patrizi, Scaligeri, Castelvetri; ritruovatosi che per difetto d'umano raziocinio nacque la poesia tanto sublime che per filosofie le quali vennero appresso, per arti e poetiche e critiche, anzi per queste istesse non provenne altra pari nonché maggiore: ond'è il privilegio per lo qual Omero è 'l principe di tutti i sublimi poeti, che sono gli eroici, non meno per lo merito che per l'età. Per la quale discoverta de' princìpi della poesia si è dileguata l'oppenione della sapienza innarrivabile degli antichi, cotanto disiderata di scuoprirsi da Platone infin a Bacone da Verulamio, De sapientia veterum, la quale fu sapienza volgare di legislatori che fondarono il gener umano, non già sapienza riposta di sommi e rari filosofi. Onde, come si è incominciato quinci a fare da Giove, si truoveranno tanto importuni tutti i sensi mistici d'altissima filosofia dati dai dotti alle greche favole ed a' geroglifici egizi, quanto naturali usciranno i sensi storici che quelle e questi naturalmente dovevano contenere. 2. COROLLARI D'INTORNO AGLI ASPETTI PRINCIPALI DI QUESTA SCIENZA. I Dal detto fino qui si raccoglie che la provvedenza divina, appresa per quel senso umano che potevano sentire uomini crudi, selvaggi e fieri, che ne' disperati soccorsi della natura anco essi disiderano una cosa alla natura superiore che gli salvasse (ch'è 'l primo principio sopra di cui noi sopra stabilimmo il metodo di questa Scienza), permise loro d'entrar nell'inganno di temere la falsa divinità di Giove, perché poteva fulminargli; e sì, dentro i nembi di quelle prime tempeste e al barlume di que' lampi, videro questa gran verità: che la provvedenza divina sovraintenda alla salvezza di tutto il gener umano. Talché quindi questa scienza incomincia, per tal principal aspetto, ad essere una teologia civile ragionata della provvedenza, la quale cominciò dalla sapienza volgare de' legislatori che fondarono le nazioni con contemplare Dio per l'attributo di provvedente, e si compiè con la sapienza riposta de' filosofi che 'l dimostrano con ragioni nella loro teologia naturale. II Quindi incomincia ancora una filosofia dell'autorità, ch'è altro principal aspetto c'ha questa Scienza, prendendo la voce «autorità» nel primo suo significato di «propietà», nel qual senso sempre è usata questa voce dalla legge delle XII Tavole; onde restaron «autori» detti in civil ragione romana coloro da' quali abbiamo cagion di dominio, che tanto certamente viene da autós, «proprius» o «suus ipsius», che molti eruditi scrivono «autor» e «autoritas» non aspirati. E l'autorità incominciò primieramente divina, con la quale la divinità appropiò a sé i pochi giganti ch'abbiamo detti, con propiamente atterrargli nel fondo e ne' nascondigli delle grotte per sotto i monti; che sono l'anella di ferro con le quali restarono i giganti, per lo spavento del cielo e di Giove, incatenati alle terre dov'essi, al punto del primo fulminare del cielo, dispersi per sopra i monti, si ritruovavano: quali furono Tizio e Prometeo, incatenati ad un'alta rupe, a' quali divorava il cuore un'aquila, cioè la religione degli auspìci di Giove; siccome gli «resi immobili per lo spavento» restarono con frase eroica detti a' latini «terrore defixi», come appunto i pittori gli dipingono di mani e piedi incatenati con tali anella sotto de' monti. Dalle quali anella si formò la gran catena, nella quale Dionigi Longino ammira la maggiore sublimità di tutte le favole omeriche: la qual catena Giove, per appruovare ch'esso è 'l re degli uomini e degli dèi, propone che, se da una parte vi si attenessero tutti gli dèi e tutti gli uomini, esso solo dall'altra parte opposta gli strascinerebbesi tutti dietro; la qual catena se gli stoici vogliono che significhi la serie eterna delle cagioni con la quale il lor fato tenga cinto e legato il mondo, vedano ch'essi non vi restino avvolti, perché lo strascinamento degli uomini e degli dèi con sì fatta catena egli pende dall'arbitrio di esso Giove, ed essi vogliono Giove soggetto al fato. Sì fatta autorità divina portò di séguito l'autorità umana, con tutta la sua eleganza filosofica di propietà d'umana natura, che non può essere tolta all'uomo nemmen da Dio senza distruggerlo: siccome in tal significato Terenzio disse: «voluptates proprias deorum», che la felicità di Dio non dipende da altri; ed Orazio disse «propriam virtutis laurum», che 'l trionfo della virtù non può togliersi dall'invidia; e Cesare disse «propriam victoriam», che con errore Dionigi Petavio nota non esser detto latino, perché, pur con troppa latina eleganza, significa una vittoria che 'l nimico non poteva togliergli dalle mani. Cotal autorità è il libero uso della volontà, essendo l'intelletto una potenza passiva soggetta alla verità: perché gli uomini da questo primo punto di tutte le cose umane incominciaron a celebrare la libertà dell'umano arbitrio di tener in freno i moti de' corpi, per o quetargli affatto o dar loro migliore direzione (ch'è 'l conato propio degli agenti liberi, come abbiam detto sopra nel Metodo); onde que' giganti si ristettero dal vezzo bestiale d'andar vagando per la gran selva della terra e s'avvezzarono ad un costume, tutto contrario, di stare nascosti e fermi lunga età dentro le loro grotte. A sì fatta autorità di natura umana seguì l'autorità di diritto naturale: che, con l'occupare e stare lungo tempo fermi nelle terre dove si erano nel tempo de' primi fulmini per fortuna truovati, ne divennero signori per l'occupazione, con una lunga possessione, ch'è 'l fonte di tutti i domìni del mondo. Onde questi sono que' pauci quos æquus amavit Iupiter, che poi i filosofi trasportarono a coloro c'han sortito da Dio indoli buone per le scienze e per le virtù: ma il senso istorico di tal motto è che tra que' nascondigli, in que' fondi essi divennero i principi delle genti dette «maggiori», delle quali Giove si novera il primo dio, come si è nelle Degnità divisato; le quali, come si mostrerà appresso, furono case nobili antiche, diramate in molte famiglie, delle quali si composero i primi regni e le prime città. Di che restarono quelle bellissime frasi eroiche a' latini: «condere gentes», «condere regna», «condere urbes»; «fundare gentes», «fundare regna», «fundare urbes». Questa filosofia dell'autorità va di séguito alla teologia civile ragionata della provvedenza, perché, per le pruove teologiche di quella, questa, con le sue filosofiche, rischiara e distingue le filologiche (le quali tre spezie di pruove si sono tutte noverate nel Metodo), e d'intorno alle cose dell'oscurissima antichità delle nazioni riduce a certezza l'umano arbitrio, ch'è di sua natura incertissimo, come nelle Degnità si è avvisato. Ch'è tanto dire quanto riduce la filologia in forma di scienza. III Terzo principal aspetto è una storia d'umane idee, che, come testé si è veduto, incominciarono da idee divine con la contemplazione del cielo fatta con gli occhi del corpo: siccome nella scienza augurale si disse da' romani «contemplari» l'osservare le parti del cielo donde venissero gli augùri o si osservassero gli auspìci, le quali regioni, descritte dagli àuguri co' loro litui, si dicevano «templa coeli», onde dovettero venir a' greci i primi theorémata e mathémata, «divine o sublimi cose da contemplarsi», che terminarono nelle cose astratte metafisiche e mattematiche. Ch'è la storia civile di quel motto: A Iove principium musæ; siccome da' fulmini di Giove testé abbiam veduto incominciare la prima musa, che Omero ci diffinì «scienza del bene e del male»; dove poi venne troppo agiato a' filosofi d'intrudervi quel placito: che «'l principio della sapienza sia la pietà». Talché la prima musa dovett'esser Urania, contemplatrice del cielo affin di prender gli augùri, che poi passò a significare l'astronomia, come si vedrà appresso. E come sopra si è partita la metafisica poetica in tutte le scienze subalterne, dalla stessa natura della lor madre, poetiche; così questa storia d'idee ne darà le rozze origini così delle scienze pratiche che costuman le nazioni, come delle scienze specolative le quali, ora còlte, son celebrate da' dotti. IV Quarto aspetto è una critica filosofica, la qual nasce dalla istoria dell'idee anzidetta; e tal critica giudicherà il vero sopra gli autori delle nazioni medesime, nelle quali dee correre da assai più di mille anni per potervi provenir gli scrittori, che sono il subbietto di questa critica filologica. Tal critica filosofica, quindi incominciando da Giove, ne darà una teogonia naturale, o sia generazione degli dèi fatta naturalmente nelle menti degli autori della gentilità, che furono per natura poeti teologi; e i dodici dèi delle genti dette «maggiori», l'idee de' quali da costoro si fantasticarono di tempo in tempo a certe loro umane necessità o utilità, si stabiliscono per dodici minute epoche, alle quali si ridurranno i tempi ne' quali nacquero le favole. Onde tal teogonia naturale ne darà una cronologia ragionata della storia poetica almeno un novecento anni innanzi di avere, dopo il tempo eroico, i suoi primi incominciamenti la storia volgare. V Il quinto aspetto è una storia ideal eterna sopra la quale corrano in tempo le storie di tutte le nazioni, ch'ovunque da tempi selvaggi, feroci e fieri cominciano gli uomini ad addimesticarsi con le religioni, esse cominciano, procedono e finiscono con quelli gradi meditati in questo libro secondo, rincontrati nel libro quarto, ove tratteremo del corso che fanno le nazioni, e col ricorso delle cose umane, nel libro quinto. VI Il sesto è un sistema del diritto natural delle genti, dal quale col cominciar delle genti, dalle quali ne incomincia la materia per una delle degnità sopraposta, dovevano cominciar la dottrina ch'essi trattano gli tre suoi principi: Ugone Grozio, Giovanni Seldeno e Samuello Pufendorfio. I quali in ciò tutti e tre errarrono di concerto: incominciandola dalla metà in giù, cioè dagli ultimi tempi delle nazioni ingentillte (e quindi degli uomini illuminati dalla ragion naturale tutta spiegata), dalle quali son usciti i filosofi, che s'alzarono a meditare una perfetta idea di giustizia. Primieramente Grozio, il quale, per lo stesso grand'affetto che porta alla verità, prescinde dalla provvedenza divina e professa che 'l suo sistema regga precisa anco ogni cognizione di Dio. Onde tutte le riprensioni, ch'in un gran numero di materie fa contro i giureconsulti romani, loro non appartengono punto, siccome a quelli i quali, avendone posto per principio la provvedenza divina, intesero ragionare del diritto natural delle genti, non già di quello de' filosofi e de' morali teologi. Dipoi il Seldeno la suppone, senza punto avvertire all'inospitalità de' primi popoli, né alla divisione che 'l popolo di Dio faceva, di tutto il mondo allor delle nazioni, tra ebrei e genti; - né a quello: che, perché gli ebrei avevano perduto di vista il loro diritto naturale nella schiavitù dell'Egitto, dovett'esso Dio riordinarlo loro con la Legge la qual diede a Mosè sopra il Sina; - né a quell'altro: che Iddio nella sua Legge vieta anco i pensieri meno che giusti, de' quali niuno de' legislatori mortali mai s'impacciò; - oltre all'origini bestiali, che qui si ragionano, di tutte le nazioni gentili. E se pretende d'averlo gli ebrei a' gentili insegnato appresso, gli riesce impossibile a poterlo pruovare, per la confessione magnanima di Giuseffo assistita dalla grave riflessione di Lattanzio sopra arrecata, e per la nimistà che pur sopra osservammo aver avuto gli ebrei con le genti, la qual ancor ora conservano dissipati tra tutte le nazioni. E finalmente Pufendorfio, che l'incomincia con un'ipotesi epicurea, che pone l'uomo gittato in questo mondo senza niun aiuto e cura di Dio. Di che essendone stato ripreso, quantunque con una particolar dissertazione se ne giustifichi, però senza il primo principio della provvedenza non può affatto aprir bocca a ragionare di diritto, come l'udimmo da Cicerone dirsi ad Attico, il qual era epicureo, dove gli ragionò delle leggi. Per tutto ciò, noi da questo primo antichissimo punto di tutti i tempi incominciamo a ragionare di diritto, detto da' latini «ius», contratto dall'antico «Ious»: dal momento che nacque in mente a' principi delle genti l'idea di Giove. Nello che a maraviglia co' latini convengono i greci, i quali per bella nostra ventura osserva Platone nel Cratilo che dapprima il gius dissero diaión, che tanto suona quanto «discurrens» o «permanens» (la qual origine filosofica vi è intrusa dallo stesso Platone, il quale con mitologia erudita prende Giove per l'etere che penetra e scorre tutto; ma l'origine istorica viene da esso Giove, che pur da' greci fu detto Diós, onde vennero a' latini «sub dio» egualmente e «sub Iove» per dir «a ciel aperto»), e che poi per leggiadria di favella avessero profferito díkaion. Laonde incominciamo a ragionare del diritto, che prima nacque divino, con la propietà con cui ne parlò la divinazione o sia scienza degli auspìci di Giove, che furono le cose divine con le quali le genti regolavano tutte le cose umane, ch'entrambe compiono alla giurisprudenza il di lei adeguato subbietto. E sì incominciamo a ragionare del diritto naturale dall'idea di essa provvedenza divina, con la quale nacque congenita l'idea di diritto; il quale, come dianzi se n'è meditata la guisa, si cominciò naturalmente ad osservare da' principi delle genti propiamente dette e della spezie più antica, le quali si appellarono «genti maggiori», delle quali Giove fu il primo dio. VII Il settimo ed ultimo de' principali aspetti c'ha questa Scienza è di princìpi della storia universale. La quale da questo primo momento di tutte le cose umane della gentilità incomincia con la prima età del mondo che dicevano gli egizi scorsa loro dinanzi, che fu l'età degli dèi: nella quale comincia il Cielo a regnar in terra e far agli uomini de' grandi benefizi, come si ha nelle Degnità; comincia l'età dell'oro de' greci, nella quale gli dèi praticavano in terra con gli uomini, come qui abbiamo veduto aver incominciato a fare Giove. Così i greci poeti da questa tal prima età del mondo ci hanno nelle loro favole fedelmente narrato l'universale diluvio e i giganti essere stati in natura, e sì ci hanno con verità narrato i princìpi della storia universale profana. Ma, non potendo poscia i vegnenti entrare nelle fantasie de' primi uomini che fondarono il gentilesimo, per le quali sembrava loro di vedere gli dèi; - e non intesasi la propietà di tal voce «atterrare», ch'era «mandar sotterra»; - e perché i giganti, i quali vivevano nascosti nelle grotte sotto de' monti, per le tradizioni appresso di genti sommamente credule furono alterati all'eccesso ed appresi ch'imponessero Olimpo, Pelio ed Ossa, gli uni sopra degli altri, per cacciare gli dèi (che i primi giganti empi non già combatterono, ma non avevano appreso finché Giove non fulminasse) dal cielo, innalzato appresso dalle menti greche vieppiù spiegate ad una sformata altezza, il quale a' primi giganti fu la cima de' monti, come appresso dimostreremo (la qual favola dovette fingersi dopo Omero e da altri esser stata nell'Odissea appiccata ad Omero, al cui tempo bastava che crollasse l'Olimpo solo per farne cadere gli dèi, che Omero nell'Iliade sempre narra allogati sulla cima del monte Olimpo): - per tutte queste cagioni ha finora mancato il principio e, per avere finor mancato la cronologia ragionata della storia poetica, ha mancato ancora la perpetuità della storia universale profana. II LOGICA POETICA. 1. DELLA LOGICA POETICA Or - perché quella ch'è metafisica in quanto contempla le cose per tutti i generi dell'essere, la stessa è logica in quanto considera le cose per tutti i generi di significarle - siccome la poesia è stata sopra da noi considerata per una metafisica poetica, per la quale i poeti teologi immaginarono i corpi essere per lo più divine sostanze, così la stessa poesia or si considera come logica poetica, per la qual le significa. «Logica» vien detta dalla voce lógos, che prima e propiamente significò «favola», che si trasportò in italiano «favella» - e la favola da' greci si disse anco mûthos, onde vien a' latini «mutus», - la quale ne' tempi mutoli nacque mentale, che in un luogo d'oro dice Strabone essere stata innanzi della vocale o sia dell'articolata: onde lógos significa e «idea» e «parola». E convenevolmente fu così dalla divina provvedenza ordinato in tali tempi religiosi, per quella eterna propietà: ch'alle religioni più importa meditarsi che favellarne; onde tal prima lingua ne' primi tempi mutoli delle nazioni, come si è detto nelle Degnità, dovette cominciare con cenni o atti o corpi ch'avessero naturali rapporti all'idee: per lo che lógos o «verbum» significò anche «fatto» agli ebrei, ed a' greci significò anche «cosa», come osserva Tommaso Gatachero, De instrumenti stylo. E pur mûthos ci giunse diffinita «vera narratio», o sia «parlar vero», che fu il «parlar naturale» che Platone prima e dappoi Giamblico dissero essersi parlato una volta nel mondo; i quali, come vedemmo nelle Degnità, perché 'l dissero indovinando, avvenne che Platone e spese vana fatiga d'andarlo truovando nel Cratilo, e ne fu attaccato da Aristotile e da Galeno: perché cotal primo parlare, che fu de' poeti teologi, non fu un parlare secondo la natura di esse cose (quale dovett'esser la lingua santa ritruovata da Adamo, a cui Iddio concedette la divina onomathesia ovvero imposizione de' nomi alle cose secondo la natura di ciascheduna), ma fu un parlare fantastico per sostanze animate, la maggior parte immaginate divine. Così Giove, Cibele o Berecintia, Nettunno, per cagione d'esempli, intesero e, dapprima mutoli additando, spiegarono esser esse sostanze del cielo, della terra, del mare, ch'essi immaginarono animate divinità, e perciò con verità di sensi gli credevano dèi: con le quali tre divinità, per ciò ch'abbiam sopra detto de' caratteri poetici, spiegavano tutte le cose appartenenti al cielo, alla terra, al mare; e così con l'altre significavano le spezie dell'altre cose a ciascheduna divinità appartenenti, come tutti i fiori a Flora, tutte le frutte a Pomona. Lo che noi pur tuttavia facciamo, al contrario, delle cose dello spirito; come delle facultà della mente umana, delle passioni, delle virtù, de' vizi, delle scienze, dell'arti, delle quali formiamo idee per lo più di donne, ed a quelle riduciamo tutte le cagioni, tutte le propietà e 'nfine tutti gli effetti ch'a ciascuna appartengono: perché, ove vogliamo trarre fuori dall'intendimento cose spirituali, dobbiamo essere soccorsi dalla fantasia per poterle spiegare e, come pittori, fingerne umane immagini. Ma essi poeti teologi, non potendo far uso dell'intendimento, con uno più sublime lavoro tutto contrario, diedero sensi e passioni, come testé si è veduto, a' corpi, e vastissimi corpi quanti sono cielo, terra, mare; che poi, impicciolendosi così vaste fantasie e invigorendo l'astrazioni, furono presi per piccioli loro segni. E la metonimia spose in comparsa di dottrina l'ignoranza di queste finor seppolte origini di cose umane: e Giove ne divenne sì picciolo e sì leggieri ch'è portato a volo da un'aquila; corre Nettunno sopra un dilicato cocchio per mare; e Cibele è assisa sopra un lione. Quindi le mitologie devon essere state i propi parlari delle favole (ché tanto suona tal voce); talché, essendo le favole, come sopra si è dimostrato, generi fantastici, le mitologie devon essere state le loro propie allegorie. Il qual nome, come si è nelle Degnità osservato, ci venne diffinito «diversiloquium», in quanto, con identità non di proporzione ma, per dirla alla scolastica, di predicabilità, esse significano le diverse spezie o i diversi individui compresi sotto essi generi: tanto che devon avere una significazione univoca, comprendente una ragion comune alle loro spezie o individui (come d'Achille, un'idea di valore comune a tutti i forti; come d'Ulisse, un'idea di prudenza comune a tutti i saggi); talché sì fatte allegorie debbon essere l'etimologie de' parlari poetici, che ne dassero le loro origini tutte univoche, come quelle de' parlari volgari lo sono più spesso analoghe. E ce ne giunse pure la diffinizione d'essa voce «etimologia», che suona lo stesso che «veriloquium», siccome essa favola ci fu diffinita «vera narratio». 2. COROLLARI D'INTORNO A' TROPI, MOSTRI E TRASFORMAZIONI POETICHE. I Di questa logica poetica sono corollari tutti i primi tropi, de' quali la più luminosa e, perché più luminosa, più necessaria e più spessa è la metafora, ch'allora è vieppiù lodata quando alle cose insensate ella dà senso e passione, per la metafisica sopra qui ragionata: ch'i primi poeti dieder a' corpi l'essere di sostanze animate, sol di tanto capaci di quanto essi potevano, cioè di senso e di passione, e sì ne fecero le favole; talché ogni metafora sì fatta vien ad essere una picciola favoletta. Quindi se ne dà questa critica d'intorno al tempo che nacquero nelle lingue: che tutte le metafore portate con simiglianze prese da' corpi a significare lavori di menti astratte debbon essere de' tempi ne' quali s'eran incominciate a dirozzar le filosofie. Lo che si dimostra da ciò: ch'in ogni lingua le voci ch'abbisognano all'arti colte ed alle scienze riposte hanno contadinesche le lor origini. Quello è degno d'osservazione: che 'n tutte le lingue la maggior parte dell'espressioni d'intorno a cose inanimate sono fatte con trasporti del corpo umano e delle sue parti e degli umani sensi e dell'umane passioni. Come «capo», per cima o principio; «fronte», «spalle», avanti e dietro; «occhi» delle viti e quelli che si dicono «lumi» ingredienti delle case; «bocca», ogni apertura; «labro», orlo di vaso o d'altro; «dente» d'aratro, di rastello, di serra, di pettine; «barbe», le radici; «lingua» di mare; «fauce» o foce di fiumi o monti; «collo» di terra; «braccio» di fiume; mano, per picciol numero; «seno» di mare, il golfo; fianchi e lati, i canti; «costiera» di mare; «cuore», per lo mezzo (ch'«umbilicus» dicesi da' latini); «gamba» o «piede» di paesi, e «piede» per fine; «pianta» per base o sia fondamento; «carne», «ossa» di frutte; «vena» d'acqua, pietra, miniera; «sangue» della vite, il vino; «viscere» della terra; «ride» il cielo, il mare; «fischia il vento»; «mormora» l'onda; «geme» un corpo sotto un gran peso; e i contadini del Lazio dicevano «sitire agros», «laborare fructus», «luxuriari segetes»; e i nostri contadini «andar in amore le piante», «andar in pazzia le viti», «lagrimare gli orni»; ed altre che si possono raccogliere innumerabili in tutte le lingue. Lo che tutto va di séguito a quella degnità: che «l'uomo ignorante si fa regola dell'universo», siccome negli esempli arrecati egli di se stesso ha fatto un intiero mondo. Perché come la metafisica ragionata insegna che «homo intelligendo fit omnia», così questa metafisica fantasticata dimostra che «homo non intelligendo fit omnia»; e forse con più di verità detto questo che quello, perché l'uomo con l'intendere spiega la sua mente e comprende esse cose, ma col non intendere egli di sé fa esse cose e, col transformandovisi, lo diventa. II Per cotal medesima logica, parto di tal metafisica, dovettero i primi poeti dar i nomi alle cose dall'idee più particolari e sensibili; che sono i due fonti, questo della metonimia e quello della sineddoche. Perocché la metonimia degli autori per l'opere nacque perché gli autori erano più nominati che l'opere; quella de' subbietti per le loro forme ed aggiunti nacque perché, come nelle Degnità abbiamo detto, non sapevano astrarre le forme e la qualità da' subbietti; certamente quella delle cagioni per gli di lor effetti sono tante picciole favole, con le quali le cagioni s'immaginarono esser donne vestite de' lor effetti, come sono la Povertà brutta, la Vecchiezza trista, la Morte pallida. III La sineddoche passò in trasporto poi con l'alzarsi i particolari agli universali o comporsi le parti con le altre con le quali facessero i lor intieri. Così «mortali» furono prima propiamente detti i soli uomini, che soli dovettero farsi sentire mortali. Il «capo», per l'«uomo» o per la «persona», ch'è tanto frequente in volgar latino, perché dentro le boscaglie vedevano di lontano il solo capo dell'uomo: la qual voce «uomo» è voce astratta, che comprende, come in un genere filosofico, il corpo e tutte le parti del corpo, la mente e tutte le facultà della mente, l'animo e tutti gli abiti dell'animo. Così dovette avvenire che «tignum» e «culmen» significarono con tutta propietà «travicello» e «paglia» nel tempo delle pagliare; poi, col lustro delle città, significarono tutta la materia e 'l compimento degli edifici. Così «tectum» per l'intiera «casa», perché a' primi tempi bastava per casa un coverto. Così «puppis» per la «nave», che, alta, è la prima a vedersi da' terrazzani; come a' tempi barbari ritornati si disse una «vela» per una «nave». Così «mucro» per la «spada», perché questa è voce astratta e come in un genere comprende pome, elsa, taglio e punta; ed essi sentirono la punta, che recava loro spavento. Così la materia per lo tutto formato, come il «ferro» per la «spada», perché non sapevano astrarre le forme dalla materia. Quel nastro di sineddoche e di metonimia: Tertia messis erat nacque senza dubbio da necessità di natura, perché dovette correre assai più di mille anni per nascere tralle nazioni questo vocabolo astronomico «anno»; siccome nel contado fiorentino tuttavia dicono «abbiamo tante volte mietuto» per dire «tanti anni». E quel gruppo di due sineddochi e d'una metonimia: Post aliquot, mea regna videns, mirabor aristas di troppo accusa l'infelicità de' primi tempi villerecci a spiegarsi, ne' quali dicevano «tante spighe», che sono particolari più delle messi, per dire «tanti anni», e, perch'era troppo infelice l'espressione, i gramatici v'hanno supposto troppo di arte. IV L'ironia certamente non poté cominciare che da' tempi della riflessione, perch'ella è formata dal falso in forza d'una riflessione che prende maschera di verità. E qui esce un gran principio di cose umane, che conferma l'origine della poesia qui scoverta: che i primi uomini della gentilità essendo stati semplicissimi quanto fanciulli, i quali per natura son veritieri, le prime favole non poterono fingere nulla di falso; per lo che dovettero necessariamente essere, quali sopra ci vennero diffinite, vere narrazioni. V Per tutto ciò si è dimostrato che tutti i tropi (che tutti si riducono a questi quattro), i quali si sono finora creduti ingegnosi ritruovati degli scrittori, sono stati necessari modi di spiegarsi [di] tutte le prime nazioni poetiche, e nella lor origine aver avuto tutta la loro natia propietà: ma, poi che, col più spiegarsi la mente umana, si ritruovarono le voci che significano forme astratte, o generi comprendenti le loro spezie, o componenti le parti co' loro intieri, tai parlari delle prime nazioni sono divenuti trasporti. E quindi s'incomincian a convellere que' due comuni errori de' gramatici: che 'l parlare de' prosatori è propio, impropio quel de' poeti; e che prima fu il parlare da prosa, dopoi del verso. VI I mostri e le trasformazioni poetiche provennero per necessità di tal prima natura umana, qual abbiamo dimostrato nelle Degnità che non potevan astrarre le forme o le propietà da' subbietti; onde con la lor logica dovettero comporre i subbietti per comporre esse forme, o distrugger un subbietto per dividere la di lui forma primiera dalla forma contraria introduttavi. Tal composizione d'idee fece i mostri poetici: come in ragion romana, all'osservare di Antonio Fabro nella Giurisprudenza papinianea, si dicon «mostri» i parti nati da meretrice, perc'hanno natura d'uomini, insieme, e propietà di bestie a esser nati da' vagabondi o sieno incerti concubiti; i quali truoveremo esser i mostri i quali la legge delle XII Tavole (nati da donna onesta senza la solennità delle nozze) comandava che si gittassero in Tevere. VII La distinzione dell'idee fece le metamorfosi: come, fralle altre conservateci dalla giurisprudenza antica, anco i romani nelle loro frasi eroiche ne lasciarono quella «fundum fieri» per «autorem fieri», perché, come il fondo sostiene il podere o il suolo e ciò ch'è quivi seminato o piantato o edificato, così l'appruovatore sostiene l'atto, il quale senza la di lui appruovagione rovinerebbe, perché l'approvatore, da semovente ch'egli è, prende forma contraria di cosa stabile. 3. COROLLARI D'INTORNO AL PARLARE PER CARATTERI POETICI DELLE PRIME NAZIONI. La favella poetica, com'abbiamo in forza di questa logica poetica meditato, scorse per così lungo tratto dentro il tempo istorico, come i grandi rapidi fiumi si spargono molto dentro il mare e serbano dolci l'acque portatevi con la violenza del corso; per quello che Giamblico ci disse sopra nelle Degnità: che gli egizi tutti i loro ritruovati utili alla vita umana riferirono a Mercurio Trimegisto; il cui detto confermammo con quell'altra Degnità: ch'«i fanciulli con l'idee e nomi d'uomini, femmine, cose, c'hanno la prima volta vedute, apprendono ed appellano tutti gli uomini, femmine, cose appresso, c'hanno con le prime alcuna simiglianza o rapporto», e che questo era il naturale gran fonte de' caratteri poetici, co' quali naturalmente pensarono e parlarono i primi popoli. Alla qual natura di cose umane se avesse Giamblico riflettuto e vi avesse combinato tal costume ch'egli stesso riferisce degli antichi egizi, dicemmo nelle Degnità che certamente esso ne' misteri della sapienza volgare degli egizi non arebbe a forza intruso i sublimi misteri della sua sapienza platonica. Ora, per tale natura de' fanciulli e per tal costume de' primi egizi, diciamo che la favella poetica, in forza d'essi caratteri poetici, ne può dare molte ed importanti discoverte d'intorno all'antichità. I Che Solone dovett'esser alcuno uomo sappiente di sapienza volgare, il quale fusse capoparte di plebe ne' primi tempi ch'Atene era repubblica aristocratica. Lo che la storia greca pur conservò ove narra che dapprima Atene fu occupata dagli ottimati - ch'è quello che noi in questi libri dimostreremo universalmente di tutte le repubbliche eroiche, nelle quali gli eroi, ovvero nobili, per una certa loro natura creduta di divina origine, per la quale dicevano essere loro propi gli dèi, e 'n conseguenza propi loro gli auspìci degli dèi, in forza de' quali chiudevano dentro i lor ordini tutti i diritti pubblici e privati dell'eroiche città, ed a' plebei, che credevano essere d'origine bestiale, e 'n conseguenza esser uomini senza dèi e perciò senza auspìci, concedevano i soli usi della natural libertà (ch'è un gran principio di cose che si ragioneranno per quasi tutta quest'opera) - e che tal Solone avesse ammonito i plebei ch'essi riflettessero a se medesimi e riconoscessero essere d'ugual natura umana co' nobili, e 'n conseguenza che dovevan esser con quelli uguagliati in civil diritto. Se non, pure, tal Solone furon essi plebei ateniesi, per questo aspetto considerati. Perché anco i romani antichi arebbono dovuto aver un tal Solone fra loro; tra' quali i plebei, nelle contese eroiche co' nobili, come apertamente lo ci narra la storia romana antica, dicevano: i padri, de' quali Romolo aveva composto il senato (da' quali essi patrizi erano provenuti), «non esse coelo demissos», cioè che non avevano cotale divina origine ch'essi vantavano e che Giove era a tutti eguale. Ch'è la storia civile di quel motto ... Iupiter omnibus æquus, dove poi intrusero i dotti quel placito: che le menti son tutte eguali e che prendono diversità dalla diversa organizzazione de' corpi e dalla diversa educazione civile. Con la quale riflessione i plebei romani incominciaron ad adeguare co' patrizi la civil libertà, fino che affatto cangiarono la romana repubblica da aristocratica in popolare, come l'abbiamo divisato per ipotesi nelle Annotazioni alla Tavola cronologica, ove ragionammo in idea della legge Publilia, e 'l faremo vedere di fatto, nonché della romana, essere ciò avvenuto di tutte l'altre antiche repubbliche, e con ragioni ed autorità dimostreremo che universalmente, da tal riflessione di Solone principiando, le plebi de' popoli vi cangiarono le repubbliche da aristocratiche in popolari. Quindi Solone fu fatto autore di quel celebre motto «Nosce te ipsum», il quale, per la grande civile utilità ch'aveva arrecato al popolo ateniese, fu iscritto per tutti i luoghi pubblici di quella città; e poi gli addottrinati il vollero detto per un grande avviso, quanto infatti lo è, d'intorno alle metafisiche ed alle morali cose, e funne tenuto Solone per sappiente di sapienza riposta e fatto principe de' sette saggi di Grecia. In cotal guisa, perché da tal riflessione incominciarono in Atene tutti gli ordini e tutte le leggi che formano una repubblica democratica, perciò, per questa maniera di pensare per caratteri poetici de' primi popoli, tali ordini e tali leggi, come dagli egizi tutti i ritruovati utili alla vita umana civile a Mercurio Trimegisto, furon tutti dagli ateniesi richiamati a Solone. II Così dovetter a Romolo esser attribuite tutte le leggi d'intorno agli ordini. III A Numa, tante d'intorno alle cose sagre ed alle divine cerimonie, nelle quali poi comparve ne' tempi suoi più pomposi la romana religione. IV A Tullo Ostilio, tutte le leggi ed ordini della militar disciplina. V A Servio Tullio, il censo, ch'è il fondamento delle repubbliche democratiche, ed altre leggi in gran numero d'intorno alla popolar libertà, talché da Tacito vien acclamato «præcipuus sanctor legum». Perché, come dimostreremo, il censo di Servio Tullio fu pianta delle repubbliche aristocratiche, col qual i plebei riportarono da' nobili il dominio bonitario de' campi, per cagion del quale si criarono poi i tribuni della plebe per difender loro questa parte di natural libertà, i quali poi, tratto tratto, fecero loro conseguire tutta la libertà civile; e così il censo di Servio Tullio, perché indi ne incominciarono l'occasioni e le mosse, diventò censo pianta della romana repubblica popolare, come si è ragionato nell'annotazione alla legge Publilia per via d'ipotesi, e dentro si dimostrerà essere stato vero di fatto. VI A Tarquinio Prisco, tutte l'insegne e divise, con le quali poscia a' tempi più luminosi di Roma risplendette la maestà dell'imperio romano. VII Così dovettero affiggersi alle XII Tavole moltissime leggi che dentro dimostreremo essere state comandate ne' tempi appresso; e (come si è appieno dimostrato ne' Princìpi del Diritto universale), perché la legge del dominio quiritario da' nobili accomunato a' plebei fu la prima legge scritta in pubblica tavola (per la quale unicamente furono criati i decemviri), per cotal aspetto di popolar libertà tutte le leggi che uguagliarono la libertà e si scrissero dappoi in pubbliche tavole furono rapportate a' decemviri. Siane pur qui una dimostrazione il lusso greco de' funerali, che i decemviri non dovettero insegnarlo a' romani col proibirlo, ma dopoché i romani l'avevano ricevuto; lo che non poté avvenire se non dopo le guerre co' tarantini e con Pirro, nelle quali s'incominciarono a conoscer co' greci; e quindi è che Cicerone osserva tal legge portata in latino con le stesse parole con le quali era stata conceputa in Atene. VIII Così Dragone, autore delle leggi scritte col sangue nel tempo che la greca storia, come sopra si è detto, ci narra ch'Atene era occupata dagli ottimati: che fu, come vedremo appresso, nel tempo dell'aristocrazie eroiche, nel quale la stessa greca storia racconta che gli Eraclidi erano sparsi per tutta Grecia, anco nell'Attica, come sopra il proponemmo nella Tavola cronologica, i quali finalmente restarono nel Peloponneso e fermarono il loro regno in Isparta, la quale truoveremo essere stata certamente repubblica aristocratica. E cotal Dragone dovett'esser una di quelle serpi della Gorgone inchiovata allo scudo di Perseo, che si truoverà significare l'imperio delle leggi, il quale scudo con le spaventose pene insassiva coloro che 'l riguardavano, siccome nella storia sagra, perché tali leggi erano essi esemplari castighi, si dicono «leges sanguinis», e di tale scudo armossi Minerva, la quale fu detta Athenã, come sarà più appieno spiegato appresso; e appo i chinesi, i quali tuttavia scrivono per geroglifici (che dee far maraviglia una tal maniera poetica di pensare e spiegarsi tra queste due e per tempi e per luoghi lontanissime nazioni), un dragone è l'insegna dell'imperio civile. Perché di tal Dragone non si ha altra cosa da tutta la greca storia. IX Questa istessa discoverta de' caratteri poetici ci conferma Esopo ben posto innanzi a' sette saggi di Grecia, come il promettemmo nelle Note alla Tavola cronologica di farlo in questo luogo vedere. Perché tal filologica verità ci è confermata da questa storia d'umane idee: ch'i sette saggi furon ammirati dall'incominciar essi a dare precetti di morale o di civil dottrina per massime, come quel celebre di Solone (il quale ne fu il principe): «Nosce te ipsum», che sopra abbiam veduto essere prima stato un precetto di dottrina civile, poi trasportato alla metafisica e alla morale. Ma Esopo aveva innanzi dati tali avvisi per somiglianze, delle quali più innanzi i poeti si eran serviti per ispiegarsi; e l'ordine dell'umane idee è d'osservare le cose simili, prima per ispiegarsi, dappoi per pruovare, e ciò prima con l'esemplo che si contenta d'una sola, finalmente con l'induzione che ne ha bisogno di più: onde Socrate, padre di tutte le sètte de' filosofi, introdusse la dialettica con l'induzione, che poi compiè Aristotile col sillogismo, che non regge senza un universale. Ma alle menti corte basta arrecarsi un luogo dal somigliante per essere persuase; come con una favola, alla fatta di quelle ch'aveva truovato Esopo, il buono Menenio Agrippa ridusse la plebe romana sollevata all'ubbidienza. Ch'Esopo sia stato un carattere poetico de' soci ovvero famoli degli eroi, con uno spirito d'indovino lo ci discuopre il ben costumato Fedro in un prologo delle sue Favole: Nunc fabularum cur sit inventum genus, Brevi docebo. Servitus obnoxia, Quia, quæ volebat non audebat dicere, Affectus proprios in fabellas transtulit. Æsopi illius semita feci viam, come la favola della società lionina evidentemente lo ci conferma: perché i plebei erano detti «soci» dell'eroiche città, come nelle Degnità si è avvisato, e venivano a parte delle fatighe e pericoli nelle guerre, ma non delle prede e delle conquiste. Per ciò Esopo fu detto «servo», perché i plebei, come appresso sarà dimostro, erano famoli degli eroi. E ci fu narrato brutto, perché la bellezza civile era stimata dal nascere da' matrimoni solenni, che contraevano i soli eroi, com'anco appresso si mostrerà: appunto come fu egli brutto Tersite, che dev'essere carattere de' plebei che servivano agli eroi nella guerra troiana, ed è da Ulisse battuto con lo scettro di Agamennone, come gli antichi plebei romani a spalle nude erano battuti da' nobili con le verghe, «regium in morem», al narrar di Sallustio appo sant'Agostino nella Città di Dio, finché la legge Porzia allontanò le verghe dalle spalle romane, Tali avvisi, adunque, utili al viver civile libero, dovetter esser sensi che nudrivano le plebi dell'eroiche città, dettati dalla ragion naturale: de' quali plebei per tal aspetto ne fu fatto carattere poetico Esopo, al quale poi furon attaccate le favole d'intorno alla morale filosofia; e ne fu fatto Esopo il primo morale filosofo nella stessa guisa che Solone fu fatto sappiente, ch'ordinò con le leggi la repubblica libera ateniese. E perch'Esopo diede tali avvisi per favole, fu fatto prevenire a Solone che gli diede per massime. Tali favole si dovettero prima concepire in versi eroici, come poi v'ha tradizione che furono concepute in versi giambici, co' quali noi qui appresso truoveremo aver parlato le genti greche in mezzo il verso eroico e la prosa, nella quale finalmente scritte ci sono giunte. X In cotal guisa a' primi autori della sapienza volgare furono rapportati i ritruovati appresso della sapienza riposta; e i Zoroasti in Oriente, i Trimegisti in Egitto, gli Orfei in Grecia, i Pittagori nell'Italia, di legislatori prima, furono poi finalmente creduti filosofi, come Confucio oggi lo è nella China. Perché certamente i pittagorici nella Magna Grecia, come dentro si mostrerà, si dissero in significato di «nobili», che, avendo attentato di ridurre tutte le loro repubbliche da popolari in aristocratiche, tutti furono spenti. E 'l Carme aureo di Pittagora sopra lo si è dimostrato esser un'impostura, come gli Oracoli di Zoroaste, il Pimandro del Trimegisto, gli Orfici o i versi d'Orfeo; né di Pittagora ad essi antichi venne scritto alcuno libro d'intorno a filosofia, e Filolao fu il primo pittagorico il qual ne scrisse, all'osservare dello Scheffero, De philosophia italica. 4. COROLLARI D'INTORNO ALL'ORIGINI DELLE LINGUE E DELLE LETTERE; E, QUIVI DENTRO, L'ORIGINI DE' GEROGLIFICI, DELLE LEGGI, DE' NOMI, DELL'INSEGNE GENTILIZIE, DELLE MEDAGLIE, DELLE MONETE; E QUINDI DELLA PRIMA LINGUA E LETTERATURA DEL DIRITTO NATURAL DELLE GENTI. Ora dalla teologia de' poeti o sia dalla metafisica poetica, per mezzo della indi nata poetica logica, andiamo a scuoprire l'origine delle lingue e delle lettere, d'intorno alle quali sono tante l'oppenioni quanti sono i dotti che n'hanno scritto. Talché Gerardo Giovanni Vossio nella Gramatica dice: «De literarum inventione multi multa congerunt, et fuse et confuse, ut ab iis incertus magis abeas quam veneras dudum». Ed Ermanno Ugone, De origine scribendi, osserva: «Nulla alia res est, in qua plures magisque pugnantes sententiæ reperiantur atque hæc tractatio de literarum et scriptionis origine. Quantæ sententiarum pugnæ! Quid credas? quid non credas?». Onde Bernardo da Melinckrot, De arte typographica, seguìto in ciò da Ingewaldo Elingio, De historia linguæ græcæ, per l'incomprendevolità della guisa, disse essere ritruovato divino. Ma la difficultà della guisa fu fatta da tutti i dotti per ciò: ch'essi stimarono cose separate l'origini delle lettere dall'origini delle lingue, le quali erano per natura congionte; e 'l dovevan pur avvertire dalle voci «gramatica» e «caratteri». Dalla rima, ché «gramatica» si diffinisce «arte di parlare» e grámmata sono le lettere, talché sarebbe a diffinirsi «arte di scrivere», qual Aristotile la diffinì e qual infatti ella dapprima nacque, come qui si dimostrerà che tutte le nazioni prima parlarono scrivendo, come quelle che furon dapprima mutole. Dipoi «caratteri» voglion dire «idee», «forme», «modelli», e certamente furono innanzi que' de' poeti che quelli de' suoni articolati, come Giuseffo vigorosamente sostiene, contro Appione greco gramatico, che a' tempi d'Omero non si erano ancor truovate le lettere dette «volgari». Oltracciò, se tali lettere fussero forme de' suoni articolati e non segni a placito, dovrebbero appo tutte le nazioni esser uniformi, com'essi suoni articolati son uniformi appo tutte. Per tal guisa disperata a sapersi non si è saputo il pensare delle prime nazioni per caratteri poetici né 'l parlare per favole né lo scrivere per geroglifici: che dovevan esser i princìpi, che di lor natura han da esser certissimi, così della filosofia per l'umane idee, come della filologia per l'umane voci. In sì fatto ragionamento dovendo noi qui entrare, daremo un picciol saggio delle tante oppenioni che se ne sono avute, o incerte o leggeri o sconce o boriose o ridevoli, le quali, perocché sono tante e tali, si debbono tralasciare di riferirsi. Il saggio sia questo: che, perocché a' tempi barbari ritornati la Scandinavia, ovvero Scanzia, per la boria delle nazioni fu detta «vagina gentium» e fu creduta la madre di tutte l'altre del mondo, per la boria de' dotti furono d'oppenione Giovanni ed Olao Magni ch'i loro goti avessero conservate le lettere fin dal principio del mondo, divinamente ritruovate da Adamo; del qual sogno si risero tutti i dotti. Ma non pertanto si ristò di seguirgli e d'avanzargli Giovanni Goropio Becano, che la sua lingua cimbrica, la quale non molto si discosta dalla sassonica, fa egli venire dal paradiso terrestre e che sia la madre di tutte l'altre; della qual oppenione fecero le favole Giuseppe Giusto Scaligero, Giovanni Camerario, Cristoforo Brecmanno e Martino Scoockio. E pure tal boria più gonfiò e ruppe in quella d'Olao Rudbechio nella sua opera intitolata Atlantica, che vuole le lettere greche esser nate dalle rune, e che queste sien le fenicie rivolte, le quali Cadmo rendette nell'ordine e nel suono simili all'ebraiche, e finalmente i greci l'avessero dirizzate e tornate col regolo e col compasso; e, perché il ritruovatore tra essi è detto Mercurouman, vuole che 'l Mercurio che ritruovò le lettere agli egizi sia stato goto. Cotanta licenza d'oppinare d'intorno all'origini delle lettere deve far accorto il leggitore a ricevere queste cose che noi ne diremo, non solo con indifferenza di vedere che arrechino in mezzo di nuovo, ma con attenzione di meditarvi e prenderle, quali debbon essere, per princìpi di tutto l'umano e divino sapere della gentilità. Perché da questi princìpi: di concepir i primi uomini della gentilità l'idee delle cose per caratteri fantastici di sostanze animate, e, mutoli, di spiegarsi con atti o corpi ch'avessero naturali rapporti all'idee (quanto, per esemplo, lo hanno l'atto di tre volte falciare o tre spighe per significare «tre anni»), e sì spiegarsi con lingua che naturalmente significasse, che Platone e Giamblico dicevano essersi una volta parlata nel mondo (che deve essere stata l'antichissima lingua atlantica, la quale eruditi vogliono che spiegasse l'idee per la natura delle cose, o sia per le loro naturali propietà): da questi princìpi, diciamo, tutti i filosofi e tutti i filologi dovevan incominciar a trattare dell'origini delle lingue e delle lettere. Delle quali due cose, per natura, com'abbiam detto, congionte, han trattato divisamente, onde loro è riuscita tanto difficile la ricerca dell'origini delle lettere, ch'involgeva egual difficultà quanto quella delle lingue, delle quali essi o nulla o assai poco han curato. Sul cominciarne adunque il ragionamento, poniamo per primo principio quella filologica Degnità: che gli egizi narravano, per tutta la scorsa del loro mondo innanzi, essersi parlate tre lingue, corrispondenti nel numero e nell'ordine alle tre età scorse pur innanzi nel loro mondo: degli dèi, degli eroi e degli uomini; e dicevano la prima lingua essere stata geroglifica o sia sagra ovvero divina; la seconda, simbolica o per segni o sia per imprese eroiche; la terza pistolare per comunicare i lontani tra loro i presenti bisogni della lor vita. Delle quali tre lingue v'hanno due luoghi d'oro appo Omero nell'Iliade, per gli quali apertamente si veggono i greci convenir in ciò con gli egizi. De' quali uno è dove narra che Nestore visse tre vite d'uomini diversilingui: talché Nestore dee essere stato un carattere eroico della cronologia stabilita per le tre lingue corrispondenti alle tre età degli egizi; onde tanto dovette significare quel motto: «vivere gli anni di Nestore» quanto «vivere gli anni del mondo». L'altro è dove Enea racconta ad Achille che uomini diversilingui cominciaron ad abitar Ilio, dopoché Troia fu portata a' lidi del mare e Pergamo ne divenne la ròcca. Con tal primo principio congiugniamo quella tradizione, pur degli egizi, che 'l loro Theut o Mercurio ritruovò e le leggi e le lettere. A queste verità aggruppiamo quell'altre: ch'appo i greci i «nomi» significarono lo stesso che «caratteri», da' quali i padri della Chiesa presero con promiscuo uso quelle due espressioni, ove ne ragionano de divinis characteribus e de divinis nominibus. E «nomen» e «definitio» significano la stessa cosa, ove in rettorica si dice «quæstio nominis», con la qual si cerca la diffinizione del fatto; e la nomenclatura de' morbi è in medicina quella parte che diffinisce la natura di essi. Appo i romani i «nomi» significarono prima e propiamente «case diramate in molte famiglie». E che i primi greci avessero anch'essi avuto i «nomi» in sì fatto significato, il dimostrano i patronimici, che significano «nomi di padri», de' quali tanto spesso fanno uso i poeti, e più di tutti il primo di tutti Omero (appunto come i patrizi romani da un tribuno della plebe, appo Livio, son diffiniti «qui possunt nomine ciere patrem», «che possano usare il casato de' loro padri»), i quali patronimici poi si sperderono nella libertà popolare di tutta la restante Grecia, e dagli Eraclidi si serbarono in Isparta, repubblica aristocratica. E in ragion romana «nomen» significa «diritto». Con somigliante suono appo i greci nómos significa «legge» e da nómos viene nómisma, come avverte Aristotile, che vuole dire «moneta»; ed etimologi vogliono che da nómos venga detto a' latini «numus». Appo i francesi «loy» significa «legge» ed «aloy» vuol dire «moneta»; e da' barbari ritornati fu detto «canone» così la legge ecclesiastica come ciò che dall'enfiteuticario si paga al padrone del fondo datogli in enfiteusi. Per la quale uniformità di pensare i latini forse dissero «ius» il diritto e 'l grasso delle vittime ch'era dovuto a Giove, che dapprima si disse Ious, donde poi derivarono i genitivi «Iovis» e «iuris» (lo che si è sopra accennato); come, appresso gli ebrei, delle tre parti che facevano dell'ostia pacifica, il grasso veniva in quella dovuta a Dio, che bruciavasi sull'altare. I latini dissero «prædia», quali dovettero dirsi prima i rustici che gli urbani, perocché, come appresso farem vedere, le prime terre colte furono le prime prede del mondo; onde il primo domare fu di terre sì fatte, le quali perciò in antica ragion romana si dissero «manucaptæ» (dalle quali restò detto «manceps» l'obbligato all'erario in roba stabile); e nelle romane leggi restaron dette «iura prædiorum» le servitù che si dicon «reali», che si costituiscono in robe stabili. E tali terre dette «manucaptæ» dovettero dapprima essere e dirsi «mancipia», di che certamente dee intendersi la legge delle XII Tavole nel capo «Qui nexum faciet mancipiumque», cioè «chi farà la consegna del nodo, e con quella consegnerà il podere»; onde, con la stessa mente degli antichi latini, gl'italiani appellarono «poderi», perché acquistati con forza. E si convince da ciò che i barbari ritornati dissero «presas terrarum» i campi co' loro termini; gli spagnuoli chiamano «prendas» l'imprese forti; gl'italiani appellano «imprese» l'armi gentilizie, e dicono «termini» in significazion di «parole» (che restò in dialettica scolastica), e l'armi gentilizie chiamano altresì «insegne», onde agli stessi viene il verbo «insegnare»: come Omero, al cui tempo non si erano ancor truovate le lettere dette «volgari», la lettera di Preto ad Euria contro Bellerofonte dice essere stata scritta «per sémata», «per segni». Con queste cose tutte facciano il cumolo queste ultime tre incontrastate verità: la prima, che, dimostrato le prime nazioni gentili tutte essere state mutole ne' loro incominciamenti, dovettero spiegarsi per atti o corpi che avessero naturali rapporti alle loro idee; la seconda, che con segni dovettero assicurarsi de' confini de' lor poderi ed avere perpetue testimonianze de' lor diritti; la terza, che tutte si sono truovate usare monete. Tutte queste verità ne daranno qui le origini delle lingue e delle lettere e, quivi dentro, quelle de' geroglifici, delle leggi, de' nomi, dell'imprese gentilizie, delle medaglie, delle monete e della lingua e scrittura con la quale parlò e scrisse il primo diritto natural delle genti. E per istabilire di tutto ciò più fermamente i princìpi, è qui da convellersi quella falsa oppenione ch'i geroglifici furono ritruovati di filosofi per nascondervi dentro i misteri d'alta sapienza riposta, come han creduto degli egizi. Perché fu comune naturale necessità di tutte le prime nazioni di parlare con gerogllfici (di che sopra si è proposta una degnità); come nell'Affrica l'abbiamo già degli egizi, a' quali con Eliodoro, Delle cose dell'Etiopia, aggiugniamo gli etiopi, i quali si servirono per geroglifici degli strumenti di tutte l'arti fabbrili. Nell'Oriente lo stesso dovett'essere de' caratteri magici de' caldei. Nel settentrione dell'Asia abbiamo sopra veduto che Idantura, re degli sciti, ne' tempi assai tardi (posta la loro sformata antichità, nella quale avevano vinto essi egizi, che si vantavano essere gli antichissimi di tutte le nazioni), con cinque parole reali risponde a Dario il maggiore che gli aveva intimato la guerra; che furono una ranocchia, un topo, un uccello, un dente d'aratro ed un arco da saettare. La ranocchia significava ch'esso era nato dalla terra della Scizia, come dalla terra nascono, piovendo l'està, le ranocchie, e sì esser figliuolo di quella terra. Il topo significava esso, come topo, dov'era nato aversi fatto la casa, cioè aversi fondato la gente. L'uccello significava aver ivi esso gli auspìci, cioè, come vedremo appresso, che non era ad altri soggetto ch'a Dio. L'aratro significava aver esso ridutte quelle terre a coltura, e sì averle dome e fatte sue con la forza. E finalmente l'arco da saettare significava ch'esso aveva nella Scizia il sommo imperio dell'armi, da doverla e poterla difendere, La qual spiegazione così naturale e necessaria si componga con le ridevoli ch'appresso san Cirillo lor danno i consiglieri di Dario, e pruoverà ad evidenza generalmente che finora non si è saputo il propio e vero uso de' geroglifici che celebrarono i primi popoli, col combinare le interpetrazioni de' consiglieri di Dario date a' geroglifici scitici con le lontane, raggirate e contorte c'han dato i dotti a' geroglifici egizi. De' latini non ci lasciò la storia romana privi di qualche tradizione nella risposta eroica muta che Tarquinio superbo manda al figliuolo in Gabi, col farsi vedere al messaggiero troncar capi di papaveri con la bacchetta che teneva tra mani; lo che è stato creduto fatto per superbia, ove bisognava tutta la confidenza. Nel settentrione d'Europa osserva Tacito, ove ne scrive i costumi, ch'i germani antichi non sapevano «literarum secreta», cioè che non sapevano scriver i loro geroglifici; lo che dovette durare fin a' tempi di Federico suevo, anzi fin a quelli di Ridolfo d'Austria, da che incominciarono a scriver diplomi in iscrittura volgar tedesca. Nel settentrione della Francia vi fu un parlar geroglifico, detto «rebus de Picardie», che dovett'essere, come nella Germania, un parlar con le cose, cioè co' geroglifici d'Idantura. Fino nell'ultima Tule e nell'ultima di lei parte, in Iscozia, narra Ettore Boezio nella Storia della Scozia quella nazione anticamente aver scritto con geroglifici. Nell'Indie occidentali i messicani furono ritruovati scriver per geroglifici, e Giovanni di Laet nella sua Descrizione della Nuova India descrive i geroglifici degl'indiani essere diversi capi d'animali, piante, fiori, frutte, e per gli loro ceppi distinguere le famiglie; ch'è lo stesso uso appunto c'hanno l'armi gentilizie nel mondo nostro. Nell'Indie orientali i chinesi tuttavia scrivono per geroglifici. Così è sventata cotal boria de' dotti che vennero appresso (che tanto non osò gonfiare quella de' boriosissimi egizi): che gli altri sappienti del mondo avessero appreso da essi di nascondere la loro sapienza riposta sotto de' geroglifici. Posti tali princìpi di logica poetica e dileguata tal boria de' dotti, ritorniamo alle tre lingue degli egizi. Nella prima delle quali, ch'è quella degli dèi, come si è avvisato nelle Degnità, per gli greci vi conviene Omero, che in cinque luoghi di tutti e due i suoi poemi fa menzione d'una lingua più antica della sua, la qual è certamente lingua eroica, e la chiama «lingua degli dèi». Tre luoghi sono nell'Iliade: il primo ove narra «Briareo» dirsi dagli dèi, «Egeone» dagli uomini; il secondo, ove racconta d'un uccello, che gli dèi chiamano chalkída, gli uomini kúmindin; il terzo, che 'l fiume di Troia gli dèi «Xanto», gli uomini chiamano «Scamandro». Nell'Odissea sono due: uno, che gli dèi chiamano planktás pétras «Scilla e Cariddi» che dicon gli uomini; l'altro, ove Mercurio dà ad Ulisse un segreto contro le stregonerie di Circe, che dagli dèi è appellato môlu ed è affatto niegato agli uomini di sapere. D'intorno a' quali luoghi Platone dice molte cose, ma vanamente; talché poi Dion Crisostomo ne calogna Omero d'impostura, ch'esso intendesse la lingua degli dèi, ch'è naturalmente niegato agli uomini. Ma dubitiamo che non forse in questi luoghi d'Omero si debbano gli «dèi» intendere per gli «eroi», i quali, come poco appresso si mostrerà, si presero il nome di «dèi» sopra i plebei delle loro città, ch'essi chiamavan «uomini» (come a' tempi barbari ritornati i vassalli si dissero «homines», che osserva con maraviglia Ottomano), e i grandi signori (come nella barbarie ricorsa) facevano gloria di avere maravigliosi segreti di medicina; e così queste non sien altro che differenze di parlari nobili e di parlari volgari. Però, senza alcun dubbio, per gli latini vi si adoperò Varrone, il quale, come nelle Degnità si è avvisato, ebbe la diligenza di raccogliere trentamila dèi, che dovettero bastare per un copioso vocabolario divino, da spiegare le genti del Lazio tutte le loro bisogne umane, ch'in que' tempi semplici e parchi dovetter esser pochissime, perch'erano le sole necessarie alla vita. Anco i greci ne numerarono trentamila, come nelle Degnità pur si è detto, i quali d'ogni sasso, d'ogni fonte o ruscello, d'ogni pianta, d'ogni scoglio fecero deitadi, nel qual numero sono le driadi, l'amadriadi, l'oreadi, le napee; appunto come gli americani ogni cosa che supera la loro picciola capacità fanno dèi. Talché le favole divine de' latini e de' greci dovetter essere i veri primi geroglifici, o caratteri sagri o divini, degli egizi. Il secondo parlare, che risponde all'età degli eroi, dissero gli egizi essersi parlato per simboli, a' quali sono da ridursi l'imprese eroiche, che dovetter essere le somiglianze mute che da Omero si dicono sémata (i segni co' quali scrivevan gli eroi); e 'n conseguenza dovetter essere metafore o immagini o somiglianze o comparazioni, che poi, con lingua articolata, fanno tutta la suppellettile della favella poetica. Perché certamente Omero, per una risoluta niegazione di Giuseffo ebreo che non ci sia venuto scrittore più antico di lui, egli vien ad essere il primo autor della lingua greca, e, avendo noi da' greci tutto ciò che di essa n'è giunto, fu il primo autore di tutta la gentilità. Appo i latini le prime memorie della loro lingua son i frammenti de' Carmi saliari, e 'l primo scrittore che ce n'è stato narrato è Livio Andronico poeta. E dal ricorso della barbarie d'Europa, essendovi rinnate altre lingue, la prima lingua degli spagnuoli fu quella che dicono «di romanzo» e, 'n conseguenza, di poesia eroica (perché i romanzieri furon i poeti eroici de' tempi barbari ritornati); in Francia, il primo scrittore in volgar francese fu Arnaldo Daniel Pacca, il primo di tutti i provenzali poeti, che fiorì nell'XI secolo; e finalmente i primi scrittori in Italia furon rimatori fiorentini e siciliani. Il parlare pistolare degli egizi, convenuto a spiegare le bisogne della presente comun vita tra gli lontani, dee esser nato dal volgo d'un popolo principe dell'Egitto, che dovett'esser quello di Tebe (il cui re, Ramse, come si è sopra detto, distese l'imperio sopra tutta quella gran nazione), perché per gli egizi corrisponda questa lingua all'età degli «uomini», quali si dicevano le plebi de' popoli eroici a differenza de' lor eroi, come si è sopra detto. E dee concepirsi esser provenuto da libera loro convenzione, per questa eterna propietà: ch'è diritto de' popoli il parlare e lo scriver volgare; onde Claudio imperadore avendo ritruovato tre altre lettere ch'abbisognavano alla lingua latina, il popolo romano non le volle ricevere, come gl'italiani non han ricevuto le ritruovate da Giorgio Trissino, che si sentono mancare all'italiana favella. Tali parlari pistolari, o sieno volgari, degli egizi si dovettero scrivere con lettere parimente volgari, le quali si truovano somiglianti alle volgari fenicie; ond'è necessario che gli uni l'avessero ricevute dagli altri. Coloro che oppinano gli egizi essere stati i primi ritruovatori di tutte le cose necessarie o utili all'umana società, in conseguenza di ciò debbon dire che gli egizi l'avessero insegnate a' fenici. Ma Clemente alessandrino, il quale dovett'esser informato meglio ch'ogni altro qualunque autore delle cose di Egitto, narra che Sancunazione o Sancuniate fenice (il quale nella Tavola cronologica sta allogato nell'età degli eroi di Grecia) avesse scritto in lettere volgari la storia fenicia, e sì il propone come primo autore della gentilità ch'abbia scritto in volgari caratteri; per lo qual luogo hassi a dire ch'i fenici, i quali certamente furono il primo popolo mercatante del mondo, per cagione di traffichi entrati in Egitto, v'abbiano portato le lettere loro volgari. Ma, senza alcun uopo d'argomenti e di congetture, la volgare tradizione ci accerta ch'essi fenici portarono le lettere in Grecia; sulla qual tradizione riflette Cornelio Tacito che le vi portarono come ritrovate da sé le lettere ritruovate da altri, che intende le geroglifiche egizie. Ma, perché la volgar tradizione abbia alcun fondamento di vero (come abbiamo universalmente pruovato tutte doverlo avere), diciamo che vi portarono le geroglifiche ricevute da altri, che non poteron essere ch'i caratteri mattematici o figure geometriche ch'essi ricevute avevano da' caldei (i quali senza contrasto furono i primi mattematici e spezialmente i primi astronomi delle nazioni; onde Zoroaste caldeo, detto così perché «osservatore degli astri», come vuole il Bocharto, fu il primo sappiente del gentilesimo), e se ne servirono per forme di numeri nelle loro mercatanzie, per cagion delle quali molto innanzi d'Omero praticavano nelle marine di Grecia. Lo che ad evidenza si pruova da essi poemi d'Omero, e spezialmente dall'Odissea, perché a' tempi d'Omero Gioseffo vigorosamente sostiene contro Appione greco gramatico che le lettere volgari non si erano ancor truovate tra' greci. I quali, con sommo pregio d'ingegno, nel quale certamente avvanzarono tutte le nazioni, trasportarono poi tai forme geometriche alle forme de' suoni articolati diversi, e con somma bellezza ne formarono i volgari caratteri delle lettere; le quali poscia si presero da' latini, ch'il medesimo Tacito osserva essere state somiglianti all'antichissime greche. Di che gravissima pruova è quella ch'i greci per lunga età, e fin agli ultimi loro tempi i latini, usarono lettere maiuscole per scriver numeri; che dev'esser ciò che Demarato corintio e Carmenta, moglie d'Evandro arcade, abbiano insegnato le lettere alli latini, come spiegheremo appresso che furono colonie greche, oltramarine e mediterranee, dedotte anticamente nel Lazio. Né punto vale ciò che molti eruditi contendono: - le lettere volgari dagli ebrei esser venute a' greci, perocché l'appellazione di esse lettere si osserva quasi la stessa appo degli uni e degli altri, - essendo più ragionevole che gli ebrei avessero imitata tal appellazione da' greci che questi da quelli. Perché dal tempo ch'Alessandro Magno conquistò l'imperio dell'Oriente (che dopo la di lui morte si divisero i di lui capitani) tutti convengono che 'l sermon greco si sparse per tutto l'Oriente e l'Egitto; e, convenendo ancor tutti che la gramatica s'introdusse assai tardi tra essi ebrei, necessaria cosa è ch'i letterati ebrei appellassero le lettere ebraiche con l'appellazione de' greci. Oltrecché, essendo gli elementi semplicissimi per natura, dovettero dapprima i greci battere semplicissimi i suoni delle lettere, che per quest'aspetto si dovettero dire «elementi»; siccome seguitarono a batterle i latini colla stessa gravità (con che conservarono le forme delle lettere somiglianti all'antichissime greche): laonde fu d'uopo dire che tal appellazione di lettere con voci composte fussesi tardi introdotta tra essi, e più tardi da' greci si fusse in Oriente portata agli ebrei. Per le quali cose ragionate si dilegua l'oppenion di coloro che vogliono Cecrope egizio aver portato le lettere volgari a' greci. Perché l'altra di coloro che stimano che Cadmo fenice le vi abbia portato da Egitto perocché fondò in Grecia una città col nome di Tebe, capitale della maggior dinastia degli egizi, si solverà appresso co' princìpi della Geografia poetica, per gli quali truoverassi ch'i greci, portatisi in Egitto, per una qualche simiglianza colla loro Tebe natia avessero quella capitale d'Egitto così chiamata. E finalmente s'intende perché avveduti critici, come riferisce l'autor anonimo inglese nell'Incertezza delle scienze, giudicano che per la sua troppa antichità cotal Sancuniate non mai sia stato nel mondo. Onde noi, per non tôrlo affatto dal mondo, stimiamo doversi porre a' tempi più bassi, e certamente dopo d'Omero; e per serbare maggior antichità a' fenici sopra de' greci d'intorno all'invenzion delle lettere che si dicon «volgari» (con la giusta proporzione, però, di quanto i greci furono più ingegnosi d'essi fenici), si ha a dire che Sancuniate sia stato alquanto innanzi d'Erodoto (il quale fu detto «padre della storia de' greci», la quale scrisse con favella volgare), per quello che Sancuniate fu detto lo «storico della verità», cioè scrittore del tempo istorico che Varrone dice nella sua divisione de' tempi: dal qual tempo, per la divisione delle tre lingue degli egizi, corrispondente alla divisione delle tre età del mondo scorse loro dinnanzi, essi parlarono con lingua pistolare, scritta con volgari caratteri. Or, siccome la lingua eroica ovvero poetica si fondò dagli eroi, così le lingue volgari sono state introdutte dal volgo, che noi dentro ritruoveremo essere state le plebi de' popoli eroici: le quali lingue propiamente da' latini furono dette «vernaculæ», che non potevan introdurre quelli «vernæ» che i gramatici diffiniscono «servi nati in casa dagli schiavi che si facevano in guerra», i quali naturalmente apprendono le lingue de' popoli dov'essi nascono. Ma dentro si truoverà ch'i primi e propiamente detti «vernæ» furon i famoli degli eroi nello stato delle famiglie, da' quali poi si compose il volgo delle prime plebi dell'eroiche città, e furono gli abbozzi degli schiavi, che finalmente dalle città si fecero con le guerre. E tutto ciò si conferma con le due lingue che dice Omero, una degli dèi, altra degli uomini, che noi qui sopra spiegammo «lingua eroica» e «lingua volgare», e quindi a poco lo spiegheremo vieppiù. Ma delle lingue volgari egli è stato ricevuto con troppo di buona fede da tutti i filologi ch'elleno significassero a placito, perch'esse, per queste lor origini naturali, debbon aver significato naturalmente, lo che è facile osservare nella lingua volgar latina (la qual è più eroica della greca volgare, e perciò più robusta quanto quella è più dilicata), che quasi tutte le voci ha formate per trasporti di nature o per propietà naturali o per effetti sensibili; e generalmente la metafora fa il maggior corpo delle lingue appo tutte le nazioni. Ma i gramatici, abbattutisi in gran numero di vocaboli che danno idee confuse e indistinte di cose, non sappiendone le origini, che le dovettero dapprima formare luminose e distinte, per dar pace alla loro ignoranza, stabilirono universalmente la massima che le voci umane articolate significano a placito, e vi trassero Aristotile con Galeno ed altri filosofi, e gli armarono contro Platone e Giamblico, come abbiam detto. Ma pur rimane la grandissima difficultà: come, quanti sono i popoli, tante sono le lingue volgari diverse? La qual per isciogliere, è qui da stabilirsi questa gran verità: che, come certamente i popoli per la diversità de' climi han sortito varie diverse nature, onde sono usciti tanti costumi diversi; così dalle loro diverse nature e costumi sono nate altrettante diverse lingue: talché, per la medesima diversità delle loro nature, siccome han guardato le stesse utilità o necessità della vita umana con aspetti diversi, onde sono uscite tante per lo più diverse ed alle volte tra lor contrarie costumanze di nazioni; così e non altrimente son uscite in tante lingue, quant'esse sono, diverse. Lo che si conferma ad evidenza co' proverbi, che sono massime di vita umana, le stesse in sostanza, spiegate con tanti diversi aspetti quante sono state e sono le nazioni, come nelle Degnità si è avvisato. Quindi le stesse origini eroiche, conservate in accorcio dentro i parlari volgari, han fatto ciò che reca tanta maraviglia a' critici biblici: ch'i nomi degli stessi re, nella storia sagra detti d'una maniera, si leggono d'un'altra nella profana; perché l'una per avventura [considerò] gli uomini per lo riguardo dell'aspetto, della potenza; l'altra per quello de' costumi, dell'imprese o altro che fusse stato: come tuttavia osserviamo le città d'Ungheria altrimente appellarsi dagli ungheri, altrimente da' greci, altrimente da' tedeschi, altrimente da' turchi. E la lingua tedesca, ch'è lingua eroica vivente, ella trasforma quasi tutti i nomi delle lingue straniere nelle sue propie natie; lo che dobbiam congetturare aver fatto i latini e i greci ove ragionano di tante cose barbare con bell'aria greca e latina: la qual dee essere la cagione dell'oscurezza che s'incontra nell'antica geografia e nella storia naturale de' fossili, delle piante e degli animali. Perciò da noi in quest'opera la prima volta stampata si è meditata un'Idea d'un dizionario mentale da dare le significazioni a tutte le lingue articolate diverse, riducendole tutte a certe unità d'idee in sostanza, che, con varie modificazioni guardate da' popoli, hanno da quelli avuto vari diversi vocaboli; del quale tuttavia facciamo uso nel ragionar questa Scienza. E ne diemmo un pienissimo saggio nel capo IV, dove facemmo vedere i padri di famiglia, per quindeci aspetti diversi osservati nello stato delle famiglie e delle prime repubbliche, nel tempo che si dovettero formare le lingue (del qual tempo sono gravissimi gli argomenti d'intorno alle cose i quali si prendono dalle natie significazioni delle parole, come se n'è proposta una degnità), essere stati appellati con altrettanti diversi vocaboli da quindeci nazioni antiche e moderne; il qual luogo è uno degli tre per gli quali non ci pentiamo di quel libro stampato. Il qual Dizionario ragiona per altra via l'argomento che tratta Tommaso Hayne nella dissertazione De linguarum cognatione e nell'altre De linguis in genere e Variarum linguarum harmonia. Da tutto lo che si raccoglie questo corollario: che quanto le lingue sono più ricche di tali parlari eroici accorciati tanto sono più belle, e per ciò più belle perché son più evidenti, e perché più evidenti sono più veraci e più fide; e, al contrario, quanto sono più affollate di voci di tali nascoste origini sono meno dilettevoli, perché oscure e confuse, e perciò più soggette ad inganni ed errori. Lo che dev'essere delle lingue formate col mescolamento di molte barbare, delle quali non ci è venuta la storia delle loro origini e de' loro trasporti. Ora, per entrare nella difficilissima guisa della formazione di tutte e tre queste spezie e di lingue e di lettere, è da stabilirsi questo principio: che, come dallo stesso tempo cominciarono gli dèi, gli eroi e gli uomini (perch'eran pur uomini quelli che fantasticaron gli dèi e credevano la loro natura eroica mescolata di quella degli dèi e di quella degli uomini), così nello stesso tempo cominciarono tali tre lingue (intendendo sempre andar loro del pari le lettere); però con queste tre grandissime differenze: che la lingua degli dèi fu quasi tutta muta, pochissima articolata; la lingua degli eroi, mescolata egualmente e di articolata e di muta, e 'n conseguenza di parlari volgari e di caratteri eroici co' quali scrivevano gli eroi, che sémata dice Omero; la lingua degli uomini, quasi tutta articolata e pochissima muta, perocché non vi ha lingua volgare cotanto copiosa ove non sieno più le cose che le sue voci. Quindi fu necessario che la lingua eroica nel suo principio fusse sommamente scomposta; ch'è un gran fonte dell'oscurità delle favole. Di che sia esemplo insigne quella di Cadmo: egli uccide la gran serpe, ne semina i denti, da' solchi nascono uomini armati, gitta una gran pietra tra loro, questi a morte combattono, e finalmente esso Cadmo si cangia in serpe. Cotanto fu ingegnoso quel Cadmo il qual portò le lettere a' greci, di cui fu trammandata questa favola, che, come la spiegheremo appresso, contiene più centinaia d'anni di storia poetica! In séguito del già detto, nello stesso tempo che si formò il carattere divino di Giove, che fu il primo di tutt'i pensieri umani della gentilità, incominciò parimente a formarsi la lingua articolata con l'onomatopea, con la quale tuttavia osserviamo spiegarsi felicemente i fanciulli. Ed esso Giove fu da' latini, dal fragor del tuono, detto dapprima «Ious»; dal fischio del fulmine da' greci fu detto Zéus; dal suono che dà il fuoco ove brucia, dagli orientali dovett'essere detto «Ur», onde venne «Urim», la potenza del fuoco; dalla quale stessa origine dovett'a' greci venir detto uranós il cielo, ed a' latini il verbo «uro», «bruciare»; a' quali, dallo stesso fischio del fulmine, dovette venire «cel», uno de' monosillabi d'Ausonio, ma con prononziarlo con la «ç» degli spagnuoli, perché costi l'argutezza del medesimo Ausonio, ove di Venere così bisquitta: Nata salo, suscepta solo, patre edita coelo. Dentro le quali origini è da avvertirsi che, con la stessa sublimità dell'invenzione della favola di Giove, qual abbiamo sopra osservato, incomincia egualmente sublime la locuzion poetica con l'onomatopea, la quale certamente Dionigi Longino pone tra' fonti del sublime, e l'avvertisce, appo Omero, nel suono che diede l'occhio di Polifemo, quando vi si ficcò la trave infuocata da Ulisse, che fece síz. Seguitarono a formarsi le voci umane con l'interiezioni, che sono voci articolate all'émpito di passioni violente, che 'n tutte le lingue son monosillabe. Onde non è fuori del verisimile che, da' primi fulmini incominciata a destarsi negli uomini la maraviglia, nascesse la prima interiezione da quella di Giove, formata con la voce «pa!», e che poi restò raddoppiata «pape!», interiezione di maraviglia, onde poi nacque a Giove il titolo di «padre degli uomini e degli dèi», e quindi appresso che tutti gli dèi se ne dicessero «padri», e «madri» tutte le dèe; di che restaron a' latini le voci «Iupiter», «Diespiter», «Marspiter», «Iuno genitrix»: la quale certamente le favole narranci essere stata sterile; ed osservammo, sopra, tanti altri dèi e dèe nel cielo non contrarre tra essolor matrimoni (perché Venere fu detta «concubina», non già «moglie» di Marte), e nulla di meno tutti appellavansi «padri» (di che vi hanno alcuni versi di Lucilio, riferiti nelle Note al Diritto universale). E si dissero «padri» nel senso nel quale «patrare» dovette significare dapprima il fare, ch'è propio di Dio, come vi conviene anco la lingua santa ch'in narrando la criazione del mondo, dice che nel settimo giorno Iddio riposò «ab opere quod patrarat». Quindi dev'essere stato detto «impetrare», che si disse quasi «impatrare», che nella scienza augurale si diceva «impetrire», ch'era «riportar il buon augurio», della cui origine dicono tante inezie i latini gramatici: lo che pruova che la prima interpetrazione fu delle leggi divine ordinate con gli auspìci, così detta quasi «interpatratio». Or sì fatto divino titolo, per la natural ambizione dell'umana superbia, avendosi arrogato gli uomini potenti nello stato delle famiglie, essi si appellarono «padri» (lo che forse diede motivo alla volgar tradizione ch'i primi uomini potenti della terra si fecero adorare per dèi); ma, per la pietà dovuta ai numi, quelli i numi dissero «dèi», ed appresso anco, presosi gli uomini potenti delle prime città il nome di «dèi», per la stessa pietà i numi dissero «dèi immortali», a differenza dei «dèi mortali», ch'eran tali uomini. Ma in ciò si può avvertire la goffaggine di tai giganti, qual i viaggiatori narrano de los patacones: della quale vi ha un bel vestigio in latinità, lasciatoci nell'antiche voci «pipulum» e «pipare» nel significato di «querela» e di «querelarsi», che dovette venire dall'interiezione di lamento «pi, pi»; nel qual sentimento vogliono che «pipulum» appresso Plauto sia lo stesso che «obvagulatio» delle XII Tavole, la qual voce deve venir da «vagire», ch'è propio il piagnere de' fanciulli. Talché è necessario dall'interiezione di spavento esser nata a' greci la voce paián, incominciata da pái; di che vi ha appo essi un'aurea tradizione antichissima: ch'i greci, spaventati dal gran serpente detto Pitone, invocarono in loro soccorso Apollo con quelle voci: iò paiáv che prima tre volte batterono tarde, essendo illanguiditi dallo spavento, e poi, per lo giubilo perch'avevalo Apollo ucciso, gli acclamarono altrettante volte battendole preste, col dividere l'omega in due omicron, e 'l dittongo ai in due sillabe. Onde nacque naturalmente il verso eroico prima spondaico e poi divenne dattilico, e ne restò quell'eterna propietà ch'egli in tutte l'altre sedi cede il luogo al dattilo, fuorché nell'ultima; e naturalmente nacque il canto, misurato dal verso eroico, agl'impeti di passioni violentissime, siccome tuttavia osserviamo nelle grandi passioni gli uomini dar nel canto e, sopra tutti, i sommamente afflitti ed allegri, come si è detto nelle Degnità. Lo che qui detto quindi a poco recherà molto uso ove ragioneremo dell'origini del canto e de' versi. S'innoltrarono a formar i pronomi, imperocché l'interiezioni sfogano le passioni propie, lo che si fa anco da soli, ma i pronomi servono per comunicare le nostre idee con altrui d'intorno a quelle cose che co' nomi propi o noi non sappiamo appellare o altri non sappia intendere. E i pronomi, pur quasi tutti, in tutte le lingue la maggior parte son monosillabi; il primo de' quali, o almeno tra' primi, dovett'esser quello di che n'è rimasto quel luogo d'oro d'Ennio: Aspice hoc sublime cadens, quem omnes invocant Iovem, ov'è detto «hoc» invece di «coelum», e ne restò in volgar latino Luciscit hoc iam invece di «albescit coelum». E gli articoli dalla lor nascita hanno questa eterna propietà: d'andare innanzi a' nomi a' quali son attaccati. Dopo si formarono le particelle, delle quali sono gran parte le preposizioni, che pure quasi in tutte le lingue son monosillabe; che conservano col nome questa eterna propietà: di andar innanzi a' nomi che le domandano ed a' verbi co' quali vanno a comporsi. Tratto tratto s'andarono formando i nomi; de' quali nell'Origini della lingua latina, ritruovate in quest'opera la prima volta stampata, si novera una gran quantità nati dentro del Lazio, dalla vita d'essi latini selvaggia, per la contadinesca, infin alla prima civile, formati tutti monosillabi, che non han nulla d'origini forestiere, nemmeno greche, a riserba di quattro voci: bûs, sûs, mûs, séps, ch'a' latini significa «siepe» e a' greci «serpe». Il qual luogo è l'altro degli tre che stimiamo esser compiuti in quel libro, perch'egli può dar l'esemplo a' dotti dell'altre lingue di doverne indagare l'origini con grandissimo frutto della repubblica letteraria; come certamente la lingua tedesca, ch'è lingua madre (perocché non vi entrarono mai a comandare nazioni straniere), ha monosillabe tutte le sue radici. Ed esser nati i nomi prima de' verbi ci è appruovato da questa eterna propietà: che non regge orazione se non comincia da nome ch'espresso o taciuto la regga. Finalmente gli autori delle lingue si formarono i verbi, come osserviamo i fanciulli spiegar nomi, particelle, e tacer i verbi. Perché i nomi destano idee che lasciano fermi vestigi; le particelle, che significano esse modificazioni, fanno il medesimo; ma i verbi significano moti, i quali portano l'innanzi e 'l dopo, che sono misurati dall'indivisibile del presente, difficilissimo ad intendersi dagli stessi filosofi. Ed è un'osservazione fisica che di molto appruova ciò che diciamo, che tra noi vive un uomo onesto, tòcco da gravissima apoplessia, il quale mentova nomi e sì è affatto dimenticato de' verbi. E pur i verbi che sono generi di tutti gli altri - quali sono «sum» dell'essere, al quale si riducono tutte l'essenze, ch'è tanto dire tutte le cose metafisiche; «sto» della quiete, «eo» del moto, a' quali si riducono tutte le cose fisiche; «do», «dico» e «facio», a' quali si riducono tutte le cose agibili, sien o morali o famigliari o finalmente civili - dovetter incominciare dagl'imperativi; perché nello stato delle famiglie, povero in sommo grado di lingua, i padri soli dovettero favellare e dar gli ordini a' figliuoli ed a' famoli, e questi, sotto i terribili imperi famigliari, quali poco appresso vedremo, con cieco ossequio dovevano tacendo eseguirne i comandi. I quali imperativi sono tutti monosillabi, quali ci son rimasti «es», «sta», «i», «da», «dic», «fac». Questa generazione delle lingue è conforme a' princìpi così dell'universale natura, per gli quali gli elementi delle cose tutte sono indivisibili, de' quali esse cose si compongono e ne' quali vanno a risolversi, come a quelli della natura particolare umana, per quella Degnità ch'«i fanciulli, nati in questa copia di lingue e c'hanno mollissime le fibbre dell'istromento da articolare le voci, le incominciano monosillabe»: che molto più si dee stimare de' primi uomini delle genti, i quali l'avevano durissime, né avevano udito ancor voce umana. Di più ella ne dà l'ordine con cui nacquero le parti dell'orazione, e 'n conseguenza le naturali cagioni della sintassi. Le quali cose tutte sembrano più ragionevoli di quello che Giulio Cesare Scaligero e Francesco Sanzio ne han detto a proposito della lingua latina. Come se i popoli che si ritruovaron le lingue avessero prima dovuto andare a scuola d'Aristotile, coi cui princìpi ne hanno amendue ragionato! V COROLLARI D'INTORNO ALL'ORIGINI DELLA LOCUZION POETICA, DEGLI EPISODI, DEL TORNO, DEL NUMERO, DEL CANTO E DEL VERSO. In cotal guisa si formò la lingua poetica per le nazioni, composta di caratteri divini ed eroici, dappoi spiegati con parlari volgari, e finalmente scritti con volgari caratteri. E nacque tutta da povertà di lingua e necessità di spiegarsi; lo che si dimostra con essi primi lumi della poetica locuzione, che sono l'ipotiposi, l'immagini, le somiglianze, le comparazioni, le metafore, le circoscrizioni, le frasi spieganti le cose per le loro naturali propietà, le descrizioni raccolte dagli effetti o più minuti o più risentiti, e finalmente per gli aggiunti enfatici ed anche oziosi. Gli episodi sono nati da essa grossezza delle menti eroiche, che non sapevano sceverare il propio delle cose che facesse al loro proposito, come vediamo usargli naturalmente gl'idioti e sopra tutti le donne. I torni nacquero dalla difficultà di dar i verbi al sermone, che, come abbiam veduto, furono gli ultimi a ritruovarsi; onde i greci, che furono più ingegnosi, essi tornarono il parlare men de' latini, e i latini meno di quel che fanno i tedeschi. Il numero prosaico fu inteso tardi dagli scrittori - nella greca lingua da Gorgia leontino e nella latina da Cicerone, - perocché innanzi, al riferire di Cicerone medesimo, avevano renduto numerose l'orazioni con certe misure poetiche; lo che servirà molto quindi a poco, ove ragioneremo dell'origini del canto e de' versi. Da tutto ciò sembra essersi dimostrato la locuzion poetica esser nata per necessità di natura umana prima della prosaica; come per necessità di natura umana nacquero, esse favole, universali fantastici, prima degli universali ragionati o sieno filosofici, i quali nacquero per mezzo di essi parlari prosaici. Perocché, essendo i poeti, innanzi, andati a formare la favella poetica con la composizione dell'idee particolari (come si è appieno qui dimostrato), da essa vennero poi i popoli a formare i parlari da prosa col contrarre in ciascheduna voce, come in un genere, le parti ch'aveva composte la favella poetica; e di quella frase poetica, per essemplo: «mi bolle il sangue nel cuore» (ch'è parlare per propietà naturale, eterno ed universale a tutto il gener umano), del sangue, del ribollimento e del cuore fecero una sola voce, com'un genere, che da' greci fu detto stómachos, da' latini «ira», dagl'italiani «collera». Con egual passo, de' geroglifici e delle lettere eroiche si fecero poche lettere volgari, come generi da conformarvi innumerabili voci articolate diverse, per lo che vi abbisognò fior d'ingegno; co' quali generi volgari, e di voci e di lettere, s'andarono a fare più spedite le menti de' popoli ed a formarsi astrattive, onde poi vi poterono provenir i filosofi, i quali formaron i generi intelligibili. Lo che qui ragionato è una particella della storia dell'idee. Tanto l'origini delle lettere, per truovarsi, si dovevano ad un fiato trattare con l'origini delle lingue! Del canto e del verso si sono proposte quelle Degnità: che, dimostrata l'origine degli uomini mutoli, dovettero dapprima, come fanno i mutoli, mandar fuori le vocali cantando; dipoi, come fanno gli scilinguati, dovettero pur cantando mandar fuori l'articolate di consonanti. Di tal primo canto de' popoli fanno gran pruova i dittonghi ch'essi ci lasciarono nelle lingue, che dovettero dapprima esser assai più in numero; siccome i greci e i francesi, che passarono anzi tempo dall'età poetica alla volgare, ce n'han lasciato moltissimi, come nelle Degnità si è osservato. E la cagion si è che le vocali sono facili a formarsi ma le consonanti difficili; e perché si è dimostrato che tai primi uomini stupidi, per muoversi a profferire le voci, dovevano sentire passioni violentissime, le quali naturalmente si spiegano con altissima voce; e la natura porta ch'ove uomo alzi assai la voce, egli dia ne' dittonghi e nel canto, come nelle Degnità si è accennato: onde poco sopra dimostrammo i primi uomini greci, nel tempo de' loro dèi, aver formato il primo verso eroico spondaico col dittongo pái e pieno due volte più di vocali che consonanti. Ancora tal primo canto de' popoli nacque naturalmente dalla difficultà delle prime prononzie, la qual si dimostra come dalle cagioni così dagli effetti. Da quelle, perché tali uomini avevano formato di fibbre assai dure l'istrumento d'articolare le voci, e di voci essi ebbero pochissime; come al contrario i fanciulli, di fibbre mollissime, nati in questa somma copia di voci, si osservano con somma difficultà prononziare le consonanti (come nelle Degnità s'è pur detto), e i chinesi, che non hanno più che trecento voci articolate, che, variamente modificando, e nel suono e nel tempo, corrispondono, con la lingua volgare a' loro cenventimila geroglifici, parlan essi cantando. Per gli effetti, si dimostra dagli accorciamenti delle voci, i quali s'osservano innumerabili nella poesia italiana (e nell'Origini della lingua latina n'abbiamo dimostro un gran numero, che dovettero nascere accorciate e poi essersi col tempo distese); ed al contrario da' ridondamenti, perocché gli scilinguati da alcuna sillaba, alla quale sono più disposti di profferire cantando, prendon essi compenso di profferir quelle che loro riescono di difficil prononzia (come pure nelle Degnità sta proposto); onde appo noi nella mia età fu un eccellente musico di tenore con tal vizio di lingua: ch'ove non poteva profferir le parole, dava in un soavissimo canto e così le prononziava. Così certamente gli arabi cominciano quasi tutte le voci da «al»; ed affermano gli unni fussero stati così detti che le cominciassero tutte da «un». Finalmente si dimostra che le lingue incominciaron dal canto per ciò che testé abbiam detto: ch'innanzi di Gorgia e di Cicerone i greci e i latini prosatori usarono certi numeri quasi poetici, come a' tempi barbari ritornati fecero i Padri della Chiesa latina (truoverassi il medesimo della greca), talché le loro prose sembrano cantilene. Il primo verso (come abbiamo poco fa dimostrato di fatto che nacque) dovette nascere convenevole alla lingua ed all'età degli eroi, qual fu il verso eroico, il più grande di tutti gli altri e propio dell'eroica poesia; e nacque da passioni violentissime di spavento e di giubilo, come la poesia eroica non tratta che passioni perturbatissime. Però non nacque spondaico per lo gran timor del Pitone, come la volgar tradizione racconta; la qual perturbazione affretta l'idee e le voci più tosto che le ritarda, onde appo i latini «solicitus» e «festinans» significano «timoroso»: ma per la tardezza delle menti e difficultà delle lingue degli autori delle nazioni nacque prima, come abbiam dimostro, spondaico, di che si mantiene in possesso, che nell'ultima sede non lascia mai lo spondeo; dappoi, faccendosi più spedite e le menti e le lingue, v'ammise il dattilo; appresso, spedendosi entrambe vieppiù, nacque il giambico, il cui piede è detto «presto» da Orazio (come di tali origini si sono proposte due Degnità); finalmente, fattesi quelle speditissime, venne la prosa, la quale, come testé si è veduto, parla quasi per generi intelligibili; ed alla prosa il verso giambico s'appressa tanto, che spesso innavedutamente cadeva a' prosatori scrivendo. Così il canto s'andò ne' versi affrettando co' medesimi passi co' quali si spedirono nelle nazioni e le lingue e l'idee, come anco nelle Degnità si è avvisato. Tal filosofia ci è confermata dalla storia, la quale la più antica cosa che narra sono gli oracoli e le sibille, come nelle Degnità si è proposto; onde, per significare una cosa esser antichissima, vi era il detto: «quella essere più vecchia della sibilla»; e le sibille furono sparse per tutte le prime nazioni, delle quali ci sono pervenute pur dodici. Ed è volgar tradizione che le sibille cantarono in verso eroico, e gli oracoli per tutte le nazioni pur in verso eroico davano le risposte; onde tal verso da' greci fu detto «pizio» dal loro famoso oracolo d'Apollo pizio (il qual dovette così appellarsi dall'ucciso serpente detto Pitone, onde noi sopra abbiam detto esser nato il primo verso spondaico), e da' latini fu detto «verso saturnio», come ne accerta Festo; che dovette in Italia nascere nell'età di Saturno, che risponde all'età dell'oro de' greci, nella quale Apollo, come gli altri dèi, praticava in terra con gli uomini. Ed Ennio, appo il medesimo Festo, dice che con tal verso i fauni rendevano i fati ovvero gli oracoli nell'Italia (che certamente tra' greci, com'or si è detto, si rendevano in versi esametri); ma poi «versi saturni» restaron detti i giambici senari, forse perché così poi naturalmente si parlava in tai versi saturni giambici, come innanzi si era naturalmente parlato in versi saturni eroici. Quantunque oggi dotti di lingua santa sien divisi in oppenioni diverse d'intorno alla poesia degli ebrei, s'ella è composta di metri o veramente di ritmi, però Gioseffo, Filone, Origene, Eusebio stanno a favore de' metri, e per ciò che fa sommamente al nostro proposito san Girolamo vuole che 'l libro di Giobbe, il qual è più antico di quei di Mosè, fusse stato tessuto in verso eroico da principio del III capo fin al principio del capo XLII. Gli arabi, ignoranti di lettera, come riferisce l'autor anonimo dell'Incertezza delle scienze, conservarono la loro lingua con tener a memoria i loro poemi finattanto ch'innondarono le provincie orientali del greco imperio. Gli egizi scrivevano le memorie de' lor difonti nelle siringi, o colonne, in verso, dette da «sir», che vuol dire «canzona»; onde vien detta «Sirena», deità senza dubbio celebre per lo canto, nel qual Ovidio dice esser egualmente stata celebre che 'n bellezza la ninfa detta Siringa: per la qual origine si deve lo stesso dire ch'avessero dapprima parlato in versi i siri e gli assiri. Certamente i fondatori della greca umanità furon i poeti teologi, e furon essi eroi, e cantarono in verso eroico. Vedemmo i primi autori della lingua latina essere stati i salii, che furon poeti sagri, da' quali si hanno i frammenti de' versi saliari, c'hanno un'aria di versi eroici, che sono le più antiche memorie della latina favella. Gli antichi trionfanti romani lasciarono le memorie de' loro trionfi pur in aria di verso eroico, come Lucio Emilio Regillo quella: Duello magno dirimendo, regibus subiugandis, Acilio Glabrione quell'altra: Fudit, fugat, prosternit maximas legiones, ed altri altre. I frammenti della legge delle XII Tavole, se bene vi si rifletta, nella più parte de' suoi capi va[nno] a terminar in versi adonî, che sono ultimi ritagli di versi eroici; lo che Cicerone dovette imitare nelle sue Leggi, le quali così incominciano: Deos caste adeunto. Pietatem adhibento. Onde, al riferire del medesimo, dovette venire quel costume romano: ch'i fanciulli, per dirla con le di lui parole, «tanquam necessarium carmen», andavano cantando essa legge; non altrimenti che Eliano narra che facevano i fanciulli cretesi. Perché certamente Cicerone, famoso ritruovatore del numero prosaico appresso i latini, come Gorgia leontino lo era stato tra' greci (lo che sopra si è riflettuto), doveva schifare nella prosa, e prosa di sì grave argomento, nonché versi così sonori, anche i giambici (i quali tanto la prosa somigliano), da' quali si guardò scrivendo anco lettere famigliari. Onde di tal spezie di verso bisogna che sieno vere quelle volgari tradizioni: delle quali la prima è appresso Platone, la qual dice che le leggi degli egizi furono poemi della dea Iside; la seconda è appresso Plutarco, la quale narra che Ligurgo diede agli spartani in verso le leggi, a' quali con una particolar legge aveva proibito saper di lettera; la terza è appo Massimo tirio, la qual racconta Giove aver dato a Minosse le leggi in verso; la quarta ed ultima è riferita da Suida, che Dragone dettò in verso le leggi agli ateniesi, il quale pur volgarmente ci vien narrato averle scritte col sangue. Ora, ritornando dalle leggi alle storie, riferisce Tacito ne' Costumi de' germani antichi che da quelli si conservavano conceputi in versi i princìpi della loro storia; e quivi Lipsio, nelle Annotazioni, riferisce il medesimo degli americani. Le quali autorità di due nazioni, delle quali la prima non fu conosciuta da altri popoli che tardi assai da' romani, la seconda fu scoverta due secoli fa da' nostri europei, ne danno un forte argomento di congetturare lo stesso di tutte l'altre barbare nazioni, così antiche come moderne; e, senza uopo di conghietture, de' persiani tralle antiche, e de' chinesi tralle nuovamente scoperte, si ha dagli autori che le prime loro storie scrissero in versi. E qui si facci questa importante riflessione: che, se i popoli si fondarono con le leggi, e le leggi appo tutti furono in versi dettate, e le prime cose de' popoli pur in versi si conservarono; necessaria cosa è che tutti i primi popoli furono di poeti. Ora - ripigliando il proposto argomento d'intorno all'origini del verso - al riferire di Festo, ancora le guerre cartaginesi furono da Nevio innanzi di Ennio scritte in verso eroico; e Livio Andronico, il primo scrittor latino, scrisse la Romanide, ch'era un poema eroico il quale conteneva gli annali degli antichi romani. Ne' tempi barbari ritornati essi storici latini furon poeti eroici, come Guntero, Guglielmo pugliese ed altri. Abbiam veduto i primi scrittori nelle novelle lingue d'Europa essere stati verseggiatori; e nella Silesia, provincia quasi tutta di contadini, nascon poeti. E generalmente, perocché cotal lingua troppo intiere conserva le sue origini eroiche, questa è la cagione, di cui ignaro, Adamo Rochembergio afferma che le voci composte de' greci si possono felicemente rendere in lingua tedesca, spezialmente in poesia; e 'l Berneggero ne scrisse un catalogo, e poi si studiò d'arricchire Giorgio Cristoforo Peischero in Indice de græcæ et germanicæ linguæ analogia. Nella qual parte, di comporre le intiere voci tra loro, la lingua latina antica ne lasciò pur ben molte, delle quali, come di lor ragione, seguitarono a servirsi i poeti: perché dovett'essere propietà comune di tutte le prime lingue, le quali, come si è dimostrato, prima si fornirono di nomi, dappoi di verbi, e sì, per inopia di verbi, avesser unito essi nomi. Che devon esser i princìpi di ciò che scrisse il Morhofio in Disquisitionibus de germanica lingua et poesi. E questa sia una pruova dell'avviso che diemmo nelle Degnità: che, se i dotti della lingua tedesca attendano a truovarne l'origini per questi princìpi, vi faranno delle discoverte maravigliose. Per le quali cose tutte qui ragionate sembra ad evidenza essersi confutato quel comun error de' gramatici, i quali dicono la favella della prosa esser nata prima, e dopo quella del verso; e dentro l'origini della poesia, quali qui si sono scoverte, si son truovate l'origini delle lingue e l'origini delle lettere. 6. GLI ALTRI COROLLARI LI QUALI SI SONO DA PRINCIPIO PROPOSTI. I Con tal primo nascere de' caratteri e delle lingue nacque il gius, detto «ious» da' latini, e dagli antichi greci diaión - che noi sopra spiegammo «celeste», detto da Diós; onde a' latini vennero «sub dio» egualmente e «sub Iove» per dir «a ciel aperto» - e, come dice Platone nel Cratilo, che poi per leggiadria di favella fu detto díkaion. Perché universalmente da tutte le nazioni gentili fu osservato il cielo con l'aspetto di Giove, per riceverne le leggi ne' di lui divini avvisi o comandi, che credevan esser gli auspìci; lo che dimostra tutte le nazioni esser nate sulla persuasione della provvedenza divina. E, 'ncominciandole a noverare, Giove a' caldei fu 'l cielo, in quanto era creduto dagli aspetti e moti delle stelle avvisar l'avvenire, e ne furon dette «astronomia» e «astrologia» le scienze quella delle leggi e questa del parlare degli astri, ma nel senso d'«astrologia giudiziaria», come «chaldæi» per «astrolaghi giudiziari» restarono detti nelle leggi romane. A' persiani egli fu Giove ben anco il cielo, in quanto si credeva significare le cose occulte agli uomini. Della qual scienza i sappienti se ne dissero «maghi», e restonne appellata «magia» così la permessa, ch'è la naturale delle forze occulte maravigliose della natura, come la vietata delle sopranaturali, nel qual senso restò «mago» detto per «istregone». E i maghi adoperavano la verga (che fu il lituo degli àuguri appo i romani) e descrivevano i cerchi degli astronomi; della qual verga e cerchi poi si sono serviti i maghi nelle loro stregonerie. Ed a' persiani il cielo fu il templo di Giove, con la qual religione Ciro rovinava i templi fabbricati per la Grecia. Agli egizi pur Giove fu 'l cielo, in quanto si credeva influire nelle cose sublunari ed avvisar l'avvenire; onde credevano fissare gl'influssi celesti nel fondere a certi tempi l'immagini, ed ancor oggi conservano una volgar arte d'indovinare. A' greci fu anco Giove esso cielo, in quanto ne consideravano i teoremi e i matemi altre volte detti, che credevano cose divine o sublimi da contemplarsi con gli occhi del corpo e da osservarsi (in senso di «eseguirsi») come leggi di Giove; da' quai matemi nelle leggi romane «mathematici» si dicono gli astrolaghi giudiziari. De' romani è famoso il sopra qui riferito verso di Ennio: Aspice hoc sublime cadens, quem omnes invocant Iovem, preso il pronome «hoc», come si è detto, in significato di «coelum»; ed a' medesimi si dissero «templa coeli», che pur sopra si sono dette le regioni del cielo disegnate dagli àuguri per prender gli auspìci. E ne restò a' latini «templum» per significare ogni luogo che da ogni parte ha libero e di nulla impedito il prospetto; ond'è «extemplo» in significato di «subito», e «neptunia templa» disse il mare, con maniera antica, Virgilio. De' germani antichi narra Tacito ch'adoravano i loro dèi entro luoghi sagri, che chiama «lucos et nemora», che dovetter essere selve rasate dentro il chiuso de' boschi (del qual costume durò fatiga la Chiesa per dissavvezzargli, come si raccoglie da' concili stanetense e bracarense nella Raccolta de' decreti lasciataci dal Buchardo), ed ancor oggi se ne serbano in Lapponia e Livonia i vestigi. De' peruani si è truovato Iddio dirsi assolutamente «il Sublime», i cui templi sono, a ciel aperto, poggi ove si sale da due lati per altissime scale, nella qual altezza ripongono tutta la loro magnificenza. Onde dappertutto la magnificenza de' templi or è riposta in una loro sformatissima altezza. La cima de' quali troppo a nostro proposito si truova appresso Pausania dirsi ætós, che vuol dir «aquila»; perché si sboscavano le selve per aver il prospetto di contemplare donde venivano gli auspìci dell'aquile, che volan alto più di tutti gli uccelli. E forse quindi le cime ne furon dette «pinnæ templorum», donde poi dovettero dirsi «pinnæ murorum», perché sui confini di tali primi templi del mondo dopo s'alzarono le mura delle prime città, come appresso vedremo. E finalmente in architettura restaron dette «aquilæ» i «merli» ch'or diciamo degli edifici. Ma gli ebrei adoravano il vero Altissimo, ch'è sopra il cielo, nel chiuso del tabernacolo; e Mosè, per dovunque stendeva il popolo di Dio le conquiste, ordinava che fussero bruciati i boschi sagri che dice Tacito, dentro i quali si chiudessero i «luci». Onde si raccoglie che dappertutto le prime leggi furono le divine di Giove. Dalla qual antichità dev'essere provenuto nelle lingue di molte nazioni cristiane di prender «il cielo» per «Dio»: come noi italiani diciamo «voglia il cielo», «spero al cielo», nelle quali espressioni intendiamo «Dio»; lo stesso è usato dagli spagnuoli; e i francesi dicono «bleu» per l'«azzurro», e perché la voce «azzurro» è di cosa sensibile, dovetter intendere «bleu» per «lo cielo»; e quindi, come le nazioni gentili avevano inteso «il cielo» per «Giove», dovettero i francesi per «lo cielo» intendere «Dio» in quell'empia loro bestemmia «moure bleu!»per «muoia Iddio!», e tuttavia dicono «par bleu!» «per Dio!». E questo può esser un saggio del Vocabolario mentale proposto nelle Degnità, del quale sopra si è ragionato. II La certezza de' domìni fece gran parte della necessità di ritrovar i «caratteri» e i «nomi» nella significazione natia di «case diramate in molte famiglie», che con la loro somma propietà si appellarono «genti». Così Mercurio Trimegisto, carattere poetico de' primi fondatori degli egizi, quale l'abbiam dimostrato, ritruovò loro e le leggi e le lettere. Dal qual Mercurio, che fu altresì creduto dio delle mercatanzie, gl'italiani (la qual uniformità di pensare e spiegarsi, fin a' nostri dì conservata, dee recar maraviglia) dicono «mercare» il contrasegnare con lettere o con imprese i bestiami o altre robe da mercantare, per distinguere ed accertarne i padroni. III Queste sono le prime origini dell'imprese gentilizie e quindi delle medaglie. Dalle qual'imprese, ritruovate prima per private e poi per pubbliche necessità, vennero per diletto l'imprese erudite, le quali, indovinando, dissero «eroiche», le quali bisogna animare co' motti, perché hanno significazioni analoghe, ove l'imprese eroiche naturali lo erano per lo stesso difetto de' motti e, sì, mutole parlavano; ond'erano in lor ragione l'imprese ottime, perché contenevano significazioni propie, quanto tre spighe o tre atti di falciare significavano naturalmente «tre anni». Dallo che venne «caratteri» e «nomi» convertirsi a vicenda tra loro, e «nomi» e «nature» significare lo stesso, come l'uno e l'altro sopra si è detto. Or, faccendoci da capo all'imprese gentilizie, ne' tempi barbari ritornati le nazioni ritornarono a divenir mutole di favella volgare: onde delle lingue italiana, francese, spagnuola o d'altre nazioni di quelli tempi non ci è giunta niuna notizia affatto, e le lingue latina e greca si sapevano solamente da' sacerdoti; talché da' francesi si diceva «clerc» in significazione di «letterato», ed allo 'ncontro dagl'italiani, per un bel luogo di Dante, si diceva «laico» per dir «uomo che non sapeva di lettera». Anzi tra gli stessi sacerdoti regnò cotanta ignoranza, che si leggono scritture sottoscritte da' vescovi col segno di croce, perché non sapevano scrivere i propi lor nomi; e i prelati dotti anco poco sapevano scrivere, come la diligenza del padre Mabillone nella sua opera De re diplomatica dà a veder intagliate in rame le sottoscrizioni de' vescovi e arcivescovi agli atti de' concili di que' tempi barbari, le quali s'osservano scritte con lettere più informi e brutte di quelle che scrivono gli più indotti idioti oggidì. E pure tali prelati erano per lo più i cancellieri de' reami d'Europa, quali restarono tre arcivescovi cancellieri dell'Imperio per tre lingue (ciascheduno per ciascheduna): tedesca, francese ed italiana; e da essi, per tal maniera di scrivere lettere con tali forme irregolari, dev'essere stata detta la «scrittura cancellaresca». Da sì fatta scarsezza per una legge inghilese fu ordinato che un reo di morte il quale sapesse di lettera, come eccellente in arte, egli non dovesse morire: da che forse poi la voce «letterato» si stese a significar «erudito». Per la stessa inopia di scrittori, nelle case antiche non osserviamo parete ove non sia intagliata una qualche impresa. Altronde, da' latini barbari fu detta «terræ presa» in podere co' suoi confini, e dagl'italiani fu detto «podere» per la stessa idea onde da' latini era stato detto «prædium»; perché le terre ridutte a coltura furono le prime prede del mondo, e furono i fondi detti «mancipia» dalla legge delle XII Tavole, e detti «prædes» e «mancipes» gli obbligati in roba stabile, principalmente all'erario, e «iura prædiorum» le servitù che si dicon «reali». Altronde dagli spagnoli fu detta «prenda» l'«impresa forte», perché le prime imprese forti del mondo furono di domare e ridurre a coltura le terre: che si truoverà essere la maggiore di tutte le fatighe d'Ercole. L'impresa, di nuovo, agl'italiani si disse «insegna» in concetto di «cosa significante» (onde agli stessi si venne detto «insegnare»); e si dice anco «divisa», perché l'insegne si ritruovarono per segni della prima division delle terre, ch'erano state innanzi, nell'usarle, a tutto il gener umano comuni; onde i termini, prima reali, di tali campi, poi dagli scolastici si presero per termini vocali, o sia per voci significative, che sono gli estremi delle proposizioni. Qual uso appunto di termini hanno appo gli americani, come si è veduto sopra, i geroglifici, per distinguere tra essolor le famiglie. Da tutto ciò si conchiude che all'insegne la gran necessità di significare ne' tempi delle nazioni mutole dovette esser fatta dalla certezza de' domìni, le quali poi passarono in insegne pubbliche in pace; onde vennero le medaglie, le quali appresso, essendosi introdutte le guerre, si truovarono apparecchiate per l'insegne militari, le quali hanno il primiero uso de' geroglifici, faccendosi per lo più le guerre fra nazioni di voci articolate diverse e 'n conseguenza mute tra loro. Le quali cose tutte qui ragionate, a maraviglia ci si conferma esser vere da ciò: che, per uniformità d'idee, appo gli egizi, gli antichi toscani, romani e gl'inghilesi, che l'usano per fregio della lor arma reale, si formò questo geroglifico, appo tutti uniforme: un'aquila in cima ad uno scettro, ch'appo queste nazioni, tra loro per immensi spazi di terre e mari divise, dovette egualmente significare ch'i reami ebbero i loro incominciamenti da' primi regni divini di Giove in forza de' di lui auspìci. Finalmente, essendosi introdutti i commerzi con danaio coniato, si ritruovarono le medaglie apparecchiate per l'uso delle monete, le quali, dall'uso di esse medaglie, furon dette «monetæ» a «monendo» appresso i latini, come dall'insegne fu detto «insegnare» appresso gl'italiani. Così da nómos venne nómisma, lo che ci disse Aristotile; e indi ancor forse venne detto a' latini «numus», ch'i migliori scrivono con un «m»; e i francesi dicono «loy» la legge ed «aloy» la moneta; i quali parlari non possono altronde essere provenuti che dalla «legge» o «diritto», significato con geroglifico, ch'è l'uso appunto delle medaglie. Tutto lo che a maraviglia si conferma dalle voci «ducato», detto a «ducendo», ch'è propio de' capitani; «soldo» ond'è detto «soldato»; e «scudo», arma di difesa, ch'innanzi significò il fondamento dell'armi gentilizie, che dapprima fu la terra colta di ciascun padre nel tempo delle famiglie, come appresso sarà dimostro. Quindi devon aver luce le tante medaglie antiche, ove si vede o un altare, o un lituo, ch'era la verga degli àuguri con cui prendevan gli auspìci, come si è sopra detto, o un treppiedi, donde si rendevan gli oracoli, ond'e quel motto «dictum ex tripode», «detto d'oracolo». Della qual sorta di medaglie dovetter esser l'ale, ch'i greci nelle loro favole attaccarono a tutti i corpi significanti ragioni d'eroi fondate negli auspìci. Come Idantura, tra gli geroglifici reali co' quali rispose a Dario, mandò un uccello; e i patrizi romani, in tutte le contese eroiche le quali ebbero con la plebe (come apertamente si legge sulla storia romana), per conservarsi i loro diritti eroici, opponevano quella ragione: «auspicia esse sua». Appunto come nella barbarie ricorsa si osservano l'imprese nobili caricate d'elmi con cimieri che si adornano di pennacchi, e nell'Indie occidentali non si adornano di penne ch'i soli nobili. IV Così quello che fu detto «Ious», Giove, e, contratto, si disse «ius», prima d'ogni altro dovette significare il grascio delle vittime dovuto a Giove, conforme a ciò che se n'è sopra detto. Siccome nella barbarie ricorsa «canone» si disse e la legge ecclesiastica e ciò che paga l'enfiteuticario al padrone diretto, perocché forse le prime enfiteusi s'introdussero dagli ecclesiastici, che, non potendo essi coltivargli, davano i fondi delle chiese a coltivar ad altrui. Con le quali due cose qui dette convengono le due dette sopra: una de' greci, appo i quali nómos significa la legge e nómisma la moneta; l'altra de' francesi, i quali dicono «loy» la legge ed «aloy» la moneta. Alla stessa fatta e non altrimente, quel fu detto «Ious optimus» per «Giove fortissimo», che per la forza del fulmine diede principio all'autorità divina nella primiera sua significazione, che fu di «dominio», come sopra abbiam detto, perocché ogni cosa fusse di Giove. Perché quel vero di metafisica ragionata d'intorno all'ubiquità di Dio, ch'era stato appreso con falso senso di metafisica poetica:... Iovis omnia plena, produsse l'autorità umana a quelli giganti ch'avevano occupato le prime terre vacue del mondo, nello stesso significato di «dominio», che 'n ragion romana restò certamente detto «ius optimum»; ma nella sua significazione nativa, assai diversa da quella nella quale poi restò a' tempi ultimi. Perocché nacque in significazione nella quale, in un luogo d'oro dell'orazioni, Cicerone il diffinisce «dominio di roba stabile, non soggetto a peso, non sol privato, ma anche pubblico», detto «ottimo» - estimandosi il diritto della forza, conforme ne' primi tempi del mondo si truoverà - nello stesso significato di «fortissimo», perocché non fusse infievolito di niuno peso straniero. Il qual dominio dovett'essere de' padri nello stato delle famiglie, e 'n conseguenza il dominio naturale, che dovette nascere innanzi al civile; e, delle famiglie poi componendosi le città sopra tal dominio ottimo, che in greco si dice díkaion áriston, élleno nacquero di forma aristocratica, come appresso si truoverà. Dalla stessa origine, appo i latini, dette repubbliche d'ottimati si dissero anco «repubbliche di pochi», perché le componevano que' ... pauci quos æquus amavit Iupiter. E gli eroi nelle contese eroiche con le plebi sostenevano le loro ragioni eroiche con gli auspìci divini; e ne' tempi muti le significavano con l'uccello d'Idantura, con le ale delle greche favole; e con lingua articolata finalmente i patrizi romani, dicendo «auspicia esse sua». Perocché Giove co' fulmini, de' quali sono i maggiori auspìci, aveva atterrato o mandato sotterra entro le grotte de' monti i primi giganti, e con atterrargli aveva loro dato la buona fortuna di divenire signori de' fondi di quelle terre ove nascosti si ritruovaron fermati, e ne provennero signori nelle prime repubbliche; per lo qual dominio ogniuno di essi si diceva «fundus fieri» invece di «fieri auctor». E delle loro private autorità famigliari, dappoi unite, come appresso vedremo, se ne fece l'autorità civile ovvero pubblica de' loro senati eroici regnanti, spiegata in quella medaglia (che si osserva sì frequente tra quelle delle repubbliche greche appo il Golzio) che rappresenta tre cosce umane le quali s'uniscono nel centro e con le piante de' piedi ne sostengono la circonferenza; che significa il dominio de' fondi di ciascun orbe o territorio o distretto di ciascuna repubblica, ch'or si chiama «dominio eminente», ed è significato col geroglifico d'un pomo ch'oggi sostengono le corone delle civili potenze, come appresso si spiegherà. Significato fortissimo col «tre» appunto, poiché i greci solevano usare i superlativi col numero del «tre», come parlan ora i francesi; con la qual sorta di parlare fu detto il fulmine trisulco di Giove, che solca fortissimamente l'aria (onde forse l'idea di «solcare» fu prima di quello in aria, dipoi in terra, e per ultimo in acqua); fu detto il tridente di Nettunno, che, come vedremo, fu un uncino fortissimo da addentare o sia afferrare le navi; e Cerbero detto trifauce, cioè d'una vastissima gola. Le quali cose qui dette dell'imprese gentilizie sono da premettersi a ciò che de' lor princìpi si è ragionato in quest'opera la prima volta stampata; ch'è 'l terzo luogo di quel libro per lo quale non ci 'ncresce per altro d'esser uscito alla luce. V In conseguenza di tutto ciò, da queste lettere e queste leggi che truovò Mercurio Trimegisto agli egizi, da questi «caratteri» e questi «nomi» de' greci, da questi «nomi» che significano e «genti» e «diritti» a' romani, gli tre principi della lor dottrina, Grozio, Seldeno, Pufendorfio, dovevan incominciar a parlare del diritto natural delle genti. E sì dovevano con intelligenza spiegarla co' geroglifici e con le favole, che sono le medaglie de' tempi ne' quali si fondarono le nazioni gentili; e sì accertarne i costumi con una critica metafisica sopra essi autori delle nazioni, dalla quale doveva prendere i primi lumi questa critica filologica sopra degli scrittori, i quali non provennero che assai più di mille anni dopo essersi le nazioni fondate. 7. ULTIMI COROLLARI D'INTORNO ALLA LOGICA DEGLI ADDOTTRINATI. I Per le cose ragionate finora in forza di questa logica poetica d'intorno all'origini delle lingue, si fa giustizia a' primi di lor autori d'essere stati tenuti in tutti i tempi appresso per sappienti, perocché diedero i nomi alle cose con naturalezza e propietà; onde sopra vedemmo ch'appo i greci e latini «nomen» e «natura» significarono una medesima cosa. II Ch'i primi autori dell'umanità attesero ad una topica sensibile, con la quale univano le propietà o qualità o rapporti, per così dire, concreti degl'individui o delle spezie, e ne formavano i generi loro poetici. III Talché questa prima età del mondo si può dire con verità occupata d'intorno alla prima operazione della mente umana. IV E primieramente cominciò a dirozzare la topica, ch'è un'arte di ben regolare la prima operazione della nostra mente, insegnando i luoghi che si devono scorrer tutti per conoscer tutto quanto vi è nella cosa che si vuol bene ovvero tutta conoscere. V La provvedenza ben consigliò alle cose umane col promuovere nell'umane menti prima la topica che la critica, siccome prima è conoscere, poi giudicar delle cose. Perché la topica è la facultà di far le menti ingegnose, siccome la critica è di farle esatte; e in que' primi tempi si avevano a ritruovare tutte le cose necessarie alla vita umana, e 'l ritruovare è propietà dell'ingegno. Ed in effetto, chiunque vi rifletta, avvertirà che non solo le cose necessarie alla vita, ma l'utili, le comode, le piacevoli ed infino alle superflue del lusso, si erano già ritruovate nella Grecia innanzi di provenirvi i filosofi, come il farem vedere ove ragioneremo d'intorno all'età d'Omero. Di che abbiamo sopra proposto una Degnità: ch'«i fanciulli vagliono potentemente nell'imitare», e «la poesia non è che imitazione», e «le arti non sono che imitazioni della natura, e 'n conseguenza poesie in un certo modo reali». Così i primi popoli, i quali furon i fanciulli del gener umano, fondarono prima il mondo dell'arti; poscia i filosofi, che vennero lunga età appresso, e 'n conseguenza i vecchi delle nazioni, fondarono quel delle scienze: onde fu affatto compiuta l'umanità. VI Questa storia d'umane idee a maraviglia ci è confermata dalla storia di essa filosofia. Ché la prima maniera ch'usarono gli uomini di rozzamente filosofare fu l'autopsía o l'evidenza de' sensi, della quale si servì poi Epicuro, che, come filosofo de' sensi, era contento della isola sposizione delle cose all'evidenza de' sensi, ne' quali, come abbiam veduto nell'Origini della poesia, furono vividissime le prime nazioni poetiche. Dipoi venne Esopo, o i morali filosofi che diremmo «volgari» (che, come abbiam sopra detto, cominciò innanzi de' sette savi della Grecia), il quale ragionò con l'esemplo, e, perché durava ancora l'età poetica, il prendeva da un qualche simile finto (con uno de' quali il buono Menenio Agrippa ridusse la plebe romana sollevata all'ubbidienza); e tuttavia uno di sì fatti esempli, e molto più un esemplo vero, persuade il volgo ignorante assai meglio ch'ogni invitto raziocinio per massime. Appresso venne Socrate e introdusse la dialettica, con l'induzione di più cose certe ch'abbian rapporto alla cosa dubbia della quale si quistiona. Le medicine, per l'induzione dell'osservazioni, innanzi di Socrate avevano dato Ippocrate, principe di tutti i medici così per valore come per tempo, che meritò l'immortal elogio: «Nec fallit quenquam, nec falsus ab ullo est». Le mattematiche, per la via unitiva detta «sintetica», avevan a' tempi di Platone fatto i loro maggiori progressi nella scuola italiana di Pittagora, come si può veder dal Timeo. Sicché, per questa via unitiva, a' tempi di Socrate e di Platone sfolgorava Atene di tutte l'arti nelle quali può esser ammirato l'umano ingegno, così di poesia, d'eloquenza, di storia, come di musica, di fonderia, di pittura, di scoltura, d'architettura. Poi vennero Aristotile, che 'nsegnò il sillogismo, il qual è un metodo che più tosto spiega gli universali ne' loro particolari che unisce particolari per raccogliere universali; e Zenone col sorite, il quale risponde al metodo de' moderni filosofanti, ch'assottiglia, non aguzza, gl'ingegni; e non fruttarono alcuna cosa più di rimarco a pro del gener umano. Onde a gran ragione il Verulamio, gran filosofo egualmente e politico, propone, commenda ed illustra l'induzione nel suo Organo; ed è seguito tuttavia dagl'inghilesi con gran frutto della sperimentale filosofia. VII Da questa storia d'umane idee si convincono ad evidenza del loro comun errore tutti coloro i quali, occupati dalla falsa comune oppenione della somma sapienza ch'ebber gli antichi, han creduto Minosse, primo legislator delle genti, Teseo agli ateniesi, Ligurgo agli spartani, Romolo ed altri romani re aver ordinato leggi universali. Perché l'antichissime leggi si osservano concepute comandando o vietando ad un solo, le quali poi correvan per tutti appresso (tanto i primi popoli eran incapaci d'universali); e pure non le concepivano senonsé fussero avvenuti i fatti che domandavanle. E la legge di Tullo Ostilio nell'accusa d'Orazio non è che la pena, la qual i duumviri per ciò criati dal re dettano contro l'inclito reo, e «lex horrendi carminis» è acclamata da Livio; talch'ella è una delle leggi che Dragone scrisse col sangue e «leges sanguinis» chiama la sagra storia. Perché la riflessione di Livio: che 'l re non volle esso pubblicarla per non esser autore di giudizio sì tristo ed ingrato al popolo, ella è affatto ridevole, quando esso re ne prescrive la formola della condennagione a' duumviri, per la quale questi non potevan assolver Orazio, neppure ritruovato innocente. Dove Livio affatto non si fa intendere, perch'esso non intese che ne' senati eroici, quali ritruoveremo essere stati aristocratici, gli re non avevano altra potestà che di criare i duumviri in qualità di commessari, i quali giudicassero delle pubbliche accuse, e che i popoli delle città eroiche eran di soli nobili, a' quali i rei condennati si richiamavano. Ora, per ritornar al proposito, cotal legge di Tullo in fatti è uno di quelli che si dissero «exempla» in senso di «castighi esemplari», e dovetter esser i primi esempli ch'usò l'umana ragione (lo che conviene con quello ch'udimmo da Aristotile sopra, nelle Degnità: che «nelle repubbliche eroiche non vi erano leggi d'intorno a' torti ed offese private»); e 'n cotal guisa, prima furono gli esempli reali, dipoi gli esempli ragionati de' quali si servono la logica e la rettorica. Ma, poi che furono intesi gli universali intelligibili, si riconobbe quella essenziale propietà della legge: - che debba esser universale, - e si stabilì quella massima in giurisprudenza: che «legibus, non exemplis, est iudicandum». III MORALE POETICA. DELLA MORALE POETICA, E QUI DELL'ORIGINI DELLE VOLGARI VIRTU` INSEGNATE DALLA RELIGIONE CO' MATRIMONI. Siccome la metafisica de' filosofi per mezzo dell'idea di Dio fa il primo suo lavoro, ch'è di schiarire la mente umana, ch'abbisogna alla logica perché con chiarezza e distinzione d'idee formi i suoi raziocini, con l'uso de' quali ella scende a purgare il cuore dell'uomo con la morale; così la metafisica de' poeti giganti, ch'avevano fatto guerra al cielo con l'ateismo, gli vinse col terrore di Giove, ch'appresero fulminante. E non meno che i corpi, egli atterrò le di loro menti, con fingersi tal idea sì spaventosa di Giove, la quale - se non co' raziocini, de' quali non erano ancor capaci, co' sensi, quantunque falsi nella materia, veri però nella loro forma (che fu la logica conforme a sì fatte loro nature) - loro germogliò la morale poetica con fargli pii. Dalla qual natura di cose umane uscì quest'eterna propietà: che le menti, per far buon uso della cognizione di Dio, bisogna ch'atterrino se medesime, siccome al contrario la superbia delle menti le porta nell'ateismo, per cui gli atei divengono giganti di spirito, che deono con Orazio dire: Coelum ipsum petimus stultitia. Sì fatti giganti pii certamente Platone riconosce nel Polifemo d'Omero; e noi l'avvaloriamo da ciò ch'esso Omero narra dello stesso gigante, ove gli fa dire ch'un àugure, ch'era stato un tempo tra loro, gli aveva predetto la disgrazia ch'egli poi sofferse da Ulisse: perché gli àuguri non possono vivere certamente tra gli atei. Quivi la morale poetica incominciò dalla pietà, perch'era dalla provvedenza ordinata a fondare le nazioni, appo le quali tutte la pietà volgarmente è la madre di tutte le morali, iconomiche e civili virtù; e la religione unicamente è efficace a farci virtuosamente operare, perché la filosofia è più tosto buona per ragionarne. E la pietà incominciò dalla religione, che propiamente è timore della divinità. L'origine eroica della qual voce si conservò appo i latini per coloro che la voglion detta a «religando», cioè da quelle catene con le quali Tizio e Prometeo eran incatenati sull'alte rupi, a' quali l'aquila, o sia la spaventosa religione degli auspìci di Giove, divorava il cuore e le viscere. E ne restò eterna propietà appo tutte le nazioni: che la pietà s'insinua a' fanciulli col timore d'una qualche divinità. Cominciò, qual dee, la moral virtù dal conato, col qual i giganti dalla spaventosa religione de' fulmini furon incatenati per sotto i monti, e tennero in freno il vezzo bestiale d'andar errando da fiere per la gran selva della terra, e s'avvezzarono ad un costume, tutto contrario, di star in que' fondi nascosti e fermi; onde poscia ne divennero gli autori delle nazioni e i signori delle prime repubbliche, come abbiamo accennato sopra e spiegheremo più a lungo appresso. Ch'è uno de' gran benefici che la volgar tradizione ci conservò d'aver fatto il Cielo al gener umano, quando egli regnò in terra con la religion degli auspìci; onde a Giove fu dato il titolo di «statore» ovvero di «fermatore», come sopra si è detto. Col conato altresì incominciò in essi a spuntare la virtù dell'animo, contenendo la loro libidine bestiale di esercitarla in faccia al cielo, di cui avevano uno spavento grandissimo; e ciascuno di essi si diede a strascinare per sé una donna dentro le loro grotte e tenerlavi dentro in perpetua compagnia di lor vita; e si usarono con esse la venere umana al coverto, nascostamente, cioè a dire con pudicizia; e sì incominciarono a sentir pudore, che Socrate diceva esser il «colore della virtù». Il quale, dopo quello della religione, è l'altro vincolo che conserva unite le nazioni, siccome l'audacia e l'empietà son quelle che le rovinano. In cotal guisa s'introdussero i matrimoni, che sono carnali congiugnimenti pudichi fatti col timore di qualche divinità, che furono da noi posti per secondo principio di questa Scienza, e provennero da quello, che noi ne ponemmo per primo, della provvedenza divina. E uscirono con tre solennità. La prima delle quali furono gli auspìci di Giove, presi da que' fulmini onde i giganti indutti furono a celebrargli: dalla qual sorte appo i romani restò il matrimonio diffinito «omnis vitæ consortium», e ne furono il marito e la moglie detti «consortes», e tuttavia da noi le donzelle volgarmente si dicono «prender sorte» per «maritarsi». Da tal determinata guisa e da tal primo tempo del mondo restò quel diritto delle genti: che le mogli passino nella religion pubblica de' lor mariti, perocché i mariti incominciarono a comunicare le loro prime umane idee con le loro donne dall'idea d'una loro divinità, che gli sforzò a strascinarle dentro le loro grotte; e sì questa volgar metafisica incominciò anch'ella in Dio a conoscer la mente umana. E da questo primo punto di tutte le umane cose dovettero gli uomini gentili incominciar a lodare gli dèi, nel senso, con cui parlò il diritto romano antico, di «citare» e «nominatamente chiamare»; donde restò «laudare auctores», perché citassero in autori gli dèi di tutto ciò che facevan essi uomini: che dovetter esser le lodi ch'apparteneva agli uomini di dar agli dèi. Da questa antichissima origine de' matrimoni è nato che le donne entrino nelle famiglie e case degli uomini co' quali son maritate; il qual costume natural delle genti si conservò da' romani, appo i quali le mogli erano a luogo di figliuole de' lor mariti e sorelle de' lor figliuoli. E quindi ancora i matrimoni dovettero incominciare non solo con una sola donna, come fu serbato da' romani (e Tacito ammira tal costume ne' germani antichi, che serbavano, come i romani, intiere le prime origini delle loro nazioni, e ne danno luogo di congetturare lo stesso di tutte l'altre ne' lor princìpi), ma anco in perpetua compagnia di lor vita, come restò in costume a moltissimi popoli; onde appo i romani furono diffinite le nozze, per questa propietà, «individuæ vitæ consuetudo», e appo gli stessi assai tardi s'introdusse il divorzio. Di sì fatti auspìci de' fulmini osservati di Giove, la storia favolosa greca narra Ercole (carattere di fondatori di nazioni, come sopra vedemmo e più appresso ne osserveremo), nato da Alcmena ad un tuono di Giove; altro grande eroe di Grecia Bacco, nato da Semele fulminata. Perché questo fu il primo motivo onde gli eroi si dissero esser figliuoli di Giove; lo che con verità di sensi dicevano, sull'oppenione, della quale vivevano persuasi, che facessero ogni cosa gli dèi, come sopra si è ragionato. E questo è quello che nella storia romana si legge: che, nelle contese eroiche, a' patrizi, i quali dicevano «auspicia esse sua», la plebe rispondeva che i padri de' quali Romolo aveva composto il senato, da' quali essi patrizi traevan l'origine, «non esse coelo demissos»; che se non significa che quelli non eran eroi cotal risposta non s'intende come possavi convenire. Quindi, per significare che i connubi o sia la ragione di contrarre nozze solenni, delle quali la maggior solennità erano gli auspìci di Giove, ella era propia degli eroi, fecero Amor nobile alato e con benda agli occhi, per significarne la pudicizia (il quale si disse Eùros, col nome simile di essi eroi), ed alato Imeneo, figliuolo di Urania, detta, da uranós, «coelum», «contemplatrice del cielo», affine di prender da quello gli auspìci; che dovette nascere la prima dell'altre muse, diffinita da Omero, come sopra osservammo, «scienza del bene e del male», ed anch'essa, come l'altre, descritta alata perché propia degli eroi, come si è sopra spiegato. D'intorno alla quale pur sopra spiegammo il senso istorico di quel motto: A Iove principium musæ: ond'ella come tutte le altre furon credute figliuole di Giove (perché dalla religione nacquero l'arti dell'umanità, delle quali è nume Apollo, che principalmente fu creduto dio della divinità), e cantano con quel «canere» o «cantare» che significa «predire» a' latini. La seconda solennità è che le donne si velino, in segno di quella vergogna che fece i primi matrimoni nel mondo. Il qual costume è stato conservato da tutte le nazioni; e i latini ne diedero il nome alle medesime nozze, che sono dette «nuptiæ» a «nubendo», che significa «cuoprire»; e da' tempi barbari ritornati «vergini in capillo» si dissero le donzelle, a differenza delle donne, ch'ivan velate. La terza solennità fu (la qual si serbò da' romani) di prendersi le spose con una certa finta forza, dalla forza vera con la quale i giganti strascinarono le prime donne dentro le loro grotte. E dopo le prime terre occupate da' giganti con ingombrarle coi corpi, le mogli solenni si dissero «manucaptæ». I poeti teologi fecero de' matrimoni solenni il secondo de' divini caratteri dopo quello di Giove: Giunone, seconda divinità delle genti dette «maggiori». La qual è di Giove sorella e moglie, perché i primi matrimoni giusti ovvero solenni (che dalla solennità degli auspìci di Giove furono detti «giusti»), da fratelli e sorelle dovetter incominciare; - regina degli uomini e degli dèi, perché i regni poi nacquero da essi matrimoni legittimi; - tutta vestita, come s'osserva nelle statue, nelle medaglie, per significazion della pudicizia. Onde Venere eroica, in quanto nume anch'essa de' matrimoni solenni, detta «pronuba», si cuopre le vergogne col cesto; il quale, dopo, i poeti effemminati ricamarono di tutti gl'incentivi della libidine. Ma poi, corrotta la severa istoria degli auspìci, come Giove con le donne, così Venere fu creduta giacer con gli uomini, e di Anchise aver fatto Enea, che fu generato con gli auspìci di questa Venere. Ed a questa Venere sono attribuiti i cigni, comuni a lei con Apollo, che cantano di quel «canere» o «cantare» che significa «divinari» o «predire»; in forma d'uno de' quali Giove giace con Leda, per dire che Leda con tanti auspìci di Giove concepisce dalle uova Castore, Polluce ed Elena. Ella è Giunone detta «giogale» da quel giogo ond'il matrimonio solenne fu detto «coniugium», e «coniuges» il marito e la moglie; - detta anco Lucina, ché porta i parti alla luce, non già naturale, la qual è comune anco agli parti schiavi, ma civile, ond'i nobili son detti «illustri»; - è gelosa d'una gelosia politica, con la qual i romani fin al trecento e nove di Roma tennero i connubi chiusi alla plebe. Ma da' greci fu detta Héra, dalla quale debbono essere stati detti essi eroi, perché nascevano da nozze solenni, delle quali era nume Giunone, e perciò generati con Amor nobile (ché tanto Eùros significa), che fu lo stesso ch'Imeneo. E gli eroi si dovettero dire in sentimento di «signori delle famiglie», a differenza de' famoli, i quali, come vedremo appresso, vi erano come schiavi; siccome in tal sentimento «heri» si dissero da' latini, e indi «hereditas» detta l'eredità, la quale con voce natia latina era stata detta «familia». Talché, da questa origine, «hereditas» dovette significare una «dispotica signoria», come da essa legge delle XII Tavole a' padri di famiglla fu conservata una sovrana potestà di disponerne in testamento, nel capo «Uti paterfamilias super pecuniæ tutelæve rei suæ legassit, ita ius esto». Il disponerne fu detto generalmente «legare», ch'è propio de' sovrani; onde l'erede vien ad esser un legato, il quale nell'eredità rappresenta il padre di famiglia defonto, e i figliuoli, non meno che gli schiavi, furono compresi ne' motti «rei suæ» e «pecuniæ». Lo che tutto troppo gravemente n'appruova la monarchica potestà ch'avevano avuto i padri nello stato di natura sopra le loro famiglie, la qual poi essi si dovettero conservare (come vedremo appresso che si conservarono di fatto) in quello dell'eroiche città; le quali ne dovettero nascere aristocratiche, cioè repubbliche di signori, perché la ritennero anco dentro le repubbliche popolari. Le quali cose tutte appresso saranno pienamente da noi ragionate. La dea Giunone comanda delle grandi fatighe ad Ercole detto tebano, che fu l'Ercole greco (perché ogni nazione gentile antica n'ebbe uno che la fondò, come si è nelle Degnità sopradetto), perché la pietà co' matrimoni è la scuola dove s'imparano i primi rudimenti di tutte le grandi virtù; ed Ercole col favore di Giove, con gli cui auspìci era stato generato, tutte le supera; e ne fu detto Heraklés quasi Herakléis, «gloria di Giunone», estimata la gloria, con giusta idea, qual Cicerone la diffinisce, «fama divolgata di meriti inverso il gener umano», quanta debbe essere stata avere gli Ercoli con le loro fatighe fondato le nazioni. Ma - oscuratesi col tempo queste severe significazioni, e con l'effemminarsi i costumi, e presa la sterilità di Giunone per naturale, e le gelosie come di Giove adultero, ed Ercole per bastardo figliuolo di Giove - con nome tutto contrario alle cose, Ercole tutte le fatighe, col favore di Giove, a dispetto di Giunon superando, fu fatto di Giunone tutto l'obbrobrio, e Giunone funne tenuta mortal nimica della virtù. E quel geroglifico o favola di Giunone appiccata in aria con una fune al collo, con le mani pur con una fune legate, e con due pesanti sassi attaccati a' piedi, che significavano tutta la santità de' matrimoni (in aria, per gli auspìci ch'abbisognavano alle nozze solenni, onde a Giunone fu data ministra l'Iride ed assegnato il pavone, che con la coda l'Iride rassomiglia; - con la fune al collo, per significare la forza fatta da' giganti alle prime donne; - con la fune legate le mani, la quale poi appo tutte le nazioni s'ingentilì con l'anello, per dimostrare la suggezione delle mogli a' mariti; - co' pesanti sassi a' piedi, per dinotare la stabilità delle nozze, onde Virgilio chiama «coniugium stabile» il matrimonio solenne), essendo poi stato preso per crudele castigo di Giove adultero, con sì fatti sensi indegni che le diedero i tempi appresso de' corrotti costumi, ha finor tanto travagliato i mitologi. Per queste cagioni appunto Platone, qual Maneto fece de' geroglifici egizi, egli aveva fatto delle favole greche, osservandone da una parte la sconcezza di dèi con sì fatti costumi, e dall'altra parte l'acconcezza con le sue idee. Nella favola di Giove intruse l'idea del suo etere, che scorre e penetra tutto, per quel ... Iovis omnia plena, come pur sopra abbiam detto, ma il Giove de' poeti teologi non fu più alto de' monti e della regione dell'aria dove s'ingenerano i fulmini. In quella di Giunone intruse l'idea dell'aria spirabile: ma Giunone di Giove non genera, e l'etere con l'aria produce tutto. (Tanto con tal motto i poeti teologi intesero quella verità in fisica, ch'insegna l'universo empiersi d'etere; e quell'altra in metafisica, che dimostra l'ubiquità ch'i teologi naturali dicon di Dio!) Sull'eroismo poetico innalzò il suo filosofico: che l'eroe fusse sopra all'uomo, nonché alla bestia (la bestia è schiava delle passioni; l'uomo, posto in mezzo, combatte con le passioni; l'eroe con piacere comanda alle passioni), e sì esser l'eroica mezza tralla divina natura ed umana. E truovò acconcio l'Amor nobile de' poeti (che fu detto Eùros dalla stessa origine ond'è detto éros l'eroe), finto alato e bendato, e l'Amor plebeo, senza benda e senz'ali, per ispiegar i due amori, divino e bestiale: quello bendato alle cose de' sensi, questo alle cose de' sensi intento; quello con l'ali s'innalza alla contemplazione delle cose intelligibili, questo senz'ali nelle sensibili si rovescia. E di Ganimede, per un'aquila rapito in cielo da Giove, ch'a' poeti severi volle dire il contemplatore degli auspìci di Giove, fatto poi da' tempi corrotti nefanda delizia di Giove, con bell'acconcezza egli fece il contemplativo di metafisica, il quale con la contemplazione dell'ente sommo, per la via ch'egli appella «unitiva», siesi unito con Giove. In cotal guisa la pietà e la religione fecero i primi uomini naturalmente prudenti, che si consigliavano con gli auspìci di Giove: - giusti, della prima giustizia verso di Giove, che, come abbiam veduto, diede il nome al «giusto», e inverso gli uomini, non impacciandosi niuno delle cose d'altrui, come de' giganti, divisi per le spelonche della Sicilia, narra Polifemo ad Ulisse (la qual, giustizia in comparsa, era, in fatti, selvatichezza); - di più, temperati, contenti d'una sola donna per tutta la loro vita. E, come vedremo appresso, gli fecero forti, industriosi e magnanimi, che furono le virtù dell'età dell'oro: non già quale la si finsero, dopo, i poeti effemminati, nella quale licesse ciò che piacesse; perché, in quella de' poeti teologi, agli uomini, storditi ad ogni gusto di nauseante riflessione (come tuttavia osserviamo i costumi contadineschi), non piaceva se non ciò ch'era lecito, né piaceva se non ciò che giovava (la qual origine eroica han serbato i latini in quell'espressione con cui dicono «iuvat» per dir «è bello»); - né come la si finsero i filosofi, che gli uomini leggessero in petto di Giove le leggi eterne del giusto, perché dapprima leggerono nel cospetto del cielo le leggi lor dettate da' fulmini. E, in conchiusione, le virtù di tal prima età furono come quelle che tanto sopra, nell'Annotazioni alla Tavola cronologica, udimmo lodar degli sciti, i quali ficcavano un coltello in terra e l'adoravan per dio (con che poi giustificavano gli ammazzamenti): cioè virtù per sensi, mescolate di religione ed immanità; i quali costumi come tra loro si comportino si può tuttavia osservar nelle streghe, come nelle Degnità si è avvisato. Da tal prima morale della superstiziosa e fiera gentilità venne quel costume di consagrare vittime umane agli dèi, come si ha dagli più antichi fenici, appo i quali, quando loro sovrastava alcuna grande calamità, come di guerra, fame, peste, gli re consagravano i loro propi figliuoli per placare l'ira celeste, come narra Filone biblio; e tal sagrifizio facevano di fanciulli ordinariamente a Saturno, al riferire di Quinto Curzio. Che, come racconta Giustino, fu conservato poi da' cartaginesi, gente senza dubbio colà pervenuta dalla Fenicia (come qui dentro si osserva), e fu da essi praticato infin agli ultimi loro tempi, come il conferma Ennio in quel verso: Et poinei solitei sos sacruficare puellos, i quali dopo la rotta ricevuta da Agatocle sagrificarono dugento nobili fanciulli a' loro dèi per placarli. E co' fenici e cartaginesi in tal costume empiamente pio convennero i greci col voto e sagrifizio che fece Agamennone della sua figliuola Ifigenia. Lo che non dee recar maraviglia a chiunque rifletta sulla ciclopica paterna potestà de' primi padri del gentilesimo, la quale fu praticata dagli più dotti delle nazioni, quali furon i greci, e dagli più saggi, quali sono stati i romani, i quali entrambi, fin dentro i tempi della loro più colta umanità, ebbero l'arbitrio d'uccidere i loro figliuoli bambini di fresco nati. La qual riflessione certamente dee scemarci l'orrore che 'n questa nostra mansuetudine ci si è fatto finor sentire di Bruto, che decapita due suoi figliuoli ch'avevano congiurato di riporre nel regno romano il tiranno Tarquinio, e di Manlio detto «l'imperioso», che mozza la testa al suo generoso figliuolo ch'aveva combattuto e vinto contro il suo ordine. Tali sagrifizi di vittime umane essere stati celebrati da' galli l'afferma Cesare; e Tacito negli Annali narra degl'inghilesi che, con la scienza divina de' druidi (i quali la boria de' dotti vuol esser stati ricchi di sapienza riposta), dall'entragne delle vittime umane indovinavano l'avvenire: la qual fiera ed immane religione da Augusto fu proibita ai romani i quali vivevano in Francia, e da Claudio fu interdetta a' galli medesimi, al narrare di Suetonio nella vita di questo cesare. Quindi i dotti delle lingue orientali vogliono ch'i fenici avessero sparso per le restanti parti del mondo i sagrifizi di Moloch (che 'l Morneo, il Drusio, il Seldeno dicono essere stato Saturno), co' quali gli bruciavano un uomo vivo. Tal umanità i fenici, che portarono ai greci le lettere, andavano insegnando per le prime nazioni della più barbara gentilità! D'un cui simile costume immanissimo dicono ch'Ercole avesse purgato il Lazio: di gittare nel Tevere uomini vivi sagrificati ed avesse introdotto di gittarlivi fatti di giungo. Ma Tacito narra i sagrifizi di vittime umane essere stati solenni appo gli antichi germani, i quali certamente per tutti i tempi de' quali si ha memoria furono chiusi a tutte le nazioni straniere, talché i romani, con tutte le forze del mondo, non vi poterono penetrare. E gli spagnuoli gli ritruovarono in America, nascosta fin a due secoli fa a tutto il resto del mondo; ove que' barbari si cibavano di carni umane (all'osservare di Lascoboto, De Francia nova), che dovevan essere d'uomini da essi consagrati ed uccisi (quali sagrifizi sono narrati da Oviedo, De historia indica). Talché, mentre i germani antichi vedevano in terra gli dèi, gli americani altrettanto (come sopra da noi l'un e l'altro si è detto), e gli antichissimi sciti erano ricchi di tante auree virtù di quante l'abbiamo testé uditi lodare dagli scrittori; in tali tempi medesimi celebravano tal inumanissima umanità! Queste tutte furono quelle che da Plauto son dette «Saturni hostiæ», nel cui tempo vogliono gli autori che fu l'età dell'oro del Lazio. Tanto ella fu mansueta, benigna, discreta, comportevole e doverosa! Dallo che tutto ha a conchiudersi quanto sia stata finora vana la boria de' dotti d'intorno all'innocenza del secol d'oro, osservata dalle prime nazioni gentili; che, 'n fatti, fu un fanatismo di superstizione, ch'i primi uomini, selvaggi, orgogliosi, fierissimi, del gentilesimo teneva in qualche ufizio con un forte spavento d'una da essi immaginata divinità. Sulla qual superstizione riflettendo, Plutarco pone in problema: se fusse stato minor male così empiamente venerare gli dèi, o non creder affatto agli dèi. Ma egli non contrapone con giustizia tal fiera superstizione con l'ateismo: perché con quella sursero luminosissime nazioni, ma con l'ateismo non se ne fondò al mondo niuna, conforme sopra ne' Princìpi si è dimostrato. E ciò sia detto della morale divina de' primi popoli del gener umano perduto: della morale eroica appresso ragioneremo a suo luogo. IV DELL'ICONOMICA POETICA. 1. DELL'ICONOMICA POETICA, E QUI DELLE FAMIGLIE CHE PRIMA FURONO DE' FIGLIUOLI. Sentirono gli eroi per umani sensi quelle due verità che compiono tutta la dottrina iconomica, che le genti latine conservarono con queste due voci di «educere» e di «educare»; delle quali con signoreggiante eleganza la prima s'appartiene all'educazione dell'animo, e la seconda a quella del corpo. E la prima fu, con dotta metafora, trasportata da' fisici al menar fuori le forme dalla materia; perciocché con tal educazione eroica s'incominciò a menar fuori in un certo modo la forma dell'anima umana, che ne' vasti corpi de' giganti era affatto seppellita dalla materia, e s'incominciò a menar fuori la forma di esso corpo umano di giusta corporatura dagli smisurati corpi lor giganteschi. E, per ciò che riguarda la prima parte, dovettero i padri eroi, come nelle Degnità si è avvisato, essere, nello stato che dicesi «di natura», i sappienti in sapienza d'auspìci o sia sapienza volgare; e, 'n séguito di cotal sapienza, esser i sacerdoti, che, come più degni, dovevano sagrificare per proccurare o sia ben intender gli auspìci; e finalmente gli re, che dovevano portar le leggi dagli dèi alle loro famiglie, nel propio significato di tal voce «legislatori», cioè «portatori di leggi», come poi lo furono i primi re nelle città eroiche, che portavano le leggi da' senati regnanti a' popoli, come noi l'osservammo sopra, nelle due spezie dell'adunanze eroiche d'Omero, una detta bulé e l'altra agorá, nell'Annotazioni alla Tavola cronologica. E come in quella gli eroi a voce ordinavano le leggi, in questa a voce le pubblicavano (perocché le lettere volgari non si erano ancor truovate); onde gli re eroici portavano le leggi da essi senati regnanti a' popoli nelle persone de' duumviri, i quali essi avevano per ciò criati che le dettassero, come Tullo Ostilio quella nell'accusa d'Orazio. Talché essi duumviri venivan ad essere leggi vive e parlanti; che è ciò che non intendendo Livio, non si fa intendere, come sopra osservammo, ove narra del giudizio d'Orazio. Cotal tradizione volgare sulla falsa oppenione della sapienza innarrivabile degli antichi diede la tentazione a Platone di vanamente disideraRe que' tempi ne' quali i filosofi regnavano o filosofavano i re. E certamente cotali padri, come nelle Degnità si è avvisato, dovetter essere re monarchi famigliari, superiori a tutti nelle loro famiglie e solamente soggetti a Dio, forniti d'imperi armati di spaventose religioni e consegrati con immanissime pene, quanto dovetter essere quelli de' polifemi, ne' quali Platone riconosce i primi padri di famiglia del mondo. La qual tradizione, mal ricevuta, diede la grave occasione del comun errore a tutti i politici: di credere che la prima forma de' governi civili fusse ella nel mondo stata monarchica; onde sono dati in quelli ingiusti princìpi di rea politica: che i regni civili nacquero o da forza aperta o da froda, che poi scoppiò nella forza. Ma in que' tempi, tutti orgoglio e fierezza per la fresca origine della libertà bestiale (di che abbiamo, pur sopra, posto una Degnità), nella somma semplicità e rozzezza di cotal vita, ch'eran contenti de' frutti spontanei della natura, dell'acqua delle fontane e di dormir nelle grotte; nella naturale egualità dello stato, nel quale tutti i padri erano sovrani nelle loro famiglie; non si può affatto intendere né froda né forza, con la quale uno potesse assoggettir tutti gli altri ad una civil monarchia: la qual pruova si farà più spiegata appresso. Solamente ora sia lecito qui di riflettere quanto vi volle acciocché gli uomini del gentilesimo dalla ferina loro natia libertà, per lunga stagione di ciclopica famigliar disciplina, si ritruovassero addimesticati, negli Stati ch'avevano da venir appresso civili, ad ubbidire naturalmente alle leggi. Di che restò quell'eterna propietà: ch'ivi le repubbliche sono più beate di quella ch'ideò Platone, ove i padri insegnano non altro che la religione, e da' figliuoli vi sono ammirati come lor sappienti, riveriti come lor sacerdoti e vi sono temuti da re. Tanta forza divina e tale vi abbisognava per ridurre a' doveri umani i quanto goffi altrettanto fieri giganti! La qual forza non potendo dir in astratto, la dissero in concreto con esso corpo d'una corda, che chordá si dice in greco, ed in latino da prima si disse «fides», la qual, prima e propiamente, s'intese in quel motto «fides deorum», «forza degli dèi». Della qual poi, come la lira dovette cominciare dal monocordo, ne fecero la lira d'Orfeo, al suon della quale egli, cantando loro la forza degli dèi negli auspìci, ridusse le fiere greche all'umanità, ed Anfione de' sassi semoventi innalzò le mura di Tebe: cioè di que' sassi che Deucalione e Pirra, innanzi al templo di Temi (cioè col timore della divina giustizia), co' capi velati (con la pudicizia de' matrimoni), posti innanzi i piedi (ch'innanzi erano stupidi, come a' latini per «istupido» restò «lapis»), essi, col gittargli dietro le spalle (con introdurvi gli ordini famigliari per mezzo della disciplina iconomica), fecero divenir uomini, come questa favola fu sopra, nella Tavola cronologica, così spiegata. Per ciò ch'attiensi all'altra parte della disciplina iconomica, ch'è l'educazione de' corpi, tai padri, con le spaventose religioni e co' lor imperi ciclopici e con le lavande sagre, incominciaron ad edurre o menar fuori dalle corporature gigantesche de' lor figliuoli la giusta forma corporea umana, in conformità di ciò che sopra n'abbiamo detto. Ov'è da sommamente ammirare la provvedenza, la qual dispose che, finché poi succedesse l'educazione iconomica, gli uomini perduti provenissero giganti, acciocché nel loro ferino divagamento potessero con le robuste complessioni sopportare l'inclemenza del cielo e delle stagioni, e con le smisurate forze penetrare la gran selva della terra (che per lo recente diluvio doveva esser foltissima), per la quale (affinché si truovasse tutta popolata a suo tempo), fuggendo dalle fiere e seguitando le schive donne, e quindi sperduti, cercando pascolo ed acqua, si dispergessero; ma, dappoi che incominciarono con le loro donne a star fermi, prima nelle spelonche, poi ne' tuguri, presso le fontane perenni (come or ora diremo), e ne' campi, che, ridutti a coltura, davano loro il sostentamento della loro vita, per le cagioni ch'ora qui ragioniamo, degradassero alle giuste stature delle quali ora son gli uomini. Quivi, in esso nascere dell'iconomica, la compierono nella sua idea ottima, la qual è ch'i padri col travaglio e con l'industria lascino a' figliuoli patrimonio, ov'abbiano e facile e comoda e sicura la sossistenza, anco mancassero gli stranieri commerzi, anco mancassero tutti i frutti civili, anco mancassero esse città, acciocché in tali casi ultimi almeno si conservino le famiglie, dalle quali sia speranza di risurger le nazioni; - che debbano lasciar loro patrimonio in luoghi di buon'aria, con propia acqua perenne, in siti naturalmente forti, ove, nella disperazione delle città, possan aver la ritirata, ed in campi di larghi fondi ove possano mantenere de' poveri contadini, da essi, nella rovina delle città, rifuggiti, con le fatighe de' quali vi si possano mantenere signori. Tali ordini la provvedenza (secondo il detto di Dione che noi riferimmo tralle Degnità), non da tiranna con leggi, ma, da regina, qual è, delle cose umane, con costumanze pose allo stato delle famiglie. Perché si truovaron i forti piantate le loro terre sull'alture de' monti, e quivi in aria ventilata e per questo sana; ed in siti per natura anco forti, che furono le prime «arces» del mondo, che poi con le sue regole l'architettura militare fortificò (come in italiano si dissero «rocce» gli scoscesi e ripidi monti, onde poi «ròcche» se ne dissero le fortezze); e finalmente si truovarono presso alle fontane perenni, che per lo più mettono capo ne' monti, presso alle quali gli uccelli di rapina fanno i lor nidi (onde presso a tali fontane i cacciatori tendono loro le reti). I quali uccelli per ciò forse dagli antichi latini furono tutti chiamati «aquilæ», quasi «aquilegæ» (come certamente «aquilex» ci restò detto il «ritruovatore o raccoglitore dell'acqua»), perocché senza dubbio gli uccelli, de' quali osservò gli auspìci Romolo per prender il luogo alla nuova città, dalla storia ci si narrano essere stati avvoltoi, che poi divennero aquile e furon i numi di tutti i romani eserciti. Così gli uomini semplici e rozzi, seguendo l'aquile, le quali credevano esser uccelli di Giove perché volan alto nel cielo, ritruovarono le fontane perenni, e ne venerarono quest'altro gran beneficio che fece loro il Cielo quando regnava in terra. E dopo quello de' fulmini, gli più augusti auspìci furon osservati i voli dell'aquile, che Messala e Corvino dissero «auspìci maggiori» ovvero «pubblici», de' quali intendevano i patrizi romani quando nelle contese eroiche replicavano alla plebe «auspicia esse sua». Tutto ciò, dalla provvedenza ordinato per dar principio all'uman genere gentilesco, Platone stimò essere stati scorti provvedimenti umani de' primi fondatori delle città. Ma nella barbarie ricorsa, che dappertutto distruggeva le città, nella stessa guisa si salvarono le famiglie, onde provennero le novelle nazioni d'Europa; e ne restarono agl'italiani dette «castella» tutte le signorie che novellamente vi sursero, perché generalmente s'osserva le città più antiche e quasi tutte le capitali de' popoli essere poste sull'alto de' monti, ed al contrario i villaggi sparsi per le pianure: onde debbono venire quelle frasi latine «summo loco», «illustri loco nati» per significar «nobili», e «imo loco», «obscuro loco nati» per dir «plebei», perché, come vedremo appresso, gli eroi abitavano le città, i famoli le campagne. Però, sopra tutt'altro, per le fontane perenni fu detto da' politici che la comunanza dell'acqua fusse stata l'occasione che da presso vi si unissero le famiglie, e che quindi le prime comunanze si dicessero phratríai da' greci, siccome le prime terre vennero dette «pagi» a' latini, come da' greci dori fu la fonte chiamata peghé: ch'è l'acqua, prima delle due principali solennità delle nozze. Le quali da' romani si celebravano aqua et igni, perché i primi matrimoni naturalmente si contrassero tra uomini e donne ch'avevano l'acqua e 'l fuoco comune, e sì erano d'una stessa famiglia; onde, come sopra si è detto, da' fratelli e sorelle dovettero incominciare. Del qual fuoco era dio il lare di ciascheduna casa; dalla qual origine vien detto «focus laris» il fuocolaio, dove il padre di famiglia sagrificava agli dèi della casa, i quali nella legge delle XII Tavole, al capo De parricidio, secondo la lezione di Giacomo Revardo, son detti «deivei parentum»; e nella sagra storia si legge sì frequente una simil espressione: «Deus parentum nostrorum», come più spiegatamente: «Deus Abraham, Deus Isaac, Deus Iacob». D'intorno a che è quella tralle leggi di Cicerone così conceputa: «Sacra familiaria perpetua manento»; ond'è la frase, sì spessa nelle leggi romane, con la quale un figliuol di famiglia si dice essere «in sacris paternis», e si dice «sacra patria» essa paterna potestà, le cui ragioni ne' primi tempi, come si dimostra in quest'opera, erano tutte credute sagre. Cotal costume si ha a dire essere stato osservato da' barbari i quali vennero appresso: perché in Firenze, a' tempi di Giovanni Boccaccio (come l'attesta nella Geanologia degli dèi), nel principio di ciascun anno il padre di famiglia, assiso nel focolaio a capo di un ceppo a cui s'appiccava il fuoco, gli dava l'incenso e vi spargeva del vino; lo che dalla nostra bassa plebe napoletana si osserva la sera della vigilia del santo Natale, che 'l padre di famiglia solennemente deve appiccare il fuoco ad un ceppo sì fatto nel fuocolaio; e per lo Reame di Napoli le famiglie dicono noverarsi per fuochi. Quindi, fondate le città, venne l'universal costume che i matrimoni si contraggono tra' cittadini; e finalmente restò quello: che, ove si contraggono con istranieri, abbiano almen tra loro la religione comune. Ora, ritornando dal fuoco all'acqua, Stige, per cui giuravano i dèi, fu la sorgiva delle fontane: ove gli dèi debbon esser i nobili dell'eroiche città (come si è sopra detto), perché la comunanza di tal acqua aveva fatto loro i regni sopra degli uomini; onde fin al CCCIX di Roma i patrizi tennero i connubi incomunicati alla plebe, come se n'è detto alquanto sopra e più appresso se ne dirà. Per tutto ciò nella storia sagra si leggono sovente o «pozzo del giuramento» o «giuramento del pozzo»: ond'esso nome serba questa tanto grande antichità alla città di Pozzuoli, che fu detto «Puteoli» da più piccioli pozzi uniti; ed è ragionevole congettura, fondata sul dizionario mentale ch'abbiamo detto, che tante città sparse per le antiche nazioni che si dicono nel numero del più, da questa cosa, una in sostanza, si appellarono, con favella articolata, diversamente. Quivi si fantasticò la terza deità maggiore, la qual fu Diana, che fu la prima umana necessità, la quale si fece sentir a' giganti fermati in certe terre e congionti in matrimonio con certe donne. Ci lasciarono i poeti teologi descritta la storia di queste cose con due favole di Diana. Delle quali una ce ne significa la pudicizia de' matrimoni: ch'è quella di Diana, la quale, tutta tacita, al buio di densa notte, si giace con Endimione dormente; talch'è casta Diana di quella castità onde una delle leggi di Cicerone comanda «Deos caste adeunto» (che si andasse a sagrificare, fatte le sagre lavande prima). L'altra ce ne narra la spaventosa religione de' fonti, a' quali restò il perpetuo aggiunto di «sagri»: ch'è quella d'Atteone, il quale, veduta Diana ignuda (la fontana viva), dalla dea spruzzato d'acqua (per dire che la dea gli gittò sopra il suo grande spavento), divenne cervo (lo più timido degli animali) e fu sbranato da' suoi cani (da' rimorsi della propia coscienza per la religion violata); talché «lymphati» (propiamente «spruzzati d'acqua pura», ché tanto vuol dire «lympha») dovettero dapprima intendersi cotali Atteoni impazzati di superstizioso spavento. La qual istoria poetica serbarono i latini nella voce «latices» (che debbe venire a «latendo»), c'hanno l'aggiunto perpetuo di «puri», e significano l'acqua che sgorga dalla fontana; e tali «latices» de' latini devon essere le ninfe compagne di Diana appo i greci, a' quali «nymphæ» significavano lo stesso che «lymphæ»; e tali ninfe furon dette da' tempi ch'apprendevano tutte le cose per sostanze animate e, per lo più, umane, come sopra si è nella Metafisica ragionato. Appresso, i giganti pii, che furon i postati ne' monti, dovettero risentirsi del putore che davano i cadaveri de' lor trappassati, che marcivano loro da presso sopra la terra; onde si diedero a seppellirgli (de' quali si sono truovati e tuttavia si ritruovano vasti teschi ed ossa per lo più sopra l'alture de' monti; ch'è un grand'argomento che de' giganti empi, dispersi per le pianure e le valli dappertutto, i cadaveri marcendo inseppolti, furono i teschi e l'ossa o portati in mar da' torrenti o macerati alfin dalle piogge), e sparsero i sepolcri di tanta religione, o sia divino spavento, che «religiosa loca» per eccellenza restaron detti a' latini i luoghi ove fussero de' sepolcri. E quivi cominciò l'universale credenza, che noi pruovammo sopra ne' Princìpi (de' quali questo era il terzo che noi abbiamo preso di questa Scienza), cioè dell'immortalità dell'anime umane, le quali si dissero «dii manes» e nella legge delle XII Tavole, al capo De parricidio, «deivei parentum» si appellano. Altronde essi dovettero, in segno di seppoltura, o sopra o presso a ciascun tumulo, che altro dapprima non poté essere propiamente che terra alquanto rilevata (come de' germani antichi, i quali ci dan luogo di congetturare lo stesso costume di tutte l'altre prime barbare nazioni, al riferire di Tacito, stimavano di non dover gravare i morti di molta terra; ond'è quella preghiera per gli difonti: «Sit tibi terra levis»); dovettero, diciamo, in segno di seppoltura ficcar un ceppo, detto da' greci phúlax, che significa «custode», perché credevano, i semplici, che cotal ceppo il guardasse; e «cippus» a' latini restò a significare «sepolcro», ed agl'italiani «ceppo» significa «pianta d'albero geanologico». Onde dovette venir a' greci phulé, che significa «tribù»: e i romani descrivevano le loro geanologie disponendo le statue de' lor antenati nelle sale delle loro case per fili, che dissero «stemmata» (che dev'aver origine da «temen», che vuol dir «filo»; ond'è «subtemen», «filato», che si stende sotto nel tessersi delle tele); i quali fili geanologici poi da' giureconsulti si dissero «lineæ», e quindi «stemmata» restarono in questi tempi a significare «insegne gentilizie». Talch'è forte congettura che le prime terre con tali seppelliti sieno stati i primi scudi delle famiglie; onde dev'intendersi il motto della madre spartana, che consegna lo scudo al figliuolo che va alla guerra, dicendo: «aut cum hoc, aut in hoc», volendo dire «ritorna o con questo o sopra una bara»; siccome oggi in Napoli tuttavia la bara si chiama «scudo». E perché tai sepolcri erano nel fondo de' campi, che prima furon da semina, quindi gli scudi nella scienza del blasone son diffiniti il «fondamento del campo», che poi fu detto dell'«armi». Da sì fatta origine dee esser venuto detto «filius», il quale, distinto col nome o casato del padre, significò «nobile»; appunto come il patrizio romano udimmo sopra diffinito «qui potest nomine ciere patrem»: il qual «nome» de' romani vedemmo sopra esser a livello il patronimico, il quale sì spesso usarono i primi greci, onde da Omero si dicono «filii Achivorum» gli eroi, siccome nella sagra storia «filii Isræl» sono significati i nobili del popolo ebreo. Talché è necessario che, se le tribù dapprima furono de' nobili, dapprima di soli nobili si composero le città, come appresso dimostreremo. Così con essi sepolcri de' loro seppelliti i giganti dimostravano la signoria delle loro terre; lo che restò in ragion romana di seppellire il morto in un luogo propio, per farlo religioso. E dicevano con verità quelle frasi eroiche: «noi siamo figliuoli di questa terra», «siamo nati da queste roveri»; come i capi delle famiglie da' latini si dissero «stirpes» e «stipites», e la discendenza di ciascheduno fu chiamata «propago»; ed esse famiglie dagl'italiani furon appellate «legnaggi»; e le nobilissime case d'Europa e quasi tutte le sovrane prendono i cognomi dalle terre da esse signoreggiate. Onde, tanto in greco quanto in latino, egualmente, «figliuol della Terra» significò lo stesso che «nobile»: ed a' latini «ingenui» significano «nobili», quasi «indegeniti» e più speditamente «ingeniti»; come certamente «indigenæ» restaron a significare i natii d'una terra, e «dii indigetes» si dissero i dèi natii, che debbon essere stati i nobili dell'eroiche città, che si appellarono «dèi», come sopra si è detto, de' quali dèi fu gran madre la Terra. Onde da principio «ingenuus» e «patricius» significarono «nobile», perché le prime città furono de' soli nobili: e questi «ingenui» devon essere stati gli aborigini, detti quasi «senza origini» ovvero «da sé nati», a' quali rispondono a livello gli autóchthones che dicono i greci. E gli aborigini furon giganti, e «giganti» propiamente significano «figliuoli della Terra»; e così la Terra ci fu fedelmente narrata dalle favole essere stata madre de' giganti e dei dèi. Le quali cose tutte sopra si sono da noi ragionate, e qui, ch'era luogo loro propio, si son ripetute per dimostrare che Livio mal attaccò cotal frase eroica a Romolo e a' padri, di lui compagni, ove ai ricorsi nell'asilo aperto nel luco gli fa dire «esser essi figliuoli di quella terra», e 'n bocca loro fa divenire sfacciata bugia quella che ne' fondatori de' primi popoli era stata un'eroica verità: tra perché Romolo era conosciuto reale d'Alba, e perché tal madre era stata loro pur troppo iniqua a produrre de' soli uomini, tanto ch'ebbero bisogno di rapir le sabine per aver donne. Onde hassi a dire che, per la maniera di pensare de' primi popoli per caratteri poetici, a Romolo, guardato come fondatore di città, furon attaccate le propietà de' fondatori delle città prime del Lazio, in mezzo a un gran numero delle quali Romolo fondò Roma. Col qual errore va di concerto la diffinizione che lo stesso Livio dà dell'asilo: che fusse stato «vetus urbes condentium consilium», che ne' primi fondatori delle città, ch'erano semplici, non già consiglio, ma fu natura che serviva alla provvedenza. Quivi si fantasticò la quarta divinità delle genti dette «maggiori», che fu Apollo, appreso per dio della luce civile; onde gli eroi si dissero kleitói («chiari») da' greci, da kléos («gloria»), e si chiamarono «inclyti» da' latini, da «cluer», «splendore d'armi», ed in conseguenza da quella luce alla quale Giunone Lucina portava i nobili parti. Talché, dopo Urania - che sopra abbiam veduto esser la musa ch'Omero diffinisce «scienza del bene e del male», o sia la divinazione, come si è sopra detto, per la quale Apollo è dio della sapienza poetica ovvero della divinità - quivi dovette fantasticarsi la seconda delle muse, che dev'essere stata Clio, la quale narra la storia eroica; e la prima storia sì fatta dovette incominciare dalle geanologie di essi eroi, siccome la sagra storia comincia dalle discendenze de' patriarchi. A sì fatta storia dà Apollo il principio da ciò: che perseguita Dafne, donzella vagabonda che va errando per le selve (nella vita nefaria); e questa con l'aiuto ch'implorò degli dèi (de' quali bisognavano gli auspìci ne' matrimoni solenni), fermandosi, diventa lauro (pianta che sempre verdeggia nella certa e conosciuta sua prole, in quella stessa significazione ch'i latini «stipites» dissero i ceppi delle famiglie; e la barbarie ricorsa ci riportò le stesse frasi eroiche, ove dicono «alberi» le discendenze delle medesime, e i fondatori chiamano «ceppi» e «pedali», e le discendenze de' provenuti dicono «rami», ed esse famiglie dicon «legnaggi»). Così il seguire d'Apollo fu propio di nume, il fuggire di Dafne propio di fiera; ma poi, sconosciuto il parlare di tal istoria severa, avvenne che 'l seguire d'Apollo fu d'impudico, il fuggire di Dafne fu di Diana. Di più Apollo è fratello di Diana, perché con le fontane perenni ebbero l'agio di fondarsi le prime genti sopra de' monti; ond'egli ha la sua sede sopra il monte Parnaso, dove abitano le muse (che sono l'arti dell'umanità), e presso il fonte Ippocrene, delle cui acque bevono i cigni, uccelli canori di quel «canere» o «cantare» che significa «predire» a' latini; con gli auspìci d'un de' quali, come si è sopra detto, Leda concepisce le due uova, e da uno partorisce Elena, e dall'altro Castore e Polluce ad un parto. Ed Apollo e Diana sono figliuoli di Latona, detta da quel «latere» o «nascondersi» onde si disse «condere gentes», «condere regna», «condere urbes», e particolarmente in Italia fu detto «Latium». E Latona gli partorì presso l'acque delle fontane perenni, ch'abbiamo detto, al cui parto gli uomini diventaron ranocchie, le quali nelle piogge d'està nascono dalla terra, la qual fu detta «madre de' giganti», che sono propiamente della Terra figliuoli. Una delle quali ranocchie è quella che a Dario manda Idantura; e devon essere le tre ranocchie e non rospi nell'arme reale di Francia, che poi si cangiarono in gigli d'oro, dipinte col superlativo del «tre», che restò ad essi francesi per significare una ranocchia grandissima, cioè un grandissimo figliuolo, e quindi signor della terra. Entrambi son cacciatori, che con alberi spiantati, uno de' quali è la clava d'Ercole, uccidono fiere, prima per difenderne sé e le loro famiglie (non essendo loro più lecito, come a' vagabondi della vita eslege, di camparne fuggendo), di poi per nudrirsene essi con le loro famiglie. Come Virgilio di tali carni fa cibare gli eroi, e i germani antichi, al riferire di Tacito, per tal fine con le loro mogli ivano cacciando le fiere. Ed è Apollo dio fondatore dell'umanità e delle di lei arti, che testé abbiam detto esser le muse, le quali arti da' latini si dicono «liberales» in significato di «nobili», una delle quali è quella di cavalcare: onde il Pegaso vola sopra il monte Parnaso, il quale è armato d'ali, perch'è in ragione de' nobili; e nella barbarie ricorsa, perch'essi soli potevano armare a cavallo, i nobili dagli spagnuoli se ne dissero «cavalieri». Essa umanità ebbe incominciamento dall'«humare», «seppellire» (il perché le seppolture furono da noi prese per terzo principio di questa Scienza); onde gli ateniesi, che furono gli umanissimi di tutte le nazioni, al riferire di Cicerone, furon i primi a seppellire i lor morti. Finalmente Apollo è sempre giovine (siccome la vita di Dafne sempre verdeggia, cangiata in lauro), perché Apollo, coi «nomi» delle prosapie, eterna gli uomini nelle loro famiglie. Egli porta la chioma in segno di nobiltà; e ne restò costume a moltissime nazioni di portar chioma i nobili, e si legge tralle pene de' nobili appo i persiani e gli americani di spiccare uno o più capelli dalla lor chioma, e forse quindi dissero la «Gallia comata» da' nobili che fondarono tal nazione, come certamente appo tutte le nazioni agli schiavi si rade il capo. Ma - stando essi eroi fermi dentro circoscritte terre, ed essendo cresciute in numero le lor famiglie, né bastando loro i frutti spontanei della natura, e temendo per averne copia d'uscire da' confini che si avevano essi medesimi circoscritti per quelle catene della religione ond'i giganti erano incatenati per sotto i monti, ed avendo la medesima religione insinuato loro di dar fuoco alle selve per aver il prospetto del cielo, onde venissero loro gli auspìci, - si diedero con molta, lunga dura fatiga a ridurre le terre a coltura e seminarvi il frumento, il quale, brustolito tra gli dumeti e spinai, avevano forse osservato utile per lo nutrimento umano. E qui, con bellissimo naturale necessario trasporto, le spighe del frumento chiamarono «poma d'oro», portando innanzi l'idea delle poma, che sono frutte della natura che si raccogliono l'està, alle spighe, che pur d'està si raccogliono dall'industria. Da tal fatiga, che fu la più grande e più gloriosa di tutte, spiccò altamente il carattere d'Ercole, che ne fa tanta gloria a Giunone, che comandolla per nutrir le famiglie. E, con altrettanto belle quanto necessarie metafore, fantasticarono la terra per l'aspetto d'un gran dragone, tutto armato di squame e spine (ch'erano i di lei dumeti e spinai), finto alato (perché i terreni erano in ragion degli eroi), sempre vegghiante (cioè sempre folta), che custodiva le poma d'oro negli Orti esperidi, e dall'umidore dell'acque del diluvio fu poi il dragone creduto nascere in acqua. Per un altro aspetto fantasticarono un'idra (che pur viene detta da húdor, «acqua»), che, recisa ne' suoi capi, sempre in altri ripullulava; cangiante di tre colori: di nero (bruciata), di verde (in erbe), d'oro (in mature biade); de' quali tre colori la serpe ha distinta la spoglia, e invecchiando la rinnovella. Finalmente, per l'aspetto della ferocia ad esser domata, fu finta un animale fortissimo (onde poi al fortissimo degli animali fu dato nome «lione»), ch'è 'l lione nemeo, che i filologi pur vogliono essere stato uno sformato serpente. E tutti vomitan fuoco, che fu il fuoco ch'Ercole diede alle selve. Queste furono tre storie diverse in tre diverse parti di Grecia, significanti una stessa cosa in sostanza. Come in altra fu quell'altra pur d'Ercole, che bambino uccide le serpi in culla (cioè nel tempo dell'eroismo bambino). In altra Bellerofonte uccide il mostro detto Chimera, con la coda di serpe, col petto di capra (per significar la terra selvosa) e col capo di lione, che pur vomita fiamme. In Tebe è Cadmo ch'uccide pur la gran serpe e ne semina i denti (con bella metafora chiamando «denti della serpe» i legni curvi più duri, co' quali, innanzi di truovarsi l'uso del ferro, si dovette arare la terra); e Cadmo divien esso anco serpe (che gli antichi romani arebbero detto che Cadmo, «fundus factus est»), come alquanto si è spiegato sopra e sarà spiegato molto più appresso; ove vedremo le serpi nel capo di Medusa e nella verga di Mercurio aver significato «dominio di terreni»; e ne restò ophéleia (da óphis, «serpe») detto il terratico, che fu pur detto «decima d'Ercole». Nel qual senso l'indovino Calcante appo Omero si legge che la serpe, la qual si divora gli otto passarini e la madre altresì, interpetra la terra troiana ch'a capo di nove anni verrebbe in dominio de' greci; e i greci, mentre combattono co' troiani, una serpe uccisa in aria da un'aquila, che cade in mezzo alla loro battaglia, prendono per buon augurio, in conformità della scienza dell'indovino Calcante. Perciò Proserpina, che fu la stessa che Cerere, si vede ne' marmi rapita in un carro tratto da serpi; e le serpi si osservano sì spesse nelle medaglie delle greche repubbliche. Quindi per lo dizionario mentale (ed è cosa degna di riflettervi) gli re americani, al cantare di Fracastoro la sua Sifilide, furono ritruovati, invece di scettro, portar una spoglia secca di serpe. E i chinesi caricano di un dragone la lor arme reale e portano un dragone per insegna dell'imperio civile, che dev'essere stato Dragone ch'agli ateniesi scrisse le leggi col sangue; e noi sopra dicemmo tal Dragone esser una delle serpi della Gorgone, che Perseo inchiovò al suo scudo, che fu quello poi di Minerva, dea degli ateniesi, col cui aspetto insassiva il popolo riguardante, che truoverassi essere stato geroglifico dell'imperio civile d'Atene. E la Scrittura sagra, in Ezechiello, dà al re di Egitto il titolo di «gran dragone» che giace in mezzo a' suoi fiumi, appunto come sopra si è detto i dragoni nascer in acqua e l'idra aver dall'acqua preso tal nome. L'imperador del Giappone ne ha fatto un ordine di cavalieri, che portano per divisa un dragone. E de' tempi barbari ritornati narrano le storie che per la sua gran nobiltà fu chiamata al ducato di Melano la casa Visconti, la quale carica lo scudo d'uno dragone che divora un fanciullo, ch'è appunto il Pitone, il quale divorava gli uomini greci e fu ucciso da Apollo, ch'abbiamo ritruovato dio della nobiltà: nella qual impresa dee far maraviglia l'uniformità del pensar eroico degli uomini di questa barbarie seconda con quella degli antichissimi della prima. Questi adunque devon essere i due dragoni alati, che sospendono la collana delle pietre focaie, ch'accesero il fuoco che essi vomitano, e sono due tenenti del Toson d'oro, che 'l Chiflezio, il quale scrisse l'istoria di quell'insigne ordine, non poté intendere, onde il Pietrasanta confessa esserne oscura l'istoria. Come in altre parti di Grecia fu Ercole ch'uccise le serpi, il lione, l'idra, il dragone; in altra Bellerofonte ch'ammazzò la Chimera: così in altra fu Bacco ch'addimestica tigri, che dovetter esser le terre vestite così di vari colori come le tigri han la pelle, e passonne poi il nome di «tigri» agli animali di tal fortissima spezie. Perché aver Bacco dome le tigri col vino è un'istoria fisica, che nulla apparteneva a sapersi dagli eroi contadini ch'avevano da fondare le nazioni: oltreché nommai Bacco ci fu narrato andar in Affrica o in Ircania a domarle in que' tempi, ne' quali, come dimostreremo nella Geografia poetica, non potevano saper i greci se nel mondo fusse l'Ircania e molto meno l'Affrica, nonché tigri nelle selve d'Ircania o ne' deserti dell'Affrica. Di più le spighe del frumento dissero «poma d'oro», che dovett'essere il primo oro del mondo, nel tempo che l'oro metallo era in zolle, né se ne sapeva ancor l'arte di ridurlo purgato in massa, nonché di dargli lustro e splendore; né, quando si beveva l'acqua dalle fontane, se ne poteva punto pregiare l'uso: il quale poi, dalla somiglianza del colore e sommo pregio di cotal cibo in que' tempi, per trasporto fu detto «oro»; onde dovette Plauto dire «thesaurum auri», per distinguerlo dal «granaio». Perché certamente Giobbe, tralle grandezze dalle quali egli era caduto, novera quella: ch'esso mangiava pan di frumento, siccome ne' contadi delle nostre più rimote provincie si ha, a luogo di quello che sono nelle città le pozioni gemmate, gli ammalati cibarsi di pan di grano, e si dice «l'infermo si ciba di pan di grano» per significare lui essere nell'ultimo di sua vita. Appresso, spiegando più l'idea di tal pregio e carezza, dovettero dire «d'oro» le belle lane; onde appo Omero si lamenta Atreo che Tieste gli abbia le pecore d'oro rubato; e gli argonauti rubarono il vello d'oro da Ponto. Perciò lo stesso Omero appella i suoi re o eroi col perpetuo aggiunto di polúmelos, ch'interpetrano «ricchi di greggi»; siccome dagli antichi latini, con tal uniformità d'idee, il patrimonio si disse «pecunia», ch'i latini gramatici vogliono esser detta a «pecude», come appo i germani antichi, al narrare di Tacito, i greggi e gli armenti «solæ et gratissimæ opes sunt»: il qual costume deve esser lo stesso degli antichi romani, da' quali il patrimonio si diceva «pecunia», come l'attesta la lettera delle XII Tavole, al capo De' testamenti. E mélon significa e «pomo» e «pecora» ai greci, i quali, forse anche con l'aspetto di pregevole frutto, dissero méli il mèle; e gl'italiani dicono «meli» esse poma. Talché queste del frumento devon essere state le poma d'oro, le quali prima di tutt'altri Ercole riporta ovvero raccoglie da Esperia; e l'Ercole gallico con le catene di quest'oro, le quali gli escon di bocca, incatena gli uomini per gli orecchi, come appresso si truoverà esser un'istoria d'intorno alla coltivazione de' campi. Quindi Ercole restò nume propizio a ritruovare tesori, de' quali era dio Dite, ch'è 'l medesimo che Plutone, il quale rapisce nell'inferno Proserpina, che truoverassi la stessa che Cerere (cioè il frumento), e la porta nell'Inferno narratoci da' poeti, appo i quali il primo fu dov'era Stige, il secondo dov'erano i seppelliti, il terzo il profondo de' solchi, come a suo luogo si mostrerà. Dal qual dio Dite son detti «dites» i ricchi; e i ricchi eran i nobili, ch'appo gli spagnuoli si dicono «ricos hombres», ed appo i nostri anticamente si dissero «benestanti»; ed appo i latini si disse «ditio» quella che noi diciamo «signoria d'uno Stato», perché i campi colti fanno la vera ricchezza agli Stati, onde da' medesimi latini si disse «ager» il distretto d'una signoria, ed «ager», propiamente, è la terra che «aratro agitur». Così dev'esser vero che 'l Nilo fu detto chrusorróas, «scorrente oro», perché allaga i larghi campi d'Egitto, dalle cui innondazioni vi proviene la grande abbondanza delle raccolte: così «fiumi d'oro» detti il Pattolo, il Gange, l'Idaspe, il Tago, perché fecondano le campagne di biade. Di queste poma d'oro certamente Virgilio, dottissimo dell'eroiche antichità, portando innanzi il trasporto, fece il ramo d'oro che porta Enea all'inferno; la qual favola, qui appresso, ove sarà suo più pieno luogo, si spiegherà. Del rimanente, l'oro metallo non si tenne a' tempi eroici in maggior pregio del ferro: come Tearco, re di Etiopia, agli ambasciadori di Cambise, i quali gli avevano presentato da parte del loro re molti vasi d'oro, rispose non riconoscerne esso alcun uso e molto meno necessità, e ne fece un rifiuto naturalmente magnanimo; appunto come degli antichi germani (ch'in tali tempi si truovarono essere anche questi antichissimi eroi i quali ora stiam ragionando) Tacito narra: «Est videre apud illos argentea vasa legatis et principibus eorum muneri data, non alia vilitate quam quæ humo finguntur». Perciò appo Omero nell'armarie degli eroi si conservano con indifferenza armi d'oro e di ferro, perché il primo mondo dovette abbondare di sì fatte miniere (siccome fu ritruovata nel suo scuoprimento l'America), e che poi dall'umana avarizia fussero esauste. Da tutto lo che esce questo gran corollario: che la divisione delle quattro età del mondo, cioè d'oro, d'argento, di rame e di ferro, è ritruovato de' poeti de' tempi bassi; perché quest'oro poetico, che fu il frumento, diede appo i primi greci il nome all'età dell'oro, la cui innocenza fu la somma selvatichezza de' polifemi (ne' quali riconosce i primi padri di famiglia, come altre volte si è sopra detto, Platone), che si stavano tutti divisi e soli per le loro grotte con le loro mogli e figliuoli, nulla impacciandosi gli uni delle cose degli altri, come appo Omero raccontava Polifemo ad Ulisse. In confermazione di tutto ciò che finora dell'oro poetico si è qui detto, giova arrecare due costumi, che ancor si celebrano, de' quali non si possono spiegar le cagioni se non sopra questi princìpi. Il primo è del pomo d'oro, che si pone in mano agli re tralle solennità della lor coronazione; il quale dev'esser lo stesso che nelle lor imprese sostengono in cima alle loro corone reali: il qual costume non può altronde aver l'origine che dalle poma d'oro, che diciamo qui, del frumento, che anco qui si truoveranno essere stato geroglifico del dominio ch'avevano gli eroi delle terre (che forse i sacerdoti egizi significarono col pomo, se non è uovo, in bocca del loro Cnefo, del quale appresso ragionerassi), e che tal geroglifico ci sia stato portato da' barbari, i quali invasero tutte le nazioni soggette all'imperio romano. L'altro costume è delle monete d'oro, che tralle solennità delle loro nozze gli re donano alle loro spose regine; che devono venire da quest'oro poetico del frumento che qui diciamo (tanto che esse monete d'oro significano appunto le nozze eroiche che celebrarono gli antichi romani «coemptione et farre»), in conformità degli eroi, che racconta Omero che con le doti essi comperavan le mogli: in una pioggia del qual oro dovette cangiarsi Giove con Danae, chiusa in una torre (che dovett'esser il granaio), per significare l'abbondanza di questa solennità; con che si confà a maraviglia l'espression ebrea «et abundantia in turribus tuis». E ne fermano tal congettura i britanni antichi, appo i quali gli sposi, per solennità delle nozze, alle spose rigalavano le focacce. Al nascere di queste cose umane, nelle greche fantasie si destarono tre altre deitadi delle genti maggiori, con quest'ordine d'idee, corrispondente all'ordine d'esse cose: prima Vulcano, appresso Saturno (detto a «satis», da' seminati; onde l'età di Saturno de' latini risponde all'età dell'oro de' greci) e in terzo luogo fu Cibele o Berecinzia, la terra colta. E perciò si pinge assisa sopra un lione (ch'è la terra selvosa, che ridussero a coltura gli eroi, come si è sopra spiegato); detta «gran madre degli dèi», e «madre» detta ancor «de' giganti» (che, propiamente, così furon detti nel senso di «figliuoli della Terra», come sopra si è ragionato); talché è madre degli dèi (cioè de' giganti, che nel tempo delle prime città s'arrogarono il nome di «dèi», come pur sopra si è detto), e l'è consegrato il pino (segno della stabilità onde gli autori de' popoli, stando fermi nelle prime terre, fondarono le città, dea delle quali è Cibele). Fu ella detta Vesta, dea delle divine cerimonie appresso i romani, perché le terre, in tal tempo arate, furono le prime are del mondo (come vedremo nella Geografia poetica), dove la dea Vesta, con fiera religione armata, guardava il fuoco e 'l farro, che fu il frumento degli antichi romani: onde appo gli stessi si celebrarono le nozze «aqua et igni» e col farro, che si chiamavano «nuptiæ confarreatæ», che restarono poi a' soli lor sacerdoti, perché le prime famiglie erano state tutte di sacerdoti (come si sono ritruovati i regni de' bonzi nell'Indie orientali); e l'acqua e 'l fuoco e 'l farro furono gli elementi delle divine cerimonie romane. Sopra queste prime terre Vesta sagrificava a Giove gli empi dell'infame comunione, i quali violavano i primi altari (che abbiam sopra detto esser i primi campi del grano, come appresso si spiegherà); che furono le prime ostie, le prime vittime delle gentilesche religioni: detti «Saturni hostiæ», come si è osservato sopra, da Plauto; detti «victimæ» a «victis», dall'esser deboli, perché soli (ch'in tal sentimento di «debole» è pur rimasto a' latini «victus»); e detti «hostes», perché furon tali empi, con giusta idea, riputati nimici di tutto il gener umano; e restonne a' romani e le vittime e l'ostie impastarsi e la fronte e le corna di farro. Da tal dea Vesta i medesimi romani dissero «vergini vestali» quelle che guardavano il fuoco eterno, il quale, se per mala sorte spegnevasi, si doveva riaccender dal sole, perché dal sole, come vedremo appresso, Prometeo rubò il primo fuoco e portollo in terra tra' greci, dal quale appiccato alle selve, incominciaron a coltivar i terreni. E per ciò Vesta è la dea delle divine cerimonie a' romani, perché il primo «colere» che nacque nel mondo della gentilità fu il coltivare la terra, e 'l primo culto fu ergere sì fatti altari, accendervi tal primo fuoco e farvi sopra sacrifici, come testé si è detto, degli uomini empi. Tal è la guisa con la quale si posero e si custodirono i termini ai campi. La qual divisione, come ci è narrata troppo generalmente da Ermogeniano giureconsulto - che si è immaginata fatta per deliberata convenzione degli uomini, e riuscita con tanta giustizia e osservata con altrettanto di buona fede, in tempi che non vi era ancora forza pubblica d'armi, e 'n conseguenza niuno imperio civile di leggi, - non può affatto intendersi che con l'essere stata fatta tra uomini sommamente fieri ed osservanti d'una qualche spaventosa religione, che gli avesse fermi e circoscritti entro di certe terre, e con queste sanguinose cerimonie avessero consagrato le prime mura, che pur i filologi dicono essere state descritte da' fondatori delle città con l'aratro, la cui curvatura, per le origini delle lingue che si sono sopra scoverte, dovette dirsi dapprima «urbs», ond'è l'antico «urbum», che vuol dire «curvo»: dalla quale stessa origine forse è «orbis»; talché dapprima «orbis terræ» dovett'essere ogni ricinto sì fatto, così basso che Remo passò con un salto e vi fu ucciso da Romolo, e gli storici latini narrano aver consegrato col suo sangue le prime mura di Roma. Talché tal ricinto dovetter esser una siepe (ed appo i greci «séps» significa «serpe», nel suo significato eroico di «terra colta»); dalla quale origine deve venir detto «munire viam», lo che si fa con afforzare le siepi a' campi; onde le mura son dette «moenia», quasi «munia», come «munire» certamente restò per «fortificare». Tali siepi dovetter esser piantate di quelle piante ch'i latini dissero «sagmina», cioè di sanginelli, sambuci, che finoggi ne ritengono e l'uso e 'l nome; e si conservò tal voce «sagmina» per significar l'erbe di che si adornavan gli altari, e dovettero così dirsi dal «sangue» degli ammazzati, che come Remo, trascese l'avessero. Di che venne la santità alle mura, come si è detto; ed agli araldi altresì, che, come vedremo appresso, si coronavano di sì fatt'erbe, come certamente gli antichi ambasciadori romani il facevano con quelle còlte dalla ròcca del Campidoglio; e finalmente alle leggi ch'essi araldi portavano o della guerra o della pace: ond'è detta «sanctio» quella parte della legge ch'impon la pena a' di lei trasgressori. E quindi comincia quello che noi pruoviamo in quest'opera: che 'l diritto natural delle genti fu dalla divina provvedenza ordinato tra' popoli privatamente, il quale, nel conoscersi tra di loro, riconobbero esser loro comune: ché, perché gli araldi romani consagrati con sì fatt'erbe fussero inviolati tra gli altri popoli del Lazio, è necessario che quelli, senza saper nulla di questi, celebrassero lo stesso costume. Così i padri di famiglia apparecchiarono la sussistenza alle loro famiglie eroiche con la religione, la qual esse con la religione si dovessero conservare. Onde fu perpetuo costume de' nobili d'esser religiosi, come osserva Giulio Scaligero nella Poetica: talché dee esser un gran segno che vada a finire una nazione, ove i nobili disprezzano la loro religione natia. Si è comunemente oppinato, e da' filologi e da' filosofi, che le famiglie nello stato che dicesi «di natura» sieno state non d'altri che di figliuoli; quando elleno furono famiglie anco de' famoli, da' quali principalmente furon dette «famiglie»: onde sopra tal manca iconomica stabilirono una falsa politica, come si è sopra accennato e pienamente appresso si mostrerà. Però noi da questa parte de' famoli, ch'è propia della dottrina iconomica, incominceremo qui della politica a ragionare. 2. DELLE FAMIGLIE DE' FAMOLI INNANZI DELLE CITTÀ SENZA LE QUALI NON POTEVANO AFFATTO NASCERE LE CITTA`. Perché finalmente, a capo di lunga età, de' giganti empi, rimasti nell'infame comunione delle cose e delle donne, nelle risse ch'essa comunion produceva, come i giureconsulti pur dicono, gli scempi di Grozio, gli abbandonati di Pufendorfio, per salvarsi da' violenti di Obbes (come le fiere, cacciate da intensissimo freddo, vanno talor a salvarsi dentro ai luoghi abitati), ricorsero alle are de' forti; e quivi questi feroci, perché già uniti in società di famiglie, uccidevano i violenti ch'avevano violato le loro terre, e ricevevano in protezione i miseri da essolor rifuggiti. E oltre l'eroismo di natura, d'esser nati da Giove, o sia generati con gli auspìci di Giove, spiccò principalmente in essi l'eroismo della virtù, nel quale sopra tutti gli altri popoli della terra fu eccellente il romano, in usarne appunto queste due pratiche: Parcere subiectis et debellare superbos. E qui si offre cosa degna di riflessione, per intendere quanto gli uomini dello stato ferino fossero stati feroci e indomiti dalla loro libertà bestiale a venire all'umana società: che, per venir i primi alla prima di tutte, che fu quella de' matrimoni, v'abbisognarono, per farglivi entrare, i pugnentissimi stimoli della libidine bestiale e, per tenerglivi dentro, v'abbisognarono i fortissimi freni di spaventose religioni, come sopra si è dimostrato. Da che provennero i matrimoni, i quali furono la prima amicizia che nacque al mondo; onde Omero, per significare che Giove e Giunone giacquero insieme, dice con eroica gravità che tra loro «celebrarono l'amicizia», detta da' greci philía dalla stessa origine ond'è philéo, «amo», e dond'è da' latini detto «filius»; e phílios a' greci ioni è l'«amico», e quindi a' greci, con la mutazione d'una lettera vicina di suono, è phulé la «tribù»; onde ancora vedemmo sopra «stemmata» essere stati detti i «fili geanologici», che da' giureconsulti sono chiamati «lineæ». Da questa natura di cose umane restò quest'eterna propietà: che la vera amicizia naturale egli è 'l matrimonio, nella quale naturalmente si comunicano tutti e tre i fini de' beni, cioè l'onesto, l'utile e 'l dilettevole; onde il marito e la moglie corrono per natura la stessa sorte in tutte le prosperità e avversità della vita (appunto come per elezione è quello: «amicorum omnia sunt communia»), per lo che da Modestino fu il matrimonio diffinito «omnis vitæ consortium». I secondi non vennero a questa seconda, ch'ebbe, per una certa eccellenza, il nome di «società», come quindi a poco farem conoscere, che per l'ultime necessità della vita. Ov'è degno pur di riflessione che, perché i primi vennero all'umana società spinti dalla religione e da natural istinto di propagare la generazione degli uomini (l'una pia, l'altra propiamente detta gentil cagione), diedero principio ad un'amicizia nobile e signorile; e perché i secondi vi vennero per necessità di salvare la vita, diedero principio alla «società» che propiamente si dice, per comunicare principalmente l'utilità, e, 'n conseguenza, vile e servile. Perciò tali rifuggiti furono dagli eroi ricevuti con la giusta legge di protezione, onde sostentassero la naturale lor vita con l'obbligo di servir essi da giornalieri agli eroi. Qui dalla «fama» di essi eroi (che principalmente s'acquista con praticar le due parti che testé dicemmo usare l'eroismo della virtù) e da tal mondano romore, ch'è la kléos o «gloria» de' greci, che vien detta «fama» a' latini (come phéme pur si dice da' greci), i rifuggiti s'appellarono «famoli», da' quali principalmente si dissero le «famiglie». Dalla qual fama certamente la sagra storia, narrando de' giganti che furon innanzi il diluvio, gli diffinisce «viros famosos»: appunto come Virgilio ne descrisse la Fama starsi assisa sopra di un'alta torre (che sono le terre poste in alto de' forti), che mette il capo entro il cielo (la cui altezza cominciò dalle cime de' monti), alata (perch'era in ragion degli eroi; onde nel campo posto a Troia la Fama vola per mezzo alle schiere de' greci eroi, non per mezzo alle caterve de' lor plebei), [e] con la tromba (la qual dee essere la tromba di Clio, ch'è la storia eroica) celebra i nomi grandi (quanto lo furono di fondatori di nazioni). Or, in sì fatte famiglie innanzi delle città vivendo i famoli in condizione di schiavi (che furono gli abbozzi degli schiavi che poi si fecero nelle guerre, che nacquero dopo delle città; che sono quelli che da' latini detti furono «vernæ», da' quali provennero le lingue da' medesimi dette «vernaculæ», come sopra si è ragionato), i figliuoli degli eroi, per distinguersi da quelli de' famoli, si dissero «liberi», da' quali infatti non si distinguevano punto: come de' germani antichi, i quali ci danno ad intendere lo stesso costume di tutti i primi popoli barbari, Tacito narra che «dominum ac servum nullis educationis deliciis dignoscas»; come certamente tra' romani antichi ebbero i padri delle famiglie una potestà sovrana sopra la vita e la morte de' lor figliuoli ed un dominio dispotico sopra gli acquisti, onde infin a' romani princìpi i figliuoli dagli schiavi di nulla si distinguevano ne' peculi. Ma cotal voce «liberi» significò dapprima anco «nobili»; onde «artes liberales» sono «arti nobili», e «liberalis» restò a significare «gentile», e «liberalitas» «gentilezza», dalla stessa antica origine onde «gentes» erano state dette le «case nobili», da' latini; perché, come vedremo appresso, le prime genti si composero di soli nobili, e i soli nobili furono liberi nelle prime città. Altronde i famoli furon detti «clientes», e dapprima «cluentes», dall'antico verbo «cluere», «risplendere di luce d'armi» (il quale splendore fu detto «cluer»), perché rifulgevano con lo splendore dell'armi ch'usavano i lor eroi, che dalla stessa origine si dissero dapprima «incluti» e dappoi «inclyti»: altrimente non erano ravvisati, come se non fusser tra gli uomini, com'appresso si spiegherà. E qui ebbero principio le clientele e i primi dirozzamenti de' feudi, de' quali abbiamo molto, appresso, da ragionare; delle quali clientele e clienti si leggono sulla storia antica sparse tutte le nazioni, come nelle Degnità sta proposto. Ma Tucidide narra che nell'Egitto, anco a' suoi tempi, le dinastie di Tane erano tutte divise tra padri di famiglie, principi pastori di famiglie sì fatte; ed Omero, quanti eroi canta, tanti chiama «re», e gli diffinisce «pastori de' popoli», che dovetter esser innanzi di venire i pastori de' greggi, come appresso dimostreremo. Tuttavia in Arabia, com'erano stati in Egitto, or ne sono in gran numero; e nell'Indie occidentali si truovò la maggior parte, in tale stato di natura, governarsi per famiglie sì fatte, affollate di tanto numero di schiavi, che diede da pensare all'imperador Carlo V, re delle Spagne, di porvi modo e misura. E con una di queste famiglie dovette Abramo far guerre co' re gentili; i cui servi, co' quali le fece, troppo al nostro proposito, dotti di lingua santa traducono «vernaculos», come poc'anzi «vernæ» si sono da noi spiegati. Sul nascere di queste cose incominciò con verità il famoso nodo erculeo, col quale i clienti si dissero «nexi», «annodati» alle terre, che dovevano coltivare per gl'incliti; che passò poi in un nodo finto, come vedremo, nella legge delle XII Tavole, che dava la forma alla mancipazione civile, che solennizzava tutti gli atti legittimi de' romani. Ora, perché non si può intendere spezie di società né più ristretta per parte di chi ha copia di beni, né, per chi ne ha bisogno, più necessaria, quivi dovettero incominciare i primi soci nel mondo, che, come l'avvisammo nelle Degnità, furon i soci degli eroi, ricevuti per la vita, come quelli ch'avevano arresa alla discrezion degli eroi la lor vita. Onde ad Antinoo, il capo de' suoi soci, per una parola, quantunque dettagli a buon fine, perché non gli va all'umore, Ulisse vuol mozzare la testa; e 'l pio Enea uccide il socio Miseno, che gli bisognava per far un sagrifizio. Di che pure ci fu serbata una volgare tradizione; ma Virgilio, perché nella mansuetudine del popolo romano era troppo crudo ad udirsi di Enea, ch'esso celebra per la pietà, il saggio poeta finge che ucciso fu da Tritone, perché avesse osato con quello contendere in suon di tromba: ma nello stesso tempo ne dà troppo aperti motivi d'intenderlo, narrando la morte di Miseno tralle solennità prescritte dalla Sibilla ad Enea, delle quali una era che gli bisognava innanzi seppellire Miseno per poter poi discendere nell'inferno; e apertamente dice che la Sibilla gliene aveva predetto la morte. Talché questi erano soci delle sole fatighe, ma non già degli acquisti e molto meno della gloria, della quale rifulgevano solamente gli eroi, che se ne dicevano kleitói ovvero «chiari» da' greci, e «inclyti» da' latini (quali restarono le provincie dette «socie» da' romani); ed Esopo se ne lamenta nella favola della società leonina, come si è sopra detto. Perché certamente degli antichi germani, i quali ci permettono fare una necessaria congettura di tutti gli altri popoli barbari, Tacito narra che di tali famoli o clienti o vassalli quello «suum principem defendere et tueri, sua quoque fortia facta gloriæ eius adsignare, præcipuum iuramentum est»; ch'è una delle propietà più risentite de' nostri feudi. E quindi, e non altronde, dee essere provenuto che sotto la «persona» o «capo» (che, come vedremo appresso, significarono la stessa cosa che «maschera») e sotto il «nome» (ch'ora si direbbe «insegna») d'un padre di famiglia romano si contenevano, in ragione, tutti i figliuoli e tutti gli schiavi; e ne restò a' romani dirsi «clypea» i mezzi busti, che rappresentavano l'immagini degli antenati, riposte ne' tondi incavati dentro i pareti de' lor cortili, e, con troppa acconcezza alle cose che qui si dicono dell'origini delle medaglie, dalla novella architettura si dicono «medaglioni». Talché dovette con verità dirsi, ne' tempi eroici così de' greci, qual Omero il racconta, Ajace «torre de' greci», che solo combatte con intere battaglie troiane; come de' latini, ch'Orazio solo sul ponte sostiene un esercito di toscani: cioè Aiace, Orazio co' lor vassalli. Appunto come nella storia barbara ritornata quaranta normanni eroi, i quali ritornavano da Terra Santa, discacciano un esercito di saraceni, che tenevano assediato Salerno. Onde bisogna dire che da queste prime antichissime protezioni, le quali gli eroi presero de' rifuggiti alle loro terre, dovettero incominciar i feudi nel mondo, prima rustici personali, per gli quali tali vassalli debbon esser stati i primi «vades», ch'erano obbligati nella persona a seguir i loro eroi, ove gli menassero a coltivare i di loro campi (che poi restarono detti i rei, obbligati di seguir i lor attori in giudizio); onde, come «vas» a' latini, bás ai greci, così «was» e «wassus» restaron a' feudisti barbari a significare «vassallo», dappoi dovettero venire i feudi rustici reali, per gli quali i vassalli dovetter essere i primi «prædes» o «mancipes», gli obbligati in roba stabile; e «mancipes», propiamente, restaron detti tali obbligati all'erario. Di che più ragioneremo in appresso. Quindi devon altresì incominciare le prime colonie eroiche che noi diciamo «mediterranee», a differenza di altre, le quali vennero appresso, che furon le marittime, le quali vedremo essere state drappelli di rifuggiti da mare, che si salvarono in altre terre (che nelle Degnità si son accennate): perché il nome, propiamente, altro non suona che «moltitudine di giornalieri, che coltivano i campi (come tuttavia fanno) per lo vitto diurno». Delle quali due spezie di colonie son istorie quelle due favole: cioè, delle mediterranee, è 'l famoso Ercole gallico, il quale con catene d'oro poetico (cioè del frumento), che gli escono di bocca, incatena per gli orecchi moltitudine d'uomini e gli si mena, dove vuol, dietro; il quale è stato finora preso per simbolo dell'eloquenza, la qual favola nacque ne' tempi che non sapevano ancora gli eroi articolar la favella, come si è appieno sopra dimostro. Delle colonie marittime è la favola della rete, con la quale Vulcano eroico strascina da mare Venere e Marte plebei (la qual distinzione sarà qui appresso generalmente spiegata), e 'l Sole gli scuopre tutti nudi (cioè non vestiti della luce civile, della quale rifulgevan gli eroi, come si è testé detto), e gli dèi (cioè i nobili dell'eroiche città, quali si sono sopra spiegati) ne fanno scherno (come fecero i patrizi della povera plebe romana antica). E finalmente quindi ebbero gli asili la loro primiera origine: onde Cadmo con l'asilo fonda Tebe, antichissima città della Grecia; - Teseo fonda Atene sull'altare degl'infelici, detti con giusta idea «infelici» gli empi vagabondi, ch'erano privi di tutti i divini ed umani beni ch'aveva produtto a' pii l'umana società; - Romolo fonda Roma con l'asilo aperto nel luco; se non, più tosto, come fondatore di città nuova, esso co' suoi compagni la fonda sulla pianta degli asili, ond'erano surte l'antiche città del Lazio, che generalmente Livio in tal proposito diffinisce «vetus urbes condentium consilium», e perciò male gli attacca, come abbiam veduto sopra, quel detto: ch'esso e i suoi compagni erano figliuoli di quella terra. Ma, per ciò che 'l detto di Livio fa al nostro proposito, egli ci dimostra che gli asili furono l'origini delle città, delle quali è propietà eterna che gli uomini vi vivono sicuri da violenza. In cotal guisa dalla moltitudine degli empi vagabondi, dappertutto riparati e salvi nelle terre de' forti pii, venne a Giove il grazioso titolo d'«ospitale»: perocché sì fatti asili furono i primi «ospizi» del mondo, e sì fatti «ricevuti», come appresso vedremo, furono i primi «ospiti» ovvero «stranieri» delle prime città; e ne conservò la greca storia poetica, tralle molte fatighe d'Ercole, queste due: ch'egli andò per lo mondo spegnendo mostri, uomini nell'aspetto e bestie ne' lor costumi, e che purgò le lordissime stalle d'Augia. Quivi le genti poetiche fantasticarono due altre maggiori divinità, una di Marte, un'altra di Venere: quello, per un carattere degli eroi, che, prima e propiamente, combatterono «pro aris et focis»; la qual sorta di combattere fu sempre eroica: combattere per la propia religione, a cui ricorre il gener umano ne' disperati soccorsi della natura; onde le guerre di religione sono sanguinosissime, e gli uomini libertini, invecchiando, perché si sentono mancar i soccorsi della natura, divengon religiosi; onde noi sopra prendemmo la religione per primo principio di questa Scienza. Quivi Marte combatté in veri campi reali e dentro veri reali scudi, che da «cluer» prima «clupei» e poi «clypei» si dissero da' romani; siccome a' tempi barbari ritornati i pascoli e le selve chiuse sono dette «difese». E tali scudi si caricavano di vere armi, le quali dapprima, che non v'erano armi ancora di ferro, furon aste d'alberi bruciate in punta e poi ritondate ed aguzzate alla cote per renderle atte a ferire; che sono l'«aste pure», o non armate di ferro, che si davano per premi militari a' soldati romani i quali si erano eroicamente portati in guerra. Onde appo i greci son armate d'aste Minerva, Bellona, Pallade; ed appo i latini da «quiris», «asta», Giunone detta «Quirina», e «Quirino» Marte, e Romolo, perché valse vivo coll'asta, morto fu appellato «Quirino»; e 'l popolo romano, che armò di pili (come lo spartano, che fu il popolo eroico di Grecia, armò d'aste), fu detto, in adunanza, «quirites». Ma delle nazioni barbare la storia romana ci narra aver guerreggiato con le prime aste ch'ora diciamo, e le ci descrive «præustas sudes», «aste bruciate in punta», come furono ritruovati armeggiare gli americani; e a' tempi nostri i nobili con l'aste armeggiano ne' tornei, le quali prima adoperarono nelle guerre. La qual sorta d'armadura fu ritruovata da una giusta idea di fortezza, d'allungar il braccio e col corpo tener lontana l'ingiuria dal corpo, siccome l'armi che più s'appressano al corpo son più da bestie. Sopra ritruovammo i fondi de' campi ov'erano i seppelliti essere stati i primi scudi del mondo; onde nella scienza del blasone restò che lo scudo è 'l fondamento dell'armi. I colori de' campi furono veri: il nero, della terra bruciata, a cui Ercole diede il fuoco; - il verde, delle biade in erba; - e con errore per metallo fu preso l'oro, che fu il frumento, che, biondeggiando nelle secche sue biade, fu il terzo color della terra, com'altra volta si è detto; siccome i romani, tra' premi militari eroici, caricavano di frumento gli scudi di que' soldati che si erano segnalati nelle battaglie, e «adorea» loro si disse la «gloria militare», da «ador», «grano brustolito», di che prima cibavansi, che gli antichi latini dissero «adur» da «uro», «bruciare»; talché forse il primo «adorare» de' tempi religiosi fu brustolire frumento; - l'azzurro fu il color del cielo, del quale eran essi luci coverti (il perch'i francesi dissero «bleu» per l'«azzurro», per lo «cielo» e per «Dio», come sopra si è detto); - il rosso era il sangue de' ladroni empi, che gli eroi uccidevano, ritruovati dentro de' loro campi. L'imprese nobili venuteci dalla barbarie ritornata si osservano caricate di tanti lioni neri, verdi, d'oro, azzurri e finalmente rossi, i quali, per ciò che sopra abbiam veduto de' campi da semina, che poi passarono in campi d'armi, deono essere le terre colte, guardate con l'aspetto, che sopra si ragionò, del lione vinto da Ercole, e de' lor colori, che si sono testé noverati; - tante caricate di vari, che deon essere i solchi onde da' denti della gran serpe, da esso uccisa, di che avevagli seminati, uscirono gli uomini armati di Cadmo; - tante caricate di pali, che devon essere l'aste con le quali armeggiarono i primi eroi; - e tante caricate alfin di rastelli, che sono stromenti certamente di villa. Per lo che tutto si ha a conchiudere che l'agricoltura, come ne' tempi barbari primi, de' quali ci accertano essi romani, così ne' secondi fece la prima nobiltà delle nazioni. Gli scudi poi degli antichi furon coverti di cuoio, come si ha da' poeti che di cuoio vestirono i vecchi eroi, cioè delle pelli delle fiere da essi cacciate ed uccise. Di che vi ha un bel luogo in Pausania ove riferisce di Pelasgo (antichissimo eroe di Grecia, che diede il primo nome, che quella nazione portò, di «pelasgi»; talché Apollodoro, De origine deorum, il chiama autóchthona, «figliuol della Terra», che si diceva in una parola «gigante») ch'egli «ritruovò la veste di cuoio». E, con maravigliosa corrispondenza de' tempi barbari secondi co' primi, de' grandi personaggi antichi parlando, Dante dice che vestivan «di cuoio e d'osso», e Boccaccio narra ch'ivan impacciati nel cuoio: dallo che dovette venire che l'imprese gentilizie fussero di cuoio coverte, nelle quali la pelle del capo e de' piedi, rivolta in cartocci, vi fa acconci finimenti. Furon gli scudi ritondi, perché le terre sboscate e colte furono i primi «orbes terrarum», come sopra si è detto; e ne restò la propietà a latini, con cui «clypeus» era tondo, a differenza di «scutum», ch'era angolare. Il perché ogni luco si disse nel senso di «occhio», come ancor oggi si dicon «occhi» l'aperture ond'entra il lume nelle case: la qual frase eroica vera, essendosi poi sconosciuta, quindi alterata e finalmente corrotta: ch'«ogni gigante aveva il suo luco», era già divenuta falsa quando giunse ad Omero, e fu appreso ciascun gigante con un occhio in mezzo la fronte. Co' quali giganti monocoli ci venne Vulcano, nelle prime fucine - che furono le selve, alle quali Vulcano aveva dato il fuoco e dove aveva fabbricato le prime armi, che furono, come abbiam detto, l'aste bruciate in punta, - stesa l'idea di tal'armi, fabbricar i fulmini a Giove; perché Vulcano aveva dato fuoco alle selve, per osservar a cielo aperto donde i fulmini fussero mandati da Giove. L'altra divinità, che nacque tra queste antichissime cose umane, fu quella di Venere, la quale fu un carattere della bellezza civile; onde «honestas» restò a significare e «nobiltà» e «bellezza» e «virtù». Perché con quest'ordine dovettero nascere queste tre idee: che prima fussesi intesa la bellezza civile, ch'apparteneva agli eroi; - dopo, la naturale, che cade sotto gli umani sensi, però di uomini di menti scorte e comprendevoli, che sappiano discernere le parti e combinarne la convenevolezza nel tutto d'un corpo, nello che la bellezza essenzialmente consiste; onde i contadini e gli uomini della lorda plebe nulla o assai poco s'intendono di bellezza (lo che dimostra l'errore de' filologi, i quali dicono che, in questi tempi scempi e balordi ch'ora qui ragioniamo, si eleggevano gli re dall'aspetto de' loro corpi belli e ben fatti; perché tal tradizione è da intendersi della bellezza civile, ch'era la nobiltà d'essi eroi, come or ora diremo); finalmente, s'intese la bellezza della virtù, la quale si appella «honestas» e s'intende sol da' filosofi. Laonde della bellezza civile dovetter esser belli Apollo, Bacco, Ganimede, Bellerofonte, Teseo con altri eroi, per gli quali forse fu immaginata Venere maschia. Dovette nascere l'idea della bellezza civile in mente de' poeti teologi dal veder essi gli empi rifuggiti alle lor terre esser uomini d'aspetto e brutte bestie di costumi. Di tal bellezza, e non d'altra, vaghi furono gli spartani, gli eroi della Grecia, che gittavano dal monte Taigeta i parti brutti e deformi, cioè fatti da nobili femmine senza la solennità delle nozze; che debbon esser i «mostri» che la legge delle XII Tavole comandava gittarsi in Tevere. Perché non è punto verisimile ch'i decemviri, in quella parsimonia di leggi propia delle prime repubbliche, avessero pensato a' mostri naturali, che sono sì radi che le cose rade in natura si dicon «mostri»; quando, in questa copia di leggi della qual or travagliamo, i legislatori lasciano all'arbitrio de' giudicanti le cause ch'avvengono rade volte: talché questi dovetter esser i mostri detti, prima e propiamente, «civili» (d'un de' quali intese Panfilo ove, venuto in falso sospetto che la donzella Filumena fusse gravida, dice: ... Aliquid monstri alunt) ; e così restaron detti nelle leggi romane, le quali dovettero parlare con tutta propietà come osserva Antonio Fabro nella Giurisprudenza papinianea. Lo che sopra si è altra volta ad altro fine osservato. Laonde questo dee essere quello che, con quanto di buona fede, con altrettanta ignorazione delle romane antichità ch'egli scrive, dice Livio: che, se comunicati fussero da' nobili i connubi a' plebei, ne nascerebbe la prole «secum ipsa discors», ch'è tanto dire quanto «mostro mescolato di due nature»: una, eroica, de' nobili; altra, ferina, d'essi plebei, che «agitabant connubia more ferarum»: il qual motto prese Livio da alcuno antico scrittor d'annali, e l'usò senza scienza, perocché egli il rapporta in senso: «se i nobili imparentassero co' plebei». Perché i plebei, in quel loro misero stato di quasi schiavi, nol potevano pretendere da' nobili, ma domandarono la ragione di contrarre nozze sollenni (ché tanto suona «connubium»): la qual ragione era solo de' nobili; ma, delle fiere, niuna spezie usa con altra di altra spezie. Talché è forza dire ch'egli fu un motto, col quale, in quella eroica contesa, i nobili volevano schernir i plebei, che, non avendo auspìci pubblici, i quali con la lor solennità facevano le nozze giuste, niuno di loro aveva padre certo (come in ragion romana restonne quella diffinizione, ch'ognun sa, che «nuptiæ demonstrant patrem»); talché, in sì fatta incertezza, i plebei si dicevan da' nobili ch'usassero con le loro madri, con le loro figliuole, come fanno le fiere. Ma a Venere plebea furon attribuite le colombe, non già per significare svisceratezze amorose, ma perché sono, qual'Orazio le diffinisce, «degeneres», uccelli vili a petto dell'aquile (che lo stesso Orazio diffinisce «feroces»), e sì per significare ch'i plebei avevano auspìci privati o minori, a differenza di quelli dell'aquile e de' fulmini, ch'erano de' nobili e Varrone e Messala dissero «auspìci maggiori» ovvero «pubblici», de' quali erano dipendenze tutte le ragioni eroiche de' nobili, come la storia romana apertamente lo ci conferma. Ma a Venere eroica, qual fu la «pronuba», furon attribuiti i cigni, propi anco d'Apollo, il quale sopra vedemmo essere lo dio della nobiltà, con gli auspìci di uno de' quali Leda concepisce di Giove l'uova, come si è sopra spiegato. Fu la Venere plebea ella descritta nuda, perocché la pronuba era col cesto coverta, come si è detto sopra (quindi si veda quanto d'intorno a queste poetiche antichità si sieno contorte l'idee!): che poi fu creduto finto per incentivo della libidine quello che fu ritruovato con verità per significar il pudor naturale, o sia la puntualità della buona fede con la quale si osservavano tra' plebei le naturali obbligazioni; perocché, come quindi a poco vedremo nella Politica poetica, i plebei non ebbero niuna parte di cittadinanza nell'eroiche città, e sì non contraevano tra loro obbligazioni legate con alcun vincolo di legge civile, che lor facesse necessità. Quindi furon a Venere attribuite le Grazie ancor nude; e appo i latini «caussa» e «gratia» significano una cosa stessa: talché le Grazie a' poeti significar dovettero i «patti nudi», che producono la sola obbligazion naturale. E quindi i giureconsulti romani dissero «patti stipulati» quelli che poi furon detti «vestiti» dagli antichi interpetri: perché, intendendo quelli i patti nudi esser i patti non stipulati, non deve «stipulatio» venir detta da «stipes» (che, per tal origine, si dovrebbe dire «stipatio»), con la sforzata ragione «perocché ella sostenga i patti»; ma dee venire da «stipula», detta da' contadini del Lazio perocch'ella «vesta il frumento»: com'al contrario i «patti vestiti» in prima da' feudisti furono detti dalla stessa origine onde son dette l'«investiture» de' feudi, de' quali certamente si ha «exfestucare» il «privare della degnità». Per lo che ragionato, «gratia» e «caussa» s'intesero essere una cosa stessa da' latini poeti d'intorno a' contratti che si celebravano da' plebei delle città eroiche: come, introdutti poi i contratti «de iure naturali gentium», ch'Ulpiano dice «humanarum», «causa» e «negocium» significarono una cosa medesima; perocché, in tali spezie di contratti, essi negozi quasi sempre sono «caussæ» o «cavissæ» o «cautele», che vagliono per stipulazioni le quali ne cautelino i patti. 3. COROLLARI D'INTORNO A' CONTRATTI CHE SI COMPIONO COL SOLO CONSENSO. Perché, per l'antichissimo diritto delle genti eroiche, le quali non curavano che le cose necessarie alla vita, e non raccogliendosi altri frutti che naturali, né intendendo ancora l'utilità del danaio, ed essendo quasi tutti corpo, non potevano conoscere certamente i contratti che oggi dicono compiersi col solo consenso; ed essendo sommamente rozzi, de' quali è propio l'essere sospettosi, perché la rozzezza nasce dall'ignoranza ed è propietà di natura umana che chi non sa sempre dubita: per tutto ciò non conoscevano buona fede, e di tutte l'obbligazioni si assicuravano con la mano o vera o finta, però questa accettata, nell'atto del negozio, con le stipulazioni solenni; ond'è quel celebre capo nella legge delle XII Tavole: «Si quis nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto». Dalla qual natura di cose umane civili escono queste verità. I Che quello che dicono, che l'antichissime vendite e compere furono permutazioni, ove fussero di robe stabili, elleno dovetter esser quelli che nella barbarie ricorsa furon detti «livelli»; de' quali s'intese l'utilità, perch'altri abbondasse di fondi i quali dassero copia di frutti, de' quali altri avesse scarsezza, e così a vicenda. II Le locazioni di case non potevano celebrarsi quand'erano picciole le città e l'abitazioni ristrette: talché si dovettero da' padroni de' suoli quelli darsi perch'altri vi fabbricasse; e sì non poteron esser altri che censi. III Le locazioni de' terreni dovetter essere enfiteusi, che da' latini furono dette «clientelæ»; ond'i gramatici dissero, indovinando, che «clientes» fussero stati detti quasi «colentes». IV Talché questa dev'esser la cagione onde, per la barbarie ricorsa, negli antichi archivi non si leggon altri contratti che censi di case o poderi, o in perpetuo o a tempo. V Ch'è forse la ragione perché l'enfiteusi è contratto «de iure civili»; che, per questi princìpi, si truoverà essere lo stesso che «de iure heroico romanorum», a cui Ulpiano oppone il «ius naturale gentium humanarum», che disse «umane» in rapporto al gius delle genti barbare che furon prima, non delle genti barbare ch'a' suoi tempi erano fuori dell'imperio romano, il quale nulla importava a' romani giureconsulti. VI Le società non erano conosciute, per quel costume ciclopico ch'ogni padre di famiglia curava solamente le cose sue e nulla impacciavasi di quelle d'altrui, come, sopra, Omero ci ha fatto udire nel racconto che fa Polifemo ad Ulisse. VII E per questa stessa ragione non erano conosciuti i mandati; onde restò quella regola di diritto civile antico: «Per extraneam personam acquiri nemini». VIII Ma, a quello dell'eroiche essendo poi succeduto il diritto delle genti umane che diffinisce Ulpiano, si fece tanto rivolgimento di cose, che la vendita e compera, la qual anticamente, se, nell'atto del contrarsi, non si stipulava la «dupla», non produceva l'evizione, oggi è la regina de' contratti i quali si dicono «di buona fede», e naturalmente, anco non patteggiata, la deve. 4. CANONE MITOLOGICO. Ora, ritornando agli tre caratteri di Vulcano, Marte e Venere, è qui d'avvertire (e tal avvertimento dee tenersi a luogo d'un importante canone di questa mitologia) che questi furono tre divini caratteri significanti essi eroi, a differenza di altrettanti che significarono plebei: come Vulcano, che fende il capo a Giove con un colpo di scure, onde nasce Minerva, e, volendosi frapporre in una contesa tra Giove e Giunone, con un calcio da Giove è precipitato dal cielo e restonne zoppo; - Marte, a cui Giove, in una forte riprensione che gli fa appo Omero, dice essere lo più vile di tutti i dèi, e Minerva, nella contesa degli dèi, appo lo stesso poeta, il ferisce con un colpo di sasso (che devon essere stati i plebei, che servivano agli eroi nelle guerre); - e Venere (che deon essere state le mogli naturali di sì fatti plebei), che, con questo Marte plebeo, sono còlti entrambi nella rete da Vulcano eroico, e, scoverti ignudi dal Sole, sono presi a scherno dagli altri dèi. Quindi Venere fu poi con error creduta esser moglie di Vulcano: ma noi sopra vedemmo che 'n cielo non vi fu altro matrimonio che di Giove e Giunone, il quale pure fu sterile; e Marte fu detto non «adultero», ma «concubino» di Venere, perché tra' plebei non si contraevano che matrimoni naturali, come appresso si mostrerà, che da' latini furon detti «concubinati». Come questi tre caratteri qui, così altri saranno appresso, a' luoghi loro, spiegati. Quali si truoveranno Tantalo plebeo, che non può afferrare le poma che s'alzano né toccare l'acqua che bassasi; Mida plebeo, il quale, perché tutto ciò che tocca è oro, si muore di fame; Lino plebeo, che contende con Apollo nel canto, e, vinto, è da quello ucciso. Le quali favole, ovvero caratteri doppi, devon essere stati necessari nello stato eroico, ch'i plebei non avevano nomi e portavano i nomi de' loro eroi, come si è sopra detto: oltre alla somma povertà de' parlari, che dovett'essere ne' primi tempi; quando, in questa copia di lingue, uno stesso vocabolo significa spesso diverse e, alcuna volta, due tra loro contrarie cose. V DELLA POLITICA POETICA. 1. DELLA POLITICA POETICA CON LA QUALE NACQUERO LE PRIME REPUBBLICHE AL MONDO DI FORMA SEVERISSIMA ARISTOCRATICA. In cotal guisa si fondarono le famiglie di sì fatti famoli, ricevuti in fede o forza o protezione dagli eroi, che furon i primi soci del mondo, quali sopra abbiamo veduti. De' quali le vite erano in balia de' loro signori, e, 'n conseguenza delle vite, eran anco gli acquisti; quando essi eroi, con gl'imperi paterni ciclopici, sopra i loro propi figliuoli avevano il diritto della vita e della morte, e, 'n conseguenza di tal diritto sopra le persone, avevan anco il diritto dispotico sopra tutti i di lor acquisti. Lo che intese Aristotile ove diffinì i figliuoli di famiglia esser «animati strumenti de' loro padri»; e la legge delle XII Tavole, fin dentro la più prosciolta libertà popolare, serbò a' padri di famiglia romani entrambe queste due parti monarchiche: e di potestà sopra le persone e di dominio sopra gli acquisti; e, finché vennero gl'imperadori, i figliuoli, come gli schiavi, ebbero una sola spezie di peculio, che fu il profettizio; e i padri, ne' primi tempi, dovettero avere la potestà di vendere veramente i figliuoli fin a tre volte; che poi, invigorendo la mansuetudine de' tempi umani, il fecero con tre vendite finte, quando volevano liberare i figliuoli dalla paterna potestà. Ma i galli e i celti si conservarono un'egual potestà sopra i figliuoli e gli schiavi; e 'l costume di vendere con verità i padri i loro figliuoli fu ritruovato nell'Indie occidentali, e nell'Europa si pratica infin a quattro volte da' moscoviti e da' tartari. Tanto è vero che l'altre nazioni barbare non hanno la paterna potestà «talem qualem habent cives romani»! La qual aperta falsità esce dal comune volgar errore, con cui i dottori hanno ricevuto tal motto: ma ciò fu da' giureconsulti detto in rapporto delle nazioni vinte dal popolo romano; alle quali, come più a lungo appresso dimostreremo, tolto tutto il diritto civile con la ragione delle vittorie, non restarono che naturali paterne potestà e, 'n lor conseguenza, naturali vincoli di sangue, che si dicono «cognazioni», e, dall'altra parte, naturali domìni, che son i bonitari, e, per tutto ciò, naturali obbligazioni, che si dicono «de iure naturali gentium», ch'Ulpiano ci specificò sopra con l'aggiunto «humanarum». Le quali ragioni tutte i popoli posti fuori dell'imperio dovettero avere civili, e appunto tali quali l'ebbero essi romani. Ma, ripigliando il ragionamento, con la morte de' loro padri restando liberi i figliuoli di famiglia di tal monarchico imperio privato, anzi riassumendolo ciascun figliuolo intieramente per sé (onde ogni cittadino romano, libero dalla paterna potestà, in romana ragione egli è «padre di famiglia» appellato), e i famoli dovendo sempre vivere in tale stato servile, a capo di lunga età naturalmente se ne dovettero attediare, per la Degnità da noi sopra posta: che «l'uomo soggetto naturalmente brama sottrarsi alla servitù». Talché costoro debbono essere stati Tantalo, che testé dicemmo plebeo, che non può addentare le poma (che devon essere le poma d'oro del frumento sopra spiegate, le quali s'alzano sulle terre de' lor eroi), e (per ispiegarne l'ardente sete) non può prender un picciol sorso dell'acqua, che gli si appressa fin alle labbra e poi fugge; - Issione, che volta sempre la ruota; - e Sisifo, che spinge sù il sasso, che gittò Cadmo (la terra dura, che, giunta al colmo, rovescia giù, come restò a' latini «vertere terram» per «coltivarla» e «saxum volvere» per «far con ardore lunga e aspra fatiga»). Per tutto ciò i famoli dovettero ammutinarsi contro essi eroi. E questa è la «necessità», che generalmente si congetturò nelle Degnità esser stata fatta da' famoli ai padri eroi nello stato delle famiglie, onde nacquero le repubbliche. Perché quivi, al grand'uopo, dovettero per natura esser portati gli eroi ad unirsi in ordini, per resistere alle moltitudini de' famoli sollevati, dovendo loro far capo alcun padre più di tutti feroce e di spirito più presente; e tali se ne dissero i «re» dal verbo «regere», ch'è propiamente «sostenere» e «dirizzare». In cotal guisa, per dirla con la frase troppo ben intesa di Pomponio giureconsulto, «rebus ipsis dictantibus, regna condita», detto convenevolmente alla dottrina della romana ragione, che stabilisce «ius naturale gentium divina providentia constitutum». Ed ecco la generazione de' regni eroici. E, perché i padri erano sovrani re delle lor famiglie, nell'ugualità di sì fatto stato e, per la feroce natura de' polifemi, niuno di tutti naturalmente dovendo ceder all'altro, uscirono da se medesimi i senati regnanti, o sia di tanti re delle lor famiglie; i quali, senza umano scorgimento o consiglio, si truovaron aver uniti i loro privati interessi a ciascun loro comune, il quale si disse «patria», che, sottointesovi «res», vuol dir «interesse di padri», e i nobili se ne dissero «patricii»: onde dovettero i soli nobili esser i cittadini delle prime patrie. Così può esser vera la tradizione che ce n'è giunta: che ne' primi tempi si eleggevano gli re per natura; della quale vi sono due luoghi d'oro appo Tacito, De moribus Germanorum, i quali ci danno luogo di congetturare essere stato lo stesso costume di tutti gli altri primi popoli barbari. Uno è quello: «Non casus, non fortuita conglobatio turmam aut cuneum facit, sed familiæ et propinquitates». L'altro è: «Duces exemplo potius quam imperio; si prompti, si conspicui, si ante aciem agant, admiratione præsunt». Tali essere stati i primi re in terra ci si dimostra da ciò: che tal i poeti eroi immaginarono essere Giove in cielo re degli uomini e degli dèi, per quell'aureo luogo di Omero dove Giove si scusa con Teti ch'esso non può far nulla contro a ciò che gli dèi avevano una volta determinato nel gran consiglio celeste; ch'è parlare di vero re aristocratico: dove poi gli stoici ficcarono il loro dogma di Giove soggetto al fato; ma Giove e gli altri dèi tennero consiglio d'intorno a tai cose degli uomini, e sì le determinarono con libera volontà. Il qual luogo qui riferito ne spiega due altri del medesimo Omero, ne' quali con errore i politici fondano ch'Omero avesse inteso la monarchia. Uno è di Agamennone, che riprende la contumacia d'Achille; l'altro è di Ulisse, che i greci, ammutinati di ritornar alle loro case, persuade di continuare l'assedio incominciato di Troia: dicendo entrambi che «uno è 'l re», perché l'un e l'altro è detto in guerra, nella quale uno è 'l general capitano, per quella massima avvertita da Tacito ove dice: «eam esse imperandi conditionem, ut non aliter ratio constet quam si uni reddatur». Del rimanente, lo stesso Omero in quanti luoghi de' due poemi mentova eroi dà loro il perpetuo aggiunto di «re»: col quale si confà a maraviglia un luogo d'oro del Genesi, ove quanti Mosè narra discendenti d'Esaù tanti ne appella «re», o dir vogliamo capitani, che la Volgata legge «duces»; e gli ambasciadori di Pirro gli riferiscono d'aver veduto in Roma un senato di tanti re. Perché invero non si può affatto intendere in natura civile niuna cagione, per la qual i padri, in tal cangiamento di stati, avessero dovuto altro mutare, da quello ch'avevano avuto nello stato già di natura, che di assoggettire le loro sovrane potestà famigliari ad essi ordini loro regnanti: perché la natura de' forti, come abbiamo nelle Degnità sopra posto, è di rimettere, degli acquisti fatti con virtù, quanto meno essi possono, e tanto quanto bisogna perché loro si conservin gli acquisti; onde si legge sì spesso sulla storia romana quell'eroico disdegno de' forti, che mal soffre «virtute parta per flagitium amittere». Né, tra tutti i possibili umani, una volta che gli Stati civili non nacquero né da froda né da forza d'un solo (come abbiam sopra dimostro e si dimostrerà più in appresso), come dalle potestà famigliari poté formarsi la civil potestà, e de' domìni naturali paterni (che noi sopra accennammo essere stati «ex iure optimo», in significato di «liberi d'ogni peso privato e pubblico») si fusse formato il dominio eminente di essi Stati civili, si può immaginare in altra guisa che questa. La quale, così meditata, ci si appruova a maraviglia con esse origini delle voci. Ché, perché sopra esso dominio ottimo ch'avevano i padri (detto da' greci díkaion áriston) si formarono esse repubbliche, come altra volta si è detto sopra, da' greci si dissero «aristocratiche», e da' latini si chiamarono «repubbliche d'ottimati», dette da Opi, dea detta della potenza: onde perciò forse Opi (dalla quale dev'essere stato detto «optimus», ch'è áristos a' greci, e quindi «optimus» a' latini) funne detta moglie di Giove, cioè dell'ordine regnante di quelli eroi, i quali, come sopra si è detto, s'avevano arrogato il nome di «dèi» (perché Giunone per la ragion degli auspìci era moglie di Giove, preso per lo cielo che fulmina); de' quali dèi, come si è detto sopra, fu madre Cibele, detta «madre» ancor «de' giganti», propiamente detti in significazione di «nobili», e la quale, come vedremo appresso nella Cosmografia poetica, fu appresa per la regina delle città. Da Opi adunque si dissero gli «ottimati», perché tali repubbliche sono tutte ordinate a conservare la potenza de' nobili, e, per conservarla, ritengono per eterne propietà quelle due principali custodie, delle quali una è degli ordini e l'altra è de' confini. E dalla custodia degli ordini venne prima la custodia de' parentadi, per la qual i romani fin al CCCIX di Roma tennero chiusi i connubi alla plebe; dipoi, la custodia de' maestrati, onde tanto i patrizi contrastarono alla plebe la pretenzione del consolato; appresso, la custodia de' sacerdozi e, per questa, la custodia alfin delle leggi, che tutte le prime nazioni guardarono con aspetto di cose sagre: onde fin alla legge delle XII Tavole i nobili governarono Roma con costumanze, come nelle Degnità ce n'accertò Dionigi d'Alicarnasso, e fino a cento anni dopo essa legge ne tennero chiusa l'interpetrazione dentro il collegio de' pontefici, al narrar di Pomponio giureconsulto, perché fin a quel tempo entrati v'erano i soli nobili. L'altra principal custodia ella è de' confini; onde i romani, fin a quella che fecero di Corinto, avevan osservato una giustizia incomparabile nelle guerre, per non agguerrire, ed una somma clemenza nelle vittorie, per non arricchir i plebei, come sopra se ne sono proposte due Degnità. Tutto questo grande ed importante tratto di storia poetica è contenuto in questa favola: che Saturno si vuol divorare Giove bambino, e i sacerdoti di Cibele glielo nascondono e col romore dell'armi non gliene fanno udire i vagiti; ove Saturno dev'essere carattere de' famoli, che da giornalieri coltivano i campi de' padri signori e, con un'ardente brama di desiderio, vogliono da' padri campi per sostentarvisi. E così questo Saturno è padre di Giove, perché da questo Saturno, come da occasione, nacque il regno civile de' padri, che, come dianzi si è detto, si spiegò col carattere di quel Giove del qual fu moglie Opi. Perché Giove, preso per lo dio degli auspìci, de' quali gli più solenni erano in fulmine e l'aquila (del qual Giove era moglie Giunone), egli è «padre degli dèi», cioè degli eroi, che si credevano figliuoli di Giove, siccome quelli ch'erano generati con gli auspìci di Giove da nozze solenni (delle quali è nume Giunone), e si presero il nome di «dèi», de' quali è madre la Terra, ovvero Opi moglie di questo Giove, come tutto si è detto sopra; e 'l medesimo fu detto «re degli uomini», cioè de' famoli nello stato delle famiglie e de' plebei in quello dell'eroiche città: i quali due divini titoli, per ignorazione di quest'istoria poetica, si sono tra lor confusi, quasi Giove fusse anco padre degli uomini; i quali fin dentro a' tempi della repubblica romana antica «non poterant nomine ciere patrem», come narra Livio, perché nascevano da' matrimoni naturali, non da nozze solenni; onde restò in giurisprudenza quella regola: «Nuptiæ demonstrant patrem». Siegue la favola ch'i sacerdoti di Cibele, o sieno d'Opi (perché i primi regni furono dappertutto di sacerdoti, come alquanto se n'è detto sopra e pienamente appresso si mostrerà), nascondono Giove (dal qual nascondimento i filologi latini, indovinando, dissero essere stato appellato «Latium», e la lingua latina ne conservò la storia in questa sua frase: «condere regna» - lo che altra volta si è detto, - perché i padri si chiusero in ordine contro i famoli ammutinati, dal qual segreto incominciarono a venir quelli ch'i politici dicono «arcana imperii»), e, col romore dell'armi non faccendo a Saturno udire i vagiti di Giove (testé nato all'union di quell'ordine), in cotal guisa il salvarono. Con la qual guisa si narra distintamente ciò che 'n confuso Platone disse: «le repubbliche esser nate sulla pianta dell'armi»; a cui dev'unirsi ciò ch'Aristotile ci disse sopra nelle Degnità: che nelle repubbliche eroiche i nobili giuravano d'esser eterni nimici alla plebe; e ne restò propietà eterna, per la quale ora diciamo i servidori esser nimici pagati de' loro padroni. La qual istoria i greci ci conservarono in questa etimologia, per la quale, appo essi, da pólis, «città», pólemos è appellata la «guerra». Quivi le nazioni greche immaginarono la decima divinità delle genti dette maggiori, che fu Minerva. E la si finsero nascere con questa fantasia, fiera ugualmente e goffa: che Vulcano con una scure fendette il capo di Giove, onde nacque Minerva; volendo essi dire che la moltitudine de' famoli ch'esercitavan arti servili, che, come si è detto, venivano sotto il genere poetico di Vulcano plebeo, essi ruppero (in sentimento d'«infievolirono» o «scemarono») il regno di Giove (come restò a' latini «minuere caput» per «fiaccare la testa», perché, non sappiendo dir in astratto «regno», in concreto dissero «capo»), che stato era, nello stato delle famiglie, monarchico, e cangiarono in aristocratico in quello delle città. Talché non è vana la congettura che da tal «minuere» fusse stata da' latini detta Minerva; e da questa lontanissima poetica antichità restasse a' medesimi, in romana ragione, «capitis deminutio» per significare «mutazione di stato», come Minerva mutò lo stato delle famiglie in quello delle città. In cotal favola i filosofi poi ficcarono il più sublime delle loro meditazioni metafisiche: che l'idea eterna in Dio è generata da esso Dio, ove l'idee criate sono in noi produtte da Dio. Ma i poeti teologi contemplarono Minerva con l'idea di ordine civile, come restò per eccellenza a' latini «ordo» per lo «senato» (lo che forse diede motivo a' filosofi di crederla idea eterna di Dio, ch'altro non è che ordine eterno); e ne restò propietà eterna: che l'ordine de' migliori è la sapienza delle città. Ma Minerva appo Omero è sempre distinta con gli aggiunti perpetui di «guerriera» e di «predatrice», e due volte sole ci ricordiamo di averlavi letto con quello di «consigliera»; e la civetta e l'oliva le furono consagrate, non già perch'ella mediti la notte e legga e scriva al lume della lucerna, ma per significare la notte de' nascondigli, co' quali si fondò, com'abbiamo sopra detto, l'umanità, e forse per più propiamente significare che i senati eroici, che componevano le città, concepivano in segreto le leggi, e ne restò certamente agli areopagiti di dir i voti al buio nel senato d'Atene, che fu la città di Minerva, la qual fu detta Athenã. Dal qual eroico costume appo i latini fu detto «condere leges», talché «legum conditores» furono propiamente i senati che comandavan le leggi, siccome «legum latores» coloro che da' senati portavano le leggi alle plebi de' popoli, come sopra, nell'accusa d'Orazio, si è detto. E tanto da' poeti teologi fu considerata Minerva esser dea della sapienza, che nelle statue e nelle medaglie si osserva armata; e la stessa fu «Minerva» nella curia, «Pallade» nell'adunanze plebee (come, appo Omero, Pallade mena Telemaco nell'adunanza della plebe, ch'egli chiama «altro popolo», ove vuol partire per andar truovando Ulisse, suo padre), ed è «Bellona», per ultimo, nelle guerre. Talché è da dirsi che, con l'errore che Minerva fusse stata intesa da' poeti teologi per la sapienza, vada di concerto quell'altro che «curia» fusse stata detta a «curanda republica», in que' tempi che le nazioni erano stordite e stupide. La qual dovette a' greci antichissimi venir detta churía da chéir, la «mano», e indi «curia» similmente a' latini, per uno di questi due grandi rottami d'antichità, che (come si è detto nella Tavola cronologica e nelle ivi scritte Annotazioni) per buona nostra ventura Dionigi Petavio truova gittati dentro la storia greca innanzi l'età degli eroi di Grecia e, 'n conseguenza, in questa, da noi qui seguita, età degli dèi degli egizi. Uno è che gli Eraclidi, ovvero discendenti d'Ercole, erano stati sparsi per tutta Grecia, anco nell'Attica, ove fu Atene, e che poi si ritirarono nel Peloponneso, ove fu Sparta, repubblica o regno aristocratico di due re della razza d'Ercole, detti Eraclidi, ovvero nobili, che amministravano le leggi e le guerre sotto la custodia degli efori. I quali erano custodi della libertà non già popolare ma signorile, che fecero strozzare il re Agide, perché aveva attentato di portar al popolo una legge di conto nuovo, la quale Livio diffinisce «facem ad accendendum adversus optimates plebem», ed un'altra testamentaria, la quale divolgava i retaggi fuori dell'ordine de' nobili, tra' quali soli innanzi si erano conservati con le successioni legittime, perché essi soli avevano dovuto avere suità, agnazioni, gentilità; della qual fatta erano state in Roma innanzi della legge delle XII Tavole, come appresso sarà dimostro: onde, come i Cassi, i Capitolini, i Gracchi ed altri principali cittadini, per volere, con qualche legge sì fatta, d'un poco sollevare la povera oppressa plebe romana, furono dal senato dichiarati ed uccisi come rubelli; così Agide fu fatto strozzare dagli efori. Tanto gli efori di Sparta, per Polibio, furono custodi della libertà popolare di Lacedemone! Laonde Atene, così appellata da Minerva, la qual si disse Athenã, dovette essere, ne' primi suoi tempi, di stato aristocratica; e la storia greca l'hacci narrato fedelmente più sopra, ove ci disse che Dragone regnò in Atene nel tempo ch'era occupata dagli ottimati, e cel conferma Tucidide, narrando che, finch'ella fu governata da' severissimi areopagiti, che Giovenale traduce «giudici di Marte», in senso di «giudici armati» (che, da Aùres, «Marte», peghé, ond'è «pagus» a' latini, meglio arebbe trasportato «popolo di Marte», come fu detto il romano; perché, nel loro nascimento, i popoli si composero di soli nobili, che soli avevano il diritto dell'armi), ella sfolgorò delle più belle eroiche virtù e fece dell'eccellentissime imprese (appunto come Roma, nel tempo nel quale, come appresso vedremo, ella fu repubblica aristocratica); dal quale stato Pericle ed Aristide (appunto come Sestio e Canuleo, tribuni della plebe, incominciarono a fare di Roma) la rovesciarono nella libertà popolare. L'altro gran rottame egli è ch'i greci, usciti di Grecia, osservarono i cureti, ovvero sacerdoti di Cibele, sparsi in Saturnia (o sia l'antica Italia), in Creta ed in Asia; talché dovettero dappertutto nelle prime nazioni barbare celebrarsi regni di cureti, corrispondenti a' regni degli Eraclidi, sparsi per l'antichissima Grecia: i quali cureti furon que' sacerdoti armati, che col battere dell'armi attutarono i vagiti di Giove bambino, che Saturno volevasi divorare; la qual favola è stata testé spiegata. Per tutto lo che ragionato, da questo antichissimo punto di tempo e con questa guisa nacquero i primi comizi curiati, che sono gli più antichi che si leggono sulla storia romana; i quali si dovettero tener sotto l'armi, e restarono poi per trattare le cose sagre, perché con tal aspetto ne' primi tempi si guardarono tutte le cose profane. Delle quali adunanze si maraviglia Livio ch'a' tempi d'Annibale, che vi passa per mezzo, si tenevano nelle Gallie; ma Tacito ne' Costumi de' germani ci narra quello: che si tenevano anco da' sacerdoti, ove comandavano le pene in mezzo dell'armi, come se ivi fussero presenti i lor dèi (e con giusto senso: si armavano le adunanze eroiche per comandare le pene, perché il sommo imperio delle leggi va di séguito al sommo imperio dell'armi); e generalmente narra che armati trattavano tutti i loro pubblici affari e presiedendovi i sacerdoti, com'or si è detto. Laonde tra gli antichi germani, i quali ci danno luogo d'intendere lo stesso costume di tutti i primi popoli barbari, si rincontra il regno de' sacerdoti egizi; si rincontrano i regni de' cureti ovvero de' sacerdoti armati, che, come abbiam veduto, i greci osservarono in Saturnia (o sia l'antica Italia), in Creta ed in Asia; si rincontrano i quiriti dell'antichissimo Lazio. Per le quali cose ragionate, il «diritto de' quiriti» dee essere stato il diritto naturale delle genti eroiche d'Italia, che, per distinguersi da quello degli altri popoli, si disse «ius quiritium romanorum»; non già per patto convenuto tra' sabini e romani, che si fussero detti «quiriti» da Cure, capital città de' sabini, perché, così, dovrebbon essere stati detti «cureti», che osservarono i greci in Saturnia. Ma, se tal città de' sabini si disse Cere (lo che vogliono i latini gramatici), deono (qui vedasi che contorcimento d'idee!) più tosto esser i «ceriti», ch'erano cittadini romani condennati da' censori a portar i pesi senza aver alcuna parte degli onori civili; appunto come furono le plebi, che poi si composero de' famoli nel nascere, come or or vedremo, dell'eroiche città, nel corpo delle quali dovettero venir i sabini, in que' tempi barbari che le città vinte si smantellavano (lo che i romani non risparmiarono ad essa Alba, lor madre), e gli arresi si disperdevano per le pianure, obbligati a coltivar i campi per gli popoli vincitori: che furono le prime provincie, così dette quasi «prope victæ» (onde Marcio, da Corioli ch'aveva vinto, fu detto Coriolano); per l'opposto onde furon dette le «provincie ultime», perché fussero «procul victæ». Ed in tali campagne si menarono le prime colonie mediterranee, che con tutta propietà si dissero «coloniæ deductæ», cioè drappelli di contadini giornalieri menati, da su, giù; che poi nelle colonie ultime significarono tutto il contrario, ché, da' luoghi bassi e gravi di Roma, ove dovevan abitar i plebei poveri, erano questi menati in luoghi alti e forti delle provincie, per tenerle in dovere, a far essi i signori e cangiarvi i signori de' campi in poveri giornalieri. In cotal guisa, al riferire di Livio, che ne vide solamente gli effetti, cresce Roma con le rovine di Alba, e i sabini portano in Roma a' generi, in dote delle loro rapite figliuole, le ricchezze di Cere, come sopra ciò vanamente riflette Floro. E queste sono le colonie innanzi a quelle che vennero dopo l'agrarie de' Gracchi, le quali lo stesso Livio riferisce che la plebe romana, nelle contese eroiche che esercita con la nobiltà, o sdegna o più con esse si aizza, perché non erano della fatta dell'ultime; e perché di nulla sollevavano la plebe romana, e Livio truova pure con quelle seguir le contese, vi fa tali sue vane riflessioni. Finalmente che Minerva significato avesse ordini aristocratici armati, ci si appruova da Omero ove, nella contesa, narra che Minerva con un colpo di sasso ferisce Marte, che noi sopra vedemmo carattere de' plebei che servivano agli eroi nelle guerre; e ove riferisce che Minerva vuol congiurare contro Giove: che può convenir all'aristocrazie, ove i signori con occulti consigli opprimono i loro principi, ove n'affettano la tirannide. Del qual tempo e non d'altro si legge agli uccisori de' tiranni essersi alzate le statue; ché, se gli supponiamo re monarchi, essi sarebbono stati rubelli. Così si composero le prime città di soli nobili, che vi comandavano. Ma però, bisognandovi che vi fussero anche color che servissero, gli eroi furono da un senso comune d'utilità costretti di far contenta la moltitudine de' sollevati clienti, e mandarono loro le prime ambasciarie, che per diritto delle genti si mandano da' sovrani. E le mandarono con la prima legge agraria che nacque al mondo, con la quale, da forti, rillasciarono a' clienti il men che potevano, che fu il dominio bonitario de' campi ch'arebbon assegnato loro gli eroi; e così può esser vero che Cerere ritruovò e le biade e le leggi. Cotal legge fu dettata da questo diritto natural delle genti: ch'andando il dominio di séguito alla potestà, ed avendo i famoli la vita precaria da essi eroi, i quali l'avevano loro salvata ne' lor asili, diritto era e ragione ch'avessero un dominio similmente precario, il qual essi godessero fintanto ch'agli eroi fusse piaciuto di mantenergli nel possesso de' campi ch'avevano lor assegnati. Così convennero i famoli a comporre le prime plebi dell'eroiche città, senza avervi niuno privilegio di cittadini; appunto come un de' quali dice Achille essere stato trattato da Agamennone, il quale gli aveva tolto a torto la sua Briseide, ove dice avergli fatto un oltraggio che non si sarebbe fatto ad un giornaliere che non ha niuno diritto di cittadino. Tali furon i plebei romani fin alla contesa de' connubi. Imperciocché essi - per la seconda agraria, accordata loro da' nobili con la legge delle XII Tavole, avendo riportato il dominio quiritario de' campi, come si è dimostrato da molti anni fa ne' Princìpi del Diritto universale (il qual è uno de' due luoghi per gli quali non c'incresce d'esser uscita alla luce quell'opera), e per diritto delle genti [non] essendo gli stranieri capaci di dominio civile, e così i plebei non essendo ancor cittadini, - come ivan morendo, non potevano lasciare i campi ab intestato a' congionti, perché non avevano suità, agnazioni, gentilità, ch'erano dipendenze tutte delle nozze solenni; nemmeno disponerne in testamento, perché non erano cittadini: talché i campi lor assegnati ne ritornavano ai nobili, da' quali avevan essi la cagion del dominio. Avvertiti di ciò, subito fra tre anni fecero la pretension de' connubi, nella quale non pretesero, in quello stato di miseri schiavi quale la storia romana apertamente ci narra, d'imparentare co' nobili, ch'in latino arebbe dovuto dirsi «pretendere connubia cum patribus»; ma domandarono di contrarre nozze solenni, quali contraevano i padri, e sì pretesero «connubia patrum», la solennità maggior delle quali erano gli auspìci pubblici, che Varrone e Messala dissero «auspìci maggiori», quali i padri dicevano «auspicia esse sua». Talché i plebei con tal pretensione domandarono la cittadinanza romana, di cui erano natural principio le nozze, le quali perciò da Modestino giureconsulto son diffinite «omnis divini et humani iuris communicatio», che diffinizione più propia non può assegnarsi di essa cittadinanza. 2. LE REPUBBLICHE TUTTE SON NATE DA CERTI PRINCÌPI ETERNI DE' FEUDI. In cotal guisa, per la natura de' forti di conservare gli acquisti e per l'altra de' benefizi che si possono sperare nella vita civile, sopra le quali due nature di cose umane dicemmo nelle Degnità esser fondati i princìpi eterni de' feudi, nacquero al mondo le repubbliche con tre spezie di domìni per tre spezie di feudi, che tre spezie di persone ebbero sopra tre spezie di cose. Il primo fu dominio bonitario di feudi rustici ovvero umani, che gli «uomini», i quali nelle leggi de' feudi, al ritornare della barbarie, si maraviglia Ottomano dirsi i «vassalli», cioè i plebei, ebbero de' frutti sopra i poderi de' lor eroi. Il secondo fu dominio quiritario di feudi nobili, o sia eroici, ovvero armati, oggi detti «militari», che gli eroi, in unirsi in ordini armati, si conservarono sovrani sopra i loro poderi; che, nello stato di natura, era stato il dominio ottimo che Cicerone, come altra volta si è detto, nell'orazione De aruspicum responsis riconosce d'alquante case ch'erano a' suoi tempi restate in Roma, e 'l diffinisce «dominio di roba stabile, libera d'ogni peso reale, non solo privato, ma anche pubblico». Di che vi ha un luogo d'oro ne' cinque libri sagri, ove Mosè narra ch'a' tempi di Giuseffo i sacerdoti egizi non pagavano al re il tributo de' loro campi; e noi abbiamo poco sopra dimostro che tutti i regni eroici furono di sacerdoti, e appresso dimostreremo che da prima i patrizi romani non pagaron all'erario il tributo nemmeno dei loro. I quali feudi sovrani privati, nel formarsi delle repubbliche eroiche, si assoggettirono naturalmente alla maggiore sovranità di essi ordini eroici regnanti (ciascun comune de' quali si disse «patria», sottointesovi «res», cioè «interesse di padri»), a doverla difendere e mantenere, perch'ella aveva conservato loro gl'imperi sovrani famigliari, e questi stessi tutti eguali tra lor medesimi; lo che unicamente fa la libertà signorile. Il terzo, con tutta la propietà detto «dominio civile», che esse città eroiche, compostesi sul principio di soli eroi, avevano de' fondi, per certi feudi divini ch'essi padri di famiglia avevano innanzi ricevuto da essa divinità provvedente, com'abbiamo sopra dimostro (onde si erano truovati sovrani nello stato delle famiglie, e si composero in ordini regnanti nello stato delle città), e sì divennero regni civili sovrani, soggetti al solo sommo sovrano Dio, in cui tutte le civili sovrane potestà riconoscono provvedenza. Lo che ben per sensi umani si professa dalle sovrane potenze, ch'a' lor maestosi titoli aggiugnono quello «per la divina provvedenza» ovvero quello «per la grazia di Dio», dalla quale devono pubblicamente professare di aver ricevuto i regni; talché, se ne proibissero l'adorazione, esse anderebbero naturalmente a caderne, perché nazione di fatisti o casisti o d'atei non fu al mondo giammai, e ne vedemmo sopra tutte le nazioni del mondo, per quattro religioni primarie e non più, credere in una divinità provvedente. Perciò i plebei giuravano per gli eroi (di che sonci rimasti i giuramenti «mehercules!», «mecastor!», «ædepol!» e «mediusfidius!», «per lo dio Fidio!», che, come vedremo, fu l'Ercole de' romani), altronde gli eroi giuravan per Giove: perché i plebei furono dapprima in forza degli eroi (come i nobili romani, fin al CCCCXIX di Roma, esercitarono la ragione del carcere privato sopra i plebei debitori); gli eroi, che formarono gli ordini loro regnanti, eran in forza di Giove, per la ragion degli auspìci: i quali, se loro sembravano di permetterlo, davano i maestrati, comandavan le leggi ed esercitavano altri sovrani diritti; se parevano di vietarlo, se n'astenevano. Lo che tutto è quella «fides deorum et hominum», a cui s'appartengono quell'espressioni latine «implorare fidem», «implorar soccorso ed aiuto»; «recipere in fidem», «ricevere sotto la protezione o l'imperio»; e quella esclamazione «proh deûm atque hominum fidem imploro!», con la quale gli oppressi imploravano a lor favore la «forza degli dèi e degli uomini», che, con esso senso umano, gl'italiani voltarono «poter del mondo!». Perché questo potere, onde le somme civili potestà sono dette «potenze»; questa forza, questa fede, di cui i giuramenti testé osservati attestano l'ossequio de' soggetti; e questa protezione, ch'i potenti debbono avere de' deboli (nelle quali due cose consiste tutta l'essenza de' feudi), è quella forza che sostiene e regge questo mondo civile; il cui centro fu sentito, se non ragionato, da' greci (come l'abbiamo sopra avvertito nelle medaglie delle loro repubbliche) e da' latini (come l'abbiamo osservato nelle loro frasi eroiche) esser il fondo di ciascun orbe civile: com'oggi le sovranità sulle loro corone sostengono un orbe ov'è innalberata la divinità della croce, il quale orbe sopra abbiamo dimostrato esser il pomo d'oro, il quale significa il dominio alto che le sovranità hanno delle terre da essoloro signoreggiate, e perciò tralle maggiori solennità delle loro incoronazioni si pone nella loro sinistra mano. Laonde hassi a dire che le civili potestà sono signore della sostanza de' popoli, la qual sostiene, contiene e mantiene tutto ciò che vi è sopra e s'appoggia: per cagione d'una cui parte, «pro indiviso», per dirla alla scolastica, per una distinzion di ragione, nelle romane leggi il patrimonio di ciascun padre di famiglia vien detto «patris» o «paterna substantia»; ch'è la profonda ragione perché le civili sovrane potestà possono disporre di tutto l'aggiunto a cotal subbietto, così nelle persone, come negli acquisti, opere e lavori, ed imporvi tributi e dazi, ov'abbiano da essercitar esso dominio de' fondi, ch'ora per un riguardo opposto (il quale significa in sostanza lo stesso) i teologi morali e gli scrittori de iure publico chiamano «dominio eminente», siccome le leggi, che tal dominio riguardano, dicono pur ora «fondamentali» de' regni. Il qual dominio, perch'è di essi fondi, da' sovrani naturalmente non si può esercitare che per conservare la sostanza de' loro Stati, allo stare de' quali stanno, al rovinare rovinano tutte le cose particolari de' popoli. Che i romani avessero sentito, se non inteso, questa generazione di repubbliche sopra tali princìpi eterni de' feudi, ci si dimostra nella formola che ci han lasciato della revindicazione, così conceputa: «Aio hunc fundum meum esse ex iure quiritium», nella qual attaccarono cotal azione civile al dominio del fondo, ch'è di essa città e proviene da essa forza, per così dire, centrale, per la qual ogni cittadino romano è certo signore di ciascun suo podere, con un dominio «pro indiviso» che uno scolastico direbbe, per una mera distinzion di ragione, e perciò detta «ex iure quiritium», i quali, per mille pruove fatte e da farsi, furono dapprima i romani armati d'aste in pubblica ragunanza, che facevan essa città. Tanto che questa è la profonda ragione ch'i fondi e tutti i beni (i quali tutti da essi fondi provengono), ove sono vacanti, ricadono al fisco: perché ogni patrimonio privato pro indiviso è patrimonio pubblico, onde, in mancanza de' privati padroni, perdono la disegnazione di parte e restano con quella di tutto. Che dee essere la cagione di quella elegante frase legale: ch'i retaggi, particolarmente leggittimi, si dicono «redire agli eredi», a' quali, in verità, vengono una sol volta, perché da' fondatori del diritto romano, ch'essi fondarono nel fondare della romana repubblica, tutti i patrimoni privati si ordinarono feudi, quali da' feudisti si dicono «ex pacto et providentia», che tutti escono dal patrimonio pubblico e, per patto e provvedenza delle civili leggi, girano sotto certe solennità da privati in privati, in difetto de' quali debbano ritornare al lor principio, dond'essi eran usciti. Tutto lo che qui detto ad evidenza vien confermato dalla legge Papia Poppea d'intorno a' caduci, la quale puniva i celibi con la giusta pena: ch'i cittadini i quali avevano trascurato di propagare co' matrimoni il loro nome romano, se avessero fatto testamenti, questi si rendessero inefficaci, ed altronde si stimassero non avere congionti che loro succedessero ab intestato, e sì, né per l'una né per l'altra via, avessero eredi, i quali conservassero i nomi loro; e i patrimoni ricadessero al fisco, con qualità non di retaggi ma di peculi, e, per dirla con Tacito, andassero al popolo, «tanquam omnium parentem». Ove il profondo scrittore richiama la ragione delle pene caducarie fino dagli antichissimi tempi ch'i primi padri del gener umano occuparono le prime terre vacue, la qual occupazione è 'l fonte originario di tutti i domìni del mondo; i quali padri poi, unendosi in città, delle loro potestà paterne fecero la potestà civile, e de' loro privati patrimoni fecero il patrimonio pubblico, il quale s'appella «erario»; e che i patrimoni de' cittadini vadano di privato in privato con qualità di retaggi, ma, ricadendo al fisco, riprendano l'antichissima prima qualità di peculi. Qui, nella generazione delle loro repubbliche eroiche, fantasticarono i poeti eroi l'undecima divinità maggiore, che fu Mercurio. Il quale porta a' famoli ammutinati la legge nella verga divina (parola reale degli auspìci), ch'è la verga con cui Mercurio richiama l'anime dall'Orco, come narra Virgilio (richiama a vita socievole i clienti, che, usciti dalla protezione degli eroi, erano tornati a disperdersi nello stato eslege, ch'è l'Orco de' poeti, il quale divoravasi il tutto degli uomini, come appresso si spiegherà). Tal verga ci vien descritta con una o due serpi avvoltevi (che dovetter esser spoglie di serpi, significanti il dominio bonitario che si rillasciava lor dagli eroi, e 'l dominio quiritario che questi si riserbavano), con due ali in capo alla verga (per significar il dominio eminente degli ordini) e con un cappello pur alato (per raffermarne l'alta ragione sovrana libera, come il cappello restò geroglifico di libertà); oltre di ciò, con l'ali a' talloni (in significazione che 'l dominio de' fondi era de' senati regnanti), e tutto il rimanente si porta nudo (perché portava loro un dominio nudo di civile solennità, e che tutto consisteva nel pudor degli eroi, appunto quali nude vedemmo sopra essere state finte Venere con le Grazie). Talché dall'uccello d'Idantura, col quale voleva dir a Dario ch'esso era sovrano signor della Scizia per gli auspìci che v'aveva, i greci ne spiccarono l'ali, per significare ragioni eroiche; e finalmente, con lingua articolata, i romani in astratto dissero «auspicia esse sua», per gli quali volevano dimostrar alla plebe ch'erano propie loro tutte le civili eroiche ragioni e diritti. Sicché questa verga alata di Mercurio de' greci, toltane la serpe, è l'aquila sullo scettro degli egizi, de' toscani romani e, per ultimo, degl'inghilesi, che sopra abbiam detto. La qual da' greci si chiamò kerúkeion, perché portò tal legge agraria a' famoli degli eroi, i quali da Omero sono kérukes appellati; portò l'agraria di Servio Tullio, con la quale ordinò il censo, per lo quale i contadini con tal qualità dalle leggi romane sono detti «censiti»; portò in queste serpi il dominio bonitario de' campi, per lo quale da ophéleia (che viene da óphis, «serpe») fu detto il terratico, il quale, come sopra abbiam dimostrato, da' plebei si pagava agli eroi; portò finalmente il famoso nodo erculeo, per lo quale gli uomini pagavano agli eroi la decima d'Ercole, e i romani debitori plebei fin alla legge Petelia furono «nessi» o vassalli ligi de' nobili: delle quali cose tutte abbiamo appresso molto da ragionare. Quindi ha a dirsi che questo Mercurio de' greci fu il Theut o Mercurio che dà le leggi agli egizi, significato nel geroglifico dello Cnefo: descritto serpente, per dinotare la terra colta; col capo di sparviere o d'aquila, come gli sparvieri di Romolo poi divennero l'aquile de' romani, con che intendevano gli auspìci eroici; stretto da un cinto, segno del nodo erculeo; con in mano uno scettro, che voleva dire il regno de' sacerdoti egizi; con un cappello pur alato, ch'additava il loro alto dominio de' fondi; e alfin con un uovo in bocca, che dava ad intendere l'orbe egiziaco, se non è forse il pomo d'oro, che sopra abbiamo dimostrato significare il dominio alto ch'i sacerdoti avevano delle terre d'Egitto. Dentro il qual geroglifico Maneto ficcò la generazione dell'universo mondano; e giunse tanto ad impazzare la boria de' dotti, ch'Atanagio Kirckero nell'Obelisco panfilio dice significare la santissima Trinità. Qui incominciarono i primi commerzi nel mondo, ond'ebbe il nome esso Mercurio, e poi funne tenuto dio delle mercatanzie; come da questa prima imbasciata fu lo stesso creduto dio degli ambasciadori, e, con verità di sensi, fu detto dagli dèi (che noi sopra truovammo essersi appellati gli eroi delle prime città) esser mandato agli uomini (qual'Ottomano avverte con maraviglia essersi detti dalla ricorsa barbarie i vassalli); e le ali, che qui abbiam veduto significare ragioni eroiche, furono poi credute usarsi da Mercurio per volare da cielo in terra, e quinci rivolare da terra in cielo. Ma, per ritornar a' commerzi, eglino incominciarono d'intorno a questa spezie di beni stabili; e la prima mercede fu, come dovett'essere, la più semplice e naturale, qual è de' frutti che si raccogliono dalla terra; la qual mercede, sia o di fatighe o di robe, si costuma tuttavia ne' commerzi de' contadini. Tutta questa istoria canservarono i greci nella voce nómos, con la quale significano e «legge» e «pascolo»; perché la prima legge fu quest'agraria, per la quale gli re eroici furono detti «pastori de' popoli», come qui si è accennato e più appresso si spiegherà. Così i plebei delle prime barbare nazioni (appunto come Tacito gli narra appresso i germani antichi, ove, con errore, gli crede servi, perché, come si è dimostro, i soci eroici erano come servi) si dovettero dagli eroi sparger per le campagne, e ivi soggiornare con le lor case ne' campi assegnati loro e, co' frutti delle ville, contribuire quanto faceva d'uopo al sostentamento de' lor signori. Con le quali condizioni si congiunga il giuramento, che pur da Tacito udimmo sopra, di dover essi e guardargli e difendergli e servir alla loro gloria, e tal spezie di diritti si pensi di diffinirsi con un nome di legge: che si vedrà con evidenza che non può convenir loro altro nome che di questi i quali da noi si dicono «feudi». Di tal maniera si truovarono le prime città fondate sopra ordini di nobili e caterve di plebei, con due contrarie eterne propietà, le quali escono da questa natura di cose umane civili che si è qui da noi ragionata: de' plebei di voler sempre mutar gli Stati, come sempre essi gli mutano; e de' nobili, sempre di conservargli. Onde, nelle mosse de' civili governi, se ne dicono «ottimati» tutti coloro che si adoperano per mantenere gli Stati, ch'ebbero tal nome da questa propietà di star fermi ed in piedi. Quivi nacquero le due divisioni: una di sappienti e di volgo, perocché gli eroi fondavano i loro regni nella sapienza degli auspìci, come si è detto nelle Degnità e molto sopra si è ragionato. In séguito di questa divisione, restò al volgo l'aggiunto perpetuo di «profano»; perché gli eroi, ovvero i nobili, furono i sacerdoti dell'eroiche città, come certamente lo furono tra' romani fin a cent'anni dopo la legge delle XII Tavole, come sopra si è detto; onde i primi popoli, con certa spezie di scomunica, toglievano la cittadinanza, qual fu tra' romani l'interdetto dell'acqua e fuoco, come appresso si mostrerà. Perciò le prime plebi delle nazioni si tennero per istranieri, come or ora vedremo (e ne restò propietà eterna che non si dà la cittadinanza ad un uomo di diversa religione); e da tal «volgo» restaron detti «vulgo quæsiti» i figliuoli fatti nel chiasso, per ciò che sopra abbiam ragionato, che le plebi nelle prime città, perocché non vi avevano la comunanza delle cose sagre o divine, per molti secoli non contrassero matrimoni solenni. L'altra divisione fu di «civis» e «hostis». E «hostis» significò «ospite o straniero» e «nimico», perché le prime città si composero di eroi e di ricevuti a' di lor asili (nel qual senso s'hanno a prendere tutti gli ospizi eroici); come, da' tempi barbari ritornati, agl'italiani restò «oste» per «albergatore» e per gli «alloggiamenti di guerra», e «ostello» dicesi per «albergo». Così Paride fu ospite della real casa d'Argo, cioè nimico, che rapiva donzelle nobili argive, rappresentate col carattere d'Elena. Così Teseo fu ospite d'Arianna, Giasone di Medea, che poi abbandonano e non vi contraggono matrimoni: ch'erano riputate azioni eroiche, che, co' sensi nostri presenti, sembrano, come lo sono, azioni d'uomini scellerati. Così hassi a difendere la pietà d'Enea, ch'abbandona Didone ch'aveva stuprato (oltre a' grandissimi benefizi che n'avea ricevuti, e la magnanima profferta che quella gli aveva fatto del regno di Cartagine in dote delle sue nozze), per ubbidir a' fati, i quali, benché fusse straniera anch'essa, gli avevano destinata Lavinia moglie in Italia. Il qual eroico costume serbò Omero nella persona d'Achille, il massimo degli eroi della Grecia, il quale rifiuta qualunque delle tre figliuole ch'Agamennone gli offre in moglie con la regal dote di sette terre ben popolate di bifolchi e pastori, rispondendo di voler prendere in moglie quella che nella sua padria gli darebbe Peleo, suo padre. Insomma, i plebei eran «ospiti» delle città eroiche, contro i quali udimmo più volte Aristotile che «gli eroi giuravano d'esser eterni nimici». Questa stessa divisione ci è dimostrata con quelli estremi di «civis» e «peregrinus», preso il «peregrino» con la sua natia propietà d'«uomo che divaga per la campagna», detta «ager» in significazione di «territorio» o «distretto» (come «ager neapolitanus», «ager nolanus»), detto così quasi «peragrinus», perocché gli stranieri che viaggiano per lo mondo non divagano per gli campi, ma tengon dritto per le vie pubbliche. Tali origini ragionate degli ospiti eroici danno un gran lume alla storia greca ove narra de' sami, sibariti, trezeni, anfiboliti, calcidoni, gnidi e scii, che dagli stranieri vi furono cangiate le repubbliche da aristocratiche in popolari; e danno l'ultimo lustro a ciò ch'abbiamo pubblicato molti anni fa con le stampe, ne' Princìpi del Diritto universale, d'intorno alla favola delle leggi delle XII Tavole venute da Atene in Roma; ch'è un de' due luoghi per gli quali stimiamo non esser inutile affatto quell'opera: che nel capo De forti sanate nexo soluto, che noi pruovammo essere stato il subbietto di tutta quella contesa, per ciò che vi han detto i latini filologi che 'l «forte sanate» era lo straniero ridutto all'ubbidienza, ella fu la plebe romana, la quale si era rivoltata perché non poteva da' nobili riportar il dominio certo de' campi; che certo non poteva durare, se non ne fusse stata fissa eternalmente la legge in una pubblica tavola, con la quale determinatosi il gius incerto, manifestatosi il gius nascosto, fusse legata a' nobili la mano regia di ripigliarglisi: ch'è 'l vero di ciò che ne racconta Pomponio. Per lo che fece tanti romori che fu bisogno criare i decemviri, i quali diedero altra forma allo Stato e ridussero la plebe sollevata all'ubbidienza, con dichiararla, con questo capo, prosciolta dal nodo vero del dominio bonitario, per lo quale erano stati «glebæ addicti» o «adscriptitii» o «censiti» del censo di Servio Tullio, come sopra si è dimostrato, e restasse obbligata col nodo finto del dominio quiritario: ma se ne serbò un vestigio fin alla legge Petelia nel diritto, ch'avevano i nobili, della prigion privata sopra i plebei debitori. I quali stranieri, con le «tentazioni tribunizie» ch'elegantemente dice Livio (e noi l'abbiamo noverate, nell'annotazioni alla legge Publilia, sopra, nella Tavola cronologica), lo stato di Roma da aristocratico finalmente cangiarono in popolare. Non essersi Roma fondata sopra le prime rivolte agrarie egli ci dimostra essere stata una città nuova, come canta la storia. Fu ella bensì fondata sopra l'asilo, dove, durando ancora dappertutto le violenze, avevano dovuto prima farsi forti Romolo e i suoi compagni, e poi ricevervi i rifuggiti, e quivi fondare le clientele, quali sono state sopra da noi spiegate: onde dovette passare un dugento anni perch'i clienti s'attediassero di quello stato: quanto tempo vi corse appunto perché il re Servio Tullio vi portasse la prima agraria. Il qual tempo aveva dovuto correre nelle antiche città per un cinquecento anni, per questo istesso: che quelle si composero d'uomini più semplici, questa di più scaltriti; ch'è la cagione perché i romani manomisero il Lazio, quindi Italia, e poi il mondo, perché più degli altri latini ebbero giovine l'eroismo. La qual istessa è la ragione più propia (la qual si disse nelle Degnità) ch'i romani scrissero in lingua volgare la loro storia eroica, ch'i greci avevano scritta con favole. Tutto ciò ch'abbiamo meditato de' princìpi della politica poetica e veduto nella romana storia, a maraviglia ci è confermato da questi quattro caratteri eroici: primo, dalla lira d'Orfeo ovvero d'Apollo; secondo, dal teschio di Medusa; terzo, da' fasci romani; quarto ed ultimo, dalla lutta d'Ercole con Anteo. E, primieramente, la lira fu ritruovata dal Mercurio de' greci, quale da Mercurio egizio fu ritruovata la legge. E tal lira gli fu data da Apollo, dio della luce civile o sia della nobiltà, perché nelle repubbliche eroiche i nobili comandavan le leggi, e con tal lira Orfeo, Anfione ed altri poeti teologi, che professavano scienza di leggi, fondarono e stabilirono l'umanità della Grecia, come più spiegatamente diremo appresso. Talché la lira fu l'unione delle corde o forze de' padri, onde si compose la forza pubblica, che si dice «imperio civile», che fece cessare finalmente tutte le forze e violenze private. Onde la legge con tutta propietà restò a' poeti diffinita «lyra regnorum», nella quale s'accordarono i regni famigliari de' padri, i quali stati erano innanzi scordati, perché tutti soli e divisi tra loro nello stato delle famiglie, come diceva Polifemo ad Ulisse; e la gloriosa storia nel segno di essa lira fu poi con le stelle descritta in cielo, e 'l regno d'Irlanda nell'arme degli re d'Inghilterra ne carica lo scudo d'un'arpa. Ma, appresso, i filosofi ne fecero l'armonia delle sfere, la qual è accordata dal sole; ma Apollo suonò in terra quella la quale, nonché poté, dovett'udire, anzi esso stesso suonare Pittagora, preso per poeta teologo e fondatore di nazione, il quale finora n'è stato d'impostura accusato. Le serpi unite nel teschio di Medusa, caricato d'ale nelle tempia, son i domìni alti famigliari ch'avevano i padri nello stato delle famiglie, ch'andarono a comporre il dominio eminente civile. E tal teschio fu inchiovato allo scudo di Perseo, ch'è lo stesso del qual è armata Minerva, che tra l'armi, o sia nelle adunanze armate delle prime nazioni, tralle quali truovammo ancor la romana, detta le spaventose pene ch'insassiscono i riguardanti. Una delle quali serpi sopra dicemmo essere stato Dragone, il quale fu detto scriver le leggi col sangue, perché se n'era armata quell'Atene (qual si disse Minerva Athenã) nel tempo ch'era occupata dagli ottimati, come pur sopra si è detto; e 'l dragone appo i chinesi, i quali ancora scrivono per geroglifici, egli, com'anco sopra si è veduto, è l'insegna dell'imperio civile. I fasci romani sono i litui de' padri nello stato delle famiglie. Una qual sì fatta verga in mano d'uno di essi Omero con peso di parole chiama «scettro», ed esso padre appella «re», nello scudo ch'egli descrive d'Achille, nel quale si contiene la storia del mondo; e in tal luogo è fissata l'epoca delle famiglie innanzi a quella delle città, come appresso sarà pienamente spiegato. Perché, con tali litui presi gli auspìci che le comandassero, i padri dettavano le pene de' loro figliuoli, come nella legge delle XII Tavole ne passò quella del figliuol empio che abbiamo sopra veduto. Onde l'unione di tali verghe a litui significa la generazione dell'imperio civile, la quale si è qui ragionata. Finalmente Ercole (carattere degli Eraclidi ovvero nobili dell'eroiche città) lutta con Anteo (carattere de' famoli ammutinati) e, innalzandolo in cielo (rimenandoli nelle prime città poste in alto), il vince e l'annoda a terra. Di che restò un giuoco a' greci detto del «nodo»; ch'è 'l nodo erculeo, col qual Ercole fondò le nazioni eroiche, e per lo quale da' plebei si pagava agli eroi la decima d'Ercole, che dovett'esser il censo pianta delle repubbliche aristocratiche. Ond'i plebei romani per lo censo di Servio Tullio furono nexi de' nobili e, per lo giuramento che narra Tacito darsi da' germani antichi a' loro principi, dovevano lor servire come vassalli perangarii a propie spese nelle guerre: di che la plebe romana si lamenta dentro cotesta stessa sognata libertà popolare. Che dovetter esser i primi assidui, che «suis assibus militabant»: però soldati non di ventura, ma di dura necessità. 3. DELL'ORIGINI DEL CENSO E DELL'ERARIO. Ma finalmente dalle gravi usure e spesse usurpazioni ch'i nobili facevano de' loro campi (a tal segno ch'a capo di età Filippo, tribuno della plebe, ad alta voce gridava che duemila nobili possedevano tutti i campi che dovevan essere ripartiti tra ben trecentomila cittadini, ch'a suo tempo in Roma si noveravano), perché fin da quarant'anni dopo la discacciata di Tarquinio Superbo, per la di lui morte assicurata, la nobiltà aveva ricominciato ad insolentire sopra la povera plebe; e 'l senato di que' tempi aveva dovuto incominciar a praticar quell'ordinamento: ch'i plebei pagassero all'erario il censo, che prima privatamente avevano dovuto pagar a' nobili, acciocché esso erario potesse somministrar loro le spese indi in poi nelle guerre; dal qual tempo comparisce di nuovo sulla storia romana il censo, ch'i nobili sdegnavano amministrare, al riferire di Livio, come cosa non convenevole alla lor degnità (perché Livio non poté intendere ch'i nobili nol volevano, perché non era il censo ordinato da Servio Tullio, ch'era stato pianta della libertà de' signori, il qual si pagava privatamente ad essi nobili, ingannato con tutti gli altri che 'l censo di Servio Tullio fusse stato pianta della libertà popolare: perché certamente non fu maestrato di maggior degnità di quella di che fu la censura, e fin dal suo primo anno fu amministrato da' consoli): così i nobili, per le loro avare arti medesime, vennero da se stessi a formar il censo, che poi fu pianta della popolar libertà. Talché, essendone venuti i campi tutti in loro potere, eglino a' tempi di Filippo tribuno dovevano duemila nobili pagar il tributo per trecentomila altri cittadini ch'allora si numeravano (appunto come in Isparta era divenuto di pochi tutto il campo spartano), perché si erano descritti nell'erario i censi ch'i nobili avevano privatamente imposto a' campi, i quali, incolti, ab antiquo avevano assegnati a coltivar a' plebei. Per cotanta inegualità dovetter avvenire de' grandi movimenti e rivolte della plebe romana, le quali Fabio, con sappientissimo ordinamento, onde meritò il sopranome di Massimo, rassettò, con ordinare che tutto il popolo romano si ripartisse in tre classi, di senatori, cavalieri e plebei, e i cittadini vi si allogassero secondo le facultà; e consolò i plebei: perocché, quando, innanzi, que' dell'ordine senatorio, ch'era prima stato tutto de' nobili, vi prendevano i maestrati, indi in poi vi potessero passare ancora con le ricchezze i plebei, e quindi fusse aperta a' plebei la strada ordinaria a tutti gli onori civili. Tal è la guisa che fa vera la tradizione che 'l censo di Servio Tullio (perché da quello se ne apparecchiò la materia e da quella ne nacquero l'occasioni) fu egli pianta della libertà popolare, come sopra si ragionò per ipotesi nell'Annotazioni alla Tavola cronologica, ov'è il luogo della legge Publilia. E tal ordinamento, nato dentro Roma medesima, fu invero quello che ordinovvi la repubblica democratica, non già la legge delle XII Tavole colà venuta da Atene: tanto che Bernardo Segni quella ch'Aristotile chiama «repubblica democratica», egli in toscano trasporta «repubblica per censo», per dire «repubblica libera popolare». Lo che si dimostra con esso Livio, che, quantunque ignorante dello Stato romano di quelli tempi, pur narra ch'i nobili si lagnavano avere più perduto con quella legge in città che guadagnato fuori con l'armi in quell'anno, nel quale pur avevano riportato molte e grandi vittorie. Ch'è la cagione onde Publilio, che ne fu autore, fu detto «dittator popolare». Con la libertà popolare, nella quale tutto il popolo è essa città, avvenne che 'l dominio civile perdé il propio significato di «dominio pubblico» (che, da essa città, era stato detto «civile»), e si disperdé per tutti i domìni privati di essi cittadini romani, che poi tutti facevano la romana città. Il dominio ottimo s'andò ad oscurare nella sua significazione natia di «dominio fortissimo», come sopra abbiam detto, «non infievolito da niun real peso, anche pubblico», e restò a significare «dominio di roba libera da ogni peso privato». Il dominio quiritario non più significò dominio di fondo, dal cui possesso se fusse caduto il cliente o plebeo, il nobile, da cui aveva la cagion del dominio, doveva venir a difenderlo; che furono i primi «autores iuris» in romana ragione, i quali, per queste e non altre clientele ordinate da Romolo, dovevano insegnar a' plebei queste e non altre leggi. Imperciocché quali leggi dovevan i nobili insegnar a' plebei, i quali fin al CCCIX di Roma non ebbero privilegio di cittadini, e fin a cento anni dopo la legge delle XII Tavole, dentro il lor collegio de' pontefici, i nobili tennero arcane alla plebe? Sicché i nobili furon in tali tempi quelli «autores iuris», ch'ora sono rimasti nella spezie ch'i possessori de' fondi comperati, ove ne sono convenuti con revindicazione da altri, «lodano in autori», perché loro assistano e gli difendano: ora tal dominio quiritario è rimasto a significare dominio civile privato assistito da revindicazione, a differenza del bonitario, che si mantiene con la sola possessione. Nella stessa guisa, e non altrimenti, queste cose sulla natura eterna de' feudi ritornarono a' tempi barbari ritornati. Prendiamo, per esemplo, il regno di Francia, nel quale le tante provincie, ch'ora il compongono, furono sovrane signorie de' principi soggetti al re di quel regno, dove que' principi avevano dovuto avere i loro beni non soggetti a pubblico peso veruno: dipoi, o per successioni o per ribellioni o caduci, s'incorporarono a quel reame, e tutti i beni di que' principi ex iure optimo furono sottoposti a' pubblici pesi. Perché le case e i fondi di essi re, de' quali avevano la Camera reale lor propia, o per parentadi o per concessioni essendo passati a' vassalli, oggi si truovono assoggettiti a' dazi e tributi: tanto che ne' regni di successione tale s'andò a confondere il dominio ex iure optimo col dominio privato soggetto a peso pubblico, qual il fisco, ch'era patrimonio del romano principe, si fusse andato a confondere con l'erario. La qual ricerca del censo e dell'erario è stata la più aspra delle nostre meditazioni sulle cose romane, siccome nell'Idea dell'opera l'avvisammo. 4. DELL'ORIGINE DE' COMIZI ROMANI. Per le quali cose così meditate la bulé e l'agorá, che sono le due ragunanze eroiche ch'Omero narra e noi sopra abbiam osservato, dovetter essere tra' romani le ragunanze curiate, le quali si leggono le più antiche sotto gli re, e le ragunanze tribute. Le prime furono dette «curiate» da «quir», «asta», il cui obbliquo è «quiris», che poi restò retto, conforme ne abbiamo ragionato nell'Origini della lingua latina, siccome da chéir, «la mano», ch'appo tutte le nazioni significò «potestà», dovette a' greci dapprima venir detta kuría, nello stesso sentimento nel qual è appresso i latini «curia»: onde vennero i cureti, ch'erano i sacerdoti armati d'aste, perché tutti i popoli eroici furon di sacerdoti, e i soli eroi avevan il diritto dell'armi; i quali cureti, com'abbiamo sopra veduto, i greci osservarono in Saturnia (o sia antica Italia), in Creta ed in Asia. E kuría, in tal antico significato, dovette intendersi per «signoria»; come «signorie» ora pur si dicono le repubbliche aristocratiche: da' quali senati eroici si disse kûros «autorità»; ma, come sopra abbiam osservato e più appresso n'osserveremo, «autorità di dominio»; dalle qual'origini poi restarono kúrios e kuría per «signore» e «signora». E, come da chéir i «cureti» da' greci, così sopra vedemmo da «quir» essere stati detti i «quiriti» romani; che fu il titolo della romana maestà, che si dava al popolo in pubblica ragunanza, come si è accennato pur sopra, dove osservammo de' galli e degli antichi germani, combinati con quel de' cureti che dicevano i greci, che tutti i primi popoli barbari tennero le pubbliche ragunanze sotto dell'armi. Quindi cotal maestoso titolo dovette incominciare da quando il popolo era di soli nobili, i quali soli avevano il diritto dell'armi; e che poi passò al popolo composto ancor di plebei, divenuta Roma repubblica popolare. Perché della plebe, la qual non ebbe dapprima cotal diritto, le ragunanze furon dette «tribute» da «tribus», «la tribù»; ed appo i romani, siccome nello stato delle famiglie esse «famiglie» furon dette da' «famoli», così in quello poi delle città la tribù intesesi de' plebei, i quali vi si ragunavano per ricevere gli ordini del regnante senato; tra' quali, perché fu principale e più frequente quello di dover i plebei contribuir all'erario, dalla voce «tribù» venne detto «tributum». Ma, poi che Fabio Massimo introdusse il censo, che distingueva tutto il popolo romano in tre classi secondo i patrimoni de' cittadini - perché, innanzi, i soli senatori erano stati cavalieri, perché i soli nobili a' tempi eroici avevano il diritto dell'armeggiare, perciò la repubblica romana antica sopra essa storia si legge divisa tra «patres» e «plebem»; talché tanto aveva innanzi significato «senatore» quanto «patrizio», ed all'incontro tanto «plebeo» quanto «ignobile»: quindi, siccom'erano innanzi state due sole classi del popolo romano antico, così erano state due sole sorte di ragunanze: una, la curiata, di padri o nobili o senatori; l'altra, tributa, di plebei ovvero d'ignobili; - ma, poi che Fabio ripartì i cittadini, secondo le loro facultà, per tre classi, di senatori, cavalieri e plebei, essi nobili non fecero più ordine nella città, e secondo le loro facultà si allogavano per sì fatte tre classi. Dal qual tempo in poi si vennero a distinguere «patrizio» da «senatore» e da «cavaliere», e «plebeo» da «ignobile»; e «plebeo» non più s'oppose a «patrizio», ma a «cavaliere» e «senatore»; né «plebeo» significò «ignobile», ma «cittadino di picciolo patrimonio», quantunque nobile egli si fusse; ed al contrario «senatore» non più significò «patrizio», ma «cittadino d'amplissimo patrimonio», quantunque si fusse ignobile. Per tutto ciò indi in poi si dissero «comitia centuriata» le ragunanze nelle quali per tutte e tre le classi conveniva tutto il popolo romano, per comandare, tra l'altre pubbliche faccende, le leggi consolari; e ne restarono dette «comitia tributa» quelle dove la plebe sola comandava le leggi tribunizie, che furon i plebisciti, innanzi detti in sentimento nel quale Cicerone gli direbbe «plebi nota», cioè «leggi pubblicate alla plebe» (una delle quali era stata quella di Giunio Bruto, che narra Pomponio, con cui Bruto pubblicò alla plebe gli re eternalmente discacciati da Roma); siccome nelle monarchie s'arebbon a dire «populo nota», con somigliante propietà, le leggi reali. Di che, quanto poco erudito tanto assai acuto, Baldo si maraviglia esserci stata lasciata scritta la voce «plebiscitum» con una «s», perché, nel sentimento di «legge ch'aveva comandato la plebe», dovrebbe essere stato scritto con due: «plebisscitum», venendo egli da «sciscor» e non da «scio». Finalmente, per la certezza delle divine cerimonie, restaron dette «comitia curiata» le ragunanze de' soli capi delle curie, ove si trattava di cose sagre. Perché ne' tempi di essi re si guardavano con aspetto di sagre tutte le cose profane, e gli eroi erano dappertutto cureti ovvero sacerdoti, come sopra si è detto, armati; onde infin agli ultimi tempi romani, essendo rimasta con aspetto di cosa sagra la paterna potestà (le cui ragioni nelle leggi spesso «sacra patria» son dette): per tal cagione in tali ragunanze con le leggi curiate si celebravano l'arrogazioni. 5. COROLLARIO CHE LA DIVINA PROVVEDENZA È L'ORDINATRICE DELLE REPUBBLICHE E NELLO STESSO TEMPO DEL DIRITTO NATURAL DELLE GENTI. Sopra questa generazion di repubbliche, scoverta nell'età degli dèi - nella quale i governi erano stati teocratici, cioè governi divini, e poi uscirono ne' primi governi umani, che furon gli eroici (che qui chiamiamo «umani» per distinguergli da' divini), dentro a' quali, come gran corrente di real fiume ritiene per lungo tratto in mare e l'impressione del corso e la dolcezza dell'acque, scorse l'età degli dèi, perché dovette durar ancora quella maniera religiosa di pensare che gli dèi facessero tutto ciò che facevan essi uomini (onde de' padri regnanti nello stato delle famiglie ne fecero Giove; de' medesimi, chiusi in ordine nel nascere delle prime città, ne fecero Minerva; de' lor ambasciadori mandati a' sollevati clienti ne fecero Mercurio; e, come poco appresso vedremo, degli eroi corsali ne fecero finalmente Nettunno), - è da sommamente ammirare la provvedenza divina. La qual, intendendo gli uomini tutt'altro fare, ella portògli in prima a temer la divinità (la cui religione è la prima fondamental base delle repubbliche); - indi dalla religione furon fermi nelle prime terre vacue, ch'essi primi di tutt'altri occuparono (la qual occupazione è 'l fonte di tutti i domìni); e, gli più robusti giganti avendole occupate nell'alture de' monti, dove sorgono le fontane perenni, dispose che si ritruovassero in luoghi sani e forti di sito e con copia d'acqua, poter ivi star fermi né più divagare: che sono le tre qualità che devon avere le terre per poi surgervi le città; - appresso, con la religione medesima, gli dispose ad unirsi con certe donne in perpetua compagnia di lor vita: che son i matrimoni, riconosciuti fonte di tutte le potestà; - dipoi, con queste donne si ritruovarono aver fondato le famiglie, che sono il seminario delle repubbliche; - finalmente, con l'aprirsi degli asili, si ritruovarono aver fondato le clientele, onde fussero apparecchiate le materie tali, che poi, per la prima legge agraria, nascessero le città sopra due comuni d'uomini che le componessero: uno di nobili che vi comandassero, altri di plebei ch'ubbidissero (che Telemaco, in una diceria appo Omero, chiama «altro popolo», cioè popolo soggetto, diverso dal popolo regnante, il qual si componeva d'eroi); ond'esce la materia della scienza politica, ch'altro non è che scienza di comandare e d'ubbidire nelle città. E, nel loro medesimo nascimento, fa nascere le repubbliche di forma aristocratica, in conformità della selvaggia e ritirata natura di tai primi uomini; la qual forma tutta consiste, come pur i politici l'avvertiscono, in custodire i confini e gli ordini, acciocché le genti di fresco venute all'umanità, anco per la forma de' lor governi, seguitassero lungo tempo a stare dentro di essolor chiuse, per disavvezzarle dalla nefaria infame comunione dello stato bestiale e ferino. E, perché gli uomini erano di menti particolarissime, che non potevano intendere ben comune, per lo che eran avvezzi a non impacciarsi nemmeno delle cose particolari d'altrui, siccome Omero il fa dire da Polifemo ad Ulisse (nel qual gigante Platone riconosce i padri di famiglia nello stato che chiamano «di natura», il quale fu innanzi a quello delle città), la provvedenza, con la stessa forma di tai governi, gli menò ad unirsi alle loro patrie, per conservarsi tanto grandi privati interessi quanto erano le loro monarchie famigliari (ch'era ciò ch'essi assolutamente intendevano); e sì, fuori d'ogni loro proposito, convennero in un bene universale civile, che si chiama «repubblica». Or qui, per quelle pruove divine ch'avvisammo sopra nel Metodo, si rifletta, col meditarvi sopra, alla semplicità e naturalezza con che la provvedenza ordinò queste cose degli uomini, che, per falsi sensi, gli uomini dicevano con verità che tutte facessero i dèi; - e col combinarvi sopra l'immenso numero degli effetti civili, che tutti richiamerannosi a queste quattro loro cagioni, che, come per tutta quest'opera si osserverà, sono quasi quattro elementi di quest'universo civile: cioè religioni, matrimoni, asili e la prima legge agraria che sopra si è ragionata; - e poi, tra tutti i possibili umani, si vada in ricerca se tante, sì varie e diverse cose abbian in altra guisa potuto aver incominciamenti più semplici e più naturali tra quelli stessi uomini ch'Epicuro dice usciti dal caso e Zenone scoppiati dalla necessità, che né 'l caso gli divertì né 'l fato gli strascinò fuori di quest'ordine naturale: ché, nel punto nel qual esse repubbliche dovevano nascere, già si erano innanzi apparecchiate ed erano tutte preste le materie a ricever la forma, e n'uscì il formato delle repubbliche, composto di mente e di corpo. Le materie apparecchiate furono propie religioni, propie lingue, propie terre, propie nozze, propi nomi (ovvero genti o sieno case), propie armi, e quindi propi imperi, propi maestrati e per ultimo propie leggi; e, perché propi, perciò dello 'n tutto liberi, e, perché dello 'n tutto liberi, perciò costitutivi di vere repubbliche. E tutto ciò provenne perché tutte l'anzidette ragioni erano state innanzi propie de' padri di famiglia, nello stato di natura monarchi; i quali, in questo punto, unendosi in ordine, andaron a generare la civil potestà sovrana, siccome, nello stato di natura, essi padri avevan avuto le potestà famigliari, innanzi non ad altri soggette che a Dio. Questa sovrana civil persona si formò di mente e di corpo. La mente fu un ordine di sappienti, quali in quella somma rozzezza e semplicità esser per natura potevano, e ne restò eterna propietà che senza un ordine di sappienti gli Stati sembrano repubbliche in vista, ma sono corpi morti senz'anima: dall'altra parte il corpo, formato col capo ed altre minori membra. Onde alle repubbliche restonne quest'altra eterna propietà: ch'altri vi debban esercitare la mente negl'impieghi della sapienza civile, altri il corpo ne' mestieri e nell'arti che deon servire così alla pace come alla guerra; con questa terza eterna propietà: che la mente sempre vi comandi e che 'l corpo v'abbia perpetuamente a servire. Ma ciò che dee recare più maraviglia è che la provvedenza come, trallo far nascere le famiglie (le quali tutte erano nate con qualche cognizione d'una divinità, benché, per lor ignoranza e disordine, non conoscesse la vera ciascuna, con aver ciascuna propie religioni, lingue, terre, nozze, nomi, armi, governi e leggi), aveva fatto nello stesso tempo nascere il diritto naturale delle genti maggiori, con tutte l'anzidette propietà, da usar poi i padri di famiglia sopra i clienti; così, trallo far nascere le repubbliche, per mezzo di essa forma aristocratica con la qual nacquero, ella il diritto naturale delle genti maggiori (o sieno famiglie), che si era innanzi nello stato di natura osservato, fece passare in quello delle genti minori (o sia de' popoli), da osservarsi nel tempo delle città. Perché i padri di famiglia, de' quali tutte l'anzidette ragioni erano propie loro sopra i clienti, in tal punto, col chiudersi quelli in ordine naturale contro di questi, vennero essi a chiudere tutte l'anzidette propietà dentro i lor ordini civili contro le plebi; nello che consistette la forma aristocratica severissima delle repubbliche eroiche. In cotal guisa il diritto naturale delle genti, ch'ora tra i popoli e le nazioni vien celebrato, sul nascere delle repubbliche nacque propio delle civili sovrane potestà. Talché popolo o nazione, che non ha dentro una potestà sovrana civile fornita di tutte l'anzidette propietà, egli propiamente popolo o nazione non è, né può esercitar fuori contr'altri popoli o nazioni il diritto natural delle genti; ma, come la ragione, così l'esercizio ne avrà altro popolo o nazione superiore. Le quali cose qui ragionate, poste insieme con quello che si è sopra avvertito, che gli eroi delle prime città s'appellarono «dèi», danno la spiegata significazione di quel motto, con cui «iura a diis posita» sono state dette le ordinazioni del diritto natural delle genti. Ma, succeduto poi il diritto naturale delle genti umane ch'Ulpiano più volte sopra ci ha detto, sopra il quale i filosofi e i morali teologi s'alzarono ad intendere il diritto naturale della ragion eterna tutta spiegata, tal motto passò acconciamente a significare il diritto naturale delle genti ordinato dal vero Dio. 6. SIEGUE LA POLITICA DEGLI EROI. Ma tutti gli storici danno il principio al secolo eroico coi corseggi di Minosse e con la spedizione navale che fece Giasone in Ponto, il prosieguimento con la guerra troiana, il fine con gli error degli eroi, che vanno a terminare nel ritorno d'Ulisse in Itaca. Laonde in tali tempi dovette nascere l'ultima delle maggiori divinità, la qual fu Nettunno, per questa autorità degli storici, la qual noi avvaloriamo con una ragion filosofica, assistita dai più luoghi d'oro d'Omero. La ragion filosofica è che l'arti navale e nautica sono gli ultimi ritruovati delle nazioni, perché vi bisognò fior d'ingegno per ritruovarle; tanto che Dedalo, che funne il ritruovatore, restò a significar esso ingegno, e da Lucrezio ne fu detta «dædala tellus» per «ingegnosa». I luoghi d'Omero sono nell'Odissea, ch'ovunque Ulisse o approda o è da tempesta portato, monta alcun poggio per veder entro terra fummo, che gli significhi ivi abitare degli uomini. Questi luoghi d'Omero sono avvalorati da quel luogo d'oro di Platone, ch'udimmo riferirsici da Strabone sopra nelle Degnità, del lungo orrore ch'ebbero del mare le prime nazioni; e la ragione fu avvertita da Tucidide: che per lo timor de' corseggi le nazioni greche tardi scescero ad abitare sulle marine. Perciò Nettunno ci si narra aver armato il tridente col quale faceva tremar la terra, che dovett'esser un grande uncino da afferrar navi, detto con bella metafora «dente», e col superlativo del «tre», com'abbiam sopra detto, col quale faceva tremare le terre degli uomini col terrore de' suoi corseggi: che poi, già a' tempi d'Omero, fu creduto far tremare le terre della natura, nella qual oppenione Omero fu seguìto poi da Platone col suo abisso dell'acque, che pose nelle viscere della terra, ma con quanto accorgimento, appresso sarà dimostro. Questi deon essere stati il toro con cui Giove rapisce Europa, il minotauro o toro di Minosse, con cui rapisce garzoni e fanciulle dalle marine dell'Attica (come restarono le vele dette «corna delle navi», ch'usò poi Virgilio); e i terrazzani spiegavano con tutta verità divorarglisi il minotauro, che vedevano con ispavento e dolore la nave ingoiarglisi. Così l'Orca vuol divorare Andromeda incatenata alla rupe, per lo spavento divenuta di sasso (come restò a' latini «terrore defixus», «divenuto immobile per lo spavento»); e 'l cavallo alato, con cui Perseo la libera, dev'essere stata altra nave da corso, siccome le vele restaron dette «ali delle navi». E Virgilio, con iscienza di quest'eroiche antichità, parlando di Dedalo, che fu il ritruovator della nave, dice che vola con la macchina che chiama «alarum remigium»; e Dedalo pur ci fu narrato esser fratello di Teseo. Talché Teseo dee esser carattere di garzoni ateniesi, che, per la legge della forza fatta lor da Minosse, sono divorati dal di lui toro o nave da corso; al qual Arianna (l'arte marinaresca) insegna col filo (della navigazione) uscire dal labirinto di Dedalo (che, prima di questi, che sono ricercate delizie delle ville reali, dovett'esser il mar Egeo, per lo gran numero dell'isole che bagna e circonda), e, appresa l'arte da' cretesi, abbandona Arianna e si torna con Fedra, di lei sorella (cioè con un'arte somigliante), e sì uccide il minotauro e libera Atene della taglia crudele che l'aveva imposto Minosse (col darsi a far essi ateniesi i corsali). E così, qual Fedra sorella fu d'Arianna, tale Teseo fu fratello di Dedalo. Con l'occasione di queste cose, Plutarco nel Teseo dice che gli eroi si recavano a grande onore e si riputavano in pregio d'armi con l'esser chiamati «ladroni» siccome, a' tempi barbari ritornati, quello di «corsale» era titolo riputato di signoria. D'intorno a' quali tempi, venuto Solone, si dice aver permesso nelle sue leggi le società per cagion di prede: tanto Solone ben intese questa nostra compiuta umanità, nella quale costoro non godono del diritto natural delle genti! Ma quel che fa più maraviglia è che Platone ed Aristotile posero il ladroneccio fralle spezie della caccia; e con tali e tanti filosofi d'una gente umanissima convengono, con la loro barbarie, i germani antichi, appo i quali, al riferire di Cesare, i ladronecci non solo non eran infami, ma si tenevano tra gli esercizi della virtù, siccome tra quelli che, per costume non applicando ad arte alcuna, così fuggivano l'ozio. Cotal barbaro costume durò tant'oltre appo luminosissime nazioni, ch'al narrar di Polibio si diede la pace da' romani a' cartaginesi, tra l'altre leggi, con questa: che non potessero passare il capo di Peloro in Sicilia per cagion di prede o di traffichi. Ma egli è meno de' cartaginesi e romani, i quali essi medesimi si professavano d'esser barbari in tali tempi, come si può osservare appresso Plauto, in più luoghi, ove dice aver esso vòlte le greche commedie in «lingua barbara», per dir «latina». Quello è più: che dagli umanissimi greci, ne' tempi della loro più colta umanità, si celebrava cotal costume barbaro, onde sono tratti quasi tutti gli argomenti delle loro commedie; dal qual costume questa costa d'Affrica a noi opposta, perché tuttavia l'esercita contro de' cristiani, forse dicesi Barbaria. Principio di cotal antichissimo diritto di guerra fu l'inospitalità de' popoli eroici che sopra abbiam ragionato, i quali guardarono gli stranieri con l'aspetto di perpetui nimici e riponevano la riputazione de' lor imperi in tenergli quanto si potesse lontani da' lor confini (come il narra Tacito degli svevi, la nazione più riputata dell'antica Germania); e sì guardavano gli stranieri come ladroni, quali abbiamo ragionato poc'anzi. Di che vi ha un luogo d'oro appresso Tucidide: che, fin al suo tempo, ove s'incontrassero viandanti per terra o passaggieri per mare, si domandava scambievolmente tra loro se fusser essi ladroni, in significazion di «stranieri». Ma, troppo avacciandosi la Grecia all'umanità, prestamente si spogliò di tal costume barbaro, e chiamarono «barbare» tutte l'altre nazioni che 'l conservavano; nel qual significato restò ad essi detta barbaría la Troglodizia, che doveva uccidere tal sorta d'ospiti ch'entravano ne' suoi confini, siccome ancor oggi vi sono nazioni barbare che 'l costumano. Certamente le nazioni umane non ammettono stranieri senza che n'abbiano da esse riportato licenza. Tra queste per tal costume da' greci dette «barbare nazioni», una fu la romana per due luoghi d'oro della legge delle XII Tavole. Uno: «Adversus hostem æterna auctoritas esto»; l'altro è rapportato da Cicerone: «Si status dies sit, cum hoste venito». E qui prendono la voce «hostis», indovinando con termini generali, come per metafora così detto l'«avversario che litiga»; ma sullo stesso luogo Cicerone riflette, troppo al nostro proposito, che «hostis», appresso gli antichi si disse quello che fu detto poi «peregrinus». I quali due luoghi, composti insieme, danno ad intendere ch'i romani da principio tennero gli stranieri per eterni nimici di guerra. Ma i detti due luoghi si deon intendere di quelli che furono i primi «hostes» del mondo, che, come sopra si è detto, furono gli stranieri ricevuti agli asili, i quali poi vennero in qualità di plebei nel formarsi dell'eroiche città, come si sono dimostrati più sopra. Talché il luogo appresso Cicerone significa che, nel giorno stabilito, «venga il nobile col plebeo a vendicargli il podere», come anco si è sopra detto. Perciò l'«eterna autorità», che si dice dalla medesima legge, dev'essere stata contro i plebei, contro i quali ci disse Aristotile nelle Degnità che gli eroi giuravano esser eterni nimici; per lo quale diritto eroico i plebei, con quantunque corso di tempo, non potevan usucapere niuno fondo romano, perché tali fondi erano nel commerzio de' soli nobili; ch'è buona parte della ragione perché la legge delle XII Tavole non riconobbe nude possessioni: onde poi, incominciando a disusarsi il diritto eroico e invigorendo l'umano, i pretori assistevan essi alle nude possessioni fuori d'ordine, perché né apertamente né per alcuna interpetrazione aveano da essa legge alcun motivo di costituirne giudizi ordinari né diretti né utili; e tutto ciò, perché la medesima legge teneva le nude possessioni de' plebei esser tutte precarie de' nobili. Altronde non s'impacciava delle furtive o violente de' nobili medesimi, per quell'altra propietà delle prime repubbliche (che lo stesso Aristotile nelle Degnità pur ci disse), che non avevano leggi d'intorno a' privati torti ed offese, delle quali essi privati la si dovevano vedere con la forza dell'armi, com'appieno dimostreremo nel libro IV; dalla qual vera forza restò poi per solennità nelle revindicazioni quella forza finta ch'Aulo Gellio dice «di paglia». Si conferma tutto ciò con l'interdetto «Unde vi», che si dava dal pretore, e fuori d'ordine, perché la legge delle XII Tavole non aveva inteso nulla, nonché parlato, delle violenze private; e con l'azioni «De vi bonorum raptorum» e «Quod metus caussa», le quali vennero tardi e furon anco pretorie. Ora cotal costume eroico d'avere gli stranieri per eterni nimici, osservato privatamente da ciascun popolo in pace, portatosi fuori, si riconobbe comune a tutte le genti eroiche di esercitare tra loro le guerre eterne con continove rube e corseggi. Così, dalle città, che Platon dice nate sulla pianta dell'armi, come sopra abbiam veduto, e incominciate a governarsi a modo di guerra innanzi di venir esse guerre, le quali si fanno delle città, provenne che da pólis, «città», fusse pólemos essa guerra appellata. Ove, in pruova del detto, è da farsi questa importante osservazione: che i romani stesero le conquiste e spiegarono le vittorie, che riportaron del mondo, sopra quattro leggi, ch'avevano co' plebei praticate dentro di Roma. Perché con le provincie feroci praticarono le clientele di Romolo, con mandarvi le colonie romane, ch'i padroni de' campi cangiavano in giornalieri; con le provincie mansuete praticarono la legge agraria di Servio Tullio, col permetter loro il dominio bonitario de' campi; con l'Italia praticarono l'agraria della legge delle XII Tavole, col permetterle il dominio quiritario, che godevano i fondi detti «soli italici»; co' municìpi o città benemerite praticarono le leggi del connubio e del consolato comunicato alla plebe. Tal nimicizia eterna tralle prime città non richiedeva che fussero le guerre intimate, e sì tali ladronecci si riputarono giusti; come, per lo contrario, disavvezzate poi di barbaro costume sì fatto le nazioni, avvenne che le guerre non intimate son ladronecci, non conosciuti ora dal diritto natural delle genti che da Ulpiano son dette «umane». Questa stessa eterna inimicizia de' primi popoli dee spiegarci che 'l lungo tempo ch'i romani avevano guerreggiato con gli albani fu egli tutto il tempo innanzi, ch'entrambi avevano esercitato gli uni contro degli altri a vicenda i ladronecci che qui diciamo: ond'è più ragionevole che Orazio uccida la sorella perché piagne il suo Curiazio che l'aveva rapita, che essergli stata sposata; quando esso Romolo non poté aver moglie da essi albani, nulla giovandogli l'essere uno de' reali di Alba, né 'l gran beneficio che, discacciatone il tiranno Amulio, aveva loro renduto il legittimo re Numitore. È molto da avvertirsi che si patteggia la legge della vittoria sulla fortuna dell'abbattimento di essi, che principalmente erano interessati; qual, dell'albana, fu quello degli tre Orazi e degli tre Curiazi, e, della troiana, quello di Paride e Menelao, ch'essendo rimasto indiciso, i greci e troiani poi seguitarono a terminarla: siccome, a' tempi barbari ultimi, similmente essi principi con gli abbattimenti delle loro persone terminavano le loro controversie de' regni, alla fortuna de' quali si assoggettivano i popoli. Ed ecco che Alba fu la Troia latina, e l'Elena romana fu Orazia (di che vi ha un'istoria affatto la stessa tra greci, ch'è rapportata da Gerardo Giovanni Vossio nella Rettorica), e i diece anni dell'assedio di Troia a' greci devon essere i diece anni dell'assedio di Vei a' latini, cioè un numero finito per un infinito di tutto il tempo innanzi, che le città avevano esercitato l'ostilità eterne tra loro. Perché la ragione de' numeri, perciocch'è astrattissima, fu l'ultima ad intendersi dalle nazioni (come in questi libri se ne ragiona ad altro proposito): di che, spiegandosi più la ragione, restò a' latini «sexcenta» (e così appresso gl'italiani prima si disse «cento» e poi «cento e mille») per dir un numero innumerabile, perché l'idea d'infinito può cader in mente sol de' filosofi. Quindi è forse che, per dire un gran numero, le prime genti dissero «dodeci»: come dodeci gli dèi delle genti maggiori, che Varrone e i greci numerarono trentamila; anco dodeci le fatighe d'Ercole, che dovetter essere innumerabili; e i latini dissero dodeci le parti dell'asse, che si può in infinite parti dividere; della qual sorta dovetter essere state dette le XII Tavole, per l'infinito numero delle leggi che furono in tavole, di tempo in tempo, appresso intagliate. Però ne' tempi della guerra troiana bisogna che, in quella parte di Grecia dove fu fatta, i greci si dicessero «achivi» (ch'innanzi si erano detti «pelasgi», di Pelasgo, uno degli più antichi eroi della Grecia, del quale sopra si è ragionato), e che poi tal nome d'«achivi» si fusse andato per tutta Grecia spandendo (che durò fin a' tempi di Lucio Mummio, all'osservare di Plinio), come indi per tutto il tempo appresso restarono detti «elleni». E sì la propagazione del nome «achivi» vi fece truovare a' tempi di Omero in quella guerra essersi alleata tutta la Grecia; appunto come il nome di «Germania», al riferire di Tacito, egli ultimamente si sparse per tutta quella gran parte di Europa, la quale così rimase appellata dal nome di coloro che, passato il Reno, indi cacciarono i galli e s'incominciarono a dir «germani»; e così la gloria di tai popoli diffuse tal nome per la Germania, come il romore della guerra troiana sparse il nome d'«achivi» per tutta Grecia. Perché tanto i popoli nella loro prima barbarie intesero leghe, che nemmeno i popoli d'essi re offesi si curavano prender l'armi per vendicargli, come si è osservato del principio della guerra troiana. Dalla qual natura di cose umane civili, e non altronde, si può solvere questo maraviglioso problema: come la Spagna, che fu madre di tante che Cicerone acclama fortissime e bellicosissime nazioni (e Cesare le sperimentò, che 'n tutte l'altre parti del mondo, che tutte vinse, esso combatté per l'imperio: solamente in Ispagna combatté per la sua salvezza); come, diciamo, al fragor di Sagunto (il quale per otto mesi continui fece sudar Annibale, con tutte le fresche intiere forze dell'Affrica, con le quali poi - di quanto scemate e stanche! - poco mancò che, dopo la rotta di Canne, non trionfasse di Roma sopra il di lei medesimo Campidoglio) ed allo strepito di Numanzia (la qual fece tremare la romana gloria, ch'aveva già di Cartagine trionfato, e pose la mente a partito alla stessa virtù e sapienza di Scipione, trionfatore dell'Affrica); come non unì tutti i suoi popoli in lega per istabilire sulle rive del Tago l'imperio dell'universo, e diede luogo all'infelice elogio che le fa Lucio Floro: che s'accorse delle sue forze dopo esser stata tutta per parti vinta? (E Tacito nella Vita d'Agricola, avvertendo lo stesso costume negl'inghilesi, a' tempi di quello ferocissimi ritruovati, riflette con quest'altra ben intesa espressione: «dum singuli pugnant, universi vincuntur»). Perché, non tòcchi, se ne stavano come fiere dentro le tane de' lor confini, seguitando a celebrare la vita selvaggia e solitaria de' polifemi, la qual sopra si è dimostrata. Però gli storici, tutti desti dal romore della bellica eroica navale e da quello tutti storditi, non avvertirono alla bellica eroica terrestre, molto meno alla politica eroica, con la qual i greci in tali tempi si doveano governare. Ma Tucidide, acutissimo e sappientissimo scrittore, ce ne lasciò un grande avviso ove narra che le città eroiche furono tutte smurate, come restò Sparta in Grecia e Numanzia, che fu la Sparta di Spagna; e, posta la lor orgogliosa e violenta natura, gli eroi tuttodì si cacciavano di sedia l'un l'altro, come Amulio cacciò Numitore, e Romolo cacciò Amulio e rimise Numitore nel regno d'Alba. Tanto le discendenze delle case reali eroiche di Grecia ed una continuata di quattordici re latini assicurano a' cronologi la lor ragione de' tempi! Perché nella barbarie ricorsa, quando ella fu più cruda in Europa, non si legge cosa più incostante e più varia che la fortuna de' regni, come si avvertì sopra nell'Annotazioni alla Tavola cronologica. E invero Tacito, avvedutissimo, lo ci avvisò in quel primo motto degli Annali: «Urbem Romam principio reges habuere», usando il verbo che significa la più debole spezie delle tre che della possessione fanno i giureconsulti, che sono «habere», «tenere», «possidere». Le cose civili celebrate sotto sì fatti regni ci sono narrate dalla storia poetica con le tante favole le quali contengono contese di canto (presa la voce «canto» di quel «canere» o «cantare» che significa «predire»), e, 'n conseguenza, contese eroiche d'intorno agli auspìci. Così Marsia satiro (il quale, «secum ipse discors», è 'l mostro che dice Livio), vinto da Apollo in una contesa di canto, egli vivo è dallo dio scorticato (si veda fierezza di pene eroiche!); Lino, che dee essere carattere de' plebei (perché certamente l'altro Lino fu egli poeta eroe, ch'è noverato con Anfione, Orfeo, Museo ed altri), in una simil contesa di canto, è da Apollo ucciso. Ed in entrambe tali favole le contese sono con Apollo, dio della divinità o sia della scienza della divinazione, ovvero scienza d'auspìci; e noi il truovammo sopra esser anco dio della nobiltà, perché la scienza degli auspìci, come a tante pruove si è dimostrato, era de' soli nobili. Le sirene, ch'addormentano i passaggieri col canto e dipoi gli scannano; la Sfinge, che propone a' viandanti gli enimmi, che non sappiendo quelli sciogliere, uccide; Circe, che con gl'incantesimi cangia in porci i compagni d'Ulisse (talché «cantare» fu poi presa per «fare delle stregonerie», com'è quello: ... cantando rumpitur anguis: onde la magia, che 'n Persia dovett'essere dapprima sapienza in divinità d'auspìci, restò a significare l'arte degli stregoni, ed esse stregonerie restaron dette «incantesimi»): sì fatti passaggieri, viandanti, vagabondi sono gli stranieri delle città eroiche ch'abbiam sopra detto, i plebei che contendono con gli eroi per riportarne comunicati gli auspìci, e sono in tali mosse vinti e ne sono crudelmente puniti. Della stessa fatta, Pane satiro vuol afferrare Siringa, ninfa, com'abbiam sopra detto, valorosa nel canto, e si truova aver abbracciato le canne; e, come Pane di Siringa, così Issione, innamorato di Giunone, dea delle nozze solenni, invece di lei abbraccia una nube. Talché significano le canne la leggerezza, la nube la vanità de' matrimoni naturali; onde da tal nube si dissero nati i centauri, cioè a dire i plebei, i quali sono i mostri di discordanti nature che dice Livio, i quali a' lafiti, mentre celebrano tra loro le nozze, rapiscono loro le spose. Così Mida (il quale qui sopra abbiam truovato plebeo) porta nascoste l'orecchie d'asino, e le canne ch'afferra Pane (cioè i matrimoni naturali) le scuoprono: appunto come i patrizi romani appruovano a' lor plebei ciascun di loro esser mostro, perché essi «agitabant connubia more ferarum». Vulcano (che pur dee essere qui plebeo) si vuol frapporre in una contesa tra Giove e Giunone, e con un calcio da Giove è precipitato dal cielo e restonne zoppo. Questa dev'esser una contesa ch'avesser fatto i plebei per riportarne dagli eroi comunicati gli auspìci di Giove e i connubi di Giunone, nella qual vinti, ne restaron zoppi, in senso d'«umiliati». Così Fetonte, della famiglia d'Apollo, e quindi creduto figliuol del Sole, vuol reggere il carro d'oro del padre (il carro dell'oro poetico, del frumento), e divertisce oltre le solite vie (che menavano al granaio del padre di sua famiglia: fa la pretensione del dominio de' campi), ed è precipitato dal cielo. Ma sopra tutte cade dal cielo il pomo della Discordia (cioè il pomo ch'abbiamo sopra dimostro significare il dominio de' terreni, perché la prima discordia nacque per la cagione de' campi che volevano per sé coltivar i plebei), e Venere (che dev'essere qui plebea) contende con Giunone de' connubi e con Minerva degl'imperi. Perché, d'intorno al giudizio di Paride, per buona fortuna, Plutarco nel suo Omero avvertisce che que' due versi verso il fin dell'Iliade, che ne fan motto, non son d'Omero, ma di mano che venne appresso. Atalanta, col gittare le poma d'oro, vince i proci nel corso, appunto com'Ercole lutta con Anteo e, innalzandolo in cielo, il vince, come si è sopra spiegato. Atalanta rillascia a' plebei prima il dominio bonitario, dappoi il quiritario de' campi, e si riserba i connubi: appunto come i patrizi romani, con la prima agraria di Servio Tullio e con la seconda della legge delle XII Tavole, serbaron ancor i connubi dentro il lor ordine, in quel capo: «Connubia incommunicata plebi sunto», ch'era primaria conseguenza di quell'altro: «Auspicia incommunicata plebi sunto»; onde, di là a tre anni, la plebe ne incominciò a far la pretensione e, dopo tre anni di contesa eroica, gli riportò. I proci di Penelope invadono la reggia d'Ulisse (per dire il regno degli eroi) e se n'appellano re, se ne divorano le regie sostanze (s'hanno appropiato il dominio de' campi), pretendono Penelope in moglie (fanno la pretension de' connubi). In altre parti Penelope si mantien casta e Ulisse appicca i proci, come tordi, alla rete, di quella spezie con la quale Vulcano eroico trasse Vener e Marte plebei (gli annoda a coltivar i campi da giornalieri d'Achille, come Coriolano i plebei romani, non contenti dell'agraria di Servio Tullio, voleva ridurre a' giornalieri di Romolo, come sopra si è detto). Quivi ancor Ulisse combatté con Iro, povero, e l'ammazzò (che dev'essere stata contesa agraria, nella qual i plebei si divoravano le sostanze d'Ulisse). In altre parti Penelope si prostituisce a' proci (communica i connubi alla plebe), e ne nasce Pane, mostro di due discordanti nature, umana e bestiale: ch'è appunto il «secum ipse discors» appresso Livio, qual dicevano i patrizi romani a' plebei che nascerebbe chiunque fusse provenuto da essi plebei, comunicati lor i connubi de' nobili, simigliante a Pane, mostro di due discordanti nature, che partorì Penelope prostituita a' plebei. Da Pasife, la quale si giace col toro, nasce il minotauro, mostro di due nature diverse. Che dev'esser un'istoria che dagli eroi cretesi si comunicarono i connubi a stranieri che dovettero venir in Creta con la nave la quale fu detta «toro», con cui noi sopra spiegammo che Minosse rapiva garzoni e donzelle dall'Attica, e Giove innanzi aveva rapito Europa. A questo genere d'istorie civili è da richiamarsi la favola d'Io. Giove se n'innamora (l'è favorevole con gli auspìci); Giunone n'è gelosa (con la gelosia civile, che noi sopra spiegammo, di serbare tra gli eroi le nozze solenni) e la dà a guardare ad Argo con cento occhi (a' padri argivi, ognuno col suo luco, con la sua terra colta, come sopra l'interpetrammo); Mercurio (che qui dev'essere carattere de' plebei mercenari), col suono del piffero, o piuttosto col canto, addormenta Argo (vince i padri argivi in contesa d'auspìci, da' quali si cantavan le sorti nelle nozze solenni), ed Io quivi si cangia, in vacca, che si giace col toro col quale s'era giaciuta Pasife, e va errando in Egitto (cioè tra quelli egizi stranieri, co' quali Danao aveva cacciato gl'Inachidi dal regno d'Argo). Ma Ercole, a capo di età, si effemmina e fila sotto i comandi di Iole ed Onfale: va ad assoggettire il diritto eroico de' campi a' plebei, a petto de' quali gli eroi si dicevano «viri». Ché tanto a' latini suona «viri» quanto a' greci significa «eroi», come Virgilio incomincia l'Eneide, con peso usando tal voce: Arma virumque cano, ed Orazio trasporta il primo verso dell'Odissea: Dic mihi, Musa, virum; e «viri» restaron a' romani per significare mariti solenni, maestrati, sacerdoti e giudici, perché nelle aristocrazie poetiche e nozze ed imperi e sacerdozi e giudizi erano tutti chiusi dentro gli ordini eroici. E così fu accomunato il diritto de' campi eroico a' plebei della Grecia, come fu da' patrizi romani a' plebei comunicato il diritto quiritario per la seconda agraria, combattuta e riportata con la legge delle XII Tavole, qual si è sopra dimostro: appunto come ne' tempi barbari ritornati i beni feudali si dicevano «beni della lancia» e i burgensatici si chiamavano «beni del fuso», come si ha nelle leggi inghilesi; onde l'arme reale di Francia (per significare la legge salica, ch'esclude dalla successione di quel regno le donne) è sostenuta da due angioli vestiti di dalmatiche e armati d'aste, e si adorna di questo motto eroico: «Lilia non nent». Talché, come Baldo, per nostra bella ventura, la legge salica chiamò «ius gentium gallorum», così noi la legge delle XII Tavole (per quanto serbava, nel suo rigore, le successioni ab intestato dentro i suoi, gli agnati e finalmente i gentili) possiamo chiamare «ius gentium romanarum»; perché appresso si mostrerà quanto sia vero che ne' primi tempi di Roma vi fusse stata costumanza onde le figliuole venissero ab intestato alla successione de' loro padri, e che poi fusse passata in legge nelle XII Tavole. Finalmente Ercole esce in furore col tingersi del sangue di Nesso centauro - appunto il mostro delle plebi di due discordi nature che dice Livio, - cioè tra' furori civili communica i connubi alla plebe e si contamina del sangue plebeo, e 'n tal guisa si muore: qual muore per la legge Petelia, detta De nexu, l'Ercole romano, il dio Fidio. Con la qual legge «vinculum fidei victum est», quantunque Livio il rapporti con l'occasione d'un fatto da un diece anni avvenuto dopo, il qual in sostanza è lo stesso che quello il quale aveva dato la cagione alla legge Petelia, nel quale si dovette eseguire, non ordinare, ciò ch'è contenuto in tal motto, che dee essere stato di alcuno antico scrittor d'annali, che Livio, con quanta fede con altrettanta ignorazione, rapporta: perché, col liberarsi i plebei del carcere privato de' nobili creditori, si costrinsero pur i debitori con le leggi giudiziarie a pagar i debiti; ma fu sciolto il diritto feudale, il diritto del nodo erculeo, nato dentro i primi asili del mondo, col quale Romolo dentro il suo aveva Roma fondato. Perciò è forte congettura che dall'autor degli annali fusse stato scritto «vinculum Fidii», «del dio Fidio», che Varrone dice essere stato l'Ercole de' romani; il qual motto gli altri, che vennero appresso, non intendendo, per errore credettero scritto «fidei». Il qual diritto natural eroico si è truovato lo stesso tra gli americani, e tuttavia dura nel mondo nostro tra gli abissini nell'Affrica e tra' moscoviti e tartari nell'Europa e nell'Asia; ma fu praticato con più mansuetudine tra gli ebrei, appo i quali i debitori non servivano più che sette anni. E, per finirla, così Orfeo, finalmente, il fondatore della Grecia, con la sua lira o corda o forza, che significano la stessa cosa che 'l nodo d'Ercole (il nodo della legge Petelia), egli è morto ucciso dalle baccanti (dalle plebi infuriate), le quali gliene fecero andar in pezzi la lira (che, a tante pruove fatte sopra, significava la legge): ond'a tempi d'Omero già gli eroi menavano in mogli donne straniere e i bastardi venivano alle successioni reali; lo che dimostra che già la Grecia aveva incominciato a celebrare la libertà popolare. Per tutto ciò hassi a conchiudere che queste contese eroiche fecero il nome all'età degli eroi; e che in esse molti capi, vinti e premuti, con quelli delle lor fazioni si fussero dati ad andar errando in mare per ritruovar altre terre; e che altri fussero finalmente ritornati alle loro patrie, come Menelao ed Ulisse; altri si fussero fermati in terre straniere, come Cecrope, Cadmo, Danao, Pelope (perocché tali contese eroiche eran avvenute da molti secoli innanzi nella Fenicia, nell'Egitto, nella Frigia, siccome in tali luoghi aveva prima incominciato l'umanità), i quali si fermarono nella Grecia. Come una d'essi dev'essere stata Didone, che, da Fenicia fuggendo la fazione del cognato, dal qual era perseguitata, si fermò in Cartagine, che fu detta «Punica», quasi «Phoenica»; e, di tutt'i troiani, distrutta Troia, Capi si fermò in Capova, Enea approdò nel Lazio, Antenore penetrò in Padova. In cotal guisa finì la sapienza de' poeti teologi, o sia de' sappienti o politici dell'età poetica de' greci, quali furono Orfeo, Anfione, Lino, Museo ed altri; i quali, col cantare alle plebi greche la forza degli dèi negli auspìci (ch'erano le lodi che tali poeti dovettero cantar degli dèi, cioè quelle della provvedenza divina, ch'apparteneva lor di cantare), tennero esse plebi in ossequio de' lor ordini eroici. Appunto come Appio, nipote del decemviro, circa il trecento di Roma, com'altra volta si è detto, cantando a' plebei romani la forza degli dèi negli auspìci, de' quali i nobili dicevano aver la scienza, gli mantiene nell'ubbidienza de' nobili. Appunto come Anfione, cantando sulla lira, de' sassi semoventi innalza le mura di Tebe, che trecento anni innanzi aveva Cadmo fondato, cioè vi conferma lo stato eroico. 7. COROLLARI D'INTORNO ALLE COSE ROMANE ANTICHE E PARTICOLARMENTE DEL SOGNATO REGNO ROMANO MONARCHICO E DELLA SOGNATA LIBERTÀ POPOLARE ORDINATA DA GIUNIO BRUTO. Queste tante convenienze di cose umane civili tra romani e greci, onde la storia romana antica a tante pruove si è qui truovata esser una perpetua mitologia istorica di tante, sì varie e diverse favole greche, chiunque ha intendimento (che non è né memoria né fantasia) pongono in necessità di risolutamente affermare che, da' tempi degli re infino a' connubi comunicati alla plebe, il popolo romano (il popolo di Marte) si compose di soli nobili; e ch'a tal popolo di nobili il re Tullo, incominciando dall'accusa d'Orazio, permise a' rei condennati o da' duumviri o da' questori l'appellagione a tutto l'ordine, quando i soli ordini eran i popoli eroici, e le plebi erano accessioni di tali popoli (quali poi le provincie restarono accessioni delle nazioni conquistatrici, come l'avvertì ben il Grozio); ch'appunto è l'«altro popolo» che chiamava Telemaco i suoi plebei nell'adunanza che noi qui sopra notammo. Onde, con forza d'un'invitta critica metafisica sopra essi autori delle nazioni, si dee scuotere quell'errore: che tal caterva di vilissimi giornalieri, tenuti da schiavi, fin dalla morte di Romolo avessero l'elezione degli re, la qual poi fusse appruovata da' padri. Il qual dee esser un anacronismo de' tempi ne' quali la plebe aveva già parte nella città e concorreva a criare i consoli (lo che fu dopo comunicati ad essolei i connubi da' padri), tirato da trecento anni indietro fin all'interregno di Romolo. Questa voce «popolo», presa de' tempi primi del mondo delle città nella significazione de' tempi ultimi (perché non poterono né filosofi né filologi immaginare tali spezie di severissime aristocrazie), portò di séguito due altri errori in queste due altre voci: «re» e «libertà»; onde tutti han creduto il regno romano essere stato monarchico e la ordinata da Giunio Bruto essere stata libertà popolare. Ma Gian Bodino, quantunque entrato nel volgare comun errore, nel qual eran entrati innanzi tutti gli altri politici, che prima furono le monarchie, appresso le tirannidi, quindi le repubbliche popolari e alfine l'aristocrazie (e qui vedasi, ove mancano i veri princìpi, che contorcimenti si possono fare, e fansi di fatto, d'umane idee!), pure, osservando nella sognata libertà popolare romana antica che gli effetti erano di repubblica aristocratica, puntella il suo sistema con quella distinzione: che ne' tempi antichi Roma era popolare di Stato, ma che aristocraticamente fussesi governata. Con tutto ciò, pur riuscendogli contrari gli effetti e che, anco con tal puntello, la sua macchina politica pur crollava, costretto finalmente dalla forza del vero, con brutta incostanza confessa ne' tempi antichi la repubblica romana essere stata di Stato, nonché governo, aristocratica. Tutto ciò vien confermato da Tito Livio, il quale, in narrando l'ordinamento fatto da Giunio Bruto de' due consoli annali, dice apertamente e professa non essersi di nulla affatto mutato lo Stato (come dovette da sappiente far Bruto, di richiamare da tal corrottella a' suoi princìpi lo Stato), e coi due consoli annali «nihil quicquam de regia potestate deminutum»: tanto che vennero i consoli ad essere due re aristocratici annali, quali Cicerone nelle Leggi gli appella «reges annuos» (com'eran a vita quelli di Sparta, repubblica senza dubbio aristocratica); i quali consoli, com'ognun sa, erano soggetti all'appellagione durante esso loro regno (siccome gli re spartani erano soggetti all'emenda degli efori), e, finito il regno annale, erano soggetti all'accuse (conforme gli re spartani erano fatti morire dagli efori). Per lo qual luogo di Livio ad un colpo si dimostra e che 'l regno romano fu aristocratico e che la ordinata da Bruto ella fu libertà, non già popolare, cioè del popolo da' signori, ma signorile, cioè de' signori da' tiranni Tarquini. Lo che certamente Bruto non arebbe potuto fare, se non gli si offeriva il fatto di Lugrezia romana, ch'esso saggiamente afferrò; la qual occasione era vestita di tutte le circostanze sublimi per commuovere la plebe contro il tiranno Tarquinio, il qual aveva fatto tanto mal governo della nobiltà, ch'a Bruto fu d'uopo di riempier il senato, già esausto per tanti senatori fatti morir dal Superbo. Nello che conseguì, con saggio consiglio, due pubbliche utilità: e rinforzò l'ordine de' nobili già cadente, e si conservò il favor della plebe; perché del corpo di quella dovette scegliere moltissimi, e forse gli più feroci, ch'arebbon ostato a riordinarsi la signoria, e gli fece entrare nell'ordine de' nobili, e così compose la città, la qual era a que' tempi tutta divisa «inter patres et plebem». Se 'l precorso di tante, sì varie e diverse cagioni, quante si sono qui meditate fin dall'età di Saturno; se 'l séguito di tanti, sì vari e diversi effetti della repubblica romana antica, i quali osserva il Bodino; e se la perpetuità o continuazione con cui quelle cagioni influiscono in questi effetti, la quale considera Livio, non sono valevoli a stabilire che 'l regno romano fu aristocratico e che la ordinata da Bruto fu la libertà de' signori (e ciò per attenersi alla sola autorità), bisogna dire ch'i romani, gente barbara e rozza, avesser avuto il privilegio da Dio, che non poteron aver essi greci, gente acuta umanissima, i quali, al narrar di Tucidide, non seppero nulla dell'antichità loro propie fin alla guerra peloponnesiaca, che fu il tempo più luminoso di Grecia, come osservammo sopra nella Tavola cronologica: ove dimostrammo il medesimo de' romani fin dentro alla seconda guerra cartaginese, dalla quale Livio professa scrivere la romana storia con più certezza, e pur apertamente confessa di non saperne tre circostanze, che sono le più considerabili nella storia, le qual'ivi si sono ancor osservate. Ma, con tutto che si conceda tal privilegio a' romani, pure resterà di ciò un'oscura memoria, una confusa fantasia; e pertanto la mente non potrà rinniegare i raziocinî che si son fatti sopra tai cose romane antiche. 8. COROLLARIO D'INTORNO ALL'EROISMO DE' PRIMI POPOLI. Ma l'età eroica del primo mondo di cui trattiamo ci tragge con dura necessità a ragionare dell'eroismo de' primi popoli. Il quale, per le Degnità che se ne sono sopra proposte e qui hanno il lor uso, e per gli princìpi qui stabiliti della politica eroica, fu di gran lunga diverso da quello che, 'n conseguenza della sapienza innarrivabile degli antichi, è stato finor immaginato da' filosofi, ingannati da' filologi, in quelle tre voci non diffinite le quali sopra abbiam avvertito: «popolo», «re» e «libertà»; avendo preso i popoli eroici - ne' quali fussero anco entrati i plebei, preso gli re, monarchi e preso la libertà popolare; ed al contrario, applicandovi tre lor idee di menti ingentilite ed addottrinate - una di giustizia ragionata con massime di morale socratica, l'altra di gloria (ch'è fama di benefizi fatti inverso il gener umano) e la terza di disiderio d'immortalità: - laonde su questi tre errori e con queste tre idee han creduto che re o altri grandi personaggi de' tempi antichi avessero consagrato e sé e le loro famiglie, nonché gl'intieri patrimoni e sostanze, per far felici i miseri, che sono sempre gli più nelle città e nelle nazioni. Però di Achille, ch'è 'l massimo de' greci eroi, Omero ci narra tre propietà dello 'n tutto contrarie a cotali tre idee de' filosofi. E, d'intorno alla giustizia, egli ad Ettorre, che con esso vuol patteggiare la seppoltura se nell'abbattimento l'uccida, nulla riflettendo all'egualità del grado, nulla alla sorte comune (le quali due considerazioni naturalmente inducono gli uomini a riconoscer giustizia), feroce risponde: - Quando mai gli uomini patteggiarono co' lioni, o i lupi e l'agnelle ebbero uniformità di voleri? - Anzi: - Se t'avrò ucciso, ti strascinerò nudo, legato al mio cocchio, per tre giorni d'intorno alle mura di Troia - siccome fece, - e finalmente ti darò a mangiare a' miei cani da caccia; - lo che arebbe pur fatto, se l'infelice padre Priamo non fusse venuto da essolui a riscattarne il cadavere. D'intorno alla gloria, egli per un privato dolore (perocché Agamennone gli aveva tolto a torto la sua Briseide) se ne richiama offeso con gli uomini e con gli dèi; e fanne querela a Giove d'essere riposto in onore, ritira dall'esercito alleato le sue genti e dalla comune armata le propie navi, e soffre ch'Ettorre faccia scempio della Grecia, e, contro il dettame della pietà che si deve alla patria, si ostina di vendicare una privata sua offesa con la rovina di tutta la sua nazione; anzi non si vergogna di rallegrarsi con Patroclo delle straggi ch'Ettorre fa de' suoi greci, e col medesimo (ch'è molto più), colui che portava ne' suoi talloni i fati di Troia, fa quello indegnissimo voto: che 'n quella guerra morissero tutti, e troiani e greci, ed essi due soli ne rimanessero vivi. D'intorno alla terza, egli nell'inferno, domandato da Ulisse come vi stava volentieri, risponde che vorrebbe più tosto, vivo, essere un vilissimo schiavo. Ecco l'eroe che Omero con l'aggiunto perpetuo d'«irreprensibile» canta a' greci popoli in esemplo dell'eroica virtù! Il qual aggiunto, acciocché Omero faccia profitto con l'insegnar dilettando (lo che debbon far i poeti), non si può altrimente intendere che per un uomo orgoglioso, il qual or direbbesi che non si faccia passare la mosca per innanzi alla punta del naso; e sì predica la virtù puntigliosa, nella quale a' tempi barbari ritornati tutta la loro morale riponevano i duellisti, dalla quale uscirono le leggi superbe, gli ufizi altieri e le soddisfazioni vendicative de' cavalieri erranti che cantano i romanzieri. Allo 'ncontro si rifletta al giuramento, che dice Aristotile, che giuravano gli eroi d'esser eterni nimici alla plebe. Si rifletta quindi sulla storia romana nel tempo della romana virtù, che Livio determina ne' tempi della guerra con Pirro, a cui acclama con quel motto: «nulla ætas virtutum feracior», e noi (con Sallustio, appo sant'Agostino, De civitate Dei) stendiamo dalla cacciata degli re fin alla seconda guerra cartaginese. Bruto che consagra con due suoi figliuoli la sua casa alla libertà; Scevola che, col punire del fuoco la sua destra, la quale non seppe ucciderlo, atterrisce e fuga Porsena, re de' toscani; Manlio detto «l'imperioso» che, per un felice peccato di militar disciplina, istigatogli da stimoli di valor e di gloria, fa mozzare la testa al suo figliuolo vittorioso; i Curzi che si gittano armati a cavallo nella fossa fatale; i Deci, padre e figliuolo, che si consagrano per la salvezza de' lor eserciti; i Fabrizi, i Curi, che rifiutano le some d'oro da' sanniti, le parti offerte de' regni da Pirro; gli Attili Regoli che vanno a certa crudelissima morte in Cartagine per serbare la santità romana de' giuramenti: che pro fecero alla misera ed infelice plebe romana? che per più angariarla nelle guerre, per più profondamente sommergerla in mar d'usure, per più a fondo seppellirla nelle private prigioni de' nobili, ove gli battevano con le bacchette a spalle nude a guisa di vilissimi schiavi? e chi voleva di un poco sollevarla con una qualche legge frumentaria o agraria, da quest'ordine di eroi, nel tempo di essa romana virtù, egli era accusato e morto come rubello. Qual avvenne, per tacer d'altri, a Manlio Capitolino, che aveva serbato il Campidoglio dall'incendio degl'immanissimi galli senoni; qual in Isparta (la città degli eroi di Grecia, come Roma lo fu degli eroi del mondo) il magnanimo re Agide, perché aveva attentato di sgravare la povera plebe di Lacedemone, oppressa dall'usure de' nobili, con una legge di conto nuovo, e di sollevarla con un'altra testamentaria, come altra volta si è detto, funne fatto strozzare dagli efori: onde, come il valoroso Agide fu il Manlio Capitolino di Sparta, così Manlio Capitolino fu l'Agide di Roma, che, per lo solo sospetto di sovvenir alquanto alla povera oppressa plebe romana, fu fatto precipitare giù dal monte Tarpeo. Talché per quest'istesso ch'i nobili de' primi popoli si tenevano per eroi, ovvero di superior natura a quella de' lor plebei, come appieno sopra si è dimostrato, facevano tanto malgoverno della povera moltitudine delle nazioni. Perché certamente la storia romana sbalordisce qualunque scortissimo leggitore, che la combini sopra questi rapporti: che romana virtù dove fu tanta superbia? che moderazione dove tanta avarizia? che mansuetudine dove tanta fierezza? che giustizia dove tanta inegualità? Laonde i princìpi, i quali possono soddisfare una sì gran maraviglia, debbono necessariamente esser questi: I Sia, in séguito di quella ferina che sopra si ragionò de' giganti, l'educazion de' fanciulli severa, aspra, crudele, quale fu quella degl'illiterati lacedemoni, che furono gli eroi della Grecia, i quali nel templo di Diana battevano i loro figliuoli fin all'anima, talché cadevano sovente morti, convulsi dal dolore, sotto le bacchette de' padri, acciocché s'avvezzassero a non temere dolori e morte; e ne restarono tal'imperi paterni ciclopici così a' greci come a' romani, co' quali permettevano uccidersi gl'innocenti bambini di fresco nati. Perché le delizie, ch'or facciamo de' nostri figliuoli fanciulli, fanno oggi tutta la dilicatezza delle nostre nature. II Si comperino con le doti eroiche le mogli, le quali restarono poscia per solennità a' sacerdoti romani, i quali contraevano le nozze «coëmptione et farre» (che fu anche, al narrar di Tacito, costume degli antichi germani, i quali ci danno luogo di stimare lo stesso di tutti i primi popoli barbari); e le mogli si tengano, come per una necessità di natura, in uso di far figliuoli: del rimanente, si trattino come schiave, conforme in molte parti del nostro e quasi universalmente nel mondo nuovo è costume di nazioni: quando le doti sono compere che fan le donne della libertà da' mariti e pubbliche confessioni ch'i mariti non bastano a sostenere i pesi del matrimonio, onde sono forse i tanti privilegi co' quali gl'imperatori han favorito le doti. III I figliuoli acquistino, le mogli risparmino per gli loro mariti e padri: non, come si fa oggi, tutto a rovescio. IV I giuochi e i piaceri sien faticosi, come lutta, corso (onde Omero dà ad Achille l'aggiunto perpetuo di «piè veloce»); sieno ancor con pericolo, come giostre, cacce di fiere, onde s'avvezzino a fermare le forze e l'animo e a strappazzare e disprezzare la vita. V Non s'intendano affatto lussi, lautezze ed agi. VI Le guerre, come l'eroiche antiche, sieno tutte di religione, la quale, per la ragione ch'abbiamo preso per primo principio di questa scienza, le rende tutte atrocissime. VII Si celebrino le schiavitù pur eroiche, che van di séguito a tali guerre, nelle quali i vinti si tengano per uomini senza Dio, onde con la civile si perda ancora la natural libertà. E qui abbia uso quella Degnità sopra posta: che «la libertà naturale ella è più feroce ov'i beni sono più a' nostri corpi attaccati, e la civil servitù s'inceppa co' beni di fortuna non necessari alla vita». [VIII] Per tutto ciò sieno, le repubbliche, aristocratiche per natura o sia di naturalmente fortissimi, che schiudano a' pochi padri nobili tutti gli onori civili; e 'l ben pubblico sieno monarchie famigliari conservate lor dalla patria; che sarebbe la vera patria, com'abbiamo più volte detto, interesse di pochi padri, per lo quale sieno i cittadini naturalmente patrizi. E con tali nature, tali costumi, tali repubbliche, tali ordini e tali leggi si celebrerà l'eroismo de' primi popoli, il quale, per le cagioni a queste che si sono noverate tutte contrarie (che dappoi produssero l'altre due spezie degli Stati civili, che sopra pruovammo esser entrambi umani, cioè le repubbliche libere popolari e, più che queste, le monarchie), egli è ora per civil natura impossibile. Perché per tutto il tempo della romana libertà popolare fa romor d'eroe il solo Catone uticese, e lasciò tal romore per uno spirito di repubblica aristocratica: che, caduto Pompeo e rimasto esso capoparte della nobiltà, per non poter sofferire di vederla umiliata a Cesare, si ammazzò. Nelle monarchie gli eroi son coloro che si consagrano per la gloria e grandezza de' lor sovrani. Ond'ha a conchiudersi ch'un tal eroe i popoli afflitti il disiderano, i filosofi il ragionano, i poeti l'immaginano; ma la natura civile, come n'abbiamo una Degnità, non porta tal sorta di benefizi. Tutte le quali cose qui ragionate dell'eroismo de' primi popoli ricevono lustro e splendore dalle Degnità sopra poste d'intorno all'eroismo romano, le quali si truoveranno comuni all'eroismo degli antichi ateniesi nel tempo che, come narra Tucidide, furono governati da' severissimi areopagiti (che, come abbiam veduto, fu un senato aristocratico), ed all'eroismo degli spartani, che furono repubblica di Eraclidi o di signori, come a mille pruove sopra si è dimostrato. VI REPILOGAMENTI DELLA STORIA POETICA. I Tutta quest'istoria divina ed eroica de' poeti teologi con troppo d'infelicità ci fu nella favola di Cadmo descritta. Egli uccide la gran serpe (sbosca la gran selva antica della terra); ne semina i denti (con bella metafora, come sopra si è detto, con curvi legni duri) - ch'innanzi di truovarsi l'uso del ferro dovettero servire per denti de' primi aratri, che «denti» ne restarono detti - egli ara i primi campi del mondo; gitta una gran pietra (ch'è la terra dura, che volevano per sé arare i clienti ovvero famoli, come si è sopra spiegato); nascono da' solchi uomini armati (per la contesa eroica della prima agraria ch'abbiamo detto, gli eroi escono da' loro fondi, per dire ch'essi sono signori de' fondi, e si uniscono armati contro le plebi, e combattono, non già tra di loro, ma co' clienti ammutinati contro essoloro; e coi solchi sono significati essi ordini, ne' quali s'uniscono e co' quali formano e fermano le prime città sulla pianta dell'armi, come tutto si è detto sopra); e Cadmo si cangia in serpe (e ne nasce l'autorità de' senati aristocratici, che gli antichissimi latini arebbono detto: «Cadmus fundus factus est», e i greci dissero Cadmo cangiato in Dragone, che scrive le leggi col sangue). Lo che tutto è quello che noi sopra promettemmo di far vedere: - che la favola di Cadmo conteneva più secoli di storia poetica, - ed è un grand'esemplo dell'infanzia, onde la fanciullezza del mondo travagliava a spiegarsi; che, degli sette ch'appresso novereremo, è un gran fonte della difficultà delle favole. Tanto felicemente seppe Cadmo lasciare scritta cotal istoria con le sue lettere volgari, ch'esso aveva a' greci dalla Fenicia portato! E Desiderio Erasmo, con mille inezie, indegne dell'uomo eruditissimo che fu detto il «Varron cristiano», vuol che contenga la storia delle lettere ritruovate da Cadmo. Così la chiarissima istoria d'un tanto benefizio d'aver ritruovato le lettere alle nazioni, che per se stessa doveva esser romorosissima, Cadmo nasconde al gener umano di Grecia dentro l'inviluppo di cotal favola, ch'è stata oscura fin a' tempi di Erasmo, per tener arcano al volgo uno sì grande ritruovato di volgare sapienza, che da esso «volgo» tali lettere furon dette «volgari». II Ma con maravigliosa brevità ed acconcezza narra Omero questa medesima istoria, tutta ristretta nel geroglifico dello scettro lasciato ad Agamennone. Il quale Vulcano fabbricò a Giove (perché Giove, co' primi fulmini dopo il diluvio, fondossi il regno sopra gli dèi e gli uomini, che furon i regni divini, nello stato delle famiglie); - poi Giove il diede a Mercurio (che fu il caduceo, con cui Mercurio portò la prima legge agraria alle plebi, onde nacquero i regni eroici delle prime città); - poi Mercurio il diede a Pelope, Pelope a Tieste, Tieste ad Atreo, Atreo ad Agamennone (ch'è tutta la successione della casa reale d'Argo). III Però più piena e spiegata è la storia del mondo, che 'l medesimo Omero ci narra essere stata descritta nello scudo d'Achille. I. Nel principio vi si vedeva il cielo, la terra, il mare, il sole, la luna, le stelle: - questa è l'epoca della criazione del mondo. II. Dipoi due città. In una erano canti, imenei e nozze: questa è l'epoca delle famiglie eroiche de' figliuoli nati dalle nozze solenni. Nell'altra non si vedeva niuna di queste cose: questa è l'epoca delle famiglie eroiche de' famoli, i quali non contraevano che matrimoni naturali, senza niuna solennità di quelle con le quali si contraevano le nozze eroiche. Sicché entrambe queste città rappresentavano lo stato di natura, o sia quello delle famiglie; ed eran appunto le due città, ch'Eumeo, castaldo d'Ulisse, racconta ch'erano nella sua padria, entrambe rette da suo padre, nelle qual'i cittadini avevano divisamente tutte le loro cose divise (cioè che non avevano niuna parte di cittadinanza tra essoloro comune). Onde la città senza imenei è appunto l'«altro popolo» che Telemaco in adunanza chiama la plebe d'Itaca; ed Achille, lamentandosi dell'oltraggio fattogli da Agamennone, dice che l'aveva trattato da un giornaliere, che non aveva niuna parte al governo. III. Appresso, in questa medesima città delle nozze, si vedevano parlamenti, leggi, giudizi, pene. Appunto come i patrizi romani nelle contese eroiche replicavano alla plebe che e le nozze e gl'imperi e i sacerdozi, de' quali ultimi era dipendenza la scienza delle leggi, e, con queste, i giudizi, erano tutte ragioni loro propie, perch'erano loro propi gli auspìci, che facevano la maggior solennità delle nozze: onde «viri» (che tanto appo i latini suonava quanto «eroi» appo i greci) se ne dissero i mariti solenni, i maestrati, i sacerdoti e per ultimo i giudici, come altra volta sopra si è detto. Sicché questa è l'epoca delle città eroiche, che sopra le famiglie de' famoli sursero di stato severissimo aristocratico. IV. L'altra città è assediata con armi, e, a vicenda con la prima, menano prede l'una dall'altra; e quivi la città senza nozze (ch'erano le plebi delle città eroiche) diventa un'altra intiera città nimica. Il qual luogo a maraviglia conferma ciò che sopra abbiam ragionato: che i primi stranieri, i primi «hostes» furono le plebi de' popoli eroici, contro le quali, come n'abbiamo più volte udito Aristotile, gli eroi giuravano d'esser eterni nimici; onde poi l'intiere città, perché tra loro straniere, co' ladronecci eroici, esercitavano eterne ostilità tra di loro, come sopra si è ragionato. V. E finalmente vi si vedeva descritta la storia dell'arti dell'umanità, dandole incominciamento dall'epoca delle famiglie; perché, prima di ogni altra cosa, vi si vedeva il padre re, che con lo scettro comanda il bue arrosto dividersi a' mietitori; dappoi vi si vedevano piantate vigne; appresso, armenti, pastori e tuguri; e in fine di tutto v'erano descritte le danze. La qual immagine, con troppo bello e vero ordine di cose umane, sponeva ritruovate prima l'arti del necessario: la villereccia, e prima del pane, dipoi del vino; appresso, quelle dell'utile: la pastoreccia; quindi quelle del comodo: l'architettura urbana; finalmente quelle del piacere: le danze. VII FISICA POETICA. 1. DELLA FISICA POETICA. Passando ora all'altro ramo del tronco metafisico poetico, per lo quale la sapienza poetica si dirama nella fisica e quindi nella cosmografia e, per questa, nell'astronomia, di cui son frutte la cronologia e la geografia, diamo, a quest'altra parte che resta di ragionamento, principio dalla fisica. I poeti teologi considerarono la fisica del mondo delle nazioni; e perciò primieramente diffinirono il Cao essere confusione de' semi umani, nello stato dell'infame comunione delle donne: dal quale poi i fisici furono desti a pensare alla confusione de' semi universali della natura, e, a spiegarla, n'ebbero da' poeti già ritruovato e quindi acconcio il vocabolo. Egli era confuso, perché non vi era niun ordine d'umanità; era oscuro, perché privo della luce civile (onde «incliti» furon detti gli eroi). L'immaginarono ancora l'Orco, un mostro informe che divorassesi tutto, perché gli uomini nell'infame comunione non avevano propie forme d'uomini, ed eran assorti dal nulla, perché per l'incertezza delle proli non lasciavano di sé nulla: questo poi da' fisici fu preso per la prima materia delle naturali cose, che, informe, è ingorda di forme e si divora tutte le forme. Ma i poeti gli diedero anco la forma mostruosa di Pane, dio selvaggio ch'è nume di tutti i satiri, che non abitano le città ma le selve; carattere al quale riducevano gli empi vagabondi per la gran selva della terra, ch'avevano aspetto d'uomini e costumi di bestie nefande: che poi, con allegorie sforzate ch'osserveremo più appresso, i filosofi, ingannati dalla voce pãn, che significa «tutto», l'appresero per l'universo formato. Han creduto ancor i dotti ch'i poeti avesser inteso la prima materia con la favola di Proteo, con cui, immerso nell'acque, Ulisse da fuori l'acqua lutta in Egitto, né può afferrarlo, perché sempre in nuove forme si cangia. Ma tal loro sublimità di dottrina fu una gran goffaggine e semplicità de' primi uomini, i quali (come i fanciulli, quando si guardano negli specchi, vogliono afferrare le lor immagini) dalle varie modificazioni de' lor atti e sembianti credevano esser un uomo nell'acqua, che cangiassesi in varie forme. Finalmente fulminò il cielo, e Giove diede principio al mondo degli uomini dal poner questi in conato, ch'è propio della libertà della mente, siccome dal moto, il qual è propio de' corpi, che son agenti necessari, cominciò il mondo della natura; perocché que', che ne' corpi sembran esser conati, sono moti insensibili, come si è detto sopra nel Metodo. Da tal conato uscì la luce civile, di cui è carattere Apollo, alla cui luce si distinse la civile bellezza onde furono belli gli eroi; della quale fu carattere Venere, che poi fu presa da' fisici per la bellezza della natura, anzi per tutta la natura formata, la qual è bella e adorna di tutte le sensibili forme. Uscì il mondo de' poeti teologi da quattro elementi sagri: dall'aria, dove fulmina Giove, dall'acqua delle fonti perenni, di cui è nume Diana; dal fuoco, onde Vulcano accese le selve; e dalla terra colta, ch'è Cibele o Berecintia. Che tutti e quattro sono gli elementi delle divine cerimonie: cioè auspìci, acqua, fuoco e farro, che guarda Vesta, che, come si è detto sopra, è la stessa che Cibele o Berecintia, la quale delle terre colte afforzate di siepi, con le ville poste in alto in figura di torri (onde a' latini è «extorris», quasi «exterris»), ella va Coronata; con la qual corona si chiude quello che ci restò detto «orbis terrarum», ch'è propiamente il mondo degli uomini. Quindi poi i fisici ebbero il motivo di meditare ne' quattro elementi de' quali è composto il mondo della natura. Gli stessi poeti teologi e agli elementi e alle indi uscite innumerabili speziali nature diedero forme viventi e sensibili, ed alla maggior parte umane, e ne finsero tante e sì varie divinità, come abbiamo ragionato sopra nella Metafisica; onde riuscì acconcio a Platone d'intrudervi il placito delle sue «menti» o «intelligenze»: che Giove fusse la mente dell'etere, Vulcano del fuoco, e altri somiglianti. Ma i poeti teologi tanto intesero tal'intelligenti sostanze, che fin ad Omero non s'intendeva essa mente umana, in quanto, per forza di riflessione, resiste al senso; di che vi sono due luoghi d'oro nell'Odissea, dove vien detta o «forza sagra» o «vigor occulto», che son lo stesso. 2. DELLA FISICA POETICA INTORNO ALL'UOMO O SIA DELLA NATURA EROICA. Ma la maggior e più importante parte della fisica è la contemplazione della natura dell'uomo. Come gli autori del gener umano gentilesco s'abbiano essi in un certo modo generato e produtto la propia lor forma umana per entrambe le di lei parti, cioè con le spaventose religioni e coi terribili imperi paterni; e con le sagre lavande essi edussero da' loro corpi giganteschi la forma delle nostre giuste corporature, e con la stessa disciplina iconomica eglino, da' lor animi bestiali, edussero la forma de' nostri animi umani: tutto ciò sopra, nell'Iconomica poetica, si è ragionato, e questo è luogo propio da qui doversi ripetere. Or i poeti teologi, con aspetto di rozzissima fisica, guardarono nell'uomo queste due metafisiche idee: d'essere e di sossistere. Certamente gli eroi latini sentirono l'«essere», assai grossolanamente, con esso «mangiare», che dovett'esser il primo significato di «sum», che poi significò l'uno e l'altro; conforme anch'oggi i nostri contadini, per dire che l'ammalato vive, dicono ch'«ancor mangia»: perché «sum» in significato d'«essere» egli è astrattissimo, che trascende tutti gli esseri; scorrevolissimo, che per tutti gli esseri penetra; purissimo, che da niun essere è circoscritto. Sentirono la «sostanza», che vuol dire «cosa che sta sotto e sostiene» star ne' talloni, perocché sulle piante de' piedi l'uomo sussiste; ond'Achille portava i suoi fati sotto il tallone, perché ivi stasse il suo fato, o sia la sorte del vivere e del morire. La compagine del corpo riducevano a' solidi e liquidi. I solidi richiamavano a viscere o sieno carni (come appo i romani si disse «visceratio» la divisione che da' sacerdoti si faceva al popolo delle carni delle vittime sagrificate), talché «vesci» intesero «nudrirsi», quando del cibo si faccia carne; - ad ossa e giunture, che si dicono «artus» (ov'è da osservare che «artus» è detto da «ars», ch'agli antichi latini significò la «forza del corpo», ond'è «artitus», «atante della persona»: poi fu detta «ars» ogni compagine di precetti che ferma qualche facultà della mente); - a' nervi, che, quando, mutoli, parlavan per corpi, presero per le forze (da un qual nervo, detto «fides», in senso di «corda», fu detta «fede» la «forza degli dèi», del qual nervo o corda o forza poi fecero il liuto d'Orfeo), e con giusto senso riposero ne' nervi le forze, poiché questi tendono i muscoli, che bisognano tendersi per far forza; - e finalmente a midolle, e nelle midolle riposero, con senso ancor giusto, il fior fior della vita (onde «medulla» era detta dall'innamorato l'amata donna, e «medullitus» ciò che diciamo «di tutto cuore», e amore, ov'è grande, si dice «bruciar le midolla»). I liquidi riducevano al solo sangue, perciocché la sostanza nervea o spermale pur chiamavano «sangue» (come la frase poetica lo ci dimostra: «sanguine cretus» per «generato»), e con giusto senso ancora, perché tal sostanza è 'l fior fiore del sangue. E, pure con senso giusto, stimarono il sangue sugo delle fibre delle quali si compone la carne; onde restò a' latini «succiplenus» per dir «carnuto», «insuppato di buono sangue». Per altra parte poi dell'anima, i poeti teologi la riposero nell'aria (che «anima» pur da' latini vien detta), e la stimarono il veicolo della vita (come restò a' latini la propietà della frase «anima vivimus», e a' poeti quelle frasi: «ferri ad vitales auras», «nascere»; «ducere vitales auras», «vivere»; «vitam referri in auras», «morire»; e in volgar latino restarono «animam ducere» per «vivere», «animam trahere» per «agonizzare», «animam efflare, emittere» per «morire»); onde forse i fisici ebbero il motivo di riporre l'anima del mondo nell'aria. E i poeti teologi, con giusto senso ancora, mettevano il corso della vita nel corso del sangue, nel cui giusto moto consiste la nostra vita. Dovetter, ancora con giusto senso, sentir che l'animo 'l veicolo sia del senso, perché restò a' latini la propietà dell'espressione «animo sentimus». E, con giusto senso altresì, fecero l'animo maschio, femmina l'anima, perché l'animo operi nell'anima (ch'è l'«igneus vigor» che dice Virgilio); talché l'animo debba avere il suo subbietto nei nervi e nella sostanza nervea, e l'anima nelle vene e nel sangue: e così i veicoli sieno, dell'animo, l'etere e, dell'anima, l'aere, con quella proporzione con la quale gli spiriti animali son mobilissimi, alquanto tardi i vitali. E, come l'anima è la ministra del moto, così l'animo sia del conato, e 'n conseguenza il principio; ch'è l'«igneus vigor» che testé ci ha detto Virgilio. E i poeti teologi il sentivano e non intendevano, e appresso Omero il dissero «forza sagra» e «vigor occulto» e un «dio sconosciuto»; come i greci e i latini, quando dicevano o facevano cosa di che sentivano in sé un principio superiore, dicevano che un qualche dio avesse sì fatta cosa voluto: il qual principio fu da' medesimi latini detta «mens animi». E sì, rozzamente, intesero quell'altissima verità, che poi la teologia naturale de' metafisici, in forza d'invitti raziocinî contro gli epicurei, che le vogliono esser risalti de' corpi, dimostra che l'idee vengono all'uomo da Dio. Intesero la generazione con una guisa che non sappiamo se più propia n'abbiano potuto appresso giammai ritruovar i dotti. La guisa tutta si contiene in questa voce «concipere», detta quasi «concapere», che spiega l'esercizio che celebrano della loro natura le forme fisiche (ch'ora si dee supplire con la gravità dell'aria, dimostrata ne' tempi nostri), di prendere d'ogn'intorno i corpi loro vicini, e vincere la lor resistenza, e adagiargli e conformargli alla loro forma. La corrozione spiegarono troppo sappientemente con la voce «corrumpi», che significa il rompimento di tutte le parti che compongono il corpo; per l'opposto di «sanum», perché la vita consista in tutte le parti sane: tanto che dovettero stimare i morbi portar la morte col guasto de' solidi. Riducevano tutte le funzioni interne dell'animo a tre parti del corpo: al capo, al petto, al cuore. E dal capo richiamavano tutte le cognizioni; che perciocch'erano tutte fantastiche, collocarono nel capo la memoria, la quale da' latini fu detta per «fantasia». E a' tempi barbari ritornati fu detta «fantasia» per «ingegno», e, 'n vece di dir «uomo d'ingegno», dicevan «uomo fantastico»; qual narra essere stato Cola di Rienzo l'autore dello stesso tempo, il qual in barbaro italiano ne descrisse la vita, la qual contiene nature e costumi somigliantissimi a quest'eroici antichi che ragioniamo: ch'è un grande argomento del ricorso che, 'n nature e costumi, fanno le nazioni. Ma la fantasia altro non è che risalto di reminiscenze, e l'ingegno altro non è che lavoro d'intorno a cose che si ricordano. Ora, perché la mente umana de' tempi che ragioniamo non era assottigliata da verun'arte di scrivere, non spiritualezzata da alcuna pratica di conto e ragione, non fatta astrattiva da tanti vocaboli astratti di quanti or abbondan le lingue, come si è detto sopra nel Metodo, ella esercitava tutta la sua forza in queste tre bellissime facultà, che le provengon dal corpo; e tutte e tre appartengono alla prima operazion della mente, la cui arte regolatrice è la topica, siccome l'arte regolatrice della seconda è la critica; e, come questa è arte di giudicare, così quella è arte di ritruovare, conforme si è sopra detto negli Ultimi corollari della Logica poetica. E, come naturalmente prima è 'l ritruovare, poi il giudicar delle cose, così conveniva alla fanciullezza del mondo di esercitarsi d'intorno alla prima operazion della mente umana, quando il mondo aveva di bisogno di tutti i ritruovati per le necessità ed utilità della vita, le quali tutte si erano provvedute innanzi di venir i filosofi, come più pienamente il dimostreremo nella Discoverta del vero Omero. Quindi a ragione i poeti teologi dissero la Memoria esser «madre delle muse», le quali sopra si sono truovate essere l'arti dell'umanità. È, in questa parte, da punto non trallasciare quest'importante osservazione, che molto rileva per quello che nel Metodo si è sopra detto: ch'or intender appena si può, affatto immaginar non si può come pensassero i primi uomini che fondarono l'umanità gentilesca, ch'erano di menti così singolari e precise, ch'ad ogni nuov'aria di faccia ne stimavano un'altra nuova, com'abbiam osservato nella favola di Proteo; ad ogni nuova passione stimavano un altro cuore, un altro petto, un altr'animo: onde sono quelle frasi poetiche, usate, non già per necessità di misure, ma per tal natura di cose umane, quali sono «ora», «vultus», «animi», «pectora», «corda», prese per gli numeri loro del meno. Fecero il petto stanza di tutte le passioni, a cui con giusti sensi ne sottoposero i due fomenti o princìpi: cioè l'irascibile nello stomaco, perocché ivi, per superare il mal che ci preme, ci si faccia sentire la bile contenuta ne' vasi biliari, sparsi per lo ventricolo, il quale, con invigorire il suo moto peristaltico, spremendogli, la vi diffonde: - posero la concupiscibile, più di tutt'altro, nel fegato, ch'è diffinito l'«ufficina del sangue», ch'i poeti dissero «precordi», ove Titane impastò le passioni degli altri animali, le quali fussero in ciascuna specie più insigni; e abbozzatamente intesero che la concupiscenza è la madre di tutte le passioni e che le passioni sieno dentro de' nostri umori. Richiamavano al cuore tutti i consigli, onde gli eroi «agitabant, versabant, volutabant corde curas», perché non pensavano d'intorno alle cose agibili senonsé scossi da passioni, siccome quelli ch'erano stupidi ed insensati. Quindi da' latini «cordati» furono detti i saggi, e «vecordes» al contrario gli scempi; e le risoluzioni si dissero «sententiæ», perché, come sentivano così giudicavano, onde i giudizi eroici erano tutti con verità nella loro forma, quantunque spesso falsi nella materia. 3. COROLLARIO: DELLE SENTENZE EROICHE. Ora, perché i primi uomini del gentilesimo erano di menti singolarissime, poco meno che di bestie, alle quali ogni nuova sensazione cancella affatto l'antica (ch'è la ragione perché non possono combinar e discorrere), perciò le sentenze tutte dovevan essere singolarizzate da chi sentivale. Onde quel sublime, ch'ammira Dionigi Longino nell'oda di Saffo che poi trasportò in latino Catullo, che l'innamorato, alla presenza della sua amata donna, spiega per somiglianza: Ille mi par esse deo videtur manca del sommo grado della sublimità, perché non singolarizza la sentenza in se stesso, come fa Terenzio, con dire: Vitam deorum adepti sumus; il qual sentimento, quantunque sia propio di chi lo dice, per la maniera latina d'usare nella prima persona il numero del più per quello del meno, però ha un'aria di sentimento comune. Ma dallo stesso poeta, in altra commedia, il medesimo sentimento è innalzato al sommo grado della sublimità, ove, singolarizzandolo, l'appropia a chi 'l sente: Deus factus sum. Perciò queste sentenze astratte son di filosofi, perché contengono universali, e le riflessioni sopra esse passioni sono di falsi e freddi poeti. 4. COROLLARIO: DELLE DESCRIZIONI EROICHE. Finalmente riducevano le funzioni esterne dell'animo ai cinque sensi del corpo, ma scorti, vividi e risentiti, siccome quelli ch'erano nulla o assai poco ragione e tutti robustissima fantasia. Di ciò sieno pruove i vocaboli che diedero ad essi sensi. Dissero «audire», quasi «haurire», perché gli orecchi bevano l'aria da altri corpi percossa. Dissero «cernere oculis» il vedere distintamente (onde forse venne «scernere» agl'italiani), perché gli occhi sieno come un vaglio e le pupille due buchi - che, come da quello escon i bastoni di polvere, che vanno a toccare la terra, così dagli occhi, per le pupille, escano bastoni di luce, che vanno a toccare le cose, le quali distintamente si vedono (ch'è 'l baston visuale che poi ragionarono gli stoici, e felicemente a' nostri tempi ha dimostrato il Cartesio); - e dissero «usurpare oculis» generalmente il vedere, quasi che, con la vista, s'impossessassero delle cose vedute. Con la voce «tangere» dissero anco il rubare, perché, col toccare, da' corpi che si toccano si porta via qualche cosa, ch'or appena s'intende da' fisici più avveduti. Dissero «olfacere» l'odorare, quasi, odorando, facessero essi gli odori; lo che poi, con gravi osservazioni, truovaron vero i naturali filosofi, che i sensi facciano le qualità che sono dette «sensibili». E finalmente dissero «sapere» il gustare, e «sapere», propiamente, è delle cose che dan sapore, perché assaggiassero nelle cose il sapor propio delle cose; onde poi con bella metafora fu detta «sapienza», che fa usi, delle cose, i quali hanno in natura, non già quelli che ne finge l'oppenione. Nello che è da ammirare la provvedenza divina: ch'avendoci dato ella i sensi per la custodia de' nostri corpi - i quali i bruti hanno maravigliosamente più fini degli uomini, - in tempo ch'erano gli uomini caduti in uno stato di bruti, da tal loro natura istessa avessero sensi scortissimi per conservarsi; i quali, venendo l'età della riflessione, con cui potessero consigliarsi per guardar i lor corpi, s'infievolirono. Per tutto ciò le descrizioni eroiche, quali sono quelle d'Omero, diffondono tanto lume e splendor d'evidenza, che non si è potuto imitare, nonché uguagliare, da tutti i poeti appresso. 5. COROLLARIO: DE' COSTUMI EROICI. Da tali eroiche nature, fornite di tali sensi eroici, si formarono e fermarono somiglianti costumi. Gli eroi, per la fresca origine gigantesca, erano in sommo grado goffi e fieri, quali ci sono stati detti los patacones, di cortissimo intendimento, di vastissime fantasie, di violentissime passioni. Per lo che dovetter essere zotici, crudi, aspri, fieri, orgogliosi, difficili ed ostinati ne' loro propositi e, nello stesso tempo, mobilissimi al presentarsi loro de' nuovi contrari obbietti: siccome tuttodì osserviamo i contadini caparbi, i quali ad ogni motivo di ragion detta loro vi si rimettono; ma, perché sono deboli di riflessione, la ragione, che gli aveva rimossi, tosto dalle loro menti sgombrando, si richiamano al lor proposito. E, per lo stesso difetto della riflessione, eran aperti, risentiti, magnanimi e generosi, qual è da Omero descritto Achille, il massimo di tutti gli eroi della Grecia. Sopra i quali esempli di costumi eroici Aristotile alzò in precetto d'arte poetica che gli eroi, i quali si prendono per subbietti delle tragedie, eglino non sieno né ottimi né pessimi, ma di grandi vizi e di grandi virtù mescolati. Perché cotesto eroismo di virtù, la qual sia compiuta sopra la sua idea ottima, egli è di filosofi, non di poeti; e cotesto eroismo galante è di poeti che vennero dopo Omero, i quali o ne finsero le favole di getto nuove, o le favole, nate dapprima gravi e severe, quali convenivano a fondatori di nazioni, poscia, effemminandosi col tempo i costumi, essi alterarono e finalmente corruppero. Gran pruova è di ciò (e la stessa dee essere un gran canone di questa mitologia istorica che ragioniamo) che Achille, il quale per quella Briseide ad essolui tolta da Agamennone fa tanti romori che n'empie la terra e 'l cielo e ne porge la materia perpetua a tutta l'Iliade, non ne mostra, in tutta l'Iliade, pur un menomo senso di passion amorosa d'esserne rimasto privo; e Menelao, che per Elena muove tutta la Grecia contro di Troia, non ne mostra, per tutta quella lunga e gran guerra, un segno, pur picciolo, d'amoroso cruccio di gelosia che la si goda Paride, il quale gliel'aveva rapita. Tutto ciò che si è in questi tre corollari detto delle sentenze, delle descrizioni e de' costumi eroici, appartiene alla discoverta del vero Omero, che si farà nel libro seguente. VIII DELLA COSMOGRAFIA POETICA. I poeti teologi, siccome posero per princìpi in fisica le sostanze da essi immaginate divine, così descrissero una a cotal fisica convenevole cosmografia, ponendo il mondo formato di dèi del cielo, dell'inferno (che da' latini si dissero «dii superi» e «dii inferi») e di dèi che tra 'l cielo e la terra si frapponessero (che dovetter esser appo i latini dapprima i dèi detti «medioxumi»). Del mondo in primo luogo contemplarono il cielo, le cui cose dovetter esser a greci i primi mathémata, o sieno «sublimi cose», e i primi theorémata, o sieno «divine cose da contemplarsi». La contemplazione delle quali fu detta così da' latini da quelle regioni del cielo che disegnavano gli àuguri per prender gli augùri (che dicevano «templa coeli», onde nell'Oriente venne il nome de' zoroasti, che 'l Bocarto vuol detti quasi «contemplatori degli astri»), per indovinare dal tragitto delle stelle cadenti la notte. Fu a' poeti il primo cielo non più in suso delle alture delle montagne, ov'i giganti da' primi fulmini di Giove furono dal loro ferino divagamento fermati; ch'è quel Cielo che regnò in terra e, quindi incominciando, fece de' grandi benefìci al gener umano, come si è sopra pienamente spiegato. Laonde dovetter estimar il cielo la cima d'esse montagne (dall'acutezza delle quali a' latini venne «coelum» detto ancor il bolino, istrumento d'intagliar in pietre o metalli); appunto come i fanciulli immaginano ch'i monti sieno le colonne che sostengono il solaio del cielo (siccome gli arabi tali princìpi di cosmografia diedero all'Alcorano): delle quali colonne, due restarono «d'Ercole», come più giuso vedremo; che dovettero dapprima dirsi i puntelli o sostegni, da «columen», e che poi l'abbia ritondati l'architettura; sopra un cui solaio sì fatto Teti dice ad Achille, appo Omero, che Giove con gli altri dèi era ito da Olimpo a banchettare in Atlante. Tanto che, come sopra dicemmo, ove si ragionò de' giganti, la favola della guerra ch'essi fanno al cielo, e impongono gli altissimi monti, a Pelio Ossa, ad Ossa Olimpo, per salirvi e scacciarne gli dèi, dev'essere stata ritruovata dopo d'Omero; perché nell'Iliade certamente egli sempre narra gli dèi starsi sulla cima del monte Olimpo, onde bastava che crollasse l'Olimpo solo, per farne cadere gli dèi. Né tal favola, quantunque sia riferita nell'Odissea, ella ben vi conviene: perché in quel poema l'inferno non è più profondo d'un fosso, dove Ulisse vede e ragiona con gli eroi trappassati; laonde quanto corta idea aveva l'Omero dell'Odissea dell'inferno è necessario ch'a proporzione altrettanta ne avesse avuto del cielo, in conformità di quanta ne aveva avuto l'Omero autor dell'Iliade. E, 'n conseguenza, si è dimostro che tal favola non è d'Omero, come promettemmo sopra di dimostrare. In questo cielo dapprima regnarono in terra gli dèi e praticarono con gli eroi, secondo l'ordine della teogonia naturale che sopra si è ragionata, incominciando da Giove. In questo cielo rendette in terra ragione Astrea, coronata di spighe e fornita altresì di bilancia, perché il primo giusto umano fu ministrato dagli eroi agli uomini con la prima legge agraria ch'abbiamo sopra veduto: perocché gli uomini sentirono prima il peso, poi la misura, assai tardi il numero, nel quale finalmente si fermò la ragione; tanto che Pittagora, non intendendo cosa più astratta da' corpi, pose l'essenza dell'anima umana ne' numeri. Per questo cielo van correndo a cavallo gli eroi, come Bellerofonte sul Pegaso, e ne restò a' latini «volitare equo», «andar correndo a cavallo». In questo cielo Giunone imbianca la via lattea del latte, non suo, perché fu sterile, ma delle madri di famiglia, che lattavano i parti legittimi per quelle nozze eroiche delle quali era nume Giunone. Su per questo cielo gli dèi sono portati sui carri d'oro poetico (di frumento), onde fu detta l'età dell'oro. In questo cielo s'usarono l'ali, non già per volare o significare speditezza d'ingegno - onde son alati Imeneo (ch'è lo stesso ch'Amor eroico), Astrea, le muse, il Pegaso, Saturno, la Fama, Mercurio (come nelle tempie così ne' talloni, e alato il di lui caduceo, con cui da questo cielo porta la prima legge agraria a' plebei, ch'ammutinati erano nelle valli, come si è sopra detto); alato il dragone (perché la Gorgone è pur nelle tempie alata, né significa ingegno né vola); - ma l'ali si usarono per significare diritti eroici, che tutti erano fondati nella ragion degli auspìci, come pienamente sopra si è dimostrato. In questo cielo ruba Prometeo il fuoco dal sole, che dovettero gli eroi fare con le pietre focaie ed attaccarlo agli spinai secchi per sopra i monti dagli accesi soli d'està, onde la fiaccola d'Imeneo ci viene fedelmente narrata essere stata fatta di spine. Da questo cielo è Vulcano precipitato con un calcio da Giove; da questo cielo precipita, col carro del Sole, Fetonte; da questo cielo cade il pomo della Discordia: le quali favole si sono tutte sopra spiegate. E da questo cielo finalmente dovettero cadere gli ancili, o scudi sagrati, a' romani. Delle deitadi infernali in primo luogo i poeti teologi fantasticarono quella dell'acqua; e la prima acqua fu quella delle fontane perenni, che chiamarono «Stige», per cui giuravano i dèi, come si è sopra detto: onde forse Platone poi oppinò che nel centro della terra fusse l'abisso dell'acque. Ma Omero, nella contesa degli dèi, fa temere Plutone che Nettunno co' tremuoti non iscuopra l'inferno agli uomini ed agli dèi, con aprir loro la terra; ma, posto l'abisso nelle più profonde viscere della terra, e che egli facesse i tremuoti, avverrebbe tutto il contrario: che l'inferno sarebbe sommerso e tutto ricoverto dall'acque. Lo che sopra avevamo promesso di dimostrare: che tal allegoria di Platone mal conveniva a tal favola. Per ciò che si è detto, il primo inferno non dovett'essere più profondo della sorgiva delle fontane; e la prima deitade funne creduta Diana, di cui pur ci racconta la storia poetica essere stata detta triforme, perché fu Diana in cielo, Cintia cacciatrice, col suo fratello Apollo, in terra, e Proserpina nell'inferno. Si stese l'idea dell'inferno con le seppolture; ond'i poeti chiamano «inferno» il sepolcro (la qual espressione è anco usata ne' libri santi). Talché l'inferno non fu più profondo d'un fosso, dove Ulisse, appo Omero, vede l'inferno e quivi l'anime degli eroi trappassati: perché in tal inferno furon immaginati gli Elisi, ove, con le seppolture, godono eterna pace l'anime de' difonti; e gli Elisi sono la stanza beata degli dèi mani o sia dell'anime buone de' morti. Appresso, l'inferno pur fu di bassa profondità quanto è l'altezza d'un solco, ove Cerere, ch'è la stessa che Proserpina (il seme del frumento), è rapita dal dio Plutone, e vi sta dentro sei mesi, e poi ritorna a veder la luce del cielo; onde appresso si spiegherà il ramo d'oro con cui Enea scende all'inferno, che Virgilio finse continuando la metafora eroica delle poma d'oro, che noi sopra abbiam truovato esser le spighe del grano. Finalmente l'inferno fu preso per le pianure e le valli (opposte all'altezza del cielo, posto ne' monti), ove restarono i dispersi nell'infame comunione. Onde di tal inferno è lo dio Erebo, detto figliuolo del Cao, cioè della confusione de' semi umani, ed è padre della notte civile (della notte de' nomi); siccome il cielo è allumato di civil luce, onde gli eroi sono incliti. Vi scorre il fiume Lete, il fiume, cioè, dell'obblio, perché tali uomini non lasciavano niun nome di sé nelle loro posterità; siccome la gloria in cielo eterna i nomi de' chiari eroi. Quindi Mercurio, come si è detto di sopra nel di lui carattere, con la sua verga, in cui porta la legge agraria, richiama l'anime dall'Orco, il quale tutto divora: ch'è la storia civile conservataci da Virgilio in quel motto: hac ille animas evocat Orco: chiama le vite degli uomini eslegi e bestiali dallo stato ferino, il quale si divora il tutto degli uomini, perché non lasciano essi nulla di sé nella loro posterità. Onde poi la verga fu adoperata da' maghi, sulla vana credenza che con quella si risuscitassero i morti; e 'l pretore romano con la bacchetta batteva sulla spalla gli schiavi e gli faceva divenir liberi, quasi con quella gli faceva ritornar da morte in vita. Se non pure i maghi stregoni usano la verga nelle loro stregonerie, ch'i maghi sappienti di Persia avevan usato per la divinazion degli auspìci: onde alla verga fu attribuita la divinità, e fu dalle nazioni tenuta per dio e che facesse miracoli, come Trogo Pompeo ce n'accerta appresso il suo breviatore Giustino. Quest'inferno è guardato da Cerbero, dalla sfacciatezza canina d'usar la venere senza vergogna d'altrui. È Cerbero trifauce, cioè d'una sformata gola, col superlativo del «tre» ch'abbiamo più volte sopra osservato, perché, come l'Orco, tutto divora; e, uscito sopra la terra, il sole ritorna indietro (e, salito sulle città eroiche, la luce civil degli eroi ritorna alla notte civile). Nel fondo di tal inferno scorre il fiume Tartaro, dove si tormentano i dannati: Issione a girar la ruota, Sisifo a voltar il sasso, Tantalo a morirsi e di fame e di sete, come si sono sopra queste favole tutte spiegate; e 'l fiume dove brucian di sete è lo stesso fiume «senza contento», ché tanto Acheronte e Flegetonte significano. In quest'inferno poi, per ignorazione di cose, furono gittati da' mitologi e Tizio e Prometeo: ma costoro furon in cielo incatenati alle rupi, a' quali divora le viscere l'aquila che vola ne' monti (la tormentosa superstizion degli auspìci, ch'abbiamo sopra spiegati). Le quali favole tutte poscia i filosofi ritruovaron acconcissime a meditarvi e spiegare le loro cose morali e metafisiche; e se ne destò Platone ad intendere le tre pene divine, che solamente danno gli dèi e non possono dare gli uomini: la pena dell'obblio, dell'infamia e i rimorsi co' quali ci tormenta la rea coscienza; e che, per la via purgativa delle passioni dell'animo, le quali tormentano gli uomini (ch'esso intende per l'inferno de' poeti teologi), si entra nella via unitiva, per dove va ad unirsi la mente umana con Dio per mezzo della contemplazione dell'eterne divine cose (la qual egli interpetra aver inteso i poeti teologi coi lor Elisi). Ma, con idee tutte diverse da queste morali e metafisiche (perocché i poeti teologi l'avevano detto con idee politiche, com'era loro necessario naturalmente di fare, siccome quelli che fondavano nazioni), scesero nell'inferno tutti i gentili fondatori de' popoli. Scesevi Orfeo, che fondò la nazion greca; e, vietato, nel salirne, di voltarsi indietro, voltandosi, perde la sua moglie Euridice (ritorna all'infame comunion delle donne). Scesevi Ercole (ch'ogni nazione ne racconta uno da cui fusse stata fondata), e scesevi per liberar Teseo, che fondò Atene, il quale vi era sceso per rimenarne Proserpina, ch'abbiamo detto essere la stessa che Cerere (per riportarne il seminato frumento in biade). Ma, più spiegatamente di tutti, appresso, Virgilio (il quale nei primi sei libri dell'Eneide canta l'eroe politico, negli altri restanti sei canta l'eroe delle guerre), con quella sua profonda scienza dell'eroiche antichità, narra ch'Enea, con gli avvisi e con la condotta della Sibilla cumana, delle quali dicemmo ch'ogni nazione gentile n'ebbe una, e ce ne sono giunte nominate pur dodici (talché vuol dire con la divinazione, che fu la sapienza volgare della gentilità), con sanguinosa religione pio (di quella pietà che professarono gli antichissimi eroi nella fierezza ed immanità della loro fresca origine bestiale che sopra sì è dimostrata), sagrifica il socio Miseno (come pure abbiam sopra detto, per lo diritto crudele che gli eroi ebbero sopra i lor primi soci ch'abbiamo ancor ragionato), si porta nell'antica selva (qual era la terra dappertutto incolta e boscosa), gitta il boccone sonnifero a Cerbero e l'addormenta (ch'Orfeo aveva addormentato col suono della sua lira, che sopra a tante pruove abbiamo truovato esser la legge; ed Ercole incatenò col nodo con cui avvinse Anteo nella Grecia, cioè con la prima legge agraria, in conformità di ciò che se n'è sopra detto); per la cui insaziabil fame Cerbero fu finto trifauce - d'una vastissima gola - col superlativo del tre, come si è sopra spiegato. Così Enea scende nell'inferno (che truovammo dapprima non più profondo dell'altezza de' solchi), e a Dite (dio delle ricchezze eroiche, dell'oro poetico, del frumento; il quale Dite lo stesso fu che Plutone, che rapì Proserpina, che fu la stessa che Cerere, la dea delle biade) presenta il ramo d'oro (ove il gran poeta la metafora delle poma d'oro, che sopra truovammo essere le spighe del grano, porta più innanzi al ramo d'oro, alle messe). Ad un tal ramo svelto succede l'altro (perché non proviene la seconda raccolta senonsé l'anno dopo essersi fatta la prima); ch'ove gli dèi si compiacciono, volentieri e facile siegue la mano di chi l'afferra, altrimente non si può svellere con niuna forza del mondo (perché le biade, ove Dio voglia, naturalmente provengono; ove non voglia, con niuna umana industria si posson raccogliere). Quindi, per mezzo dell'inferno, si porta ne' Campi Elisi (perché gli eroi, con lo star fermi ne' campi colti, morti poi godevano, con le seppolture, la pace eterna, com'abbiamo sopra spiegato), e quivi egli vede i suoi antenati e vegnenti (perché con la religione delle seppolture, ch'i poeti dissero «inferno», come sopra si è pur veduto, si fondarono le prime geanologie, dalle quali pur sopra si è detto aver incominciato la storia). La terra da' poeti teologi fu sentita con la guardia de' confini, ond'ella ebbe sì fatto nome di «terra». La qual origin eroica serbaron i latini nella voce «territorium», che significa «distretto», da ivi dentro esercitare l'imperio; che, con errore, i latini gramatici credono esser detto a «terrendo» de' littori, che col terrore de' fasci facevano sgombrare la folla, per far largo a' maestrati romani. Ma, in que' tempi che nacque la voce «territorium», non vi era troppa folla in Roma, che, in dugencinquant'anni di regno, ella manomise più di venti popoli e non distese più di venti miglia l'imperio, come sopra l'udimmo dir da Varrone. Però l'origine di tal voce è perché tali confini di campi colti, dentro i quali poi sursero gl'imperi civili, erano guardati da Vesta con sanguinose religioni, come si è sopra veduto, ove truovammo tal Vesta de' latini esser la stessa che Cibele o Berecintia de' greci, che va coronata di torri, o sia di terre forti di sito. Dalla qual corona cominciò a formarsi quello che si dice «orbis terrarum», cioè «mondo delle nazioni», che poi da' cosmografi fu ampliato e detto «orbis mundanus» e, in una parola, «mundus», ch'è 'l mondo della natura. Cotal mondo poetico fu diviso in tre regni, ovvero in tre regioni: una di Giove in cielo; l'altra di Saturno in terra; la terza di Plutone nell'inferno, detto Dite, dio delle ricchezze eroiche, del primo oro, del frumento, perché i campi colti fanno le vere ricchezze de' popoli. Così formossi il mondo de' poeti teologi di quattro elementi civili, che poi furono da' fisici appresi per naturali, come poco più sopra si è detto: cioè di Giove ovvero l'aria, di Vulcano o sia il fuoco, di Cibele ovvero la terra e di Diana infernale o sia l'acqua. Perché Nettunno tardi da' poeti fu conosciuto, perché, come si è sopra detto, le nazioni tardi scesero alle marine; e fu detto Oceano ogni mare di prospetto interminato che cingesse una terra, che si dice «isola», come Omero dice l'isola Eolia circondata dall'Oceano: dal quale Oceano dovettero venire ingravidate da Zefiro, vento occidentale di Grecia, come quindi a poco dimostreremo, le giumente di Reso, e, ne' lidi del medesimo Oceano, pur da Zefiro nati i cavalli d'Achille. Doppo, i geografi osservarono tutta la terra, com'una grand'isola, esser cinta dal mare, e chiamarono tutto il mare che cinge la terra «oceano». Quivi finalmente, con l'idea con la quale ogni brieve proclive era detto «mundus» (onde sono quelle frasi: «in mundo est», «in proclivi est», per dir «egli è facile», ed appresso tutto ciò che monda, pulisce e raffazzona una donna si disse «mundus muliebris»), poi che s'intese la terra e 'l cielo essere di figura orbicolare, ch'in ogni parte della circonferenza verso ogni parte è proclive, e che l'oceano d'ogn'intorno la bagna, e che 'l tutto è adorno d'innumerabili, varie, diverse forme sensibili, quest'universo fu detto «mundus», del quale, con bellissimo sublime trasporto, la natura s'adorna. IX DELL'ASTRONOMIA POETICA. 1. Questo sistema mondano egli durava a' tempi d'Omero alquanto spiegato più, il quale nell'Iliade narra sempre gli dèi allogati sul monte Olimpo, e udimmo che fa dire dalla madre Teti ad Achille che gli dèi eran iti da Olimpo a banchettare in Atlante. Sicché gli più alti monti della terra dovetter a' tempi d'Omero esser creduti le colonne che sostenessero il cielo, siccome Abila e Calpe nello stretto di Gibilterra ne restaron dette «colonne d'Ercole», il quale succedette ad Atlante, stanco di più sostenere sopra i suoi ómeri il cielo. 2. DIMOSTRAZIONE ASTRONOMICA FISICO-FILOLOGICA DELL'UNIFORMITÀ DE' PRINCÌPI IN TUTTE L'ANTICHE NAZIONI GENTILI. Ma, l'indiffinita forza delle menti umane spiegandosi vieppiù, e la contemplazione del cielo affin di prender gli augùri obbligando i popoli a sempre osservarlo, nelle menti delle nazioni alzossi più in suso il cielo, e col cielo alzaronsi più in suso e gli dèi e gli eroi. Qui ci giovino, per lo ritruovamento dell'astronomia poetica, far uso di queste tre erudizioni filologiche: la prima, che l'astronomia nacque al mondo dalla gente caldea; la seconda, ch'i fenici portarono da' caldei agli egizi la pratica del quadrante e la scienza dell'elevazione del polo; la terza, che i fenici, che 'l dovettero aver appreso innanzi dagli stessi caldei, portarono a' greci i dèi affissi alle stelle. Con queste tre filologiche erudizioni si compongano queste due filosofiche verità: una, civile, che le nazioni, se non sono prosciolte in una ultima libertà di religione (lo che non avviene se non nella lor ultima decadenza), sono naturalmente rattenute di ricevere deitadi straniere; l'altra, fisica, che, per un inganno degli occhi, le stelle erranti più grandi ci sembrano delle fisse. Posti i quali princìpi, diciamo che appo tutte le nazioni gentili e d'Oriente e di Egitto e di Grecia (e vedremo anco del Lazio) nacque da origini volgari uniformi l'astronomia, per tal allogamento uniforme, con essere gli dèi saliti ai pianeti e gli eroi affissi alle costellazioni, perché l'erranti paiono grandi molto più delle fisse. Onde i fenici truovarono tra greci già gli dèi apparecchiati a girar ne' pianeti e gli eroi a comporre le costellazioni, con la stessa facilità con la quale i greci gli ritruovarono poi tra' latini; ed è da dirsi su questi esempli ch'i fenici, quale tra' greci, tale ancora truovarono sì fatta facilità tra gli egizi. In cotal guisa, gli eroi, e i geroglifici significanti o le loro ragioni o le lor imprese, e buon numero degli dèi maggiori furono innalzati al cielo e apparecchiati per l'astronomia addottrinata di dar alle stelle, che innanzi non avevano nomi, com'a loro materia, la forma così degli astri, o sia delle costellazioni, come degli erranti pianeti. Così, cominciando dall'astronomia volgare, fu da' primi popoli scritta in cielo la storia de' loro dèi, de' lor eroi. E ne restò quest'eterna propietà: che materia degna d'istoria sieno memorie d'uomini piene di divinità o d'eroismo, quelle per opere d'ingegno e di sapienza riposta, queste per opere di virtù e di sapienza volgare; siccome la storia poetica diede agli astronomi addottrinati i motivi di dipignere nel cielo gli eroi e i geroglifici eroici più con questi che con quelli gruppi di stelle, e più in queste che 'n quelle parti del cielo, e più a questa che a quella stella errante di attaccarvi gli dèi maggiori, coi nomi de' quali poi ci sono venuti detti i pianeti. E, per parlar alcuna cosa più de' pianeti che delle costellazioni, certamente Diana, dea della pudicizia, serbata ne' concubiti nozziali, che tutta tacita di notte si giace con gli Endimioni dormenti, fu attaccata alla luna, che dà lume alla notte. Venere, dea della bellezza civile, attaccata alla stella errante più ridente, gaia e bella di tutte. Mercurio, divino araldo, vestito di civil luce, con tante ali (geroglifici di nobiltà), delle quali va ornato (mentre porta la legge agraria a' sollevati clienti), è allogato in un'errante, che tutta di raggi solari è coverta, talché di rado è veduta. Apollo, dio d'essa luce civile (onde «incliti» si dicon gli eroi), attaccato al sole, fonte della luce naturale. Marte, sanguinoso, ad una stella di somigliante colore. Giove, re e padre degli uomini e degli dèi, superior a tutti e inferior a Saturno, che, perch'è padre e di Giove e del Tempo, corre lo più lungo anno di tutti gli altri pianeti: talché mal gli convengono l'ali, se, con allegoria sforzata, vogliano significare la velocità d'esso tempo, poiché corre più tardo di tutti i pianeti il suo anno; ma le si portò in cielo con la sua falce, in significazione, non di mietere vite d'uomini, ma mieter biade, con le quali gli eroi numeravano gli anni, e che i campi colti erano in ragion degli eroi. Finalmente i pianeti coi carri d'oro (cioè di frumento), co' quali andavano in cielo quand'era in terra, ora girano l'orbite lor assegnate. Per lo che tutto qui ragionato hassi a dire che 'l predominio degl'influssi, che sono credute avere sopra i corpi sublunari e le fisse e l'erranti, è stato lor attribuito da ciò in che e gli dèi e gli eroi prevalsero quand'eran in terra. Tanto essi dipendono da naturali cagioni! X DELLA CRONOLOGIA POETICA. 1. In conformità di cotal astronomia diedero i poeti teologi gl'incominciamenti alla cronologia. Perché quel Saturno, che da' latini fu detto a «satis», da' seminati, e fu da' greci detto Chrónos (appo i quali chrónos significa il tempo), ci dà ad intendere che le prime nazioni (le quali furono tutte di contadini) incominciarono a noverare gli anni con le raccolte ch'essi facevano del frumento (ch'è l'unica o almeno la maggior cosa per la quale i contadini travagliano tutto l'anno), e, prima mutole, dovettero, o con tante spighe o pure tanti fili di paglia, far tanti atti di mietere quanti anni volevan essi significare. Onde sono appo Virgilio (dottissimo quant'altri mai dell'eroiche antichità) prima quell'espressione infelice e, con somma arte d'imitazione, infelicemente contorta, per ispiegare l'infelicità de' primi tempi a spiegarsi: Post aliquot mea regna videns mirabor aristas, per dire «post aliquot annos»; poi quella, con alquanto di maggior spiegatezza: Tertia messis erat. Siccome fin oggi i contadini toscani, in una nazione la più riputata in pregio di favellare che sia in tutta Italia, invece di dire «tre anni», per esemplo, dicono «abbiamo tre volte mietuto». E i romani conservarono questa storia eroica, che si ragiona qui, dell'anno poetico che significavasi con le messi, i quali la cura dell'abbondanza principalmente del grano dissero «annona». Quindi Ercole fucci narrato fondatore dell'olimpiadi, celebre epoca de' tempi appo i greci (da' quali abbiamo tutto ciò ch'abbiamo dell'antichità gentilesche), perch'egli diede il fuoco alle selve per ridurle a terreni da semina, onde furon raccolte le messi, con le quali dapprima si numeravano gli anni. E tali giuochi dovetter incominciar da' nemei, per festeggiare la vittoria che riportò del lione nemeo vomitante fuoco, che noi sopra abbiamo interpetrato il gran bosco della terra, al qual, appreso con l'idea d'un animale fortissimo (tanta fatiga vi bisognò per domarla!), diedero nome di «lione»: il quale poi passò al più forte degli animali, siccome sopra si è ragionato ne' Princìpi dell'armi gentilizie; ed al Lione fu dagli astronomi assegnata nel zodiaco una casa, attaccata a quella d'Astrea, coronata di spighe. Questa è la cagione onde nei circi si vedevano spessi simulacri di lioni, simulacri del sole; si vedevano le mete con in cima le uova, che dovetter esser dapprima mete di grano, e i luci, ovvero gli occhi sboscati, che sopra si ragionarono de' giganti: dove poi gli astronomi ficcarono la significazione della figura ellittica, che descrive in un anno il sole, col cammino che fa per l'eclittica; la quale significazione sarebbe stata più acconcia a Maneto di dar all'uovo che porta in bocca lo Cnefo, che quella che significasse la generazione dell'universo. Però con la teogonia naturale sopra qui ragionata si determina da noi la scorsa de' tempi, ne' quali, all'occasioni di certe prime necessità o utilità del gener umano, che dappertutto incominciò dalle religioni (la quale scorsa è l'età degli dèi), ella deve almeno aver durato novecento anni da che tralle nazioni gentili incominciarono i Giovi, o sia dal tempo che 'ncominciò a fulminar il cielo dopo l'universale diluvio. E i dodici dèi maggiori, incominciando da Giove, dentro questa scorsa a' loro tempi fantasticati, si pongano per dodici minute epoche, da ridurvi a certezza de' tempi la storia poetica. Come, per cagion d'esemplo, Deucalione, che dalla storia favolosa si narra immediatamente dopo il diluvio e i giganti, che fonda con la sua moglie Pirra le famiglie per mezzo del matrimonio, sia egli nato nelle fantasie greche nell'epoca di Giunone, dea delle nozze solenni. Elleno, che fonda la greca lingua e, per tre suoi figliuoli, la ripartisce in tre dialetti, nacque nell'epoca d'Apollo, dio del canto, dal cui tempo dovette incominciare la favella poetica in versi. Ercole, che fa la maggior fatiga d'uccider l'idra o 'l lione nemeo (o sia di ridurre la terra a campi da semina), e ne riporta da Esperia le poma d'oro (le messi, ch'è impresa degna di storia; non gli aranci di Portogallo, fatto degno di parasito), si distinse nell'epoca di Saturno, dio de' seminati. Così Perseo dee essersi fatto chiaro nell'epoca di Minerva, o sia degli già nati imperi civili, poich'ha caricato lo scudo del teschio di Medusa, ch'è lo scudo d'essa Minerva. E deve, per finirla, Orfeo esser nato dopo l'epoca di Mercurio, che, col cantar alle fiere greche la forza degli dèi negli auspìci, de' quali avevano la scienza gli eroi, ristabilisce le nazioni greche eroiche ed al «tempo eroico» ne diede il vocabolo, perché in tal tempo avvennero siffatt'eroiche contese. Onde con Orfeo fioriscono Lino, Anfione, Museo ed altri poeti eroi; de' quali Anfione, de' sassi (come restonne a' latini «lapis» per dir «balordo»: degli scempi plebei), innalza le mura di Tebe dopo trecento anni ch'avevala Cadmo fondata; appunto come da un trecento anni dopo la fondazione di Roma egli avvenne che Appio, nipote del decemviro, come altra volta sopra abbiam detto, la plebe romana, che «agitabat connubia more ferarum» (che sono le fiere d'Orfeo), cantandole la forza degli dèi negli auspìci (de' quali avevano la scienza i nobili), riduce in ufizio, e ferma lo Stato romano eroico. Oltracciò, qui si deon avvertire quattro spezie d'anacronismi, contenute sotto il genere, ch'ogniun sa, di tempi prevertiti e posposti. La prima è di tempi vuoti di fatti de' quali debbon esser ripieni; come l'età degli dèi, nella quale abbiamo truovato quasi tutte l'origini delle cose umane civili, e al dottissimo Varrone corre per «tempo oscuro». La seconda è di tempi pieni di fatti de' quali debbon esser vuoti; come l'età degli eroi, che corre per dugento anni, e, sulla falsa oppenione che le favole fussero state ritruovati di getto de' poeti eroici, e sopra tutti di Omero, s'empie di tutti i fatti dell'età degli dèi, i quali da questa in quella si devono rovesciare. La terza è di tempi uniti che si devon dividere, acciocché nella vita d'un solo Orfeo la Grecia da fiere bestie non sia portata al lustro della guerra troiana; ch'era quel gran mostro di cronologia che facemmo vedere nell'Annotazioni alla Tavola cronologica. La quarta ed ultima è di tempi divisi che debbon esser uniti; come le colonie greche menate in Sicilia ed in Italia più di trecento anni dopo gli error degli eroi, le quali vi furono menate con gli errori e per gli errori de' medesimi eroi. 2. CANONE CRONOLOGICO PER DAR I PRINCÌPI ALLA STORIA UNIVERSALE, CHE DEONO PRECORRERE ALLA MONARCHIA DI NINO, DALLA QUAL ESSA STORIA UNIVERSALE INCOMINCIA. In forza adunque alla detta teogonia naturale, che n'ha dato la detta cronologia poetica ragionata, e con la scoverta delle anzidette spezie d'anacronismi notati sopra essa storia poetica, ora, per dar i princìpi alla storia universale, che deon precorrere alla monarchia di Nino, dalla qual essa storia universale incomincia, stabiliamo questo canone cronologico: che dalla dispersione del gener umano perduto per la gran selva della terra, che 'ncominciò a farsi dalla Mesopotamia (come tralle Degnità n'abbiamo fatta una discreta domanda), per la razza empia di Sem nell'Asia orientale soli cento anni, e dugento per l'altre due di Cam e Giafet nelle restanti parti del mondo, vi corsero di divagamento ferino. Da che, con la religione di Giove (che tanti, sparsi per le prime nazioni gentili, ci appruovarono, sopra, l'universale diluvio), incominciarono i principi delle nazioni a fermarsi in ciascheduna terra, dove per fortuna dispersi si ritruovavano, vi corsero i novecento anni dell'età degli dèi, nel cui fine - perché quelli si erano per la terra dispersi per cercar pasco ed acqua, che non si truovano ne' lidi del mare, le nazioni si eran fondate tutte mediterranee - dovettero scender alle marine; onde se ne destò in mente de' greci l'idea di Nettunno, che truovammo l'ultima delle dodici maggiori divinità; e così, tra' latini, dall'età di Saturno, o sia secolo dell'oro del Lazio, vi corsero da novecento anni che Anco Marzio calasse al mare a prendervi Ostia. Finalmente vi corsero i dugento anni ch'i greci noverano del secolo eroico, ch'incomincia da' corseggi del re Minosse, séguita con la spedizione navale che fece Giasone in Ponto, s'innoltra con la guerra troiana e termina con gli error degli eroi fin al ritorno d'Ulisse in Itaca. Tanto che Tiro, capitale della Fenicia, si dovette portare da mezzo terra a lido, e quindi in un'isola vicina del mar fenicio, da più di mille anni dopo il diluvio; ed essendo già ella celebre, per la navigazione e per le colonie sparse nel Mediterraneo e fin fuori nell'Oceano, innanzi al tempo eroico de' greci, vien ad evidenza pruovato che nell'Oriente fu il principio di tutto il gener umano, e che prima l'error ferino per gli luoghi mediterranei della terra, dipoi il diritto eroico e per terra e per mare, finalmente i traffichi marittimi de' fenici sparsero le prime nazioni per le restanti parti del mondo. I quali princìpi della commigrazione de' popoli (conforme ne proponemmo una Degnità) sembrano più ragionati di quelli i quali Wolfango Lazio n'ha immaginati. Or, per lo corso uniforme che fanno tutte le nazioni, il quale si è sopra pruovato coll'uniformità degli dèi innalzati alle stelle, ch'i fenici portarono dall'Oriente in Grecia e in Egitto, hassi a dire che altrettanto tempo corse a' caldei d'aver essi regnato nell'Oriente, talché da Zoroaste si fusse venuto a Nino, che vi fondò la prima monarchia del mondo, che fu quella d'Assiria; altrettanto che da Mercurio Trimegisto si venisse a Sesostride, o sia il Ramse di Tacito, che vi fondò una monarchia pur grandissima. E, perch'erano entrambe nazioni mediterranee, vi dovettero da' governi divini, per gli eroici, e quindi per la libertà popolare, provenire le monarchie, ch'è l'ultimo degli umani governi, acciocché gli egizi costino nella loro divisione degli tre tempi del mondo scorsi loro dinanzi. Perché, come appresso dimostreremo, la monarchia non può nascere che sulla libertà sfrenata de' popoli, alla quale gli ottimati vanno nelle guerre civili ad assoggettire la loro potenza; la qual poi, divisa in menome parti tra' popoli, facilmente richiamano tutta a sé coloro che, col parteggiare la popolar libertà, vi surgono finalmente monarchi. Ma la Fenicia, perché nazione marittima, per le ricchezze de' traffichi si dovette fermare nella libertà popolare, ch'è 'l primo degli umani governi. Così con l'intendimento, senz'uopo della memoria, la quale non ha che fare ov'i sensi non le somministrano i fatti, sembra essersi supplita la storia universale ne' suoi princìpi e dell'antichissimo Egitto e dell'Oriente, ch'è dell'Egitto più antico, e, in esso Oriente, i princìpi della monarchia degli assiri; la quale finora, senza il precorso di tante e sì varie cagioni, che le dovevano precedere per provenirvi la forma monarchica, ch'è l'ultima delle tre forme de' governi civili, esce sulla storia tutta nata ad un tratto, come nasce, piovendo l'està, una ranocchia. In questa guisa la cronologia ella ci vien accertata de' suoi tempi col progresso de' costumi e de' fatti, co' quali ha dovuto camminare il gener umano. Perché, per una Degnità sopra posta, ella qui ha incominciato la sua dottrina dond'ebbe incominciamento la sua materia: da Chrónos, Saturno (onde da' greci fu detto chrónos il tempo), numeratore degli anni con le raccolte, e da Urania, contemplatrice del cielo affin di prender gli augùri, e da Zoroaste, contemplatore degli astri per dar gli oracoli dal tragitto delle stelle cadenti (che furon i primi mathémata, i primi theorémata, le prime cose sublimi o divine che contemplarono ed osservaron le nazioni, come si è sopra detto); e poi, col salire Saturno nella settima sfera, indi Urania divenne contemplatrice de' pianeti e degli astri, e i caldei, con l'agio delle lor immense pianure, divennero astronomi ed astrolaghi, col misurarne i lor moti e contemplarne i di lor aspetti, ed immaginarne gl'influssi sopra i corpi che dicono «sublunari» ed anco, vanamente, sopra le libere volontà degli uomini. Alla qual scienza restaron i primi nomi, che l'erano stati dati con tutta propietà: uno di «astronomia» o sia scienza delle leggi degli astri, l'altro di «astrologia» o sia scienza del parlare degli astri, l'uno e l'altro in significato di «divinazione», come da que' «teoremi» funne detta «teologia» la scienza del parlar degli dèi ne' lor oracoli, auspìci e augùri. Onde, finalmente, la mattematica scese a misurare la terra, le cui misure non si potevan accertare che da quelle dimostrate del cielo, e la prima e principale sua parte si portò il propio nome, col qual è detta «geometria». Perché, adunque, non ne incominciarono la dottrina donde aveva incominciato la materia ch'essi trattavano - perché incominciano dall'anno astronomico, il quale, come sopra si è detto, non nacque tralle nazioni che dopo almeno un mille anni, e che non poteva accertargli d'altro che delle congiunzioni ed opposizioni che le costellazioni e i pianeti si avessero fatti nel cielo, ma nulla delle cose che con proseguito corso fussero succedute qui in terra (nello che andò a perdersi il generoso sforzo di Piero cardinal d'Alliac), - perciò tanto poco han fruttato a pro de' princìpi e della perpetuità della storia universale (de' quali dopo essi tuttavia pur mancava) i due maravigliosi ingegni, con la loro stupenda erudizione, Giuseppe Giusto Scaligero nella sua Emendazione e Dionigi Petavio nella sua Dottrina de' tempi. XI DELLA GEOGRAFIA POETICA. 1. Or ci rimane finalmente di purgare l'altr'occhio della storia poetica, ch'è la poetica geografia, la quale, per quella propietà di natura umana, che noi noverammo tralle Degnità, che «gli uomini le cose sconosciute e lontane, ov'essi non ne abbian avuto la vera idea o la debbano spiegar a chi non l'ha, le descrivono per somiglianze di cose conosciute e vicine», ella, nelle sue parti ed in tutto il suo corpo, nacque con picciol'idee dentro la medesima Grecia, e, coll'uscirne i greci poi per lo mondo, s'andò ampliando nell'ampia forma nella qual ora ci è rimasta descritta. E i geografi antichi convengono in questa verità, ma poi non ne sepper far uso; i quali affermano che le antiche nazioni, portandosi in terre straniere e lontane, diedero i nomi natii alle città, a' monti, a' fiumi, colli di terra, stretti di mare, isole e promontori. Nacquero, adunque, entro Grecia la parte orientale, detta Asia o India; l'occidentale, detta Europa o Esperia; il settentrione, detto Tracia o Scizia; il mezzodì, detto Libia o Mauritania; e furono così appellate le parti del mondo co' nomi delle parti del picciol mondo di Grecia per la simiglianza de' siti, ch'osservaron i greci in quelle, a riguardo del mondo, simili a queste, a riguardo di Grecia. Pruova evidente di ciò sieno i vènti cardinali, i quali, nella loro geografia, ritengono i nomi che dovettero certamente avere la prima volta dentro essa Grecia: talché le giumente di Reso debbono ne' lidi dell'Oceano (qual or or vedremo detto dapprima ogni mare d'interminato prospetto) essere state ingravidate da Zefiro, vento occidentale di Grecia; e pur ne' lidi dell'Oceano (nella prima significazione, la quale testé si è detta) devon essere da Zefiro generati i cavalli d'Achille; come le giumente d'Erictonio dic'Enea ad Achille essere state ingravidate da Borea, dal vento settentrionale della Grecia medesima. Questa verità de' vènti cardinali ci è confermata in un'immensa distesa: che le menti greche, in un'immensa distesa spiegandosi, dal loro monte Olimpo, dove a' tempi d'Omero se ne stavano i dèi, diedero il nome al cielo stellato, che gli restò. Posti questi princìpi, alla gran penisola situata nell'oriente di Grecia restò il nome d'Asia minore, poi che ne passò il nome d'«Asia» in quella gran parte orientale del mondo ch'Asia ci restò detta assolutamente. Per lo contrario, essa Grecia, ch'era occidente a riguardo dell'Asia, fu detta «Europa», che Giove, cangiato in toro, rapì: poi il nome d'«Europa» si stese in quest'altro gran continente fin all'oceano occidentale. Dissero «Esperia» la parte occidentale di Grecia, dove dentro la quarta parte dell'orizonte sorge la sera la stella Espero; poi videro l'Italia nel medesimo sito, ma molto maggiore di quella di Grecia, e la chiamaron «Esperia magna»; si stesero finalmente nella Spagna nel medesimo sito, e la chiamaron «Esperia ultima». I greci d'Italia, al contrario, dovettero chiamar «Ionia» la parte a lor riguardo orientale di Grecia oltramare, e restonne il nome, tra l'una e l'altra Grecia, di «mar Ionio»: poi, per la somiglianza del sito delle due Grecie, natia ed asiatica, i greci natii chiamaron «Ionio» la parte a lor riguardo orientale dell'Asia minore. E dalla prima Ionia è ragionevole che fusse in Italia venuto Pittagora da Samo, una dell'isole signoreggiate da Ulisse, non da Samo dell'Ionia seconda. Dalla Tracia natia venne Marte, che fu certamente deità greca; e quindi dovette venir Orfeo, un de' primi poeti greci teologi. Dalla Scizia greca venne Anacarsi, che lasciò in Grecia gli oracoli scitici, che dovetter esser simili agli oracoli di Zoroaste (che bisognò fusse stata dapprima una storia d'oracoli), onde Anacarsi è stato ricevuto tra gli antichissimi dèi fatidici: i quali oracoli dall'impostura poi furono trasportati in dogmi di filosofia; siccome gli Orfici ci furon supposti versi fatti da Orfeo, i quali, come gli oracoli di Zoroaste, nulla sanno di poetico e danno troppo odore di scuola platonica e pittagorica. Perciò da questa Scizia, per gl'iperborei natii, dovettero venir in Grecia i due famosi oracoli delfico e dodoneo, come ne dubitammo nell'Annotazioni alla Tavola cronologica; per che Anacarsi nella Scizia, cioè tra questi iperborei natii di Grecia, volendo ordinare l'umanità con le greche leggi, funne ucciso da Cadvido, suo fratello: tanto egli profittò nella filosofia barbaresca dell'Ornio, che non seppe ritruovargliele dappersé! Per le quali ragioni, quindi, dovett'essere pur scita Abati, che si dice avere scritto gli oracoli scitici, che non poteron esser altri che gli detti testé d'Anacarsi; e gli scrisse nella Scizia, nella quale Idantura, molto tempo venuto dopo, scriveva con esse cose: onde necessariamente è da credersi essere stati scritti da un qualche impostore de' tempi dopo essere state introdutte le greche filosofie. E quindi gli oracoli d'Anacarsi dalla boria de' dotti furono ricevuti per oracoli di sapienza riposta, i quali non ci son pervenuti. Zamolsci fu geta (come geta fu Marte), il qual, al riferire d'Erodoto, portò a' greci il dogma dell'immortalità dell'anima. Così da alcun'India greca dovette Bacco venire dall'indico Oriente trionfatore (da alcuna greca terra ricca d'oro poetico), e Bacco ne trionfa sopra un carro d'oro (di frumento); onde lo stesso è domatore di serpenti e di tigri, qual Ercole d'idre e lioni, come si è sopra spiegato. Certamente il nome, che 'l Peloponneso serba fin a' nostri dì, di «Morea» troppo ci appruova che Perseo, eroe certamente greco, fece le sue imprese nella Mauritania natia; perché 'l Peloponneso tal è per rapporto all'Acaia qual è l'Affrica per rapporto all'Europa. Quindi s'intenda quanto nulla Erodoto seppe delle sue propie antichità (come gliene riprende Tucidide), il quale narra ch'i mori un tempo furono bianchi, quali certamente erano i mori della sua Grecia, la quale fin oggi si dice «Morea bianca». Così dev'esser avvenuto che dalla pestilenza di questa Mauritania avesse Eusculapio con la sua arte preservato la sua isola di Coo; che se la doveva preservare da quella de' popoli di Marocco, egli l'arebbe dovuto preservare da tutte le pestilenze del mondo. In cotal Mauritania dovett'Ercole soccombere al peso del cielo, che 'l vecchio Atlante era già stanco di sostenere: che dovette dapprima dirsi così il monte Ato, che, per un collo di terra, che Serse dappoi forò, divide la Macedonia dalla Tracia, e vi restò pur quivi, tralla Grecia e la Tracia, un fiume appellato Atlante; poscia, nello stretto di Gibilterra, osservati i monti Abila e Calpe così per uno stretto di mare dividere l'Affrica dall'Europa, furono dette da Ercole ivi piantate colonne, che, come abbiamo sopra detto, sostenevano il cielo, e 'l monte nell'Affrica quivi vicino fu detto «Atlante». E 'n cotal guisa può farsi verisimile la risposta ch'appo Omero fa la madre Teti ad Achille: che non poteva portare la di lui querela a Giove, perch'era da Olimpo ito con gli altri dèi a banchettare in Atlante (sull'oppenione, che sopra abbiam osservato, che gli dèi se ne stassero sulle cime degli altissimi monti); ché, se fusse stato il monte Atlante nell'Affrica, era troppo difficile a credersi, quando il medesimo Omero dice che Mercurio, quantunque alato, difficilissimamente pervenne nell'isola di Calipso, posta nel mar Fenicio, ch'era molto più vicino alla Grecia che non lo regno ch'or dicesi di Marocco. Così dall'Esperia greca dovett'Ercole portare le poma d'oro nell'Attica, ove furono pure le ninfe esperidi (ch'eran figliuole d'Atlante), che le serbavano. Così l'Eridano, dove cadde Fetonte, dev'essere stato, nella Tracia greca, il Danubio che va a mettere nel mar Eusino: poi, osservato da' greci il Po, che, come il Danubio, è l'altro fiume al mondo che corre da occidente verso oriente, fu da essi il Po detto «Eridano», e i mitologi fecero cader Fetonte in Italia. Ma le cose della storia eroica solamente greca, e non dell'altre nazioni, furono affisse alle stelle, tralle quali è l'Eridano. Finalmente, usciti i greci nell'Oceano, vi distesero la brieve idea d'ogni mare che fosse d'interminato prospetto (onde Omero diceva l'isola Eolia esser cinta dall'Oceano) e, con l'idea, il nome, ch'or significa il mare che cinge tutta la terra, che si crede esser una grand'isola. E si ampliò all'eccesso la potestà di Nettunno, che dall'abisso dell'acque, che Platone pose nelle di lei viscere, egli col gran tridente faccia tremare la terra: i rozzi princìpi della qual fisica sono stati sopra da noi spiegati. Tali princìpi di geografia assolutamente possono giustificar Omero di gravissimi errori, che gli sono a torto imputati. I. Ch'i lotofagi d'Omero, che mangiavano cortecce d'una pianta ch'è detto «loto», fussero stati più vicini, ove dice che Ulisse da Malea a' lotofagi pose un viaggio di nove giorni: che se sono i lotofagi, quali restaron detti, fuori dello stretto di Gibilterra, doveva in nove giorni far un viaggio impossibile, nonché difficile a credersi: il qual errore gli è notato da Eratostene. II. Ch'i lestrigoni, a' tempi d'Omero, fussero stati popoli di essa Grecia, ch'ivi avessero i giorni più lunghi, non quelli che l'avessero più lunghi sopra tutti i popoli della terra; il qual luogo indusse Arato a porgli sotto il capo del Dragone. Certamente Tucidide, scrittore grave ed esatto, narra i lestrigoni in Sicilia, che dovetter esser i popoli più settentrionali di quell'isola. III. Per quest'istesso, i cimmeri ebbero le notti più lunghe sopra tutti i popoli della Grecia, perch'erano posti nel di lei più alto settentrione, e perciò, per le loro lunghe notti, furono detti abitare presso l'inferno (de' quali poi si portò lontanissimo il nome a' popoli abitatori della palude Meotide): e quindi i cumani, perch'eran posti presso la grotta della Sibilla, che portava all'inferno, per la creduta somiglianza di sito dovettero dirsi «cimmeri». Perché non è credibile che Ulisse, mandato da Circe senz'alcun incantesimo (perché Mercurio gli aveva dato un segreto contro le stregonerie di Circe, com'abbiamo sopra osservato), in un giorno fusse andato da' cimmeri i quali restarono così detti a vedere l'inferno, e nello stesso giorno fusse ritornato da quella in Circei, ora detto Monte Circello, che non è molto distante da Cuma. Con questi stessi princìpi della geografia poetica greca si possono solvere molte grandi difficultà della storia antica dell'Oriente, ove son presi per lontanissimi popoli, particolarmente verso settentrione e mezzodì, quelli che dovettero dapprima esser posti dentro l'Oriente medesimo. Perché questo, che noi diciamo della geografia poetica greca, si truova lo stesso nell'antica geografia de' latini. Il Lazio dovette dapprima essere ristrettissimo, ché, per dugencinquanta anni di regno, Roma manomise ben venti popoli e non distese più che venti miglia, come sopra abbiam detto, l'imperio. L'Italia fu certamente circoscritta da' confini della Gallia cisalpina e da quelli di Magna Grecia: poi, con le romane conquiste, ne distese il nome nell'ampiezza nella quale tuttavia dura. Così il mar Toscano dovett'esser assai picciolo nel tempo che Orazio Coclite solo sostenne tutta Toscana sul ponte: poi, con le vittorie romane, si è disteso quanto è lunga questa inferior costa d'Italia. Alla stessa fatta e non altrimente, il primo Ponto, dove fece la sua spedizione navale Giasone, dovett'essere la terra più vicina all'Europa, da cui la divide lo stretto di mare detto Propontide; la qual terra dovette dar il nome al mar Pontico, che poi si distese dove più s'addentra nell'Asia, ove fu poi il regno di Mitridate: perché Eeta, padre di Medea, da questa stessa favola ci si narra esser nato in Calcide, città d'Eubea, isola posta dentro essa Grecia, la qual ora chiamasi Negroponto, che dovette dare il primo nome a quel mare, il quale certamente Mar Nero ci restò detto. La prima Creta dovett'esser un'isola dentro esso Arcipelago, dov'è il labirinto dell'isole ch'abbiamo sopra spiegato, e quindi dovette Minosse celebrare i corseggi sopra gli ateniesi: poi Creta uscì nel Mediterraneo, che ci restò. Or, così da' latini avendoci richiamati i greci, essi, con uscir per lo mondo (gli uomini boriosi), sparsero dappertutto la fama della guerra troiana e degli error degli eroi, così troiani, quali d'Antenore, di Capi, d'Enea, come greci, quali di Menelao, di Diomede, d'Ulisse. Osservarono per lo mondo sparso un carattere di fondatori di nazioni simigliante a quello del lor Ercole che fu detto tebano, e vi sparsero il nome del loro Ercole, de' quali Varrone per le nazioni antiche noverò ben quaranta, de' quali il latino afferma essere stato detto «dio Fidio». Così avvenne che, per la stessa boria degli egizi (che dicevano il loro Giove Ammone essere lo più antico di tutti gli altri del mondo, e tutti gli Ercoli dell'altre nazioni aver preso il nome dal lor Ercole egizio, per due Degnità che se ne sono sopra proposte, siccome quelli che con errore credevano essere la nazione più antica di tutte l'altre del mondo), i greci fecero andar il lor Ercole per tutte le parti della terra, purgandola de' mostri, per riportarne solamente la gloria in casa. Osservarono esservi stato un carattere poetico di pastori che parlavano in versi, ch'appo essi era stato Evandro arcade; e così Evandro venne da Arcadia nel Lazio, e vi ricevette ad albergo l'Ercole suo natio, e vi prese Carmenta in moglie, detta da' «carmi», da' versi, la qual a' latini truovò le lettere, cioè le forme de' suoni che si dicono «articolati», che sono la materia de' versi. E finalmente, in confermazione di tutte le cose qui dette, osservarono tai caratteri poetici dentro del Lazio, alla stessa fatta, come sopra abbiam veduto, che truovarono i loro cureti sparsi in Saturnia (o sia nell'antica Italia), in Creta ed in Asia. Ma come tali greche voci e idee sieno pervenute a' latini in tempi sommamente selvaggi, ne' quali le nazioni erano chiuse a stranieri, quando Livio niega ch'a' tempi di Servio Tullio, nonché esso Pittagora, il di lui famosissimo nome, per mezzo a tante nazioni, di lingue e di costumi diverse, avesse da Cotrone potuto giugner a Roma; per questa difficultà appunto noi sopra domandammo in un postulato, perché ne portavamo necessaria congettura, che vi fusse stata alcuna città greca nel lido del Lazio, e che poi si fusse seppellita nelle tenebre dell'antichità, la qual avesse insegnato a' latini le lettere, le quali, come narra Tacito, furono dapprima somiglianti alle più antiche de' greci. Lo che è forte argomento ch'i latini ricevettero le lettere greche da questi greci del Lazio, non da quelli di Magna Grecia, e molto meno della Grecia oltramare, co' quali non si conobbero che dal tempo della guerra di Taranto, che portò appresso quella di Pirro: perché, altrimente, i latini arebbono usato le lettere ultime de' greci, e non ritenute le prime, che furono l'antichissime greche. Così i nomi d'Ercole, d'Evandro, d'Enea da Grecia entrarono nel Lazio per questi seguenti costumi delle nazioni: Prima, perché, siccome, nella loro barbarie, amano i costumi loro natii, così, da che incominciano a ingentilirsi, come delle mercatanzie e delle fogge straniere, così si dilettano degli stranieri parlari; e perciò scambiarono il loro dio Fidio con l'Ercole de' greci, e, per lo giuramento natio «medius fidius», introdusseo «mehercule», «edepol», «mecastor». Dipoi, per quella boria, tante volte detta, c'hanno le nazioni di vantar origini romorose straniere, particolarmente ove ne abbian avuto da' loro tempi barbari alcun motivo di crederle (siccome, nella barbarie ritornata, Gian Villani narra Fiesole essere stata fondata da Atlante, e che in Germania regnò un re Priamo troiano), perciò i latini volontieri sconobbero Fidio, vero lor fondatore, per Ercole, vero fondatore de' greci, e scambiarono il carattere de' loro pastori poeti con Evandro d'Arcadia. In terzo luogo, le nazioni, ov'osservano cose straniere, che non possono certamente spiegare con voci loro natie, delle straniere necessariamente si servono. Quarto e finalmente, s'aggiugne la propietà de' primi popoli, che sopra nella Logica poetica si è ragionata, di non saper astrarre le qualità da' subbietti, e, non sappiendole astrarre, per appellare le qualità appellavan essi subbietti. Di che abbiamo ne' favellari latini troppo certi argomenti. Non sapevano i romani cosa fusse lusso: poi che l'osservarono ne' tarantini, dissero «tarantino» per «profumato». Non sapevano cosa fussero stratagemmi militari: poi che l'osservarono ne' cartaginesi, gli dissero «punicas artes». Non sapevano cosa fusse fasto: poi che l'osservarono ne' capovani, dissero «supercilium campanicum» per dire «fastoso» o «superbo». Così Numa ed Anco furon «sabini», perché non sapevano dire «religioso», nel qual costume eran insigni i sabini. Così Servio Tullio fu «greco», perché non sapevano dir «astuto», la qual idea dovettero mutoli conservare finché poi conobbero i greci della città da essi vinta ch'or noi diciamo; e fu detto anco «servo», perché non sapevano dir «debole», che rillasciò il dominio bonitario de' campi a' plebei con portar loro la prima legge agraria, come sopra si è dimostrato, onde forse funne fatto uccider da' padri: perché l'astuzia è propietà che siegue alla debolezza, i quali costumi erano sconosciuti alla romana apertezza e virtù. Ché invero è una gran vergogna che fanno alla romana origine, e di troppo offendono la sapienza di Romolo fondatore, [coloro che affermano] non aver avuto Roma dal suo corpo eroi da crearvi re, infino che dovette sopportare il regno d'un vil schiavo: onore che gli han fatto i critici occupati sugli scrittori, somigliante all'altro, che seguì appresso, che, dopo aver fondato un potente imperio nel Lazio e difesolo da tutta la toscana potenza, han fatto andar i romani come barbari eslegi per l'Italia, per la Magna Grecia e per la Grecia oltramare, cercando leggi da ordinare la loro libertà, per sostenere la riputazione alla favola della legge delle XII Tavole venuta in Roma da Atene. 2. COROLLARIO DELLA VENUTA D'ENEA IN ITALIA Per tutto lo fin qui ragionato si può dimostrare la guisa com'Enea venne in Italia e fondò la gente romana in Alba, dalla qual i romani traggon l'origine: che una sì fatta città greca posta nel lido del Lazio fusse città greca dell'Asia, dove fu Troia, sconosciuta a' romani finché da mezzo terra stendessero le conquiste nel mar vicino; ch'a far incominciarono da Anco Marzio, terzo re de' romani, il quale vi die' principio da Ostia, la città marittima più vicina a Roma, tanto che, questa poscia a dismisura ingrandendo, ne fece finalmente il suo porto. E 'n cotal guisa, come avevano ricevuto gli arcadi latini, ch'erano fuggiaschi di terra, così poi ricevettero i frigi, i quali erano fuggiaschi di mare, nella loro protezione, e per diritto eroico di guerra demolirono la città. E così arcadi e frigi, con due anacronismi, gli arcadi con quello de' tempi posposti e i frigi con quello de' prevertiti, si salvarono nell'asilo di Romolo. Che se tali cose non andaron così, l'origine romana da Enea sbalordisce e confonde ogn'intendimento, come nelle Degnità l'avvisammo; talché, per non isbalordirsi e confondersi, i dotti, da Livio incominciando, la tengon a luogo di favola, non avvertendo che, com'abbiam nelle Degnità detto sopra, le favole debbon aver avuto alcun pubblico motivo di verità. Perché egli è Evandro sì potente nel Lazio, che vi riceve ad albergo Ercole da cinquecento anni innanzi la fondazione di Roma; ed Enea fonda la casa reale d'Alba, la quale per quattordici re cresce in tanto lustro, che diviene la capitale del Lazio; e gli arcadi e i frigi, per tanto tempo vagabondi, si ripararono finalmente all'asilo di Romolo! Come da Arcadia, terra mediterranea di Grecia, pastori, che per natura non sanno cosa sia mare, ne valicarono tanto tratto e penetrarono in mezzo del Lazio, quando Anco Marzio, terzo re dopo Romolo, fu egli il primo che menò una colonia nel mar vicino? e vi vanno, insieme co' frigi dispersi, dugento anni innanzi che nemmeno il nome di Pittagora, celebratissimo nella Magna Grecia, a giudizio di Livio, arebbe, per mezzo a tante nazioni, di lingue e di costumi diverse, da Cotrone potuto giugner a Roma? e quattrocento anni innanzi ch'i tarantini non sapevano chi si fussero i romani, già potenti in Italia? Ma pure, come più volte abbiam detto, per una delle Degnità sopra poste, queste tradizioni volgari dovettero da principio avere de' grandi pubblici motivi di verità, perché l'ha conservate per tanto tempo tutta una nazione. Che dunque? Bisogna dire che alcuna città greca fusse stata nel lido del Lazio, come tante altre ve ne furono e duraron appresso ne' lidi del Mar Tirreno; la qual città innanzi della legge delle XII Tavole fusse stata da' romani vinta, e per diritto eroico delle vittorie barbare fussesi demolita, e i vinti ricevuti in qualità di soci eroici; e che, per caratteri poetici, così cotesti greci dissero «arcadi» i vagabondi di terra ch'erravano per le selve, «frigi» quelli per mare, come i romani i vinti ed arresi loro dissero «ricevuti nell'asilo di Romolo», cioè in qualità di giornalieri, per le clientele ordinate da Romolo quando nel luco aprì l'asilo a coloro i quali vi rifuggivano. Sopra i quali vinti ed arresi (che supponiamo nel tempo tra lo discacciamento degli re e la legge delle XII Tavole) i plebei romani dovetter esser distinti con la legge agraria di Servio Tullio, ch'aveva permesso loro il dominio bonitario de' campi; del quale non contentandosi, voleva Coriolano, come sopra si è detto, ridurre a' giornalieri di Romolo. E poscia, buccinando dappertutto i greci la guerra troiana e gli errori degli eroi, e per l'Italia quelli d'Enea, come vi avevano osservato innanzi il lor Ercole, il lor Evandro, i loro cureti (conforme si è sopra detto), in cotal guisa, a capo di tempo, che tali tradizioni per mano di gente barbara s'eran alterate e finalmente corrotte; in cotal guisa diciamo, Enea divenne fondatore della romana gente nel Lazio: il quale il Bocharto vuole che non mise mai piede in Italia, Strabone dice che non uscì mai da Troia, ed Omero, c'ha qui più peso, narra ch'egli ivi morì e vi lasciò il regno a' suoi posteri. Così, per due borie diverse di nazioni - una de' greci, che per lo mondo fecero tanto romore della guerra di Troia; l'altra de' romani, di vantare famosa straniera origine, - i greci v'intrusero, i romani vi ricevettero finalmente Enea fondatore della gente romana. La qual favola non poté nascere che a' tempi della guerra con Pirro, da' quali i romani incominciarono a dilettarsi delle cose de' greci; perché tal costume osserviamo celebrarsi dalle nazioni dopo c'hanno molto e lungo tempo praticato con istranieri. 3. DELLA NOMINAZIONE E DESCRIZIONE DELLE CITTÀ EROICHE. Ora, perché sono parti della geografia la nomenclatura e la corografia, o sieno nominazione e descrizione de' luoghi, principalmente delle città, per compimento della sapienza poetica ci rimane di queste da ragionare. Se n'è detto sopra che le città eroiche si ritruovarono dalla provvedenza fondate in luoghi di forti siti, che gli antichi latini con vocabolo sagro, ne' loro tempi divini, dovettero chiamare «aras» e appellar anco «arces» tai luoghi forti di sito, perché ne' tempi barbari ritornati da «rocce», rupi erte e scoscese, si dissero poi le «ròcche», e quindi «castella» le signorie. E, alla stessa fatta, tal nome di «are» si dovette stendere a tutto il distretto di ciascun'eroica città, il quale, come sopra si è osservato, si disse «ager» in ragionamento di «confini con istranieri» e «territorium» in ragionamento di «giurisdizione sui cittadini». Di tutto ciò vi ha un luogo d'oro appo Tacito, ove descrive l'ara massima d'Ercole in Roma, il quale, perché troppo gravemente appruova questi princìpi, rapportiamo qui intiero: «Igitur a foro boario, ubi æneum bovis simulacrum adspicimus, quia id genius animalium aratro subditur, sulcus designandi oppidi captus, ut magnam Herculis aram complecteretur, ara Herculis erat»; - un altro pur d'oro appresso Sallustio, ove narra la famosa ara de' fratelli Fileni rimasta per confine dell'imperio cartaginese e del cirenaico. Di sì fatte are è sparsa tutta l'antica geografia. E, incominciando dall'Asia, osserva il Cellari nella sua Antica geografia che tutte le città della Siria si dissero «are» con innanzi o dopo i loro propi vocaboli, ond'essa Siria se ne disse Aramea ed Aramia. Ma nella Grecia fondò Teseo la città d'Atene sul famoso altare degl'infelici, estimando con la giusta idea d'«infelici» gli uomini eslegi ed empi, che dalle risse della infame comunione ricorrevano alle terre forti de' forti, come sopra abbiam detto, tutti soli, deboli e bisognosi di tutti i beni ch'aveva a' pii produtto l'umanità; onde da' greci si disse ára anco il «voto». Perché, come pur sopra abbiam ragionato, sopra tali prime are del gentilesimo le prime ostie, le prime vittime (dette «Saturni hostiæ», come sopra vedemmo), i primi anathémata (ch'in latino si trasportano «diris devoti»), che furono gli empi violenti, ch'osavano entrare nelle terre arate de' forti per inseguire i deboli, che per campare da essi vi rifuggivano (ond'è forse detto «campare» per «salvarsi»), quivi essi da Vesta vi erano consagrati ed uccisi; e ne restò a' latini «supplicium» per significare «pena» e «sagrifizio», ch'usa fra gli altri Sallustio. Nelle quali significazioni troppo acconciamente a' latini rispondono i greci, a' quali la voce ára, che, come si è detto, vuol dire «votum», significa altresì «noxa», ch'è 'l corpo c'ha fatto il danno, e significa «diræ» che son esse Furie, quali appunto erano questi primi devoti che qui abbiam detto (e più ne diremo nel libro IV), ch'erano consagrati alle Furie e dappoi sagrificati sopra questi primi altari della gentilità. Talché la voce «hara», che ci restò a significare la «mandria», dovette agli antichi latini significare la «vittima»; dalla qual voce certamente è detto «aruspex» l'indovinatore, dall'interiore delle vittime uccise innanzi agli altari. E da ciò che testé si è detto dell'ara massima d'Ercole, dovette Romolo sopra un'ara somigliante a quella di Teseo fondar Roma dentro l'asilo aperto nel luco, perché restò a' latini che nommai mentovassero luco o bosco sagro, ch'ivi non fusse alcun'ara alzata a qualche divinità: talché per quello che Livio ci disse sopra generalmente, che gli asili furono «vetus urbes condentium consilium», ci si scuopre la ragione perché nell'antica geografia si leggono tante città col nome di «are». Laonde bisogna confessare che da Cicerone con iscienza di quest'antichità il senato fu detto «ara sociorum», perocché al senato portavano le provincie le querele di sindacato contro i governadori ch'avaramente l'avevano governate, richiamandone l'origine da questi primi soci del mondo. Già dunque abbiamo dimostro dirsi «are» le città eroiche nell'Asia e, per l'Europa, in Grecia e in Italia. Nell'Affrica restò, appo Sallustio, famosa l'ara de' fratelli Fileni poc'anzi detta. Nel Settentrione, ritornando in Europa, tuttavia si dicono «are de' cicoli», nella Transilvania, le città abitate da un'antichissima nazione unna, tutta di nobili contadini e pastori, che con gli ungheri e sassoni compongono quella provincia. Nella Germania, appo Tacito, si legge l'«ara degli ubi». In Ispagna ancor dura a molte il nome di «ara». Ma in lingua siriaca la voce «ari» vuol dir «lione»; e noi sopra, nella teogonia naturale delle dodici maggiori divinità, dimostrammo che dalla difesa dell'are nacque a' greci l'idea di Marte, che loro si dice Aùres; talché, per la stessa idea di fortezza, ne' tempi barbari ritornati tante città e case nobili caricano di lioni le lor insegne. Cotal voce, di suono e significato uniforme in tante nazioni, per immensi tratti di luoghi e tempi e costumi tra lor divise e lontane, dovette dar a' latini la voce «aratrum», la cui curvatura si disse «urbs»; quindi a' medesimi dovettero venire e «arx» e «arceo», dond'è «ager arcifinius» agli scrittori de limitibus agrorum, e dovettero venir altresì le voci «arma» e «arcus», riponendo, con giusta idea, la fortezza in arretrare e tener lontana l'ingiuria. Ed ecco la sapienza poetica dimostrata meritar con giustizia quelle due somme e sovrane lodi: delle quali una certamente e con costanza l'è attribuita, d'aver fondato il gener umano della gentilità, che le due borie, l'una delle nazioni, l'altra de' dotti, quella con l'idee di una vana magnificenza, questa con l'idee d'un'importuna sapienza filosofica, volendogliele affermare, gliel'hanno più tosto niegata; l'altra, della quale pure una volgar tradizione n'è pervenuta, che la sapienza degli antichi faceva i suoi saggi, con uno spirito, egualmente grandi e filosofi e legislatori e capitani ed istorici ed oratori e poeti, ond'ella è stata cotanto disiderata. Ma quella gli fece o, più tosto, gli abbozzò tali, quali l'abbiamo truovati dentro le favole, nelle quali, com'in embrioni o matrici, si è discoverto essere stato abbozzato tutto il sapere riposto; che puossi dire dentro di quelle per sensi umani essere stati dalle nazioni rozzamente descritti i princìpi di questo mondo di scienze, il quale poi con raziocinî e con massime ci è stato schiarito dalla particolare riflessione de' dotti. Per lo che tutto, si ha ciò che 'n questo libro dovevasi dimostrare: che i poeti teologi furono il senso, i filosofi furono l'intelletto dell'umana sapienza. LIBRO TERZO DELLA DISCOVERTA DEL VERO OMERO. Quantunque la sapienza poetica, nel libro precedente già dimostrata essere stata la sapienza volgare de' popoli della Grecia, prima poeti teologi e poscia eroici, debba ella portare di séguito necessario che la sapienza d'Omero non sia stata di spezie punto diversa; però, perché Platone ne lasciò troppo altamente impressa l'oppenione che fusse egli fornito di sublime sapienza riposta (onde l'hanno seguìto a tutta voga tutti gli altri filosofi, e sopra gli altri Plutarco ne ha lavorato un intiero libro), noi qui particolarmente ci daremo ad esaminare se Omero mai fusse stato filosofo; sul qual dubbio scrisse un altro intiero libro Dionigi Longino, il quale da Diogene Laerzio nella Vita di Pirrone sta mentovato. 1. DELLA SAPIENZA RIPOSTA C'HANNO OPPINATO D'OMERO. Perché gli si conceda pure ciò che certamente deelesi dare, ch'Omero dovette andar a seconda de' sensi tutti volgari, e perciò de' volgari costumi della Grecia, a' suoi tempi barbara, perché tali sensi volgari e tai volgari costumi danno le propie materie a' poeti. E perciò gli si conceda quello che narra: - estimarsi gli dèi dalla forza, - come dalla somma sua forza Giove vuol dimostrare, nella favola della gran catena, ch'esso sia il re degli uomini e degli dèi, come si è sopra osservato; sulla qual volgar oppenione fa credibile che Diomede ferisce Venere e Marte con l'aiuto portatogli da Minerva, la quale, nella contesa degli dèi, e spoglia Venere e percuote Marte con un colpo di sasso (tanto Minerva nella volgar credenza era dea della filosofia! e sì ben usa armadura degna della sapienza di Giove!). Gli si conceda narrare il costume immanissimo (il cui contrario gli autori del diritto natural delle genti vogliono essere stato eterno tralle nazioni), che pur allora correva tralle barbarissime genti greche (le quali si è creduto avere sparso l'umanità per lo mondo), di avvelenar le saette (onde Ulisse per ciò va in Efira, per ritruovarvi le velenose erbe) e di non seppellire i nimici uccisi in battaglia, ma lasciargli inseppolti per pasto de' corvi e cani (onde tanto costò all'infelice Priamo il riscatto del cadavero di Ettore da Achille, che, pure nudo, legato al suo carro, l'aveva tre giorni strascinato d'intorno alle mura di Troia). Però, essendo il fine della poesia d'addimesticare la ferocia del volgo, del quale sono maestri i poeti, non era d'uom saggio di tai sensi e costumi cotanto fieri destar nel volgo la maraviglia per dilettarsene, e col diletto confermargli vieppiù. Non era d'uom saggio al volgo villano destar piacere delle villanie degli dèi nonché degli eroi, come, nella contesa, si legge che Marte ingiuria «mosca canina» a Minerva, Minerva dà un pugno a Diana, Achille ed Agamennone, uno il massimo de' greci eroi, l'altro il principe della greca lega, entrambi re, s'ingiuriano l'un l'altro «cani», ch'appena ora direbbesi da' servidori nelle commedie. Ma, per Dio! qual nome più propio che di «stoltezza» merita la sapienza del suo capitano Agamennone, il quale dev'essere costretto da Achille a far suo dovere di restituire Criseide a Crise, di lei padre, sacerdote d'Apollo, il qual dio per tal rapina faceva scempio dell'esercito greco con una crudelissima pestilenza? e, stimando d'esservi in ciò andato del punto suo, credette rimettersi in onore con usar una giustizia ch'andasse di séguito a sì fatta sapienza, e toglier a torto Briseide ad Achille, il qual portava seco i fati di Troia, acciocché, disgustato dipartendosi con le sue genti e con le sue navi, Ettore facesse il resto de' greci ch'erano dalla peste campati? Ecco l'Omero finor creduto ordinatore della greca polizia o sia civiltà, che da tal fatto incomincia il filo con cui tesse tutta l'Iliade, i cui principali personaggi sono un tal capitano ed un tal eroe, quale noi facemmo vedere Achille ove ragionammo dell'Eroismo de' primi popoli! Ecco l'Omero innarrivabile nel fingere i caratteri poetici, come qui dentro il farem vedere, de' quali gli più grandi sono tanto sconvenevoli in questa nostra umana civil natura! Ma eglino sono decorosissimi in rapporto alla natura eroica, come si è sopra detto, de' puntigliosi. Che dobbiam poi dire di quello che narra: i suoi eroi cotanto dilettarsi del vino, e, ove sono afflittissimi d'animo, porre tutto il lor conforto, e sopra tutti il saggio Ulisse, in ubbriacarsi? Precetti invero di consolazione, degnissimi di filosofo! Fanno risentire lo Scaligero quasi tutte le comparazioni prese dalle fiere e da altre selvagge cose. Ma concedasi ciò essere stato necessario ad Omero per farsi meglio intendere dal volgo fiero e selvaggio: però cotanto riuscirvi, che tali comparazioni sono incomparabili, non è certamente d'ingegno addimesticato ed incivilito da alcuna filosofia. Né da un animo da alcuna filosofia umanato ed impietosito potrebbe nascer quella truculenza e fierezza di stile, con cui descrive tante, sì varie e sanguinose battaglie, tante, sì diverse e tutte in istravaganti guise crudelissime spezie d'ammazzamenti, che particolarmente fanno tutta la sublimità dell'Iliade. La costanza poi, che si stabilisce e si ferma con lo studio della sapienza de' filosofi, non poteva fingere gli dèi e gli eroi cotanti leggieri, ch'altri ad ogni picciolo motivo di contraria ragione, quantunque commossi e turbati, s'acquetano e si tranquillano; - altri nel bollore di violentissime collere, in rimembrando cosa lagrimevole, si dileguano in amarissimi pianti (appunto come nella ritornata barbarie d'Italia - nel fin della quale provenne Dante, il toscano Omero, che pure non cantò altro che istorie - si legge che Cola di Rienzo - la cui Vita dicemmo sopra esprimer al vivo i costumi degli eroi di Grecia, che narra Omero, - mentre mentova l'infelice stato romano oppresso da' potenti in quel tempo, esso e coloro, appo i quali ragiona, prorompono in dirottissime lagrime); - al contrario altri, da sommo dolor afflitti, in presentandosi loro cose liete, come al saggio Ulisse la cena da Alcinoo, si dimenticano affatto de' guai e tutti si sciolgono in allegria; - altri, tutti riposati e quieti, ad un innocente detto d'altrui che lor non vada all'umore, si risentono cotanto e montano in sì cieca collera, che minacciano presente atroce morte a chi 'l disse. Come quel fatto d'Achille, che riceve alla sua tenda Priamo (il quale di notte, con la scorta di Mercurio, per mezzo al campo de' greci, era venuto tutto solo da essolui per riscattar il cadavero, com'altra volta abbiam detto, di Ettorre), l'ammette a cenar seco; e, per un sol detto il quale non gli va a seconda, ch'all'infelicissimo padre cadde innavvedutamente di bocca per la pietà d'un sì valoroso figliuolo, - dimenticato delle santissime leggi dell'ospitalità; non rattenuto dalla fede onde Priamo era venuto tutto solo da essolui, perché confidava tutto in lui solo; nulla commosso dalle molte e gravi miserie di un tal re, nulla dalla pietà di tal padre, nulla dalla venerazione di un tanto vecchio; nulla riflettendo alla fortuna comune, della quale non vi ha cosa che più vaglia a muover compatimento; - montato in una collera bestiale, l'intuona sopra volergli mozzar la testa. Nello stesso tempo ch'empiamente ostinato di non rimettere una privata offesa fattagli da Agamennone (la quale, benché stata fuss'ella grave, non era giusto di vendicare con la rovina della patria e di tutta la sua nazione), si compiace, chi porta seco i fati di Troia, che vadano in rovina tutti i greci, battuti miseramente da Ettorre; né pietà di patria, né gloria di nazione il muovono a portar loro soccorso, il quale non porta finalmente che per soddisfare un suo privato dolore, d'aver Ettorre ucciso il suo Patroclo. E della Briseide toltagli nemmeno morto si placa, senonsé l'infelice bellissima real donzella Polissena, della rovinata casa del poc'anzi ricco e potente Priamo, divenuta misera schiava, fusse sagrificata innanzi al di lui sepolcro, e le di lui ceneri, assetate di vendetta, non insuppasse dell'ultima sua goccia di sangue. Per tacer affatto di quello che non può intendersi: ch'avesse gravità ed acconcezza di pensar da filosofo chi si trattenesse in ritruovare tante favole di vecchiarelle da trattener i fanciulli, di quante Omero affollò l'altro poema dell'Odissea. Tali costumi rozzi, villani, feroci, fieri, mobili, irragionevoli o irragionevolmente ostinati, leggieri e sciocchi, quali nel libro II dimostrammo ne' Corollari della natura eroica, non posson esser che d'uomini per debolezza di menti quasi fanciulli, per robustezza di fantasie come di femmine, per bollore di passioni come di violentissimi giovani; onde hassene a niegar ad Omero ogni sapienza riposta. Le quali cose qui ragionate sono materie per le quali incomincian ad uscir i dubbi che ci pongono nella necessità per la ricerca del vero Omero. 2. DELLA PATRIA D'OMERO. Tal fu la sapienza riposta finor creduta d'Omero: ora vediamo della patria. Per la qual contesero quasi tutte le città della Grecia, anzi non mancarono di coloro che 'l vollero greco d'Italia, e per determinarla Leone Allacci (De patria Homeri) invano vi s'affatica. Ma, perché non ci è giunto scrittore che sia più antico d'Omero, come risolutamente il sostiene Giuseffo contro Appione gramatico, e gli scrittori vennero per lunga età dopo lui, siamo necessitati con la nostra critica metafisica, come sopra un autore di nazione, qual egli è stato tenuto di quella di Grecia, di ritruovarne il vero, e della età e della patria, da esso Omero medesimo. Certamente, di Omero autore dell'Odissea siamo assicurati essere stato dell'occidente di Grecia verso mezzodì da quel luogo d'oro dove Alcinoo, re de' feaci (ora Corfù) ad Ulisse, che vuol partire, offerisce una ben corredata nave de' suoi vassalli, i quali dice essere spertissimi marinai, che 'l porterebbero, se bisognasse, fin in Eubea (or Negroponto), la quale, coloro ch'avevano per fortuna veduto, dicevano essere lontanissima, come se fusse l'ultima Tule del mondo greco. Dal qual luogo si dimostra con evidenza Omero dell'Odissea essere stato altro da quello che fu autor dell'Iliade; perocché Eubea non era molto lontana da Troia, ch'era posta nell'Asia lungo la riviera dell'Ellesponto, nel cui angustissimo stretto son ora due fortezze che chiamano Dardanelli, e fin al dì d'oggi conservano l'origine della voce «Dardania», che fu l'antico territorio di Troia. E certamente appo Seneca si ha essere stata celebre quistione tra' greci gramatici: se l'Iliade e l'Odissea fussero d'un medesimo autore. La contesa delle greche città per l'onore d'aver ciascuna Omero suo cittadino, ella provenne perché quasi ogniuna osservava ne' di lui poemi e voci e frasi e dialetti ch'eran volgari di ciascheduna. Lo che qui detto serve per la discoverta del vero Omero. 3. DELL'ETÀ D'OMERO. Ci assicurano dell'età d'Omero le seguenti autorità de' di lui poemi: I Achille ne' funerali di Patroclo dà a vedere quasi tutte le spezie de' giuochi, che poi negli olimpici celebrò la coltissima Grecia. II Eransi già ritruovate l'arti di fondere in bassirilievi, d'intagliar in metalli, come, fralle altre cose, si dimostra con lo scudo d'Achille ch'abbiamo sopra osservato: la pittura non erasi ancor truovata. Perché la fonderia astrae le superficie con qualche rilevatezza, l'intagliatura fa lo stesso con qualche profondità; ma la pittura astrae le superficie assolute, ch'è difficilissimo lavoro d'ingegno. Onde né Omero né Mosè mentovano cose dipinte giammai: argomento della lor antichità. III Le delizie de' giardini d'Alcinoo, la magnificenza della sua reggia e la lautezza delle sue cene ci appruovano che già i greci ammiravano lusso e fasto. IV I fenici già portavano nelle greche marine avolio, porpora, incenso arabico, di che odora la grotta di Venere; oltracciò, bisso più sottile della secca membrana d'una cipolla, vesti ricamate, e, tra' doni de' proci, una da rigalarsi a Penelope, che reggeva sopra una macchina così di dilicate molle contesta, che ne' luoghi spaziosi la dilargassero, e l'assettassero negli angusti. Ritruovato degno della mollezza de' nostri tempi! V Il cocchio di Priamo, con cui si porta ad Achille, fatto di cedro, e l'antro di Calipso ne odora ancor di profumi, il qual è un buon gusto de' sensi, che non intese il piacer romano quando più infuriava a disperdere le sostanze nel lusso sotto i Neroni e gli Eliogabali. VI Si descrivono dilicatissimi bagni appo Circe. VII I servetti de' proci, belli, leggiadri e di chiome bionde, quali appunto si vogliono nell'amenità de' nostri costumi presenti. VIII Gli uomini come femmine curano la zazzera; lo che Ettorre e Diomede rinfacciano a Paride effemminato. IX E, quantunque egli narri i suoi eroi sempre cibarsi di carni arroste, il qual cibo è 'l più semplice e schietto di tutti gli altri, perché non ha d'altro bisogno che delle brace: il qual costume restò dopo ne' sagrifizi, e ne restarono a' romani dette «prosiicia» le carni delle vittime arroste sopra gli altari, che poi si tagliavano per dividersi a' convitati, quantunque poscia si arrostirono, come le profane, con gli schidoni. Ond'è che Achille, ove dà la cena a Priamo, esso fende l'agnello e Patroclo poi l'arroste, apparecchia la mensa e vi pone sopra il pane dentro i canestri: perché gli eroi non celebravano banchetti che non fussero sagrifizi, dov'essi dovevano esser i sacerdoti. E ne restarono a' latini «epulæ», ch'erano lauti banchetti e, per lo più, che celebravano i grandi; ed «epulum», che dal pubblico si dava al popolo, e la «cena sagra», in cui banchettavano i sacerdoti detti «epulones». Perciò Agamennone esso uccide i due agnelli, col qual sagrifizio consagra i patti della guerra con Priamo. Tanto allora era magnifica cotal idea, ch'ora ci sembra essere di beccaio! Appresso dovettero venire le carni allesse, ch'oltre al fuoco hanno di bisogno dell'acqua, del caldaio e, con ciò, del treppiedi; delle quali Virgilio fa anco cibar i suoi eroi, e gli fa con gli schidoni arrostir le carni. Vennero finalmente i cibi conditi, i quali, oltre a tutte le cose che si son dette, han bisogno de' condimenti, - Ora, per ritornar alle cene eroiche d'Omero, benché lo più dilicato cibo de' greci eroi egli descriva esser farina con cascio e mèle, però per due comparazioni si serve della pescagione; ed Ulisse, fintosi poverello, domandando la limosina ad un de' proci, gli dice che gli dèi agli re ospitali, o sien caritatevoli co' poveri viandanti, danno i mari pescosi, o sia abbondanti di pesci, che fanno la delizia maggior delle cene. X Finalmente (quel che più importa al nostro proposito) Omero sembra esser venuto in tempi ch'era già caduto in Grecia il diritto eroico e 'ncominciata a celebrarsi la libertà popolare, perché gli eroi contraggono matrimoni con istraniere e i bastardi vengono nelle successioni de' regni. E così dovett'andar la bisogna, perché, lungo tempo innanzi, Ercole, tinto dal sangue del brutto centauro Nesso, e quindi uscito in furore, era morto; cioè, come si è nel libro II spiegato, era finito il diritto eroico. Adunque, volendo noi d'intorno all'età d'Omero non disprezzare punto l'autorità, per tutte queste cose osservate e raccolte da' di lui poemi medesimi, e, più che dall'Iliade, da quello dell'Odissea, che Dionigi Longino stima aver Omero essendo vecchio composto, avvaloriamo l'oppenion di coloro che 'l pongono lontanissimo dalla guerra troiana: il qual tempo corre per lo spazio di quattrocensessant'anni, che vien ad essere circa i tempi di Numa. E pure crediamo di far loro piacere in ciò, che nol poniamo a' tempi più a noi vicini, perché dopo i tempi di Numa dicono che Psammetico aprì a' greci l'Egitto, i quali, per infiniti luoghi dell'Odissea particolarmente, avevano da lungo tempo aperto il commerzio nella loro Grecia a' fenici; delle relazioni de' quali, niente meno che delle mercatanzie, com'ora gli europei di quelle dell'Indie, eran i popoli greci già usi di dilettarsi. Laonde convengono queste due cose: e che Omero egli non vide l'Egitto, e che narra tante cose e di Egitto e di Libia, e di Fenicia e dell'Asia, e sopra tutto d'Italia e di Sicilia, per le relazioni ch'i greci avute n'avevano da' fenici. Ma non veggiamo se questi tanti e sì dilicati costumi ben si convengono con quanti e quali selvaggi e fieri egli nello stesso tempo narra de' suoi eroi, e particolarmente nell'Iliade. Talché, ne placidis coëant immitia, sembrano tai poemi essere stati per più età e da più mani lavorati e condotti. Così, con queste cose qui dette della patria e dell'età del finora creduto, si avanzano i dubbi per la ricerca del vero Omero. 4. DELL'INNARRIVABILE FACULTÀ POETICA EROICA D'OMERO. Ma la niuna filosofia, che noi abbiamo sopra dimostrato d'Omero e le discoverte fatte della di lui patria ed età, che ci pongono in un forte dubbio che non forse egli sia stato un uomo affatto volgare, troppo ci son avvalorate dalla disperata difficultà, che propone Orazio nell'Arte poetica, di potersi dopo Omero fingere caratteri, ovvero personaggi di tragedie, di getto nuovi, ond'esso a' poeti dà quel consiglio di prenderglisi da' poemi d'Omero. Ora cotal disperata difficultà si combini con quello: ch'i personaggi della commedia nuova son pur tutti di getto finti, anzi per una legge ateniese dovette la commedia nuova comparire ne' teatri con personaggi tutti finti di getto; e sì felicemente i greci vi riuscirono, ch'i latini, nel loro fasto, a giudizio di Fabio Quintiliano, ne disperarono anco la competenza, dicendo: «Cum græcis de comoedia non contendimus». A tal difficultà d'Orazio aggiugniamo in più ampia distesa quest'altre due. Delle quali una è: come Omero, ch'era venuto innanzi, fu egli tanto innimitabil poeta eroico, e la tragedia, che nacque dopo, cominciò così rozza, com'ogniun sa e noi più a minuto qui appresso l'osserveremo? L'altra è: come Omero, venuto innanzi alle filosofie ed alle arti poetiche e critiche, fu egli il più sublime di tutti gli più sublimi poeti, quali sono gli eroici, e, dopo ritruovate le filosofie e le poetiche e critiche arti, non vi fu poeta, il quale [non] potesse che per lunghissimi spazi tenergli dietro? Ma, lasciando queste due nostre, la difficultà d'Orazio, combinata con quello ch'abbiamo detto della commedia nuova doveva pure porre in ricerca i Patrizi, gli Scaligeri, i Castelvetri ed altri valenti maestri d'arte poetica d'investigarne la ragion della differenza. Cotal ragione non può rifondersi altrove che nell'origine della poesia, sopra qui scoverta nella Sapienza poetica, e 'n conseguenza nella discoverta de' caratteri poetici, ne' quali unicamente consiste l'essenza della medesima poesia. Perché la commedia nuova propone ritratti de' nostri presenti costumi umani, sopra i quali aveva meditato la socratica filosofia, donde dalle di lei massime generali d'intorno all'umana morale poterono i greci poeti, in quella addottrinati profondamente (quale Menandro, a petto di cui Terenzio da essi latini fu detto «Menandro dimezzato»); poterono, dico, fingersi cert'esempli luminosi di uomini d'idea, al lume e splendor de' quali si potesse destar il volgo, il quale tanto è docile ad apprendere da' forti esempli quanto è incapace d'apparare per massime ragionate. La commedia antica prendeva argomenti ovvero subbietti veri e gli metteva in favola quali essi erano, come per una il cattivo Aristofane mise in favola il buonissimo Socrate e 'l rovinò. Ma la tragedia caccia fuori in iscena odî, sdegni, collere, vendette eroiche (ch'escano da nature sublimi, dalle quali naturalmente provengano sentimenti, parlari, azioni in genere, di ferocia, di crudezza, di atrocità) vestiti di maraviglia; e tutte queste cose sommamente conformi tra loro ed uniformi ne' lor subbietti, i quali lavori si seppero unicamente fare da' greci ne' loro tempi dell'eroismo, nel fine de' quali dovette venir Omero. Lo che con questa critica metafisica si dimostra: che le favole, le quali sul loro nascere eran uscite diritte e convenevoli, elleno ad Omero giunsero e torte e sconce; come si può osservare per tutta la Sapienza poetica sopra qui ragionata, che tutte dapprima furono vere storie, che tratto tratto s'alterarono e si corruppero, e così corrotte finalmente ad Omero pervennero. Ond'egli è da porsi nella terza età de' poeti eroici: dopo la prima, che ritruovò tali favole in uso di vere narrazioni, nella prima propia significazione della voce mûthos, che da essi greci è diffinita «vera narrazione»; la seconda di quelli che l'alterarono e le corruppero; la terza, finalmente, d'Omero, che così corrotte le ricevé. Ma, per richiamarci al nostro proponimento, per la ragione da noi di tal effetto assegnata, Aristotile nella Poetica dice che le bugie poetiche si seppero unicamente ritruovare da Omero, perché i di lui caratteri poetici, che in una sublime acconcezza sono incomparabili, quanto Orazio gli ammira, furono generi fantastici, quali sopra si sono nella Metafisica poetica diffiniti, a' quali i popoli greci attaccarono tutti i particolari diversi appartenenti a ciascun d'essi generi. Come ad Achille, ch'è 'l subbietto dell'Iliade, attaccarono tutte le propietà della virtù eroica e tutt'i sensi e costumi uscenti da tali propietà di natura, quali sono risentiti, puntigliosi, collerici, implacabili, violenti, ch'arrogano tutta la ragione alla forza, come appunto gli raccoglie Orazio ove ne descrive il carattere. Ad Ulisse, ch'è 'l subbietto dell'Odissea, appiccarono tutti quelli dell'eroica sapienza, cioè tutti i costumi accorti, tolleranti, dissimulati, doppi, ingannevoli, salva sempre la propietà delle parole e l'indifferenza dell'azioni, ond'altri da se stessi entrasser in errore e s'ingannassero da se stessi. E ad entrambi tali caratteri attaccarono l'azioni de' particolari, secondo ciascun de' due generi, più strepitose, le qual'i greci, ancora storditi e stupidi, avessero potuto destar e muover ad avvertirle e rapportarle a' loro generi. I quali due caratteri, avendogli formati tutta una nazione, non potevano non fingersi che naturalmente uniformi (nella quale uniformità, convenevole al senso comune di tutta una nazione, consiste unicamente il decoro, o sia la bellezza e leggiadria d'una favola); e, perché si fingevano da fortissime immaginative, non si potevano fingere che sublimi. Di che rimasero due eterne propietà in poesia: delle quali una è che 'l sublime poetico debba sempre andar unito al popolaresco; l'altra, ch'i popoli, i quali prima si lavoraron essi i caratteri eroici, ora non avvertono a' costumi umani altrimente che per caratteri strepitosi di luminosissimi esempli. 5. PRUOVE FILOSOFICHE PER LA DISCOVERTA DEL VERO OMERO. Le quali cose stando così, vi si combinino queste pruove filosofiche: I Quella che si è sopra tralle Degnità noverata: che gli uomini sono naturalmente portati a conservare le memorie degli ordini e delle leggi che gli tengono dentro le loro società. II Quella verità ch'intese Lodovico Castelvetro: che prima dovette nascere l'istoria, dopo la poesia; perché la storia è una semplice enonziazione del vero, ma la poesia è una imitazione di più. E l'uomo, per altro acutissimo, non ne seppe far uso per rinvenire i veri princìpi della poesia, col combinarvi questa pruova filosofica, che qui si pone per III ch'essendo stati i poeti certamente innanzi agli storici volgari, la prima storia debba essere la poetica. IV Che le favole nel loro nascere furono narrazioni vere e severe (onde mûthos, la favola, fu diffinita «vera narratio», come abbiamo sopra più volte detto); le quali nacquero dapprima per lo più sconce, e perciò poi si resero impropie, quindi alterate, seguentemente inverisimili, appresso oscure, di là scandalose, ed alla fine incredibili; che sono sette fonti della difficultà delle favole, i quali di leggieri si possono rincontrare in tutto il secondo libro. V E, come nel medesimo libro si è dimostrato, così guaste e corrotte da Omero furono ricevute. VI Che i caratteri poetici, ne' quali consiste l'essenza delle favole, nacquero da necessità di natura, incapace d'astrarne le forme e le propietà da' subbietti; e, 'n conseguenza, dovett'essere maniera di pensare d'intieri popoli, che fussero stati messi dentro tal necessità di natura, ch'è ne' tempi della loro maggior barbarie. Delle quali è eterna propietà d'ingrandir sempre l'idee de' particolari: di che vi ha un bel luogo d'Aristotile ne' Libri morali, ove riflette che gli uomini di corte idee d'ogni particolare fan massime. Del qual detto dev'essere la ragione: perché la mente umana, la qual è indiffinita, essendo angustiata dalla robustezza de' sensi, non può altrimente celebrare la sua presso che divina natura che con la fantasia ingrandir essi particolari. Onde forse, appresso i poeti greci egualmente e latini, le immagini come degli dèi così degli eroi compariscono sempre maggiori di quelle degli uomini; e ne' tempi barbari ritornati le dipinture, particolarmente del Padre eterno, di Gesù Cristo, della Vergine Maria, si veggono d'una eccedente grandezza. VII Perché i barbari mancano di riflessione, la qual, mal usata, è madre della menzogna, i primi poeti latini eroici cantaron istorie vere, cioè le guerre romane. E ne' tempi barbari ritornati, per sì fatta natura della barbarie, gli stessi poeti latini non cantaron altro che istorie, come furon i Gunteri, i Guglielmi pugliesi ed altri; e i romanzieri de' medesimi tempi credettero di scriver istorie vere: onde il Boiardo, l'Ariosto, venuti in tempi illuminati dalle filosofie, presero i subbietti de' lor poemi dalla storia di Turpino, vescovo di Parigi. E per questa stessa natura della barbarie, la quale per difetto di riflessione non sa fingere (ond'ella è naturalmente veritiera, aperta, fida, generosa e magnanima), quantunque egli fusse dotto di altissima scienza riposta, con tutto ciò Dante nella sua Commedia spose in comparsa persone vere e rappresentò veri fatti de' trappassati, e perciò diede al poema il titolo di «commedia», qual fu l'antica de' greci, che, come sopra abbiam detto, poneva persone vere in favola. E Dante somigliò in questo l'Omero dell'Iliade, la quale Dionigi Longino dice essere tutta «dramatica» o sia rappresentativa, come tutta «narrativa» essere l'Odissea. E Francesco Petrarca, quantunque dottissimo, pure in latino si diede a cantare la seconda guerra cartaginese; ed in toscano, ne' Trionfi, i quali sono di nota eroica, non fa altro che raccolta di storie. E qui nasce una luminosa pruova di ciò: che le prime favole furon istorie. Perché la satira diceva male di persone non solo vere, ma, di più, conosciute; la tragedia prendeva per argomenti personaggi della storia poetica; la commedia antica poneva in favola chiari personaggi viventi; la commedia nuova, nata a' tempi della più scorta riflessione, finalmente finse personaggi tutti di getto (siccome nella lingua italiana non ritornò la commedia nuova che incominciando il secolo a maraviglia addottrinato del Cinquecento): né appo i greci né appo i latini giammai si finse di getto un personaggio che fusse il principale subbietto d'una tragedia. E 'l gusto del volgo gravemente lo ci conferma, che non vuole drami per musica, de' quali gli argomenti son tutti tragici, se non sono presi da istorie; ed intanto sopporta gli argomenti finti nelle commedie, perché, essendo privati e perciò sconosciuti, gli crede veri. VIII Essendo tali stati i caratteri poetici, di necessità le loro poetiche allegorie, come si è sopra dimostro per tutta la Sapienza poetica, devon unicamente contenere significati istorici de' primi tempi di Grecia. IX Che tali storie si dovettero naturalmente conservare a memoria da' comuni de' popoli, per la prima pruova filosofica testé mentovata: che, come fanciulli delle nazioni, dovettero maravigliosamente valere nella memoria. E ciò, non senza divino provvedimento: poiché infin a' tempi di esso Omero, ed alquanto dopo di lui, non si era ritruovata ancora la scrittura volgare (come più volte sopra si è udito da Giuseffo contro Appione), in tal umana bisogna i popoli, i quali erano quasi tutti corpo e quasi niuna riflessione, fussero tutti vivido senso in sentir i particolari, forte fantasia in apprendergli ed ingrandirgli, acuto ingegno nel rapportargli a' loro generi fantastici, e robusta memoria nel ritenergli. Le quali facultà appartengono, egli è vero, alla mente, ma mettono le loro radici nel corpo e prendon vigore dal corpo. Onde la memoria è la stessa che la fantasia, la quale perciò «memoria» dicesi da' latini (come appo Terenzio truovasi «memorabile» in significato di «cosa da potersi immaginare», e volgarmente «comminisci» per «fingere», ch'è propio della fantasia, ond'è «commentum», ch'è un ritruovato finto); e «fantasia» altresì prendesi per l'ingegno (come ne' tempi barbari ritornati si disse «uomo fantastico» per significar «uomo d'ingegno», come si dice essere stato Cola di Rienzo dall'autore contemporaneo che scrisse la di lui vita). E prende tali tre differenze: ch'è memoria, mentre rimembra le cose; fantasia, mentre l'altera e contrafà; ingegno, mentre le contorna e pone in acconcezza ed assettamento. Per le quali cagioni i poeti teologi chiamarono la Memoria «madre delle muse». X Perciò i poeti dovetter esser i primi storici delle nazioni: ch'è quello ond'il Castelvetro non seppe far uso del suo detto per rinvenire le vere origini della poesia; ché ed esso e tutti gli altri che ne han ragionato (infino da Aristotile e da Platone) potevano facilmente avvertire che tutte le storie gentilesche hanno favolosi i princìpi, come l'abbiamo nelle Degnità proposto e nella Sapienza poetica dimostrato. XI Che la ragion poetica determina esser impossibil cosa ch'alcuno sia e poeta e metafisico egualmente sublime, perché la metafisica astrae la mente da' sensi, la facultà poetica dev'immergere tutta la mente ne' sensi; la metafisica s'innalza sopra agli universali, la facultà poetica deve profondarsi dentro i particolari. XII Che, 'n forza di quella Degnità sopra posta: - che 'n ogni facultà può riuscire con l'industria chi non vi ha la natura, ma in poesia è affatto niegato a chi non vi ha la natura di potervi riuscir con l'industria, - l'arti poetiche e l'arti critiche servono a fare colti gl'ingegni, non grandi. Perché la dilicatezza è una minuta virtù, e la grandezza naturalmente disprezza tutte le cose picciole; anzi, come grande rovinoso torrente non può far di meno di non portar seco torbide l'acque e rotolare e sassi e tronchi con la violenza del corso, così sono le cose vili dette, che si truovano sì spesse in Omero. XIII Ma queste non fanno ch'Omero egli non sia il padre e 'l principe di tutti i sublimi poeti. XIV Perché udimmo Aristotile stimar innarrivabili le bugie omeriche; ch'è lo stesso che Orazio stima inimitabili i di lui caratteri. XV Egli è infin al cielo sublime nelle sentenze poetiche, ch'abbiam dimostrato, ne' Corollari della natura eroica nel libro secondo, dover esser concetti di passioni vere o che in forza d'un'accesa fantasia ci si facciano veramente sentire, e perciò debbon esser individuate in coloro che le sentono. Onde diffinimmo che le massime di vita, perché sono generali, sono sentenze di filosofi; e le riflessioni sopra le passioni medesime sono di falsi e freddi poeti. XVI Le comparazioni poetiche prese da cose fiere e selvagge, quali sopra osservammo, sono incomparabili certamente in Omero. XVII L'atrocità delle battaglie omeriche e delle morti, come pur sopra vedemmo, fanno all'Iliade tutta la maraviglia. XVIII Ma tali sentenze, tali comparazioni, tali descrizioni pur sopra pruovammo non aver potuto essere naturali di riposato, ingentilito e mansueto filosofo. XIX Che i costumi degli eroi omerici sono di fanciulli per la leggerezza delle menti, di femmine per la robustezza della fantasia, di violentissimi giovani per lo fervente bollor della collera, come pur sopra si è dimostrato, e, 'n conseguenza, impossibili da un filosofo fingersi con tanta naturalezza e felicità. XX Che l'inezie e sconcezze sono, come pur si è qui sopra pruovato, effetti dell'infelicità, di che avevano travagliato nella somma povertà della loro lingua, mentre la si formavano, i popoli greci, a spiegarsi. XXI E contengansi pure gli più sublimi misteri della sapienza riposta, i quali abbiamo dimostrato nella Sapienza poetica non contenere certamente: come suonano, non posson essere stati concetti di mente diritta, ordinata e grave, qual a filosofo si conviene. XXII Che la favella eroica, come si è sopra veduto nel libro II, nell'Origini delle lingue, fu una favella per simiglianze, immagini, comparazioni, nata da inopia di generi e di spezie, ch'abbisognano per diffinire le cose con propietà, e, 'n conseguenza, nata per necessità di natura comune ad intieri popoli. XXIII Che per necessità di natura, come anco nel libro II si è detto, le prime nazioni parlarono in verso eroico. Nello che è anco da ammirare la provvedenza, che, nel tempo nel quale non si fussero ancor truovati i caratteri della scrittura volgare, le nazioni parlassero frattanto in versi, i quali coi metri e ritmi agevolassero lor la memoria a conservare più facilmente le loro storie famigliari e civili. XXIV Che tali favole, tali sentenze, tali costumi, tal favella, tal verso si dissero tutti «eroici», e si celebrarono ne tempi ne' quali la storia ci ha collocato gli eroi, com'appieno si è dimostrato sopra nella Sapienza poetica. XXV Adunque tutte l'anzidette furono propietà d'intieri popoli e, 'n conseguenza, comuni a tutti i particolari uomini di tali popoli. XXVI Ma noi, per essa natura, dalla quale son uscite tutte l'anzidette propietà, per le quali egli fu il massimo de' poeti, niegammo che Omero fusse mai stato filosofo. XXVII Altronde dimostrammo sopra nella Sapienza poetica che i sensi di sapienza riposta da' filosofi, i quali vennero appresso, s'intrusero dentro le favole omeriche. XXVIII Ma, siccome la sapienza riposta non è che di pochi uomini particolari, così il solo decoro de' caratteri poetici eroici, ne' quali consiste tutta l'essenza delle favole eroiche, abbiamo testé veduto che non posson oggi conseguirsi da uomini dottissimi in filosofie, arti poetiche ed arti critiche. Per lo qual decoro dà Aristotile il privilegio ad Omero d'esser innarrivabili le di lui bugie; ch'è lo stesso che quello, che gli dà Orazio, d'esser innimitabili i di lui caratteri. 6. PRUOVE FILOLOGICHE PER LA DISCOVERTA DEL VERO OMERO. Con questo gran numero di pruove filosofiche, fatte buona parte in forza della critica metafisica sopra gli autori delle nazioni gentili, nel qual numero è da porsi Omero, perocché non abbiamo certamente scrittor profano che sia più antico di lui, come risolutamente il sostiene Giuseffo ebreo, si congiugnan ora queste pruove filologiche: I Che tutte l'antiche storie profane hanno favolosi i princìpi. II Che i popoli barbari, chiusi a tutte l'altre nazioni del mondo, come furono i germani antichi e gli americani, furono ritruovati conservar in versi i princìpi delle loro storie, conforme si è sopra veduto. III Che la storia romana si cominciò a scrivere da' poeti. IV Che ne' tempi barbari ritornati i poeti latini ne scrissero l'istorie. V Che Maneto, pontefice massimo egizio, portò l'antichissima storia egiziaca scritta per geroglifici ad una sublime teologia naturale. VI E nella Sapienza poetica tale dimostrammo aver fatto i greci filosofi dell'antichissima storia greca narrata per favole VII Onde noi sopra, nella Sapienza poetica, abbiam dovuto tenere un cammino affatto retrogrado da quello ch'aveva tenuto Maneto, e dai sensi mistici restituir alle favole i loro natii sensi storici; e la naturalezza e facilità, senza sforzi, raggiri e contorcimenti, con che l'abbiam fatto, appruova la propietà dell'allegorie storiche che contenevano. VIII Lo che gravemente appruova ciò che Strabone in un luogo d'oro afferma: prima d'Erodoto, anzi prima d'Ecateo milesio, tutta la storia de' popoli della Grecia essere stata scritta da' lor poeti. IX E noi nel libro secondo dimostrammo i primi scrittori delle nazioni così antiche come moderne essere stati poeti. X Vi sono due aurei luoghi nell'Odissea, dove, volendosi acclamar ad alcuno d'aver lui narrato ben un'istoria, si dice averla raccónta da musico e da cantore. Che dovetter esser appunto quelli che furon i suoi rapsòdi, i quali furon uomini volgari, che partitamente conservavano a memoria i libri de' poemi omerici. XI Che Omero non lasciò scritto niuno de' suoi poemi, come più volte l'hacci detto risolutamente Flavio Giuseffo ebreo contro Appione, greco gramatico. XII Ch'i rapsòdi partitamente, chi uno, chi altro, andavano cantando i libri d'Omero nelle fiere e feste per le città della Grecia. XIII Che dall'origini delle due voci, onde tal nome «rapsòdi» è composto, erano «consarcinatori di canti», che dovettero aver raccolto non da altri certamente che da' loro medesimi popoli: siccome hómeros vogliono pur essersi detto da homú, «simul», ed éirein, «connectere», ove significa il «mallevadore», perocché leghi insieme il creditore col debitore. La qual origine è cotanto lontana e sforzata quanto è agiata e propia per significare l'Omero nostro, che fu legatore ovvero componitore di favole. XIV Che i Pisistratidi, tiranni d'Atene, eglino divisero e disposero, o fecero dividere e disponere, i poemi d'Omero nell'Iliade e nell'Odissea: onde s'intenda quanto innanzi dovevan essere stati una confusa congerie di cose, quando è infinita la differenza che si può osservar degli stili dell'uno e dell'altro poema omerico. XV Che gli stessi Pisistratidi ordinarono ch'indi in poi da' rapsòdi fussero cantati nelle feste panatenaiche, come scrive Cicerone, De natura deorum, ed Eliano, in ciò seguìto dallo Scheffero. XVI Ma i Pisistratidi furono cacciati da Atene pochi anni innanzi che lo furon i Tarquini da Roma: talché, ponendosi Omero a' tempi di Numa, come abbiamo sopra pruovato, pur dovette correre lunga età appresso chi rapsòdi avessero seguitato a conservar a memoria i di lui poemi. La qual tradizione toglie affatto il credito all'altra di Aristarco ch'a' tempi de' Pisistratidi avesse fatto cotal ripurga, divisione ed ordinamento de' poemi d'Omero, perché ciò non si poté fare senza la scrittura volgare, e sì da indi in poi non vi era bisogno più de' rapsòdi che gli cantassero per parti ed a mente. XVII Talché Esiodo, che lasciò opere di sé scritte, poiché non abbiamo autorità che da' rapsòdi fusse stato, com'Omero, conservato a memoria, e da' cronologi, con una vanissima diligenza, è posto trent'anni innanzi d'Omero, si dee porre dopo de' Pisistratidi. Se non pure, qual'i rapsòdi omerici, tali furono i poeti ciclici, che conservarono tutta la storia favolosa de' greci dal principio de' loro dèi fin al ritorno d'Ulisse in Itaca. I quali poeti, dalla voce kúklos, non poteron esser altri ch'uomini idioti che cantassero le favole a gente volgare raccolta in cerchio il dì di festa; qual cerchio è quell'appunto che Orazio nell'Arte dice «vilem patulumque orbem», che 'l Dacier punto non riman soddisfatto de' commentatori ch'Orazio ivi voglia dir «i lunghi episodi». E forse la ragione di punto non soddisfarsene ella è questa: perché non è necessario che l'episodio d'una favola, perocché sia lungo, debba ancor esser vile: come, per cagion d'esemplo, quelli delle delizie di Rinaldo con Armida nel giardino incantato e del ragionamento che fa il vecchio pastore ad Erminia sono lunghi bensì, ma pertanto non sono vili, perché l'uno è ornato, l'altro è tenue o dilicato, entrambi nobili. Ma ivi Orazio, avendo dato l'avviso a' poeti tragici di prendersi gli argomenti da' poemi di Omero, va incontro alla difficultà, ch'in tal guisa essi non sarebbon poeti, perché le favole sarebbero le ritruovate da Omero. Però Orazio risponde loro che le favole epiche d'Omero diverranno favole tragiche propie, se essi staranno sopra questi tre avvisi. De' quali il primo è: se essi non ne faranno oziose parafrasi, come osserviamo tuttavia uomini leggere l'Orlando furioso o innamorato o altro romanzo in rima a' vili e larghi cerchi di sfaccendata gente gli dì delle feste, e, recitata ciascuna stanza, spiegarla loro in prosa con più parole; - il secondo, se non ne saranno fedeli traduttori; - il terzo ed ultimo avviso è: se finalmente non ne saranno servili imitatori, ma, seguitando i costumi ch'Omero attribuisce a' suoi eroi, eglino da tali stessi costumi faranno uscire altri sentimenti, altri parlari, altre azioni conformi, e sì circa i medesimi subbietti saranno altri poeti da Omero. Così nella stess'Arte lo stesso Orazio chiama «poeta ciclico» un poeta triviale e da fiera. Sì fatti autori ordinariamente si leggono detti kúklioi ed enkúklioi e la loro raccolta ne fu detta kúklos epikós, kúklia épe, póiema enkúklikon e, senz'aggiunta alcuna, talora kúklos, come osserva Gerardo Langbenio nella sua prefazione a Dionigi Longino. Talché di questa maniera può essere ch'Esiodo, il quale contiene tutte favole di dèi, egli fusse stato innanzi d'Omero. XVIII Per questa ragione lo stesso è da dirsi d'Ippocrate, il quale lasciò molte e grandi opere scritte non già in verso ma in prosa, che perciò naturalmente non si potevano conservar a memoria: ond'egli è da porsi circa i tempi d'Erodoto. XIX Per tutto ciò il Vossio troppo di buona fede ha creduto confutare Giuseffo con tre iscrizioni eroiche, una d'Anfitrione, la seconda d'Ippocoonte, la terza di Laomedonte (imposture somiglianti a quelle che fanno tuttavia i falsatori delle medaglie); e Martino Scoockio assiste a Giuseffo contro del Vossio. XX A cui aggiugniamo che Omero non mai fa menzione di lettere greche volgari, e la lettera da Preto scritta ad Euria, insidiosa a Bellerofonte, come abbiamo altra volta sopra osservato, dice essere stata scritta per sémata. XXI Che Aristarco emendò i poemi d'Omero, i quali pure ritengono tanta varietà di dialetti, tante sconcezze di favellari, che deon essere stati vari idiotismi de' popoli della Grecia e tante licenze eziandio di misure. XXII Di Omero non si sa la patria, come si è sopra notato. XXIII Quasi tutti i popoli della Grecia il vollero lor cittadino, come si è osservato pur sopra. XXIV Sopra si son arrecate forti congetture l'Omero dell'Odissea essere stato dell'occidente di Grecia verso mezzodì, e quello dell'Iliade essere stato dell'oriente verso settentrione. XXV Non se ne sa nemmeno l'età. XXVI E l'oppenioni ne sono sì molte e cotanto varie, che 'l divario è lo spazio di quattrocensessant'anni, ponendolo, dalle sommamente opposte tra loro, una a' tempi della guerra di Troia, l'altra verso i tempi di Numa. XXVII Dionigi Longino, non potendo dissimulare la gran diversità degli stili de' due poemi, dice che Omero essendo giovine compose l'Iliade e vecchio poi l'Odissea: particolarità invero da sapersi di chi non si seppero le due cose più rilevanti nella storia, che sono prima il tempo e poi il luogo, delle quali ci ha lasciato al buio, ove ci narra del maggior lume di Grecia. XXVIII Lo che dee togliere tutta la fede ad Erodoto, o chi altro ne sia l'autore, nella Vita d'Omero, ove ne racconta tante belle varie minute cose, che n'empie un giusto volume; ed alla Vita che ne scrisse Plutarco, il qual, essendo filosofo, ne parlò con maggiore sobrietà. XXIX Ma forse Longino formò cotal congettura, perché Omero spiega nell'Iliade la collera e l'orgoglio d'Achille, che sono propietà di giovani, e nell'Odissea narra le doppiezze e le cautele di Ulisse, che sono costumi di vecchi. XXX È pur tradizione che Omero fu cieco, e dalla cecità prese sì fatto nome, ch'in lingua ionica vuol dir «cieco». XXXI Ed Omero stesso narra ciechi i poeti che cantano nelle cene de' grandi, come cieco colui che canta in quella che dà Alcinoo ad Ulisse, e pur cieco l'altro che canta nella cena de' proci. XXXII Ed è propietà di natura umana ch'i ciechi vagliono maravigliosamente nella memoria. XXXIII E finalmente ch'egli fu povero e andò per gli mercati di Grecia cantando i suoi propi poemi. II DISCOVERTA DEL VERO OMERO. Or tutte queste cose e ragionate da noi e narrate da altri d'intorno ad Omero e i di lui poemi, senza punto averloci noi eletto o proposto, tanto che nemmeno avevamo sopra ciò riflettuto, quando (né con tal metodo col quale ora questa Scienza si è ragionata) acutissimi ingegni d'uomini eccellenti in dottrina ed erudizione, con leggere la Scienza nuova la prima volta stampata, sospettarono che Omero finor creduto non fusse vero: tutte queste cose, dico, ora ci strascinano ad affermare che tale sia adivenuto di Omero appunto quale della guerra troiana, che, quantunque ella dia una famosa epoca de' tempi alla storia, pur i critici più avveduti giudicano che quella non mai siesi stata fatta nel mondo. E certamente, se, come della guerra troiana, così di Omero non fussero certi grandi vestigi rimasti, quanti sono i di lui poemi, a tante difficultà si direbbe che Omero fusse stato un poeta d'idea, il quale non fu particolar uomo in natura. Ma tali e tante difficultà, e insiememente i poemi di lui pervenutici, sembrano farci cotal forza d'affermarlo per la metà: che quest'Omero sia egli stato un'idea ovvero un carattere eroico d'uomini greci, in quanto essi narravano, cantando, le loro storie. 1. LE SCONCEZZE E INVERISIMIGLIANZE DELL'OMERO FINOR CREDUTO DIVENGONO NELL'OMERO QUI SCOVERTO CONVENEVOLEZZE E NECESSITA`. Per sì fatta discoverta tutte le cose e discorse e narrate, che sono sconcezze e inverisimiglianze nell'Omero finor creduto, divengono nell'Omero qui ritruovato tutte convenevolezze e necessità. E primieramente le stesse cose massime lasciateci incerte di Omero ci violentano I Che per ciò i popoli greci cotanto contesero della di lui patria e 'l vollero quasi tutti lor cittadino, perché essi popoli greci furono quest'Omero. II Che per ciò variino cotanto l'oppenioni d'intorno alla di lui età, perché un tal Omero veramente egli visse per le bocche e nella memoria di essi popoli greci dalla guerra troiana fin a' tempi di Numa, che fanno lo spazio di quattrocensessant'anni. III E la cecità IV e la povertà d'Omero furono de' rapsòdi, i quali, essendo ciechi, onde ogniun di loro si disse «omèro», prevalevano nella memoria, ed essendo poveri, ne sostentavano la vita con andar cantando i poemi d'Omero per le città della Grecia, de' quali essi eran autori, perch'erano parte di que' popoli che vi avevano composte le loro istorie. V Così Omero compose giovine l'Iliade, quando era giovinetta la Grecia e, 'n conseguenza, ardente di sublimi passioni, come d'orgoglio, di collera, di vendetta, le quali passioni non soffrono dissimulazione ed amano generosità; onde ammirò Achille, eroe della forza: ma vecchio compose poi l'Odissea, quando la Grecia aveva alquanto raffreddato gli animi con la riflessione, la qual è madre dell'accortezza; onde ammirò Ulisse, eroe della sapienza. Talché a' tempi d'Omero giovine a' popoli della Grecia piacquero la crudezza, la villania, la ferocia, la fierezza, l'atrocità: a' tempi d'Omero vecchio già gli dilettavano i lussi d'Alcinoo, le delizie di Calipso, i piaceri di Circe, i canti delle sirene, i passatempi de' proci e di, nonché tentare, assediar e combattere le caste Penelopi; i quali costumi, tutti ad un tempo, sopra ci sembrarono incompossibili. La qual difficultà poté tanto nel divino Platone che, per solverla, disse che Omero aveva preveduti in estro tali costumi nauseanti, morbidi e dissoluti. Ma egli, così, fece Omero uno stolto ordinatore della greca civiltà, perché, quantunque gli condanni, però insegna i corrotti e guasti costumi, i quali dovevano venire dopo lungo tempo ordinate le nazioni di Grecia, affinché, affrettando il natural corso che fanno le cose umane, i greci alla corrottella più s'avacciassero. VI In cotal guisa si dimostra l'Omero autor dell'Iliade avere di molt'età preceduto l'Omero autore dell'Odissea. VII Si dimostra che quello fu dell'oriente di Grecia verso settentrione, che cantò la guerra troiana fatta nel suo paese; e che questo fu dell'occidente di Grecia verso mezzodì, che canta Ulisse, ch'aveva in quella parte il suo regno. VIII Così Omero, sperduto dentro la folla de' greci popoli, non solo si giustifica di tutte le accuse che gli sono state fatte da' critici, e particolarmente: IX delle vili sentenze, X de' villani costumi, XI delle crude comparazioni, XII degl'idiotismi, XIII delle licenze de' metri, XIV dell'incostante varietà de' dialetti, XV e di avere fatto gli uomini dèi e gli dèi uomini. Le quali favole Dionigi Longino non si fida di sostenere che co' puntelli dell'allegorie filosofiche, cioè a dire che, come suonano cantate a' greci, non possono avergli produtto la gloria d'essere stato l'ordinatore della greca civiltà: la qual difficultà ricorre in Omero la stessa, che noi sopra, nell'Annotazioni alla Tavola cronologica, facemmo contro d'Orfeo, detto il fondatore dell'umanità della Grecia. Ma le sopradette furono tutte propietà di essi popoli greci, e particolarmente l'ultima: che, nel fondarsi, come la teogonia naturale sopra l'ha dimostrato, i greci di sì pii, religiosi, casti, forti, giusti e magnanimi, tali fecero i dèi; e poscia, col lungo volger degli anni, con l'oscurarsi le favole e col corrompersi de' costumi, come si è a lungo nella Sapienza poetica ragionato, da sé, dissoluti estimaron gli dèi, - per quella Degnità, la qual è stata sopra proposta: che gli uomini naturalmente attirano le leggi oscure o dubbie alla loro passione ed utilità, - perché temevano gli dèi contrari a' loro voti, se fussero stati contrari a' di loro costumi, com'altra volta si è detto. XVI Ma di più appartengono ad Omero per giustizia i due grandi privilegi, che 'n fatti son uno, che gli danno Aristotile, che le bugie poetiche, Orazio, che i caratteri eroici solamente si seppero finger da Omero. Onde Orazio stesso si professa di non esser poeta, perché o non può o non sa osservare quelli che chiama «colores operum», che tanto suona quanto le «bugie poetiche», le quali dice Aristotile; come appresso Plauto si legge «obtinere colorem» nel sentimento di «dir bugia che per tutti gli aspetti abbia faccia di verità», qual dev'esser la buona favola. Ma, oltre a questi, gli convengono tutti gli altri privilegi, ch'a lui danno tutti i maestri d'arte poetica, d'essere stato incomparabile: XVII in quelle sue selvagge e fiere comparazioni, XVIII in quelle sue crude ed atroci descrizioni di battaglie e di morti, XIX in quelle sue sentenze sparse di passioni sublimi, XX in quella sua locuzione piena di evidenza e splendore. Le quali tutte furono propietà dell'età eroica de' greci, nella quale e per la quale fu Omero incomparabil poeta; perché, nell'età della vigorosa memoria, della robusta fantasia e del sublime ingegno, egli non fu punto filosofo. XXI Onde né filosofie, né arti poetiche e critiche, le quali vennero appresso, poterono far un poeta che per corti spazi potesse tener dietro ad Omero. E, quel ch'è più, egli fa certo acquisto degli tre immortali elogi, che gli son dati: XXII primo, d'essere stato l'ordinatore della greca polizia o sia civiltà; XXIII secondo, d'essere stato il padre di tutti gli altri poeti; XXIV terzo, d'essere stato il fonte di tutte le greche filosofie: niuno de' quali all'Omero finor creduto poteva darsi. Non lo primo, perché, da' tempi di Deucalione e Pirra, vien Omero da mille e ottocento anni dopo essersi incominciata co' matrimoni a fondare la greca civiltà, come si è dimostrato in tutta la scorsa della Sapienza poetica che la fondò. Non lo secondo, perché prima d'Omero fiorirono certamente i poeti teologi, quali furon Orfeo, Anfione, Lino, Museo ed altri, tra' quali i cronologi han posto Esiodo e fattolo di trent'anni prevenir ad Omero; altri poeti eroici innanzi d'Omero sono affermati da Cicerone nel Bruto e nominati da Eusebio nella Preparazione evangelica, quali furono Filamone, Temirida, Demodoco, Epimenide, Aristeo ed altri. Non finalmente il terzo, imperciocché, come abbiamo a lungo ed appieno nella Sapienza poetica dimostrato, i filosofi nelle favole omeriche non ritruovarono, ma ficcarono essi le loro filosofie; ma essa sapienza poetica, con le sue favole, diede l'occasioni a' filosofi di meditare le lor altissime verità, e diede altresì le comodità di spiegarle, conforme il promettemmo nel di lui principio e 'l facemmo vedere per tutto il libro secondo. 2. I POEMI D'OMERO SI TRUOVANO DUE GRANDI TESORI DEL DIRITTO NATURALE DELLE GENTI DI GRECIA. Ma sopra tutto, per tal discoverta, gli si aggiugne una sfolgorantissima lode: XXV d'esser Omero stato il primo storico, il quale ci sia giunto di tutta la gentilità; XXVI onde dovranno, quindi appresso, i di lui poemi salire nell'alto credito d'essere due grandi tesori de' costumi dell'antichissima Grecia. Tanto che lo stesso fato è avvenuto de' poemi d'Omero, che avvenne della legge delle XII Tavole: perché, come queste, essendo state credute leggi date da Solone agli ateniesi, e quindi fussero venute a' romani, ci hanno tenuto finor nascosta la storia del diritto naturale delle genti eroiche del Lazio; così, perché tai poemi sono stati creduti lavori di getto d'un uomo particolare, sommo e raro poeta, ci hanno tenuta finor nascosta l'istoria del diritto naturale delle genti di Grecia. 3. ISTORIA DE' POETI DRAMATICI E LIRICI RAGIONATA. Già dimostrammo sopra tre essere state l'età de' poeti innanzi d'Omero: la prima de' poeti teologi, ch'i medesimi furon eroi, i quali cantarono favole vere e severe; la seconda de' poeti eroici, che l'alterarono e le corruppero; la terza d'Omero, ch'alterate e corrotte le ricevette. Ora la stessa critica metafisica sopra la storia dell'oscurissima antichità, ovvero la spiegazione dell'idee ch'andarono naturalmente faccendo le antichissime nazioni, ci può illustrar e distinguere la storia de' poeti dramatici e lirici, della quale troppo oscura e confusamente hanno scritto i filologi. Essi pongono tra' lirici Anfione metinneo, poeta antichissimo de' tempi eroici, e ch'egli ritruovò il ditirambo e, con quello, il coro, e che introdusse i satiri a cantar in versi, e che 'l ditirambo era un coro menato in giro, che cantava versi fatti in lode di Bacco. Dicono che dentro il tempo della lirica fiorirono insigni tragici, e Diogene Laerzio afferma che la prima tragedia fu rappresentata dal solo coro. Dicono ch'Eschilo fu il primo poeta tragico, e Pausania racconta essere stato da Bacco comandato a scriver tragedie (quantunque Orazio narri Tespi esserne stato l'autore, ove nell'Arte poetica incomincia dalla satira a trattare della tragedia, e che Tespi introdusse la satira sui carri nel tempo delle vendemmie); che appresso venne Sofocle, il quale da Palemone fu detto l'«Omero de' tragici»; e che compiè la tragedia finalmente Euripide, che Aristotile chiama traghikótaton. Dicono che dentro la medesima età provenne Aristofane, che ritruovò la commedia antica ed aprì la strada alla nuova (nella quale caminò poi Menandro), per la commedia d'Aristofane intitolata Le nebbie, che portò a Socrate la rovina. Poi altri di loro pongono Ippocrate nel tempo de' tragici, altri in quello de' lirici. Ma Sofocle ed Euripide vissero alquanto innanzi i tempi della legge delle XII Tavole, e i lirici vennero anco dappoi; lo che sembra assai turbar la cronologia, che pone Ippocrate ne' tempi de' sette savi di Grecia. La qual difficultà per solversi, deesi dire che vi furono due spezie di poeti tragici ed altrettante di lirici. I lirici antichi devon essere prima stati gli autori degl'inni in lode degli dèi, della spezie della quale sono quelli che si dicon d'Omero, tessuti in verso eroico; dipoi deon essere stati i poeti di quella lirica onde Achille canta alla lira le laudi degli eroi trappassati. Siccome tra' latini i primi poeti furono gli autori de' versi saliari, ch'erano inni che si cantavano nelle feste degli dèi da' sacerdoti chiamati «salii» (forse detti così dal saltare, come saltando in giro s'introdusse il primo coro tra' greci), i frantumi de' quali versi sono le più antiche memorie che ci son giunte della lingua latina, c'hanno un'aria di verso eroico, com'abbiamo sopra osservato. E tutto ciò convenevolmente a questi princìpi dell'umanità delle nazioni, che ne' primi tempi, i quali furon religiosi, non dovetter altro lodar che gli dèi (siccome a' tempi barbari ultimi ritornò tal costume religioso, ch'i sacerdoti, i quali soli, come in quel tempo, erano letterati, non composero altre poesie che inni sagri); appresso, ne' tempi eroici, non dovetter ammirare e celebrare che forti fatti d'eroi, come gli cantò Achille. Così di tal sorta di lirici sagri dovett'esser Anfione metinneo, il qual altresì fu autore del ditirambo; e che il ditirambo fu il primo abbozzo della tragedia, tessuta in verso eroico (che fu la prima spezie di verso nel quale cantarono i greci, come sopra si è dimostrato); e sì il ditirambo d'Anfione sia stata la prima satira, dalla qual Orazio comincia a ragionare della tragedia. I nuovi furono i lirici melici, de' quali è principe Pindaro, che scrissero in versi che nella nostra italiana favella si dicon «arie per musica»; la qual sorta di verso dovette venire dopo del giambico, che fu la spezie di verso nel quale, come sopra si è dimostrato, volgarmente i greci parlarono dopo l'eroico. Così Pindaro venne ne' tempi della virtù pomposa di Grecia, ammirata ne' giuochi olimpici, ne' quali tai lirici poeti cantarono; siccome Orazio venne a' tempi più sfoggiosi di Roma, quali furono quelli sotto di Augusto; e nella lingua italiana è venuta la melica ne' di lei tempi più inteneriti e più molli. I tragici poi e i comici corsero dentro questi termini: che Tespi in altra parte di Grecia, come Anfione in altra, nel tempo della vendemmia diede principio alla satira, ovvero tragedia antica, co' personaggi de' satiri, ch'in quella rozzezza e semplicità dovettero ritruovare la prima maschera col vestire i piedi, le gambe e cosce di pelli caprine, che dovevan aver alla mano, e tingersi i volti e 'l petto di fecce d'uva, ed armar la fronte di corna (onde forse finor, appresso di noi, i vendemmiatori si dicono volgarmente «cornuti»); e sì può esser vero che Bacco, dio della vendemmia, avesse comandato ad Eschilo di comporre tragedie; e tutto ciò convenevolmente a' tempi che gli eroi dicevano i plebei esser mostri di due nature, cioè d'uomini e di caproni, come appieno sopra si è dimostrato. Così è forte congettura che anzi da tal maschera che da ciò: - che in premio a chi vincesse in tal sorta di far versi si dasse un capro (il qual Orazio, senza farne poi uso, riflette e chiama pur «vile»), il quale si dice trágos, - avesse preso il nome la tragedia, e ch'ella avesse incominciato da questo coro di satiri. E la satira serbò quest'eterna propietà, con la qual ella nacque, di dir villanie ed ingiurie, perché i contadini, così rozzamente mascherati sopra i carri co' quali portavano l'uve, avevano licenza, la qual ancor oggi hanno i vendemmiatori della nostra Campagna felice, che fu detta «stanza di Bacco», di dire villanie a' signori. Quindi s'intenda con quanto di verità poscia gli addottrinati nella favola di Pane, perché pãn significa «tutto», ficcarono la mitologia filosofica che significhi l'universo, e che le parti basse pelose voglian dire la terra, il petto e la faccia rubiconda dinotino l'elemento del fuoco, e le corna significhino il sole e la luna. Ma i romani ce ne serbarono la mitologia istorica in essa voce «satyra», la quale, come vuol Festo, fu vivanda di varie spezie di cibi: donde poi se ne disse «lex per satyram» quella la quale conteneva diversi capi di cose: siccome nella satira dramatica, ch'ora qui ragioniamo, al riferire di esso Orazio (poiché né de' latini né de' greci ce n'è giunta pur una), comparivano diverse spezie di persone, come dèi, eroi, re, artegiani e servi. Perché la satira, la quale restò a' romani, non tratta di materie diverse, poiché è assegnata ciascheduna a ciaschedun argomento. Poscia Eschilo portò la tragedia antica, cioè cotal satira, nella tragedia mezzana con maschere umane, trasportando il ditirambo d'Anfione, ch'era coro di satiri, in coro d'uomini. E la tragedia mezzana dovett'esser principio della commedia antica, nella quale si ponevan in favola grandi personaggi, e perciò le convenne il coro. Appresso vennero Sofocle prima, e poi Euripide, che ci lasciarono la tragedia ultima. Ed in Aristofane finì la commedia antica, per lo scandalo succeduto nella persona di Socrate; e Menandro ci lasciò la commedia nuova, lavorata su personaggi privati e finti, i quali, perché privati, potevan esser finti, e perciò esser creduti per veri, come sopra si è ragionato; onde dovette non più intervenirvi il coro, ch'è un pubblico che ragiona, né di altro ragiona che di cose pubbliche. In cotal guisa fu tessuta la satira in verso eroico, come la conservarono poscia i latini, perché in verso eroico parlarono i primi popoli, i quali appresso parlarono in verso giambico; e perciò la tragedia fu tessuta in verso giambico per natura, e la commedia lo fu per una vana osservazione d'esemplo, quando i popoli greci già parlavano in prosa. E convenne certamente il giambico alla tragedia, perocch'è verso nato per isfogare la collera, che cammina con un piede ch'Orazio chiama «presto» (lo che in una Degnità si è avvisato): siccome dicono volgarmente che Archiloco avesselo ritruovato per isfogare la sua contro di Licambe, il quale non aveva voluto dargli in moglie la sua figliuola, e con l'acerbezza de' versi avesse ridutti la figliuola col padre alla disperazion d'afforcarsi: che dev'esser un'istoria di contesa eroica d'intorno a' connubi, nella qual i plebei sollevati dovetter afforcar i nobili con le loro figliuole. Quindi esce quel mostro d'arte poetica, ch'un istesso verso violento, rapido e concitato convenga a poema tanto grande quanto è la tragedia, la qual Platone stima più grande dell'epopea, e ad un poema dilicato qual è la commedia; e che lo stesso piede, propio, come si è detto, per isfogare collera e rabbia, nelle quali proromper dee atrocissime la tragedia, siesi egualmente buono a ricevere scherzi, giuochi e teneri amori, che far debbono alla commedia tutta la piacevolezza ed amenità. Questi stessi nomi non diffiniti di poeti «lirici» e «tragici» fecero porre Ippocrate a' tempi de' sette savi; il quale dev'esser posto circa i tempi d'Erodoto, perché venne in tempi ch'ancora si parlava buona parte per favole (com'è di favole tinta la di lui vita, ed Erodoto narra in gran parte per favole le sue storie), e non solo si era introdutto il parlare da prosa, ma anco lo scrivere per volgari caratteri, co' quali Erodoto le sue storie, ed egli scrisse in medicina le molte opere che ci lasciò, siccome altra volta sopra si è detto. LIBRO QUARTO DEL CORSO CHE FANNO LE NAZIONI. In forza de' princìpi di questa Scienza, stabiliti nel libro primo; e dell'origini di tutte le divine ed umane cose della gentilità, ricercate e discoverte dentro la Sapienza poetica nel libro secondo; e nel libro terzo ritruovati i poemi d'Omero essere due grandi tesori del diritto naturale delle genti di Grecia, siccome la legge delle XII Tavole era stata già da noi ritruovata esser un gravissimo testimone del diritto naturale delle genti del Lazio: - ora con tai lumi così di filosofia come di filologia, in séguito delle Degnità d'intorno alla storia ideal eterna già sopra poste, in questo libro quarto soggiugniamo il corso che fanno le nazioni, con costante uniformità procedendo in tutti i loro tanto vari e sì diversi costumi sopra la divisione delle tre età, che dicevano gli egizi essere scorse innanzi nel loro mondo, degli dèi, degli eroi e degli uomini. Perché sopra di essa si vedranno reggere con costante e non mai interrotto ordine di cagioni e d'effetti, sempre andante nelle nazioni, per tre spezie di nature; e da esse nature uscite tre spezie di costumi; da essi costumi osservate tre spezie di diritti naturali delle genti; e, 'n conseguenza di essi diritti, ordinate tre spezie di Stati civili o sia di repubbliche; e, per comunicare tra loro gli uomini venuti all'umana società tutte queste già dette tre spezie di cose massime, essersi formate tre spezie di lingue ed altrettante di caratteri; e, per giustificarle, tre spezie di giurisprudenze, assistite da tre spezie d'autorità e da altrettante di ragioni in altrettante spezie di giudizi; le quali giurisprudenze si celebrarono per tre sètte de' tempi, che professano in tutto il corso della lor vita le nazioni. Le quali tre speziali unità, con altre molte che loro vanno di séguito e saranno in questo libro pur noverate, tutte mettono capo in una unità generale, ch'è l'unità della religione d'una divinità provvedente, la qual è l'unità dello spirito, che informa e dà vita a questo mondo di nazioni. Le quali cose sopra sparsamente essendosi ragionate, qui si dimostra l'ordine del lor corso. I TRE SPEZIE DI NATURE. La prima natura, per forte inganno di fantasia, la qual è robustissima ne' debolissimi di raziocinio, fu una natura poetica o sia creatrice, lecito ci sia dire divina, la qual a' corpi diede l'essere di sostanze animate di dèi, e gliele diede dalla sua idea. La qual natura fu quella de' poeti teologi, che furono gli più antichi sappienti di tutte le nazioni gentili, quando tutte le gentili nazioni si fondarono sulla credenza, ch'ebbe ogniuna, di certi suoi propi dèi. Altronde era natura tutta fiera ed immane; ma, per quello stesso lor errore di fantasia, eglino temevano spaventosamente gli dèi ch'essi stessi si avevano finti. Di che restarono queste due eterne propietà: una, che la religione è l'unico mezzo potente a raffrenare la fierezza de' popoli; l'altra, ch'allora vanno bene le religioni, ove coloro che vi presiedono, essi stessi internamente le riveriscano. La seconda fu natura eroica, creduta da essi eroi di divina origine; perché, credendo che tutto facessero i dèi, si tenevano esser figliuoli di Giove, siccome quelli ch'erano stati generati con gli auspìci di Giove: nel qual eroismo essi, con giusto senso, riponevano la natural nobiltà: - perocché fussero della spezie umana; - per la qual essi furono i prìncipi dell'umana generazione. La quale natural nobiltà essi vantavano sopra quelli che dall'infame comunion bestiale, per salvarsi nelle risse ch'essa comunion produceva, s'erano dappoi riparati a' di lor asili: i quali, venutivi senza dèi, tenevano per bestie, siccome l'una e l'altra natura sopra si è ragionata. La terza fu natura umana, intelligente, e quindi modesta, benigna e ragionevole, la quale riconosce per leggi la coscienza, la ragione, il dovere. II TRE SPEZIE DI COSTUMI I primi costumi [furono] tutti aspersi di religione e pietà, quali ci si narrano quelli di Deucalione e Pirra, venuti di fresco dopo il diluvio. I secondi furono collerici e puntigliosi, quali sono narrati di Achille. I terzi son officiosi, insegnati dal propio punto de' civili doveri. III TRE SPEZIE DI DIRITTI NATURALI. Il primo diritto fu divino, per lo quale credevano e sé e le loro cose essere tutte in ragion degli dèi, sull'oppenione che tutto fussero o facessero i dèi. Il secondo fu eroico, ovvero della forza, ma però prevenuta già dalla religione, che sola può tener in dovere la forza, ove non sono, o, se vi sono, non vagliono, le umane leggi per raffrenarla. Perciò la provvedenza dispose che le prime genti, per natura feroci, fussero persuase di sì fatta loro religione, acciocché si acquetassero naturalmente alla forza, e che, non essendo capaci ancor di ragione, estimassero la ragione dalla fortuna, per la quale si consigliavano con la divinazion degli auspìci. Tal diritto della forza è 'l diritto di Achille, che pone tutta la ragione nella punta dell'asta. Il terzo è 'l diritto umano dettato dalla ragion umana tutta spiegata. IV TRE SPEZIE DI GOVERNI. I primi furono divini, che i greci direbbono «teocratici», ne' quali gli uomini credettero ogni cosa comandare gli dèi; che fu l'età degli oracoli, che sono la più antica delle cose che si leggono sulla storia. I secondi furono governi eroici ovvero aristocratici, ch'è tanto dire quanto «governi d'ottimati», in significazion di «fortissimi»; ed anco, in greco, «governi d'Eraclidi» o usciti da razza erculea, in sentimento di «nobili», quali furono sparsi per tutta l'antichissima Grecia, e poi restò lo spartano; ed eziandio «governi di cureti», ch'i greci osservarono sparsi nella Saturnia, o sia antica Italia, in Creta ed in Asia; e quindi «governo di quiriti» ai romani, o sieno di sacerdoti armati in pubblica ragunanza. Ne' quali, per distinzion di natura più nobile, perché creduta di divina origine, ch'abbiam sopra detto, tutte le ragioni civili erano chiuse dentro gli ordini regnanti de' medesimi eroi, ed a' plebei, come riputati d'origine bestiale, si permettevano i soli usi della vita e della natural libertà. I terzi sono governi umani, ne' quali, per l'ugualità di essa intelligente natura, la qual è la propia natura dell'uomo, tutti si uguagliano con le leggi, perocché tutti sien nati liberi nelle loro città, così libere popolari, ove tutti o la maggior parte sono esse forze giuste della città, per le quali forze giuste son essi i signori della libertà popolare; o nelle monarchie, nelle qual'i monarchi uguagliano tutti i soggetti con le lor leggi, e, avendo essi soli in lor mano tutta la forza dell'armi, essi vi sono solamente distinti in civil natura. V TRE SPEZIE DI LINGUE. Tre spezie di lingue. Delle quali la prima fu una lingua divina mentale per atti muti religiosi, o sieno divine cerimonie; onde restaron in ragion civile a' romani gli atti legittimi, co' quali celebravano tutte le faccende delle loro civili utilità. Qual lingua si conviene alle religioni per tal eterna propietà: che più importa loro essere riverite che ragionate; e fu necessaria ne' primi tempi, che gli uomini gentili non sapevano ancora articolar la favella. La seconda fu per imprese eroiche, con le quali parlano l'armi; la qual favella, come abbiam sopra detto, restò alla militar disciplina. La terza è per parlari, che per tutte le nazioni oggi s'usano, articolati. VI TRE SPEZIE DI CARATTERI. Tre spezie di caratteri. De' qual'i primi furon divini, che propiamente si dissero «geroglifici», de' quali sopra pruovammo che ne loro princìpi si servirono tutte le nazioni. E furono certi universali fantastici, dettati naturalmente da quell'innata propietà della mente umana di dilettarsi dell'uniforme (di che proponemmo una Degnità), lo che non potendo fare con l'astrazione per generi, il fecero con la fantasia per ritratti. A' quali universali poetici riducevano tutte le particolari spezie a ciascun genere appartenenti, com'a Giove tutte le cose degli auspìci, a Giunone tutte le cose delle nozze, e così agli altri l'altre. I secondi furono caratteri eroici, ch'erano pur universali fantastici, a' quali riducevano le varie spezie delle cose eroiche: come ad Achille tutti i fatti de' forti combattidori, ad Ulisse tutti i consigli de' saggi. I quali generi fantastici, con avvezzarsi poscia la mente umana ad astrarre le forme e le propietà da' subbietti, passarono in generi intelligibili, onde provennero appresso i filosofi; da' quali poscia gli autori della commedia nuova, la quale venne ne' tempi umanissimi della Grecia, presero i generi intelligibili de' costumi umani e ne fecero ritratti nelle loro commedie. Finalmente si ritruovarono i volgari caratteri, i quali andarono di compagnia con le lingue volgari: poiché, come queste si compongono di parole, che sono quasi generi de' particolari co' quali avevan innanzi parlato le lingue eroiche (come, per l'esemplo sopra arrecato, della frase eroica «mi bolle il sangue nel cuore», ne fecero questa voce: «m'adiro»); così di cenventimila caratteri geroglifici, che, per esemplo, usano fin oggi i chinesi, ne fecero poche lettere, alle quali, come generi, si riducono le cenventimila parole delle quali i chinesi compongono la loro lingua articolata volgare. Il qual ritruovato è certamente un lavoro di mente ch'avesse più che dell'umana; onde sopra udimmo Bernardo da Melinckrot ed Ingewaldo Elingio che 'l credono ritruovato divino. E tal comun senso di maraviglia è facile ch'abbia mosso le nazioni a credere ch'uomini eccellenti in divinità avesser loro ritruovate sì fatte lettere, come san Girolamo agl'illiri, come san Cirillo agli slavi, come altri ad altre, conforme osserva e ragiona Angelo Rocha nella Biblioteca vaticana, ove gli autori delle lettere, che diciamo «volgari», coi lor alfabeti sono dipinti. Le quali oppenioni si convincono manifestamente di falso col solo domandare: - Perché non l'insegnarono le loro propie? - La qual difficultà abbiam noi sopra fatto di Cadmo, che dalla Fenicia aveva portato a' greci le lettere, e questi poi usarono forme di lettere cotanto diverse dalle fenicie. Dicemmo sopra tali lingue e tali lettere esser in signoria del volgo de' popoli, onde sono dette e l'une e l'altre «volgari». Per cotal signoria e di lingue e di lettere debbon i popoli liberi esser signori delle lor leggi, perché danno alle leggi que' sensi ne' quali vi traggono ad osservarle i potenti, che, come nelle Degnità fu avvisato, non le vorrebbono. Tal signoria è naturalmente niegato a' monarchi di toglier a' popoli; ma, per questa stessa loro niegata natura di umane cose civili, tal signoria, inseparabile da' popoli, fa in gran parte la potenza d'essi monarchi, perch'essi possano comandare le loro leggi reali, alle quali debbano star i potenti, secondo i sensi ch'a quelle danno i lor popoli. Per tal signoria di volgari lettere e lingue è necessario, per ordine di civil natura, che le repubbliche libere popolari abbiano preceduto alle monarchie. VII TRE SPEZIE DI GIURISPRUDENZE. Tre spezie di giurisprudenze, ovvero sapienze. La prima fu una sapienza divina, detta, come sopra vedemmo, «teologia mistica», che vuol dire «scienza di divini parlari» o d'intendere i divini misteri della divinazione, e sì fu scienza in divinità d'auspìci e sapienza volgare, della quale furono sappienti i poeti teologi, che furono i primi sappienti del gentilesimo; e da tal mistica teologia essi se ne dissero «mystæ», i quali Orazio, con iscienza, volta «interpetri degli dèi». Talché di questa prima giurisprudenza fu il primo e propio «interpretari», detto quasi «interpatrari», cioè «entrare in essi padri», quali furono dapprima detti gli dèi, come si è sopra osservato: che Dante direbbe «indiarsi» cioè entrare nella mente di Dio. E tal giurisprudenza estimava il giusto dalla sola solennità delle divine cerimonie; onde venne a' romani tanta superstizione degli atti legittimi, e nelle loro leggi ne restarono quelle frasi «iustæ nuptiæ», e «iustum testamentum», per nozze e testamento «solenni». La seconda fu la giurisprudenza eroica, di cautelarsi con certe propie parole, qual è la sapienza di Ulisse, il quale, appo Omero, sempre parla sì accorto, che consiegua la propostasi utilità, serbata sempre la propietà delle sue parole. Onde tutta la riputazione de' giureconsulti romani antichi consisteva in quel lor «cavere»; e quel loro «de iure respondere» pur altro non era che cautelar coloro, ch'avevano da sperimentar in giudizio la lor ragione, d'esporre al pretore i fatti così circostanziati, che le formole dell'azioni vi cadessero sopra a livello, talché il pretore non potesse loro niegarle. Così, a' tempi barbari ritornati, tutta la riputazion de' dottori era in truovar cautele d'intorno a' contratti o ultime volontà ed in saper formare domande di ragione ed articoli: ch'era appunto il «cavere» e «de iure respondere» de' romani giureconsulti. La terza è la giurisprudenza umana, che guarda la verità d'essi fatti e piega benignamente la ragion delle leggi a tutto ciò che richiede l'ugualità delle cause; la qual giurisprudenza si celebra nelle repubbliche libere popolari, e molto più sotto le monarchie, ch'entrambe sono governi umani. Talché le giurisprudenze divina ed eroica si attennero al certo ne' tempi delle nazioni rozze; l'umana guarda il vero ne' tempi delle medesime illuminate. E tutto ciò, in conseguenza delle diffinizioni del certo e del vero, e delle Degnità che se ne sono poste negli Elementi. VIII TRE SPEZIE D'AUTORITA`. Furono tre spezie d'autorità. Delle quali la prima è divina, per la quale dalla provvedenza non si domanda ragione; la seconda eroica, riposta tutta nelle solenni formole delle leggi; la terza umana, riposta nel credito di persone sperimentate, di singolar prudenza nell'agibili e di sublime sapienza nell'intelligibili cose. Le quali tre spezie d'autorità, ch'usa la giurisprudenza dentro il corso che fanno le nazioni, vanno di séguito a tre sorte d'autorità de' senati, che si cangiano dentro il medesimo loro corso. Delle quali la prima fu autorità di dominio, dalla quale restarono detti «autores» coloro da' quali abbiamo cagion di dominio, ed esso dominio nella legge delle XII Tavole sempre «autoritas» vien appellato. La qual autorità mise capo ne' governi divini fin dallo stato delle famiglie, nel quale la divina autorità dovett'essere degli dèi, perch'era creduto, con giusto senso, tutto essere degli dèi. Convenevolmente, appresso, nelle aristocrazie eroiche, dove i senati composero (com'ancor in quelle de' nostri tempi compongono) la signoria, tal autorità fu di essi senati regnanti. Onde i senati eroici davano la lor approvagione a ciò ch'avevano innanzi trattato i popoli, che Livio dice «eius, quod populus iussisset, deinde patres fierent autores»: però, non dall'interregno di Romolo, come narra la storia, ma da' tempi più bassi dell'aristocrazia, ne' quali era stata comunicata la cittadinanza alla plebe, come sopra si è ragionato. Il qual ordinamento, come lo stesso Livio dice, «sæpe spectabat ad vim», sovente minacciava rivolte; tanto che, se 'l popolo ne voleva venir a capo, doveva, per esemplo, nominar i consoli ne' qual'inchinasse il senato: appunto come sono le nominazioni de' maestrati che si fanno da' popoli sotto le monarchie. Dalla legge di Publilio Filone in poi, con la quale fu dichiarato il popolo romano libero ed assoluto signor dell'imperio, come sopra si è detto, l'autorità del senato fu di tutela; conforme l'approvagione de' tutori a' negozi che si trattano da' pupilli, che sono signori de' loro patrimoni, si dice «autoritas tutorum». La qual autorità si prestava dal senato al popolo in essa formola della legge, conceputa innanzi in senato, nella quale, conforme dee prestarsi l'autorità da' tutori a' pupilli, il senato fusse presente al popolo, presente nelle grandi adunanze, nell'atto presente di comandar essa legge, s'egli volessela comandare; altrimente, l'antiquasse e «probaret antiqua», ch'è tanto dire quanto ch'egli dichiarasse che non voleva novità. E tutto ciò, acciocché il popolo, nel comandare le leggi, per cagione del suo infermo consiglio, non facesse un qualche pubblico danno, e perciò, nel comandarle, si facesse regolar dal senato. Laonde le formole delle leggi, che dal senato si portavano al popolo perch'egli le comandasse, sono con iscienza da Cicerone diffinite «perscriptæ autoritates»: non autorità personali, come quelle de' tutori, i quali con la loro presenza appruovano gli atti che si fan da' pupilli: ma autorità distese a lungo in iscritto (ché tanto suona «perscribere»), a differenza delle formole dell'azioni, scritte «per notas», le quali non s'intendevan dal popolo. Ch'è quello ch'ordinò la legge Publilia: che, da essa in poi, l'autorità del senato, per dirla come Livio la riferisce, «valeret in incertum comitiorum eventum». Passò finalmente la repubblica dalla libertà popolare sotto la monarchia, e succedette la terza spezie d'autorità, ch'è di credito o di riputazione in sapienza, e perciò autorità di consiglio, dalla qual i giureconsulti sotto gl'imperadori se ne dissero «autores». E tal autorità dev'essere de' senati sotto i monarchi, i quali son in piena ed assoluta libertà di seguir o no ciò che loro han consigliato i senati. IX TRE SPEZIE DI RAGIONI. 1. RAGIONE DIVINA E RAGIONE DI STATO. Furono tre le spezie delle ragioni. La prima, divina, di cui Iddio solamente s'intende, e tanto ne sanno gli uomini quanto è stato loro rivelato: agli ebrei prima e poi a' cristiani, per interni parlari, alle menti, perché voci d'un Dio tutto mente; ma con parlari esterni, così da' profeti, come da Gesù Cristo agli appostoli, e da questi palesati alla Chiesa; - a' gentili, per gli auspìci, per gli oracoli ed altri segni corporei creduti divini avvisi, perché creduti venire dagli dèi, ch'essi gentili credevano esser composti di corpo. Talché in Dio, ch'è tutto ragione, la ragion e l'autorità è una medesima cosa; onde nella buona teologia la divina autorità tiene lo stesso luogo che di ragione. Ov'è da ammirare la provvedenza, che, ne' primi tempi che gli uomini del gentilesimo non intendevan ragione (lo che sopra tutto dovett'essere nello stato delle famiglie), permise loro ch'entrassero nell'errore di tener a luogo di ragione l'autorità degli auspìci e co' creduti divini consigli di quelli si governassero, per quella eterna propietà: ch'ove gli uomini nelle cose umane non vedon ragione, e molto più se la vedon contraria, s'acquetano negl'imperscrutabili consigli che si nascondono nell'abisso della provvedenza divina. La seconda fu la ragion di Stato, detta da' romani «civilis æquitas», la quale Ulpiano tralle Degnità sopra ci diffinì da ciò ch'ella non è naturalmente conosciuta da ogni uomo, ma da pochi pratici di governo, che sappian vedere ciò ch'appartiensi alla conservazione del gener umano. Della quale furono naturalmente sappienti i senati eroici, e sopra tutti fu il romano, sappientissimo ne' tempi della libertà così aristocratica, ne' quali la plebe era affatto esclusa di trattar cose pubbliche, come della popolare, per tutto il tempo che 'l popolo nelle pubbliche faccende si fece regolar dal senato, che fu fin a' tempi de' Gracchi. 2. COROLLARIO: DELLA SAPIENZA DI STATO DEGLI ANTICHI ROMANI. Quindi nasce un problema, che sembra assai difficile a solversi: come ne' tempi rozzi di Roma fussero stati sappientissimi di Stato i romani, e ne' loro tempi illuminati dice Ulpiano ch'«oggi di Stato s'intendono soli e pochi pratici di governo»? - Perché, per quelle stesse naturali cagioni che produssero l'eroismo de' primi popoli, gli antichi romani, che furono gli eroi del mondo, essi naturalmente guardavano la civil equità, la qual era scrupolosissima delle parole con le quali parlavan le leggi; e, con osservarne superstiziosamente le lor parole, facevano camminare le leggi diritto per tutti i fatti, anco dov'esse leggi riuscissero severe, dure, crudeli (per ciò che se n'è detto più sopra), com'oggi sul praticare la ragione di Stato; e sì la civil equità naturalmente sottometteva tutto a quella legge, regina di tutte l'altre, conceputa da Cicerone con gravità eguale alla materia: «Suprema lex populi salus esto». Perché ne' tempi eroici, ne' quali gli Stati furono aristocratici, come si è appieno sopra pruovato, gli eroi avevano privatamente ciascuno gran parte della pubblica utilità, ch'erano le monarchie famigliari conservate lor dalla patria, e, per tal grande particolar interesse conservato loro dalla repubblica, naturalmente posponevano i privati interessi minori; onde naturalmente, e magnanimi, difendevano il ben pubblico, ch'è quello dello Stato, e saggi, consigliavano d'intorno allo Stato. Lo che fu alto consiglio della provvedenza divina, perché i padri polifemi dalla loro vita selvaggia (come con Omero e Platone si sono sopra osservati), senza un tale e tanto lor privato interesse medesimato col pubblico, non si potevano altrimente indurre a celebrare la civiltà, com'altra volta sopra si è riflettuto. Al contrario, ne' tempi umani, ne' quali gli Stati provengono o liberi popolari o monarchici, perché i cittadini ne' primi comandano il ben pubblico, che si ripartisce loro in minutissime parti quanti son essi cittadini, che fanno il popolo che vi comanda, e ne' secondi son i sudditi comandati d'attender a' loro privati interessi e lasciare la cura del pubblico al sovrano principe; aggiugnendo a ciò le naturali cagioni, le quali produssero tali forme di Stati, che sono tutte contrarie a quelle che produtto avevano l'eroismo, le quali sopra dimostrammo esser affetto d'agi, tenerezza di figliuoli, amor di donne e disiderio di vita: per tutto ciò, son oggi gli uomini naturalmente portati ad attendere all'ultime circostanze de' fatti, le quali agguaglino le loro private utilità. Ch'è l'«æquum bonum», considerato dalla terza spezie di ragione (che qui era da ragionarsi), la quale si dice «ragion naturale», e da' giureconsulti «æquitas naturalis» vien appellata, della quale sola è capace la moltitudine. Perché questa considera gli ultimi a sé appartenenti motivi del giusto, che meritano le cause nell'individuali loro spezie de' fatti; e nelle monarchie bisognano pochi sappienti di Stato per consigliare con equità civile le pubbliche emergenze ne' gabinetti, e moltissimi giureconsulti di giurisprudenza privata, che professa equità naturale, per ministrare giustizia a' popoli. 3. COROLLARIO: ISTORIA FONDAMENTALE DEL DIRITTO ROMANO. Le cose qui ragionate d'intorno alle tre spezie della ragione posson esser i fondamenti che stabiliscono la storia del diritto romano. Perché i governi debbon esser conformi alla natura degli uomini governati, come se n'è proposta sopra una Degnità; - perché dalla natura degli uomini governati escon essi governi, come per questi Princìpi sopra si è dimostrato; - e ché le leggi perciò debbon essere ministrate in conformità de' governi e, per tal cagione, dalla forma de' governi si debbono interpetrare (lo che non sembra aver fatto niuno di tutti i giureconsulti ed interpetri, prendendo lo stesso errore ch'avevano innanzi preso gli storici delle cose romane, i quali narrano le leggi comandate in vari tempi in quella repubblica, ma non avvertono a' rapporti che dovevano le leggi aver con gli stati per gli quali quella repubblica procedé; ond'escono i fatti tanto nudi delle loro propie cagioni le quali naturalmente l'avevano dovuto produrre, che Giovanni Bodino, egualmente eruditissimo giureconsulto e politico, le cose fatte dagli antichi romani nella libertà, che falsamente gli storici narrano popolare, argomenta essere stati effetti di repubblica aristocratica, conforme in questi libri di fatto si è ritruovata): - per tutto ciò, se tutti gli adornatori della storia del diritto romano son domandati: - perché la giurisprudenza antica usò tanti rigori d'intorno alla legge delle XII Tavole? perché la mezzana, con gli editti de' pretori, cominciò ad usare benignità di ragione, ma con rispetto però d'essa legge? perché la giurisprudenza nuova, senz'alcun velo o riguardo di essa legge, prese generosamente a professare l'equità naturale? - essi, per renderne una qualche ragione, danno in quella grave offesa alla romana generosità, con cui dicono ch'i rigori, le solennità, gli scrupoli, le sottigliezze delle parole e finalmente il segreto delle medesime leggi furon imposture de' nobili, per aver essi le leggi in mano, che fanno una gran parte della potenza nelle città. Ma tanto sì fatte pratiche furono da ogn'impostura lontane, che furono costumi usciti dalle lor istesse nature, le quali, con tali costumi, produssero tali Stati, che naturalmente dettavano tali e non altre pratiche. Perché, nel tempo della somma fierezza del loro primo gener umano, essendo la religione l'unico potente mezzo d'addimesticarla, la provvedenza, come si è veduto sopra, dispose che vivessero gli uomini sotto governi divini e dappertutto regnassero leggi sagre, ch'è tanto dire quanto arcane e segrete al volgo de' popoli; le quali, nello stato delle famiglie, tanto lo erano state naturalmente, che si custodivano con lingue mutole, le quali si spiegavano con consagrate solennità (che poi restarono negli atti legittimi), le quali tanto da quelle menti balorde erano credute abbisognare per accertarsi uno della volontà efficace dell'altro d'intorno a comunicare l'utilità, quanto ora, in questa naturale intelligenza delle nostre, basta accertarsene con semplici parole ed anche con nudi cenni. Dipoi succedettero i governi umani di Stati civili aristocratici, e, per natura perseverando a celebrarsi i costumi religiosi, con essa religione seguitarono a custodirsi le leggi arcane o segrete (il qual arcano è l'anima con cui vivono le repubbliche aristocratiche), e con tal religione si osservarono severamente le leggi; ch'è 'l rigore della civil equità, la quale principalmente conserva l'aristocrazie. Appresso, avendo a venire le repubbliche popolari, che naturalmente son aperte, generose e magnanime (dovendovi comandare la moltitudine, ch'abbiam dimostro naturalmente intendersi dell'equità naturale), vennero con gli stessi passi le lingue e le lettere che si dicon «volgari» (delle quali, come sopra dicemmo, è signora la moltitudine), e con quelle comandarono e scrisser le leggi, e naturalmente se n'andò a pubblicar il segreto: ch'è 'l «ius latens», che Pomponio narra non avere sofferto più la plebe romana, onde volle le leggi descritte in tavole, poich'eran venute le lettere volgari da' greci in Roma, come si è sopra detto. Tal ordine di cose umane civili finalmente si truovò apparecchiato per gli Stati monarchici, ne' quali i monarchi vogliono ministrate le leggi secondo l'equità naturale e, 'n conseguenza, conforme l'intende la moltitudine, e perciò adeguino in ragione i potenti co' deboli: lo che fa unicamente la monarchia. E l'equità civile, o ragion di Stato, fu intesa da pochi sappienti di ragion pubblica e, con la sua eterna propietà, è serbata arcana dentro de' gabinetti. X TRE SPEZIE DI GIUDIZI. 1. PRIMA SPEZIE: GIUDIZI DIVINI. Le spezie de' giudizi furono tre. La prima di giudizi divini, ne' quali, nello stato che dicesi «di natura» (che fu quello delle famiglie), non essendo imperi civili di leggi, i padri di famiglia si richiamavano agli dèi de' torti ch'erano stati lor fatti (che fu, prima e propiamente, «implorare deorum fidem»), chiamavano in testimoni della loro ragion essi dèi (che fu, prima e propiamente, «deos obtestari»). E tali accuse o difese furono, con natia propietà, le prime orazioni del mondo, come restò a' latini «oratio» per «accusa» o «difesa»: di che vi sono bellissimi luoghi in Plauto e 'n Terenzio, e ne serbò due luoghi d'oro la legge delle XII Tavole, che sono «furto orare» e «pacto orare» (non «adorare», come legge Lipsio), nel primo per «agere» e nel secondo per «excipere»; talché da queste orazioni restaron a' latini detti «oratores» coloro ch'arringano le cause in giudizio. Tali richiami agli dèi si facevano dapprima dalle genti semplici e rozze, sulla credulità ch'essi eran uditi dagli dèi, ch'immaginavano starsi sulle cime de' monti, siccome Omero gli narra su quella del monte Olimpo; e Tacito ne scrive tra gli ermonduri e catti una guerra con tal superstizione: che dagli dèi se non dall'alte cime de' monti «preces mortalium nusquam propius audiri». Le ragioni, le quali s'arrecavano in tali divini giudizi, eran essi dèi, siccome ne' tempi ne' quali i gentili tutte le cose immaginavano esser dèi: come «Lar» per lo dominio della casa, «dii Hospitales» per la ragion dell'albergo, «dii Penates» per la paterna potestà, «deus Genius» per lo diritto del matrimonio, «deus Terminus» per lo dominio del podere, «dii Manes» per la ragion del sepolcro; di che restò nella legge delle XII Tavole un aureo vestigio: «ius deorum manium». Dopo tali orazioni (ovvero obsecrazioni, ovvero implorazioni) e dopo tali obtestazioni, venivan all'atto di esegrare essi rei; onde appo i greci, come certamente in Argo, vi furono i templi di essa esegrazione, e tali esegrati si dicevano anathémata, che noi diciamo «scomunicati». E contro loro concepivano i voti (che fu il primo «nuncupare vota», che significa far voti solenni ovvero con formole consagrate) e gli consagravano alle Furie (che furono veramente «diris devoti»), e poi gli uccidevano (ch'era quello degli sciti, lo che sopra osservammo, i quali ficcavano un coltello in terra e l'adoravano per dio, e poi uccidevano l'uomo). E i latini tal uccidere dissero col verbo «mactare», che restò vocabolo sagro che si usava ne' sagrifizi; onde agli spagnuoli restò «mattar» ed agl'italiani altresì «ammazzare» per «uccidere». E sopra vedemmo c'appo i greci restò ára per significar il «corpo che danneggia», il «voto» e la «furia»; ed appo i latini «ara» significò e l'«altare» e la «vittima». Quindi restò appo tutte le nazioni una spezie di scomunica: della quale, tra' galli, ne lasciò Cesare un assai spiegata memoria; e tra' romani restonne l'interdetto dell'acqua e fuoco, come sopra si è ragionato. Delle quali consagrazioni molte passarono nella legge delle Xll Tavole: come «consagrato a Giove» chi aveva violato un tribuno della plebe, «consagrato agli dèi de' padri» il figliuolo empio, «consagrato a Cerere» chi aveva dato fuoco alle biade altrui, il quale fusse bruciato vivo (si veda crudeltà di pene divine, somigliante all'immanità, ch'abbiamo nelle Degnità detto, dell'immanissime streghe!), che debbon essere state quelle sopra da Plauto dette «Saturni hostiæ». Con questi giudizi praticati privatamente, usciron popoli a far le guerre che si dissero «pura et pia bella», e si facevano «pro aris et focis», per le cose civili come pubbliche così private, col qual aspetto di divine si guardavano tutte le cose umane. Onde le guerre eroiche tutt'erano di religione, perché gli araldi, nell'intimarle, dalle città, alle quali le portavano, chiamavan fuori gli dèi e consagravano i nemici agli dèi. Onde gli re trionfati erano da' romani presentati a Giove Feretrio nel Campidoglio e dappoi s'uccidevano, sull'esemplo de' violenti empi, ch'erano stati le prime ostie, le prime vittime, ch'aveva consagrato Vesta sulle prime are del mondo: e i popoli arresi erano considerati uomini senza dèi, sull'esemplo de' primi famoli: onde gli schiavi, come cose inanimate, in lingua romana si dissero «mancipia» ed in romana giurisprudenza si tennero «loco rerum». 2. COROLLARIO: DE' DUELLI E DELLE RIPRESAGLIE. Talché furon una spezie di giudizi divini, nella barbarie delle nazioni, i duelli, che dovettero nascere sotto il governo antichissimo degli dèi e condursi per lunga età dentro le repubbliche eroiche. Delle quali riferimmo nelle Degnità quel luogo d'oro d'Aristotile ne' Libri politici, ove dice che non avevano leggi giudiziarie da punir i torti ed emendare le violenze private: lo che, sulla falsa oppenione finor avuta dalla boria de' dotti d'intorno all'eroismo filosofico de' primi popoli, il qual andasse di séguito alla sapienza innarrivabile degli antichi, non si è creduto finora. Certamente, tra' romani furono tardi introdutti, e pur dal pretore, così l'interdetto «Unde vi» come le azioni «De vi bonorum raptorum» e «Quod metus caussa», come altra volta si è detto. E, per lo ricorso della barbarie ultima, le ripresaglie private durarono fin a' tempi di Bartolo; che dovetter essere «condiczioni», o «azioni personali» degli antichi romani, perché «condicere», secondo Festo, vuol dire «dinonziare» (talché il padre di famiglia doveva dinonziare, a colui che gli aveva ingiustamente tolto ciò ch'era suo, che glielo restituisse, per poi usare la ripresaglia); onde tal dinonzia restò solennità dell'azioni personali: lo che da Udalrico Zasio acutamente fu inteso. Ma i duelli contenevano giudizi reali, che, perocché si facevano in re præsenti, non avevano bisogno della dinonzia; onde restarono le vindiciæ, le quali, tolte all'ingiusto possessore con una finta forza, che Aulo Gellio chiama «festucaria», «di paglia» (le quali dalla forza vera, che si era fatta prima, dovettero dirsi «vindiciæ»), si dovevano portare dal giudice, per dire, in quella gleba o zolla: «Aio hunc fundum meum esse ex iure quiritium». Quindi coloro che scrivono i duelli essersi introdutti per difetto di pruove, egli è falso; ma devon dire: per difetto di leggi giudiziarie. Perché certamente Frotone, re di Danimarca, comandò che tutte le contese si terminassero per mezzo degli abbattimenti, e sì vietò che si diffinissero con giudizi legittimi; e, per non terminarle con giudizi legittimi, sono de' duelli piene le leggi de' longobardi, salii, inghilesi, borghignoni, normanni, danesi, alemanni; per lo che Cuiacio ne' Feudi dice: «Et hoc genere purgationis diu usi sunt christiani tam in civilibus quam in criminalibus caussis, re omni duello commissa». Di che è restato che in Lamagna professano scienza di duello coloro che si dicon «reistri», i quali obbligano quelli c'hanno da duellare a dire la verità, perocché i duelli, ammessivi i testimoni, e perciò dovendovi intervenire i giudici, passerebbero in giudizi o criminali o civili. Non si è creduto della barbarie prima, perché non ce ne sono giunte memorie, ch'avesse praticato i duelli. Ma non sappiamo intendere come in questa parte sieno stati, nonché umani, sofferenti di torti i polifemi d'Omero, ne' quali riconosce gli antichissimi padri delle famiglie, nello stato di natura, Platone. Certamente Aristotile ne ha detto nelle Degnità che nell'antichissime repubbliche, nonché nello stato delle famiglie, che furon innanzi delle città, non avevano leggi da emendar i torti e punire l'offese, con le qual'i cittadini s'oltraggiassero privatamente tra loro (e noi l'abbiamo testé dimostro della romana antica); e perciò Aristotile pur ci disse, nelle Degnità, che tal costume era de' popoli barbari, perché, come ivi avvertimmo, i popoli per ciò ne' lor incominciamenti son barbari, perché non son addimesticati ancor con le leggi. Ma di essi duelli vi hanno due grandi vestigi - uno nella greca storia, un altro nella romana - ch'i popoli dovettero incominciar le guerre (che si dissero dagli antichi latini «duella») dagli abbattimenti di essi particolari offesi, quantunque fussero re, ed essendo entrambi i popoli spettatori, che pubblicamente volevano difendere o vendicare l'offese. Come, certamente, così la guerra troiana incomincia dall'abbattimento di Menelao e di Paride (questi ch'aveva, quegli a cui era stata rapita la moglie Elena), il quale restando indiciso, seguitò poi a farsi tra greci e troiani la guerra; e noi sopra avvertimmo il costume istesso delle nazioni latine nella guerra de' romani ed albani, che con l'abbattimento degli tre Orazi e degli tre Curiazi (uno de' quali dovette rapire l'Orazia) si diffinì dello 'n tutto. In sì fatti giudizi armati estimarono la ragione dalla fortuna della vittoria: lo che fu consiglio della provvedenza divina, acciocché, tra genti barbare e di cortissimo raziocinio, che non intendevan ragione, da guerre non si seminassero guerre, e sì avessero idea della giustizia o ingiustizia degli uomini dall'aver essi propizi o pur contrari gli dèi: siccome i gentili schernivano il santo Giobbe dalla regale sua fortuna caduto, perocch'egli avesse contrario Dio. E, ne' tempi barbari ritornati, perciò alla parte vinta, quantunque giusta, si tagliava barbaramente la destra. Da sì fatto costume, privatamente da' popoli celebrato, uscì fuori la giustizia esterna, ch'i morali teologi dicono, delle guerre, onde le nazioni riposassero sulla certezza de' lor imperi. Così quelli auspìci, che fondarono gl'imperi paterni monarchici a' padri nello stato delle famiglie e apparecchiarono e conservarono loro i regni aristocratici nell'eroiche città e, comunicari loro, produssero le repubbliche libere alle plebi de' popoli (come la storia romana apertamente lo ci racconta), finalmente legittimano le conquiste, con la fortuna dell'armi, a' felici conquistatori. Lo che tutto non può provenire altronde che dal concetto innato della provvedenza c'hanno universalmente le nazioni, alla quale si debbono conformare, ove vedono affliggersi i giusti e prosperarsi gli scellerati, come nell'Idea dell'opera altra volta si è detto. 3. SECONDA SPEZIE: GIUDIZI ORDINARI. I secondi giudizi, per la recente origine da' giudizi divini, furono tutti ordinari, osservati con una somma scrupolosità di parole, che da giudizi, innanzi stati, divini dovette restar detta «religio verborum»; conforme le cose divine universalmente son concepute con formole consagrate, che non si possono d'una letteruccia alterare; onde delle antiche formole dell'azioni si diceva: «qui cadit virgula, caussa cadit». Ch'è 'l diritto naturale delle genti eroiche, osservato naturalmente dalla giurisprudenza romana antica, e fu il «fari» del pretore, ch'era un parlar innalterabile, dal quale furono detti «dies fasti» i giorni ne' quali rendeva ragion il pretore. La quale, perché i soli eroi ne avevano la comunione nell'eroiche aristocrazie, dev'esser il «fas deorum» de' tempi ne' quali, come sopra abbiamo spiegato, gli eroi s'avevano preso il nome di «dèi», donde poi fu detto «Fatum» sopra le cose della natura l'ordine ineluttabile delle cagioni che le produce, perché tale sia il parlare di Dio: onde forse agl'italiani venne detto «ordinare», ed in ispezie in ragionamento di leggi, per «dare comandi che si devono necessariamente eseguire». Per cotal ordine (che, 'n ragionamento di giudizi, significa «solenne formola d'azione»), ch'aveva dettato la crudele e vil pena contro l'inclito reo d'Orazio, non potevano i duumviri essi stessi assolverlo, quantunque fussesi ritruovato innocente; e 'l popolo, a cui n'appellò, l'assolvette, come Livio il racconta, «magis admiratione virtutis quam iure caussæ». E tale ordine di giudizi bisognò ne' tempi d'Achille, che riponeva tutta la ragion nella forza, per quella propietà de' potenti che descrive Plauto con la sua solita grazia: «pactum non pactum, non pactum pactum», ove le promesse non vanno a seconda delle lor orgogliose voglie o non voglion essi adempiere le promesse. Così, perché non prorompessero in piati, risse ed uccisioni, fu consiglio della provvedenza ch'avessero naturalmente tal oppenione del giusto, che tanto e tale fusse loro diritto quanto e quale si fusse spiegato con solenni formole di parole; onde la riputazione della giurisprudenza romana e de' nostri antichi dottori fu in cautelare i clienti. Il qual diritto naturale delle genti eroiche diede gli argomenti a più commedie di Plauto: nelle qual'i ruffiani, per inganni orditi loro da' giovani innamorati delle loro schiave, ne sono ingiustamente fraudati, fatti da quelli innocentemente truovar rei d'una qualche formola delle leggi; e non solamente non isperimentano alcun'azione di dolo, ma altro rimborsa al doloso giovane il prezzo della schiava venduta, altro priega l'altro che si contenti della mettà della pena, alla qual era tenuto, di furto non manifesto, altro si fugge dalla città per timore d'esser convinto d'aver corrotto lo schiavo altrui. Tanto a' tempi di Plauto regnava ne' giudizi l'equità naturale! Né solamente tal diritto stretto fu naturalmente osservato tra gli uomini; ma, dalle loro nature, gli uomini credettero osservarsi da essi dèi anco ne' lor giuramenti. Siccome Omero narra che Giunone giura a Giove, ch'è de' giuramenti non sol testimone ma giudice, ch'essa non aveva solecitato Nettunno a muovere la tempesta contro i troiani, perocché 'l fece per mezzo dello dio Sonno; e Giove ne riman soddisfatto. Così Mercurio, finto Sosia, giura a Sosia vero che, se esso l'inganna, sia Mercurio contrario a Sosia: né è da credersi che Plauto nell'Anfitrione avesse voluto introdurre i dèi ch'insegnassero i falsi giuramenti al popolo nel teatro. Lo che meno è da credersi di Scipione Affricano e di Lelio (il quale fu detto il «romano Socrate»), due sappientissimi principi della romana repubblica, co' quali si dice Terenzio aver composte le sue commedie; il quale nell'Andria finge che Davo fa poner il bambino innanzi l'uscio di Simone con le mani di Miside, acciocché, se per avventura di ciò sia domandato dal suo padrone, possa in buona coscienza niegare d'averlovi posto esso. Ma quel che fa di ciò una gravissima pruova si è ch'in Atene, città di scorti ed intelligenti, ad un verso di Euripide, che Cicerone voltò in latino: Iuravi lingua, mentem iniuratam habui, gli spettatori del teatro, disgustati, fremettero, perché naturalmente portavano oppenione che «uti lingua nuncupassit, ita ius esto», come comandava la legge delle XII Tavole. Tanto l'infelice Agamennone poteva assolversi del suo temerario voto, col quale consagrò ed uccise l'innocente e pia figliuola Ifigenia! Onde s'intenda che, perché sconobbe la provvedenza, perciò Lucrezio al fatto d'Agamennone fa quell'empia acclamazione: Tantum relligio potuit suadere malorum! che noi sopra nelle Degnità proponemmo. Finalmente inchiovano al nostro proposito questo ragionamento queste due cose di giurisprudenza e d'istoria romana certa: una ch'a' tempi ultimi Gallo Aquilio introdusse l'azione de dolo; l'altra, che Augusto diede la tavoletta a' giudici d'assolvere gl'ingannati e sedutti. A tal costume avvezze in pace, le nazioni poi, nelle guerre essendo vinte, esse, con le leggi delle rese, o furono miserevolmente oppresse o felicemente schernirono l'ira de' vincitori. Miserevolmente oppressi furon i cartaginesi, i quali dal Romano avevano ricevuta la pace sotto la legge che sarebbero loro salve la vita, la città e le sostanze, intendendo essi la «città» per gli «edifici», che da' latini si dice «urbs». Ma, perché dal Romano si era usata la voce «civitas», che significa «comune di cittadini», quando poi, in esecuzion della legge, comandati di abbandonar la città posta al lido del mare e ritirarsi entro terra, ricusando essi ubbidire e di nuovo armandosi alla difesa, furono dal Romano dichiarati rubelli e, per diritto di guerra eroico, presa Cartagine, barbaramente fu messa a fuoco. I cartaginesi non s'acquetarono alla legge della pace data lor da' romani, ch'essi non avevano inteso nel patteggiarla, perch'anzi tempo divenuti erano intelligenti, tra per l'acutezza affricana e per la negoziazione marittima, per la quale si fanno più scorte le nazioni. Né pertanto i romani quella guerra tennero per ingiusta; perocché, quantunque alcuni stimino aver i romani incominciato a fare le guerre ingiuste da quella di Numanzia, che fu finita da esso Scipione Affricano, però tutti convengono aver loro dato principio da quella, che poi fecero, di Corinto. Ma da' tempi barbari ritornati si conferma meglio il nostro proposito. Corrado III imperadore, avendo dato la legge della resa a Veinsberga, la qual aveva fomentato il suo competitore dell'imperio: - che ne uscissero solamente salve le donne con quanto esse via ne portassero addosso fuora, quivi le pie donne veinsbergesi si caricarono de' loro figliuoli, mariti, padri; e, stando alla porta della città l'imperadore vittorioso, nell'atto dell'usar la vittoria (che per natura è solita insolentire), non ascoltò punto la collera (ch'è spaventosa ne' grandi e dev'essere funestissima ove nasca da impedimento che lor si faccia di pervenire o di conservarsi la loro sovranità), stando a capo dell'esercito, ch'era accinto, con le spade sguainate e le lance in resta, di far strage degli uomini veinsbergesi, se 'l vide e 'l sofferse che salvi gli passassero dinanzi tutti, ch'aveva voluto a fil di spada tutti passare. Tanto il diritto naturale della ragion umana spiegata di Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio corse naturalmente per tutti i tempi in tutte le nazioni. Lo che si è finor ragionato, e tutto ciò che ragionerassene appresso, esce da quelle diffinizioni che sopra, tralle Degnità, abbiamo proposto d'intorno al vero ed al certo delle leggi e de' patti; e che così a' tempi barbari è naturale la ragion stretta osservata nelle parole, ch'è propiamente il «fas gentium», com'a' tempi umani lo è la ragione benigna, estimata da essa uguale utilità delle cause, che propiamente «fas naturæ» dee dirsi, diritto immutabile dell'umanità ragionevole, ch'è la vera e propia natura dell'uomo. 4. TERZA SPEZIE: GIUDIZI UMANI. I terzi giudizi sono tutti straordinari, ne' quali signoreggia la verità d'essi fatti, a' quali, secondo i dettami della coscienza, soccorrono ad ogni uopo benignamente le leggi in tutto ciò che domanda essa uguale utilità delle cause; tutti aspersi di pudor naturale (ch'è parto dell'intelligenza), e garantiti perciò dalla buona fede (ch'è figliuola dell'umanità), convenevole all'apertezza delle repubbliche popolari e molto più alla generosità delle monarchie, ov'i monarchi, in questi giudizi, fan pompa d'esser superiori alle leggi e solamente soggetti alla loro coscienza e a Dio. E da questi giudizi, praticati negli ultimi tempi in pace, sono usciti, in guerra, gli tre sistemi di Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio. Ne' quali avendo osservato molti errori e difetti, il padre Niccolò Concina ne ha meditato uno più conforme alla buona filosofia e più utile all'umana società, che, con gloria dell'Italia, tuttavia insegna nell'inclita università di Padova, in séguito della metafisica, che primario lettor vi professa. XI TRE SÈTTE DI TEMPI. Tutte l'anzidette cose si sono praticate per tre sètte de' tempi. Delle quali la prima fu de' tempi religiosi, che si celebrò sotto i governi divini. La seconda de' puntigliosi, come di Achille; ch'a' tempi barbari ritornati fu quella de' duellisti. La terza, de' tempi civili ovvero modesti, ne' tempi del diritto naturale delle genti, che, nel diffinirlo, Ulpiano lo specifica con l'aggiunto d'«umane», dicendo «ius naturale gentium humanarum»; onde, appo gli scrittori latini sotto gl'imperadori, il dovere de' sudditi si dice «officium civile», e ogni peccato, che si prende nell'interpetrazion delle leggi contro l'equità naturale, si dice «incivile». Ed è l'ultima setta de' tempi della giurisprudenza romana, cominciando dal tempo della libertà popolare. Onde prima i pretori, per accomodare le leggi alla natura, costumi, governo romano, di già cangiati, dovetter addolcire la severità ed ammollire la rigidezza della legge delle XII Tavole, comandata, quand'era naturale, ne' tempi eroici di Roma; e dipoi gl'imperadori dovettero snudare di tutti i veli, di che l'avevano coverta i pretori, e far comparire tutta aperta e generosa, qual si conviene alla gentilezza alla quale le nazioni s'erano accostumate, l'equità naturale. Per ciò i giureconsulti con la «setta de' loro tempi» (come si posson osservare) giustificano ciò ch'essi ragionano d'intorno al giusto: perché queste sono le sètte propie della giurisprudenza romana, nelle quali convennero i romani con tutte le altre nazioni del mondo, insegnate loro dalla provvedenza divina, ch'i romani giureconsulti stabiliscono per principio del diritto natural delle genti; non già le sètte de' filosofi, che vi hanno a forza intruso alcuni interpetri eruditi della romana ragione, come si è sopra detto nelle Degnità. Ed essi imperadori, ove vogliono render ragione delle loro leggi o di altri ordinamenti dati da essoloro, dicono essere stati a ciò far indutti dalla «setta de' loro tempi», come ne raccoglie i luoghi Barnaba Brissonio, De formulis romanorum: perocché la scuola de' prìncipi sono i costumi del secolo, siccome Tacito appella la setta guasta de' tempi suoi, ove dice «corrumpere et corrumpi seculum vocatur», ch'or direbbesi «moda». XII ALTRE PRUOVE TRATTE DALLE PROPIETÀ DELL'ARISTOCRAZIE EROICHE. Così costante perpetua ordinata successione di cose umane civili, dentro la forte catena di tante e tanto varie cagioni ed effetti che si sono osservati nel corso che fanno le nazioni, debbe strascinare le nostre menti a ricevere la verità di questi princìpi. Ma, per non lasciare verun luogo di dubitarne, aggiugniamo la spiegazione d'altri civili fenomeni, i quali non si possono spiegare che con la discoverta, la qual sopra si è fatta, delle repubbliche eroiche. 1. DELLA CUSTODIA DE' CONFINI Imperciocché le due eterne massime propietà delle repubbliche aristocratiche sono le due custodie, come sopra si è detto, una de' confini, l'altra degli ordini. La custodia de' confini cominciò ad osservarsi, come si è sopra veduto, con sanguinose religioni sotto i governi divini, perché si avevano da porre i termini a' campi, che riparassero all'infame comunion delle cose dello stato bestiale; sopra i quali termini avevano a fermarsi i confini prima delle famiglie, poi delle genti o case, appresso de' popoli e alfin delle nazioni. Onde i giganti, come dice Polifemo ad Ulisse, se ne stavano ciascuno con le loro mogli e figliuoli dentro le loro grotte, né s'impacciavano nulla l'uno delle cose dell'altro, serbando in ciò il vezzo dell'immane loro recente origine, e fieramente uccidevano coloro che fussero entrati dentro i confini di ciascheduno, come voleva Polifemo fare d'Ulisse e de' suoi compagni (nel qual gigante, come più volte si è detto, Platone ravvisa i padri nello stato delle famiglie); onde sopra dimostrammo esser poi derivato il costume di guardarsi lunga stagione le città con l'aspetto di eterne nimiche tra loro. Tanto è soave la divisione de' campi che narra Ermogeniano giureconsulto, e di buona fede si è ricevuta da tutti gl'interpetri della romana ragione! E da questo primo antichissimo principio di cose umane, donde ne incominciò la materia, sarebbe ragionevole incominciar ancor la dottrina ch'insegna De rerum divisione et acquirendo earum dominio. Tal custodia de' confini è naturalmente osservata nelle repubbliche aristocratiche, le quali, come avvertono i politici, non sono fatte per le conquiste. Ma, poi che, dissipata affatto l'infame comunion delle cose, furono ben fermi i confini de' popoli, vennero le repubbliche popolari, che sono fatte per dilatare gl'imperi, e finalmente le monarchie, che vi vagliono molto più. Questa e non altra dev'essere la cagione perché la legge delle XII Tavole non conobbe nude possessioni; e l'usucapione ne' tempi eroici serviva a sollennizzare le tradizioni naturali, come i miglior interpetri ne leggono la diffinizione che dica «dominii adiectio», aggiunzione del dominio civile al naturale innanzi acquistato. Ma, nel tempo della libertà popolare, vennero, dopo, i pretori ed assisterono alle nude possessioni con gl'interdetti, e l'usucapione incominciò ad essere «dominii adeptio», modo d'acquistare da principio il dominio civile; e, quando prima le possessioni non comparivano affatto in giudizio, perché ne conosceva estragiudizialmente il pretore, per ciò che se n'è sopra detto, oggi i giudizi più accertati sono quelli che si dicono «possessorii». Laonde, nella libertà popolare di Roma in gran parte, ed affatto sotto la monarchia, cadde quella distinzione di dominio bonitario, quiritario, ottimo e finalmente civile, i quali nelle lor origini portavano significazioni diversissime dalle significazioni presenti: il primo, di dominio naturale, che si conservava con la perpetua corporale possessione; - il secondo, di dominio che potevasi vindicare, che correva tra plebei, comunicato loro da' nobili con la legge delle XII Tavole, ma ch'a' plebei dovevano vindicare, laudati in autori, essi nobili, da' qual'i plebei avevano la cagion del dominio, come pienamente sopra si è dimostrato; - il terzo, di dominio libero d'ogni peso pubblico nonché privato, che celebrarono tra essoloro i patrizi innanzi d'ordinarsi il censo che fu pianta della libertà popolare, come si è sopra detto; - il quarto ed ultimo, di dominio ch'avevan esse città, ch'or si dice «eminente». Delle quali differenze, quella d'ottimo e di quiritario da essi tempi della libertà si era di già oscurata, tanto che non n'ebbero niuna contezza i giureconsulti della giurisprudenza ultima. Ma sotto la monarchia quel che si dice «dominio bonitario» (nato dalla nuda tradizion naturale) e 'l detto «dominio quiritario» (nato dalla mancipazione o tradizion civile) affatto si confusero da Giustiniano con le costituzioni De nudo iure quiritium tollendo e De usucapione transformanda, e la famosa differenza delle cose mancipi e nec mancipi si tolse affatto; e restarono «dominio civile» in significazione di dominio valevole a produrre revindicazione, e «dominio ottimo» in significazione di dominio non soggetto a veruno peso privato. 2. DELLA CUSTODIA DEGLI ORDINI. La custodia degli ordini cominciò da' tempi divini con le gelosie (onde vedemmo sopra esser gelosa Giunone, dea de' matrimoni solenni), acciocché indi provenisse la certezza delle famiglie incontro la nefaria comunion delle donne. Tal custodia è propietà naturale delle repubbliche aristocratiche, le quali vogliono i parentadi, le successioni, e quindi le ricchezze, e per queste la potenza, dentro l'ordine de' nobili; onde tardi vennero nelle nazioni le leggi testamentarie (siccome tra' germani antichi narra Tacito che non era alcun testamento): il perché, volendo il re Agide introdurle in Isparta, funne fatto strozzare dagli efori, custodi della libertà signorile de' lacedemoni, com'altra volta si è detto. Quindi s'intenda con quanto accorgimento gli adornatori della legge delle XII Tavole fissano nella tavola decimoprimo il capo «Auspicia incommunicata plebi sunto», de' quali dapprima furono dipendenze tutte le ragioni civili così pubbliche come private, che si conservavano tutte dentro l'ordine de' nobili; e le private furono nozze, patria potestà, suità, agnazioni, gentilità, successioni legittime, testamenti e tutele, come sopra si è ragionato; - talché, dopo avere, nelle prime tavole, col comunicare tai ragioni tutte alla plebe, stabilite le leggi propie d'una repubblica popolare, particolarmente con la legge testamentaria, dappoi, nella tavola decimoprimo, in un sol capo la formano tutta aristocratica. Ma, in tanta confusione di cose, dicono pur questo, quantunque indovinando, di vero: che nelle due ultime tavole passarono in leggi alcune costumanze antiche d'essi romani; il qual detto avvera che lo Stato romano antico fu aristocratico. Ora, ritornando al proposito, poi che fu fermato dappertutto il gener umano con la solennità de' matrimoni, vennero le repubbliche popolari e, molto più appresso, le monarchie; nelle quali, per mezzo de' parentadi con le plebi de' popoli e delle successioni testamentarie, se ne turbarono gli ordini della nobiltà, e quindi andarono tratto tratto uscendo le ricchezze dalle case nobili. Perché appieno sopra si è dimostrato ch'i plebei romani sin al trecento e nove di Roma, che riportarono da' patrizi finalmente comunicati i connubi, o sia la ragione di contrarre nozze solenni, essi contrassero matrimoni naturali; né, in quello stato sì miserevole quasi di vilissimi schiavi, come la storia romana pure gli ci racconta, potevano pretendere d'imparentare con essi nobili. Ch'è una delle cose massime, onde dicevamo in quest'opera la prima volta stampata che, se non si danno questi princìpi alla giurisprudenza romana, la romana storia è più incredibile della favolosa de' greci, quale finora ci è stata ella narrata. Perché di questa non sapevamo che si avesse voluto dire; ma, della romana, sentiamo nella nostra natura l'ordine de' disidèri umani esser tutto contrario: che uomini miserabilissimi pretendessero prima nobiltà nella contesa de' connubi, poi onori con quella che loro comunicassesi il consolato, finalmente ricchezze con l'ultima pretensione che fecero de' sacerdozi; quando, per eterna comune civil natura, gli uomini prima disiderano ricchezze, dopo di queste onori, e per ultimo nobiltà. Laonde s'ha necessariamente a dire ch'avendo i plebei riportato da' nobili il dominio certo de' campi con la legge delle XII Tavole (che noi sopra dimostrammo essere stata la seconda agraria del mondo) ed essendo ancora stranieri (perché tal dominio puossi concedere agli stranieri), con la sperienza furono fatti accorti che non potevano lasciargli ab intestato a' loro congionti, perché, non contraendo nozze solenni tra essoloro, non avevano suità, agnazioni, gentilità; molto meno in testamento, non essendo cittadini. Né è maraviglia, essendo stati uomini di niuna o pochissima intelligenza, come lo ci appruovano le leggi Furia, Voconia e Falcidia, che tutte e tre furono plebisciti; e tante ve n'abbisognarono perché con la legge Falcidia si fermasse finalmente la disiderata utilità ch'i retaggi non si assorbissero da' legati. Perciò, con le morti d'essi plebei ch'eran avvenute in tre anni, accortisi che, per tal via, i campi loro assegnati ritornavano a' nobili, coi connubi pretesero la cittadinanza, come sopra si è ragionato. Ma i gramatici, confusi da tutti i politici, ch'immaginarono Roma essere stata fondata da Romolo sullo stato nel quale ora stanno le città, non seppero che le plebi delle città eroiche per più secoli furono tenute per istraniere, e quindi contrassero matrimoni naturali tra loro; e perciò essi non avvertirono ch'era una, quanto in fatti sconcia, tanto nelle parole men latina espressione quella della storia: che «plebei tentarunt connubia patrum», ch'arebbe dovuto dire «cum patribus» (perché le leggi connubiali parlan così per esemplo: «patruus non habet cum fratris filia connubium»), come anco si è sopra detto. Che, se avessero ciò avvertito, avrebbono certamente inteso ch'i plebei non pretesero aver diritto d'imparentare co' nobili, ma di contrarre nozze solenni, il qual diritto era de' nobili. Quindi, se si considerano le successioni legittime, ovvero le comandate dalla legge delle XII Tavole: - ch'al padre di famiglia difonto succedessero in primo luogo i suoi, in lor difetto gli agnati e 'n mancanza di questi i gentili, - sembra la legge delle XII Tavole essere stata appunto una legge salica de' romani; la quale ne' suoi primi tempi si osservò ancora per la Germania (onde si può congetturare lo stesso per l'altre nazioni prima della ritornata barbarie), e finalmente si ristò nella Francia e, fuori di Francia, nella Savoia. Il qual diritto di successioni Baldo, assai acconciamente al nostro proposito, chiama «ius gentium gallorum»: alla qual istessa fatta, cotal diritto romano di successioni agnatizie e gentilizie si può con ragion chiamare «ius gentium romanarum», aggiontavi la voce «heroicarum», e, per dirla con più acconcezza, «romanum»; che sarebbe appunto «ius quiritium romanorum», che noi provammo qui sopra essere stato il diritto naturale comune a tutte le genti eroiche. Né ciò, come sembra, egli turba punto le cose da noi qui dette d'intorno alla legge salica, in quanto esclude le femmine dalla successione de' regni: che Tanaquille, femmina, governò il regno romano. Perché ciò fu detto, con frase eroica, ch'egli fu un re d'animo debole, che si fece regolare dallo scaltrito di Servio Tullio, il qual invase il regno romano col favor della plebe, alla qual avea portato la prima legge agraria, come sopra si è dimostrato. Alla qual fatta di Tanaquille, per la stessa maniera di parlar eroico, ricorsa ne' tempi barbari ritornati, Giovanni papa fu detto femmina (contro la qual favola Lione Allacci scrisse un intiero libro), perché mostrò la gran debolezza di ceder a Fozio, patriarca di Costantinopoli, come ben avvisa il Baronio e, dopo di lui, lo Spondano. Sciolta adunque sì fatta difficultà, diciamo ch'alla stessa maniera che prima si era detto «ius quiritium romanorum», nel significato di «ius naturale gentium heroicarum romanarum», non altrimente sotto gl'imperadori, quando Ulpiano il diffinisce, con peso di parole dice «ius naturale gentium humanarum», che corre nelle repubbliche libere e molto più sotto le monarchie. E per tutto ciò il titolo dell'Instituta sembra doversi leggere: De iure naturali gentium civili, non solo, con Ermanno Vulteo, togliendo la virgola tralle voci «naturali» «gentium» (supplita, con Ulpiano, la seconda «humanarum»), ma anco la particella «et» innanzi alla voce «civili». Perché i romani dovetter attendere al diritto loro propio, come, dall'età di Saturno introdutto, l'avevano conservato prima coi costumi e poi con le leggi, siccome Varrone, nella grand'opera Rerum divinarum et humanarum, trattò le cose romane per origini tutte quante natie, nulla mescolandovi di straniere. Ora, ritornando alle successioni eroiche romane, abbiamo assai molti e troppo forti motivi di dubitare se, ne' tempi romani antichi, di tutte le donne succedessero le figliuole; perché non abbiamo nessuno motivo di credere ch'i padri eroi n'avessero sentito punto di tenerezza, anzi n'abbiamo ben molti e grandi tutti contrari. Imperciocché la legge delle XII Tavole chiamava un agnato anco in settimo grado ad escludere un figliuolo, che trovavasi emancipato, dalla succession di suo padre. Perché i padri di famiglia avevano un sovrano diritto di vita e morte, e quindi un dominio dispotico sopra gli acquisti d'essi figliuoli: essi contraevano i parentadi per gli medesimi, per far entrar femmine nelle loro case degne delle lor case (la qual istoria ci è narrata da esso verbo «spondere», ch'è, propiamente, «promettere per altrui», onde vengono detti «sponsalia»); consideravano le adozioni quanto le medesime nozze, perché rinforzassero le cadenti famiglie con eleggere strani allievi che fussero generosi; tenevano l'emancipazioni a luogo di castigo e di pena; non intendevano legittimazioni, perché i concubinati non erano che con affranchite e straniere, con le quali ne' tempi eroici non si contraevano matrimoni solenni, onde i figliuoli degenerassero dalla nobiltà de' lor avoli; i loro testamenti per ogni frivola ragione o erano nulli o s'annullavano o si rompevano o non conseguivano il loro effetto, acciocché ricorressero le successioni legittime. Tanto furono naturalmente abbagliati dalla chiarezza de' loro privati nomi, onde furono per natura infiammati per la gloria del comun nome romano! Tutti costumi propi di repubbliche aristocratiche, quali furono le repubbliche eroiche, le quali tutte sono propietà confaccenti all'eroismo de' primi popoli. Ed è degno di riflessione questo sconcissimo errore preso da cotesti eruditi adornatori della legge delle XII Tavole, i quali vogliono essersi portata da Atene in Roma: che de' padri di famiglia romani l'eredità ab intestato, per tutto il tempo innanzi di portarvi tal legge le successioni testamentarie e legittime, dovettero andare nelle spezie delle cose che sono dette nullius. Ma la provvedenza dispose che, perché 'l mondo non ricadesse nell'infame comunion delle cose, la certezza de' domìni si conservasse con essa e per essa forma delle repubbliche aristocratiche: onde tali successioni legittime per tutte le prime nazioni naturalmente si dovettero celebrare innanzi d'intendersi i testamenti, che sono propi delle repubbliche popolari e molto più delle monarchie, siccome de' germani antichi (i quali ci danno luogo d'intendere lo stesso costume di tutti i primi popoli barbari) apertamente da Tacito ci è narrato; onde testé congetturammo la legge salica, la quale certamente fu celebrata nella Germania, essere stata osservata universalmente dalle nazioni nel tempo della seconda barbarie. Però i giureconsulti della giurisprudenza ultima, per quel fonte d'innumerabili errori (i quali si sono notati in quest'opera) d'estimare le cose de' tempi primi non conosciuti da quelle de' loro tempi ultimi, han creduto che la legge delle XII Tavole avesse chiamate le figliuole di famiglia all'eredità de' loro padri, che morti fussero ab intestato, con la parola «suus», su quella massima che 'l genere maschile contenga ancora le donne. Ma la giurisprudenza eroica, della quale tanto in questi libri si è ragionato, prendeva le parole delle leggi nella propissima loro significazione; talché la voce «suus» non significasse altro che 'l figliuol di famiglia. Di che con un'invitta pruova ne convince la formola dell'istituzione de' postumi, introdutta tanti secoli dopo da Gallo Aquilio, la quale sta così conceputa: «Si quis natus natave erit», per dubbio che nella sola voce «natus» la postuma non s'intendesse compresa. Onde, per ignorazione di queste cose, Giustiniano nell'Istituta dice che la legge delle XII Tavole con la voce «adgnatus» avesse chiamati egualmente gli agnati maschi e l'agnate femmine, e che poi la giurisprudenza mezzana avesse irrigidito essa legge, restrignendola alle sole sorelle consanguinee; lo che dev'esser avvenuto tutto il contrario, e che prima avesse steso la parola «suus» alle figliuole ancor di famiglia, e dipoi la voce «adgnatus» alle sorelle consanguinee. Ove a caso, ma però bene, tal giurisprudenza vien detta «media», perch'ella da questi casi incominciò a rallentare i rigori della legge delle XII Tavole: la qual venne dopo la giurisprudenza antica, la quale n'aveva custodito con somma scrupolosità le parole, siccome dell'una e dell'altra appieno si è sopra detto. Ma, essendo passato l'imperio da' nobili al popolo, perché la plebe pone tutte le sue forze, tutte le sue ricchezze, tutta la sua potenza nella moltitudine de' figliuoli, s'incominciò a sentire la tenerezza del sangue, ch'innanzi i plebei delle città eroiche non avevano dovuto sentire, perché generavano i figliuoli per fargli schiavi de' nobili, da' quali erano posti a generare in tempo ch'i parti provenissero nella stagione di primavera, perché nascessero non solo sani, ma ancor robusti (onde se ne dissero «vernæ», come vogliono i latini etimologi, da' quali, come si è detto sopra, le lingue volgari furono dette «vernaculæ»), e le madri dovevano odiargli anzi che no, siccome quelli de' quali sentivano il solo dolore nel partorirgli e le sole molestie nel lattargli, senza prenderne alcun piacere d'utilità nella vita. Ma, perché la moltitudine de' plebei, quanto era stata pericolosa alle repubbliche aristocratiche, che sono e si dicon di pochi, tanto ingrandiva le popolari, e molto più le monarchiche (onde sono i tanti favori che fanno le leggi imperiali alle donne per gli pericoli e dolori del parto), quindi da' tempi della popolar libertà cominciaron i pretori a considerare i diritti del sangue ed a riguardarlo con le bonorum possessioni; cominciaron a sanare co' loro rimedi i vizi o difetti de' testamenti, perche si divolgassero le ricchezze, le quali sole son ammirate dal volgo. Finalmente, venuti gl'imperadori, a' quali faceva ombra lo splendore della nobiltà, si dieder a promuovere le ragioni dell'umana natura, comune così a' plebei com'a' nobili, incominciando da Augusto, il quale applicò a proteggere i fedecommessi (per gli quali, con la puntualità degli eredi gravati, erano innanzi passati i beni agl'incapaci d'eredità), e lor assisté tanto, che nella sua vita passarono in necessità di ragione di costrignere gli eredi a mandargli in effetto. Succedettero tanti senaticonsulti, co' quali i cognati entrarono nell'ordine degli agnati; finché venne Giustiniano e tolse le differenze de' legati e de' fedecommessi, confuse le quarte falcidia e trebellianica, di poco distinse i testamenti da' codicilli e, ab intestato, adeguò gli agnati e i cognati in tutto e per tutto. E tanto le leggi romane ultime si profusero in favorire l'ultime volontà, che, quando anticamente per ogni leggier motivo si viziavano, oggi si devono sempre interpetrar in maniera che reggano più tosto che cadano. Per l'umanità de' tempi (ché le repubbliche popolari amano i figliuoli, e le monarchie vogliono i padri occupati nell'amor de' figliuoli), essendo già caduto il diritto ciclopico ch'avevano i padri delle famiglie sopra le persone, perché cadesse anco quello sopra gli acquisti de' lor figliuoli, gl'imperadori introdussero prima il peculio castrense per invitar i figliuoli alla guerra, poi lo stesero al quasi castrense per invitargli alla milizia palatina, e finalmente, per tener contenti i figliuoli che né eran soldati né letterati, introdussero il peculio avventizio. Tolsero l'effetto della patria potestà all'adozioni, le quali non si contengono ristrette dentro pochi congionti; appruovarono universalmente le arrogazioni, difficili alquanto ch'i cittadini, di padri di famiglia, divengano soggetti nelle famiglie d'altrui; riputarono l'emancipazioni per benefizi; diedero alle legittimazioni che dicono «per subsequens matrimonium» tutto il vigore delle nozze solenni. Ma sopra tutto, perché sembrava scemare la loro maestà quell'«imperium paternum», il disposero a chiamarsi «patria potestà»; sul lor esemplo, introdutto con grand'avvedimento da Augusto, che, per non ingelosire il popolo che volessegli togliere punto dell'imperio, si prese il titolo di «potestà tribunizia», o sia di protettore della romana libertà, che ne' tribuni della plebe era stata una potestà di fatto, perch'essi non ebbero giammai imperio nella repubblica: come ne' tempi del medesimo Augusto, avendo un tribuno della plebe ordinato a Labeone che comparisse avanti di lui, questo principe d'una delle due sètte de' romani giureconsulti ragionevolmente ricusò d'ubbidire, perché i tribuni della plebe non avessero imperio. Talché né da' gramatici né da' politici né da' giureconsulti è stato osservato il perché, nella contesa di comunicarsi il consolato alla plebe, i patrizi, per farla contenta senza pregiudicarsi di comunicarle punto d'imperio, fecero quell'uscita di criare i tribuni militari, parte nobili parte plebei, «cum consulari potestate», come sempre legge la storia, non già «cum imperio consulari», che la storia non legge mai. Onde la repubblica romana libera si concepì tutta con questo motto, in queste tre parti diviso: «senatus autoritas», «populi imperium», «tribunorum plebis potestas». E queste due voci restarono nelle leggi con tali loro native eleganze: che l'«imperio» si dice de' maggiori maestrati, come de' consoli, de' pretori, e si stende fino a poter condennare di morte; la «potestà» si dice de' maestrati minori, come degli edili, e «modica coercitione continetur». Finalmente, spiegando i romani prìncipi tutta la loro clemenza verso l'umanità, presero a favorire la schiavitù e raffrenarono la crudeltà de' signori contro i loro miseri schiavi; ampliarono negli effetti e restrinsero nelle solennità le manomessioni; e la cittadinanza, che prima non si dava ch'a' grandi stranieri benemeriti del popolo romano, diedero ad ogniuno ch'anco di padre schiavo, purché da madre libera (nonché nata, affranchita) nascesse in Roma. Dalla qual sorta di nascere liberi nelle città il diritto naturale, ch'innanzi dicevasi «delle genti» o delle case nobili (perché ne' tempi eroici erano state tutte repubbliche aristocratiche, delle quali era propio cotal diritto, come sopra si è ragionato), poi che vennero le repubbliche popolari (nelle quali l'intiere nazioni sono signore degl'imperi) e quindi le monarchie (dove i monarchi rappresentano l'intiere nazioni loro soggette), restò detto «diritto naturale delle nazioni». 3. DELLA CUSTODIA DELLE LEGGI. La custodia degli ordini porta di séguito quella de' maestrati e de' sacerdozi, e quindi quella ancor delle leggi e della scienza d'interpetrarle. Ond'è che si legge nella storia romana, a' tempi ne' quali era quella repubblica aristocratica, che dentro l'ordine senatorio (ch'allora era tutto di nobili) erano chiusi e connubi e consolati e sacerdozi, e dentro il collegio de' pontefici (nel quale non si ammettevano che patrizi), come appo tutte l'altre nazioni eroiche, si custodiva sagra ovvero segreta (che sono lo stesso) la scienza delle lor leggi: che durò tra' romani fin a cento anni dopo la legge delle XII Tavole, al narrare di Pomponio giureconsulto. E ne restarono detti «viri», che tanto in que' tempi a' latini significò quanto a' greci significarono «eroi», e con tal nome s'appellarono i mariti solenni, i maestrati, i sacerdoti e i giudici, come altra volta si è detto. Però noi qui ragioneremo della custodia delle leggi, siccome quella ch'era una massima propietà dell'aristocrazie eroiche; onde fu l'ultima ad essere da' patrizi comunicata alla plebe. Tal custodia scrupolosamente si osservò ne' tempi divini; talché l'osservanza delle leggi divine se ne chiama «religione», la quale si perpetuò per tutti i governi appresso, ne' quali le leggi divine si devon osservare con certe innalterabili formole di consagrate parole e di cerimonie solenni: la qual custodia delle leggi è tanto propia delle repubbliche aristocratiche che nulla più. Perciò Atene (e, al di lei esemplo, quasi tutte le città della Grecia) andò prestamente alla libertà popolare, per quello che gli spartani (ch'erano di repubblica aristocratica) dicevano agli ateniesi: che le leggi in Atene tante se ne scrivevano, e le poche ch'erano in Isparta si osservavano. Furono i romani, nello stato aristocratico, rigidissimi custodi della legge delle XII Tavole, come si è sopra veduto; tanto che da Tacito funne detta «finis omnis æqui iuris», perché, dopo quelle che furono stimate bastevoli per adeguare la libertà (che dovettero essere comandate dopo i decemviri, a' quali, per la maniera di pensare per caratteri poetici degli antichi popoli, che si è sempre dimostro, furono richiamate), leggi consolari di diritto privato furono appresso o niune o pochissime; e per quest'istesso da Livio fu ella detta «fons omnis æqui iuris», perch'ella dovett'esser il fonte di tutta l'interpetrazione. La plebe romana, a guisa dell'ateniese, tuttodì comandava delle leggi singolari, perché d'universali ella non è capace: al qual disordine Silla, che fu capoparte di nobili, poi che vinse Mario, ch'era stato capoparte di plebe, riparò alquanto con le «quistioni perpetue»; ma, rinnunziata ch'ebbe la dittatura, ritornarono a moltiplicarsi, come Tacito narra, le leggi singolari niente meno di prima. Della qual moltitudine delle leggi, com'i politici l'avvertiscono, non vi è via più spedita di pervenir alla monarchia; e perciò Augusto, per istabilirla, ne fece in grandissimo numero, e i seguenti prìncipi usarono sopra tutto il senato per fare senaticonsulti di privata ragione. Niente di manco, dentro essi tempi della libertà popolare si custodirono sì severamente le formole dell'azioni, che vi bisognò tutta l'eloquenza di Crasso, che Cicerone chiamava il «romano Demostene», perché la sustituzione pupillar espressa contenesse la volgar tacita, e vi bisognò tutta l'eloquenza di Cicerone per combattere una «r» che mancava alla formola, con la qual letteruccia pretendeva Sesto Ebuzio ritenersi un podere d'Aulo Cecina. Finalmente si giunse a tanto, poi che Costantino cancellò affatto le formole, ch'ogni motivo particolar d'equità fa mancare le leggi: tanto sotto i governi umani le umane menti sono docili a riconoscere l'equità naturale. Così, da quel capo della legge delle XII Tavole: «Privilegia ne irroganto», osservato nella romana aristocrazia, per le tante leggi singolari, fatte, come si è detto, nella libertà popolare, si giunse a tanto sotto le monarchie, ch'i prìncipi non fann'altro che concedere privilegi, de' quali, conceduti con merito, non vi è cosa più conforme alla natural equità. Anzi tutte l'eccezioni, ch'oggi si danno alle leggi, si può con verità dire che sono privilegi dettati dal particolar merito de' fatti, il quale gli tragge fuori dalla comun disposizion delle leggi. Quindi crediamo esser quello avvenuto: che, nella crudezza della barbarie ricorsa, le nazioni sconobbero le leggi romane; tanto che in Francia era con gravi pene punito, ed in Ispagna anco con quella di morte, chiunque nella sua causa n'avesse allegato alcuna. Certamente, in Italia si recavano a vergogna i nobili di regolar i lor affari con le leggi romane e professavano soggiacere alle longobarde; e i plebei, che tardi si disavvezzano de' lor costumi, praticavano alcuni diritti romani in forza di consuetudini: ch'è la cagione onde il corpo delle leggi di Giustiniano ed altri del diritto romano occidentale tra noi latini, e i libri Basilici ed altri del diritto romano orientale tra' greci si seppellirono. Ma poi, rinnate le monarchie e rintrodutta la libertà popolare, il diritto romano compreso ne' libri di Giustiniano è stato ricevuto universalmente, tanto che Grozio afferma esser oggi un diritto naturale delle genti d'Europa. Però qui è da ammirare la romana gravità e sapienza: che, in queste vicende di stati, i pretori e i giureconsulti si studiarono a tutto loro potere che di quanto meno e con tardi passi s'impropiassero le parole della legge delle XII Tavole. Onde forse per cotal cagione principalmente l'imperio romano cotanto s'ingrandì e durò: perché, nelle sue vicende di stato, proccurò a tutto potere di star fermo sopra i suoi princìpi, che furono gli stessi che quelli di questo mondo di nazioni; come tutti i politici vi convengono che non vi sia miglior consiglio di durar e d'ingrandire gli Stati. Così la cagione, che produsse a' romani la più saggia giurisprudenza del mondo (di che sopra si è ragionato), è la stessa che fece loro il maggior imperio del mondo; ed è la cagione della grandezza romana, che Polibio, troppo generalmente, rifonde nella religione de' nobili, al contrario Macchiavello nella magnanimità della plebe, e Plutarco, invidioso della romana virtù e sapienza, rifonde nella loro fortuna nel libro De fortuna romanorum, a cui per altre vie meno diritte Torquato Tasso scrisse la sua generosa Risposta. XIII ALTRE PRUOVE PRESE DAL TEMPERAMENTO DELLE REPUBBLICHE, FATTO DEGLI STATI DELLE SECONDE COI GOVERNI DELLE PRIMIERE 1. Per tutte le cose che in questo libro si sono dette, con evidenza si è dimostrato che, per tutta l'intiera vita onde vivon le nazioni, esse corrono con quest'ordine sopra queste tre spezie di repubbliche, o sia di Stati civili, e non più: che tutti mettono capo ne' primi, che furon i divini governi; da' quali, appo tutte, incominciando (per le Degnità sopra poste come princìpi della storia ideal eterna), debbe correre questa serie di cose umane, prima in repubbliche d'ottimati, poi nelle libere popolari e finalmente sotto le monarchie: onde Tacito, quantunque non le veda con tal ordine, dice (quale nell'Idea dell'opera l'avvisammo) che, oltre a queste tre forme di Stati pubblici, ordinate dalla natura de' popoli, l'altre di queste tre, mescolate per umano provvedimento, sono più da disiderarsi dal cielo che da potersi unquemai conseguire, e, se per sorte ve n'hanno, non sono punto durevoli. Ma, per non trallasciare punto di dubbio d'intorno a tal naturale successione di Stati politici o sien civili, secondo questa ritruoverassi le repubbliche mescolarsi naturalmente, non già di forme (che sarebbero mostri), ma di forme seconde mescolate coi governi delle primiere; il qual mescolamento è fondato sopra quella Degnità: che, cangiandosi gli uomini, ritengono per qualche tempo l'impressione del loro vezzo primiero. Perciò diciamo che, come i primi padri gentili, venuti dalla vita lor bestiale all'umana, eglino, a' tempi religiosi, nello stato di natura, sotto i divini governi, ritennero molto di fierezza e d'immanità della lor fresca origine (onde Platone riconosce ne' polifemi d'Omero i primi padri di famiglia del mondo); così, nel formarsi le prime repubbliche aristocratiche, restaron intieri gl'imperi sovrani privati a' padri delle famiglie, quali gli avevano essi avuto nello stato già di natura; e, per lo loro sommo orgoglio, non dovendo niuno ceder ad altri, perch'erano tutti uguali, con la forma aristocratica s'assoggettirono all'imperio sovrano pubblico d'essi ordini loro regnanti; onde il dominio alto privato di ciascun padre di famiglia andò a comporre il dominio alto superiore pubblico d'essi senati, siccome delle potestà sovrane private, ch'avevano sopra le loro famiglie, essi composero la potestà sovrana civile de' loro medesimi ordini. Fuori della qual guisa, è impossibil intendere come altrimente delle famiglie si composero le città, le quali, perciò, ne dovettero nascere repubbliche aristocratiche, naturalmente mescolate d'imperi famigliari sovrani. Mentre i padri si conservarono cotal autorità di dominio dentro gli ordini loro regnanti, finché le plebi de' loro popoli eroici, per leggi di essi padri, riportarono comunicati loro il dominio certo de' campi, i connubi, gl'imperi, i sacerdozi e, co' sacerdozi, la scienza ancor delle leggi, le repubbliche durarono aristocratiche. Ma, poi che esse plebi dell'eroiche città, divenute numerose ed anco agguerrite (che mettevano paura a' padri, che nelle repubbliche di pochi debbon essere pochi) ed assistite dalla forza (ch'è la loro moltitudine), cominciarono a comandare leggi senza autorità de' senati, si cangiarono le repubbliche, e da aristocratiche divennero popolari: perché non potevano pur un momento vivere ciascuna con due potestà somme legislatrici, senza essere distinte di subbietti, di tempi, di territori, d'intorno a' quali, ne' quali e dentro i quali dovessero comandare le leggi: come con la legge Publilia, perciò, Filone dittatore dichiarò la repubblica romana essersi per natura fatta già popolare. In tal cangiamento, perché l'autorità di dominio ritenesse ciò che poteva della cangiata sua forma, ella naturalmente divenne autorità di tutela (siccome la potestà c'hanno i padri sopra i loro figliuoli impuberi, morti essi, diviene in altri autorità di tutori); per la quale autorità, i popoli liberi, signori de' lor imperi, quasi pupilli regnanti, essendo di debole consiglio pubblico, essi naturalmente si fanno governare, come da' tutori, da' lor senati; e sì furono repubbliche libere per natura, governate aristocraticamente. Ma, poi che i potenti delle repubbliche popolari ordinarono tal consiglio pubblico a' privati interessi della loro potenza, e i popoli liberi, per fini di private utilità, si fecero da' potenti sedurre ad assoggettire la loro pubblica libertà all'ambizione di quelli, con dividersi in partiti, sedizioni, guerre civili, in eccidio delle loro medesime nazioni, s'introdusse la forma monarchica. 2. D'UN'ETERNA NATURAL LEGGE REGIA, PER LA QUALE LE NAZIONI VANNO A RIPOSARE SOTTO LE MONARCHIE. E tal forma monarchica s'introdusse con questa eterna natural legge regia, la qual sentirono pure tutte le nazioni, che riconoscono da Augusto essersi fondata la monarchia de' romani: la qual legge non han veduto gl'interpetri della romana ragione, occupati tutti d'intorno alla favola della «legge regia» di Triboniano, di cui apertamente si professa autore nell'Istituta, ed una volta l'appicca ad Ulpiano nelle Pandette. Ma l'intesero bene i giureconsulti romani, che seppero bene del diritto naturale delle genti, per ciò che Pomponio, nella brieve storia del diritto romano, ragionando di cotal legge, con quella ben intesa espressione ci lasciò scritto: «rebus ipsis dictantibus, regna condita». Cotal legge regia naturale è conceputa con questa formola naturale di eterna utilità: che, poiché nelle repubbliche libere tutti guardano a' loro privati interessi, a' quali fanno servire le loro pubbliche armi in eccidio delle loro nazioni, perché si conservin le nazioni, vi surga un solo (come tra' romani un Augusto), che con la forza dell'armi richiami a sé tutte le cure pubbliche e lasci a' soggetti corarsi le loro cose private, e tale e tanta cura abbiano delle pubbliche qual e quanta il monarca lor ne permetta; e così si salvino i popoli, ch'anderebbono altrimente a distruggersi. Nella qual verità convengono i volgari dottori, ove dicono che «universitates sub rege habentur loco privatorum», perché la maggior parte de' cittadini non curano più ben pubblico: lo che Tacito, sappientissimo del diritto natural delle genti, negli Annali, dentro la sola famiglia de' Cesari l'insegna con quest'ordine d'idee umane civili: avvicinandosi al fine Augusto, «pauci bona libertatis incassum disserere»; tosto venuto Tiberio, «omnes principis iussa adspectare»; sotto gli tre Cesari appresso, prima venne «incuria» e finalmente «ignorantia reipublicæ tanquam alienæ»: ond'essendo i cittadini divenuti quasi stranieri delle loro nazioni, è necessario ch'i monarchi nelle loro persone le reggano e rappresentino. Ora, perché nelle repubbliche libere per portarsi un potente alla monarchia vi deve parteggiare il popolo, perciò le monarchie per natura si governano popolarmente: prima con le leggi, con le qual'i monarchi vogliono i soggetti tutti uguagliati; dipoi per quella propietà monarchica, ch'i sovrani, con umiliar i potenti, tengono libera e sicura la moltitudine dalle lor oppressioni; appresso per quell'altra di mantenerla soddisfatta e contenta circa il sostentamento che bisogna alla vita e circa gli usi della libertà naturale; e finalmente co' privilegi, ch'i monarchi concedono o ad intieri ordini (che si chiamano «privilegi di libertà») o a particolari persone, con promuovere fuori d'ordine uomini di straordinario merito agli onori civili (che sono leggi singolari dettate dalla natural equità). Onde le monarchie sono le più conformi all'umana natura della più spiegata ragione, com'altra volta si è detto. 3. CONFUTAZIONE DE' PRINCÌPI DELLA DOTTRINA POLITICA FATTA SOPRA IL SISTEMA DI GIOVANNI BODINO. Dallo che si è fino qui ragionato s'intenda quanto Gian Bodino stabilì con iscienza i princìpi della sua dottrina politica, che dispone le forme degli Stati civili con sì fatt'ordine: che prima furono monarchici, dipoi per le tirannie passati in liberi popolari, e finalmente vennero gli aristocratici. Qui basterebbe averlo appien confutato con la natural successione delle forme politiche, spezialmente in questo libro a tante innumerabili pruove dimostrata di fatto. Ma ci piace, ad exuberantiam, confutarlo dagl'impossibili e dagli assurdi di cotal sua posizione. Esso, certamente, conviene in quello ch'è vero: che sopra le famiglie si composero le città. Altronde, per comun errore, che si è qui sopra ripreso, ha creduto che le famiglie sol fussero di figliuoli. Or il domandiamo: come sopra tali famiglie potevano surger le monarchie? Due sono i mezzi: o la forza o la froda. Per forza, come un padre di famiglia poteva manomettere gli altri? Perché, se nelle repubbliche libere (che, per esso, vennero dopo le tirannie) i padri di famiglia consagravano sé e le loro famiglie per le loro patrie, che loro conservavano le famiglie (e, per esso, erano quelli già stati addimesticati alle monarchie), quanto è da stimarsi ch'i padri di famiglia, allor polifemi, nella recente origine della loro ferocissima libertà bestiale, si arebbono tutti con le lor intiere famiglie fatti più tosto uccidere che sopportar inegualità? Per froda, ella è adoperata da coloro ch'affettano il regno nelle repubbliche libere, con proporre a' sedutti o libertà o potenza o ricchezze. Se libertà, nello stato delle famiglie i padri erano tutti sovrani. Se potenza, la natura de' polifemi era di starsi tutti soli nelle loro grotte e curare le lor famiglie, e nulla impacciarsi di quelle ch'eran d'altrui, convenevolmente al vezzo della lor origine immane. Se ricchezze, in quella semplicità e parsimonia de' primi tempi non s'intendevano affatto. Cresce a dismisura la difficultà, perché ne' tempi barbari primi non vi eran fortezze, e le città eroiche, le quali si composero dalle famiglie, furono lungo tempo smurate, come ce n'accertò sopra Tucidide; e, nelle gelosie di Stato, che furono funestissime nell'aristocratiche eroiche che sopra abbiam detto, Valerio Publicola, per aversi fabbricato una casa in alto, venutone in sospetto d'affettata tirannide, affin di giustificarsene, in una notte fecela smantellare, e 'l giorno appresso, chiamata pubblica ragunanza, fece da' littori gittar i fasci consolari a' piedi del popolo; e 'l costume delle città smurate più durò ove furono più feroci le nazioni: talché in Lamagna si legge ch'Arrigo detto l'uccellatore fu il primo che 'ncominciasse a ridurre i popoli, da' villaggi dove innanzi avevano vivuto dispersi, a celebrar le città ed a cingere le città di muraglie. Tanto i primi fondatori delle città essi furono quelli che con l'aratro vi disegnarono le mura e le porte, ch'i latini etimologi dicono essersi così dette a «portando aratro», perché l'avessero portato alto, ove volevano che si aprisser le porte! Quindi, tra per la ferocia de' tempi barbari e per la poca sicurtà delle regge, nella corte di Spagna in sessant'anni furon uccisi più di ottanta reali; talché i padri del concilio illiberitano, uno degli più antichi della Chiesa latina, con gravi scomuniche ne condennarono la tanto frequentata scelleratezza. Ma giunge la difficultà all'infinito, poste le famiglie sol di figliuoli. Ché o per forza o per froda debbon i figliuoli essere stati i ministri dell'altrui ambizione, e o tradire o uccidere i propi padri; talché le prime sarebbono state, non già monarchie, ma empie e scellerate tirannidi: come i giovani nobili in Roma congiurarono contro i lor propi padri a favore del tiranno Tarquinio, per l'odio ch'avevano al rigor delle leggi, propio delle repubbliche aristocratiche (come le benigne sono delle repubbliche popolari, le clementi de' regni legittimi, le dissolute sotto i tiranni); ed essi giovani congiurati le sperimentarono a costo delle propie lor vite; e, tra quelli, due figliuoli di Bruto, dettando esso padre la severissima pena, furon entrambi decapitati. Tanto il regno romano era stato monarchico e la libertà da Bruto ordinatavi popolare! Per tali e tante difficultà debbe Bodino (e con lui tutti gli altri politici) riconoscere le monarchie famigliari nello stato delle famiglie che si sono qui dimostrate, e riconoscere le famiglie, oltre de' figliuoli, ancora de' famoli (da' quali principalmente si dissero le famiglie), i quali si sono qui truovati che abbozzi furono degli schiavi, i quali vennero dopo le città con le guerre. E 'n cotal guisa sono la materia delle repubbliche uomini liberi e servi, i quali il Bodino pone per materia delle repubbliche, ma, per la sua posizione, non posson esserlo. Per tale difficoltà di poter essere uomini liberi e servi materia delle repubbliche con la sua posizione, si maraviglia esso Bodino che la sua nazione sia stata detta di «franchi», i quali osserva essere stati ne' loro primi tempi trattati da vilissimi schiavi; perché, per la sua posizione, non poté vedere che sugli sciolti dal nodo della legge Petelia si compierono le nazioni. Talché i franchi, de' quali si maraviglia il Bodino, sono gli stessi che [gli] «homines», de' quali si maraviglia Ottomano essere stati detti i vassalli rustici, de' quali, come in questi libri si è dimostrato, si composero le plebi de' primi popoli, i quali eran d'eroi. Le quali moltitudini, come pure si è dimostrato, trassero l'aristocrazie alla libertà popolare e, finalmente, alle monarchie; e ciò, in forza della lingua volgare, con cui, in ogniuno dei due ultimi Stati, si concepiscon le leggi, come sopra si è ragionato: onde da' latini si disse «vernacula» la volgar lingua, perocché venne da questi servi nati in casa, ché tanto «verna» significa, non «fatti in guerra»; quali sopra dimostrammo essere stati per tutte le nazioni antiche fin dallo stato delle famiglie. Il perché i greci non si dissero più «achivi» (onde da Omero si dicono «filii achivorum» gli eroi), ma si dissero «elleni» da Elleno, che 'ncominciò la lingua greca volgare; appunto come non più si dissero «filii Isræl», come ne' tempi primi, ma restò detto «popolo ebreo», da Eber, che i padri vogliono essere stato il propagator della lingua santa. Tanto Bodino, e tutti gli altri c'hanno scritto di dottrina politica, videro questa luminosissima verità, la quale per tutta quest'opera, particolarmente con la storia romana, ad evidenza si è dimostrata: che le plebi de' popoli, sempre ed in tutte le nazioni, han cangiato gli Stati da aristocratici in popolari, da popolari in monarchici, e che, come elleno fondarono le lingue volgari (come sopra appieno si è pruovato nell'Origini delle lingue), così hanno dato i nomi alle nazioni, conforme testé si è veduto! E sì gli antichi franchi, de' quali il Bodino si maraviglia, il diedero alla sua Francia. Finalmente gli Stati aristocratici, per la sperienza ch'ora n'abbiamo, sono pochissimi, rimastici da essi tempi della barbarie, che sono Vinegia, Genova, Lucca in Italia, Ragugia in Dalmazia e Norimberga in Lamagna, perocché gli altri sono Stati popolari governati aristocraticamente. Laonde lo stesso Bodino - che, sulla sua posizione, vuole il regno romano monarchico, e, cacciati indi i tiranni, vuole in Roma introdutta la popolar libertà, - non vedendo ne' tempi primi di Roma libera riuscirgli gli effetti conformi al disegno de' suoi princìpi (perch'eran propi di repubblica aristocratica), osservammo sopra che, per uscirne onestamente, dice prima che Roma fu popolare di Stato ma di governo aristocratica, ma poi, essendo costretto dalla forza del vero, in altro luogo, con brutta incostanza, confessa essere stata aristocratica, nonché di governo, di Stato. Tali errori nella dottrina politica sono nati da quelle tre voci non diffinite, ch'altre volte abbiamo sopra osservato: «popolo», «regno» e «libertà». E si è creduto i primi popoli comporsi di cittadini così plebei come nobili, i quali a mille pruove qui si sono truovati essere stati di soli nobili. Si è creduto libertà popolare di Roma antica, cioè libertà del popolo da' signori, quella che qui si è truovata libertà signorile, cioè libertà de' signori da' tiranni Tarquini; onde agli uccisori di tai tiranni s'ergevano le statue, perché gli uccidevano per ordine di essi senati regnanti. Gli re, nella ferocia de' primi popoli e nella mala sicurtà delle regge, furono aristocratici, quali i due re spartani a vita in Isparta (repubblica, fuor di dubbio, aristocratica, come si è qui dimostrata), e poi furono i due consoli annali in Roma, che Cicerone chiama «reges annuos» nelle sue Leggi. Col qual ordinamento fatto da Giunio Bruto, apertamente Livio professa che 'l regno romano di nulla fu mutato d'intorno alla regal potestà; come l'abbiamo sopra osservato che da questi re annali, durante il loro regno, vi era l'appellagione al popolo, e, quello finito, dovevano render conto del regno da essi amministrato allo stesso popolo. E riflettemmo che, ne' tempi eroici, gli re tutto giorno si cacciavano di sedia l'un l'altro, come ci disse Tucidide; co' quali componemmo i tempi barbari ritornati, ne' quali non si legge cosa più incerta e varia che la fortuna de' regni. Ponderammo Tacito (che nella propietà ed energia di esse voci spesso suol dare i suoi avvisi), che 'ncomincia gli Annali con questo motto: «Urbem Romam principio reges habuere», ch'è la più debole spezie di possessione delle tre che ne fanno i giureconsulti, quando dicono «habere», «tenere», «possidere»; ed usò la voce «urbem», che, propiamente, sono gli edifici, per significare una possessione conservata col corpo: non disse «civitatem», ch'è 'l comune de' cittadini, i quali tutti, o la maggior parte, con gli animi fanno la ragion pubblica. XIV ULTIME PRUOVE LE QUALI CONFERMANO TAL CORSO DI NAZIONI. 1. Vi sono altre convenevolezze di effetti con le cagioni che lor assegna questa Scienza ne' suoi princìpi, per confermare il natural corso che fanno nella lor vita le nazioni. La maggior parte delle quali sparsamente sopra e senz'ordine si sono dette, e qui, dentro tal naturale successione di cose umane civili, si uniscono e si dispongono. Come le pene, che nel tempo delle famiglie erano crudelissime quanto erano quelle de' polifemi, nel quale stato Apollo scortica vivo Marsia; e seguitarono nelle repubbliche aristocratiche: onde Perseo col suo scudo, come sopra spiegammo, insassiva coloro che 'l riguardavano. E le pene se ne dissero da' greci paradéigmata, nello stesso senso che da' latini si chiamarono «exempla», in senso di «castighi esemplari»; e da' tempi barbari ritornati, come si è anco osservato sopra, «pene ordinarie» si dissero le pene di morte. Onde le leggi di Sparta, repubblica a tante pruove da noi dimostrata aristocratica, elleno, selvagge e crude così da Platone come da Aristotile giudicate, vollero un chiarissimo re, Agide, fatto strozzare dagli efori; e quelle di Roma, mentre fu di stato aristocratico, volevano un inclito Orazio vittorioso battuto nudo con le bacchette e quindi all'albero infelice afforcato, come l'un e l'altro sopra si è detto ad altro proposito. Dalla legge delle XII Tavole condennati ad esser bruciati vivi coloro ch'avevano dato fuoco alle biade altrui, precipitati giù dal monte Tarpeo li falsi testimoni, fatti vivi in brani i debitori falliti: la qual pena Tullo Ostilio non aveva risparmiato a Mezio Suffezio, re di Alba, suo pari, che gli aveva mancato la fede dell'alleanza; ed esso Romolo, innanzi, fu fatto in brani da' padri per un semplice sospetto di Stato. Lo che sia detto per coloro i quali vogliono che tal pena non fu mai praticata in Roma. Appresso vennero le pene benigne, praticate nelle repubbliche popolari, dove comanda la moltitudine, la quale, perché di deboli, è naturalmente alla compassione inchinata; e quella pena - della qual Orazio (inclito reo d'una collera eroica, con cui aveva ucciso la sorella, la qual esso vedeva piangere alla pubblica felicità) il popolo romano assolvette «magis admiratione virtutis quam iure caussæ» (conforme all'elegante espressione di Livio, altra volta sopra osservata), - nella mansuetudine della di lui libertà popolare, come Platone ed Aristotile, ne' tempi d'Atene libera, poco fa udimmo riprendere le leggi spartane, così Cicerone grida esser inumana e crudele, per darsi ad un privato cavaliere romano, Rabirio, ch'era reo di ribellione. Finalmente si venne alle monarchie, nelle qual'i principi godono di udire il grazioso titolo di «clementi». Come dalle guerre barbare de' tempi eroici, che si rovinavano le città vinte, e gli arresi, cangiati in greggi di giornalieri, erano dispersi per le campagne a coltivar i campi per gli popoli vincitori (che, come sopra ragionammo, furono le colonie eroiche mediterranee) - quindi per la magnanimità delle repubbliche popolari, le quali, finché si fecero regolare da' lor senati, toglievano a' vinti il diritto delle genti eroiche e lasciavano loro tutti liberi gli usi del diritto natural delle genti umane ch'Ulpiano diceva (onde, con la distesa delle conquiste, si ristrinsero a' cittadini romani tutte le ragioni, che poi si dissero «propriæ civium romanorum», come sono nozze, patria potestà, suità, agnazione, gentilità, dominio quiritario o sia civile, mancipazioni, usucapioni, stipulazioni, testamenti, tutele ed eredità; le quali ragioni civili tutte, innanzi d'esser soggette, dovettero aver propie loro le libere nazioni) - si venne finalmente alle monarchie, che vogliono, sotto Antonino Pio, di tutto il mondo romano fatta una sola Roma. Perch'è voto propio de' gran monarchi di far una città sola di tutto il mondo, come diceva Alessandro Magno che tutto il mondo era per lui una città, della qual era ròcca la sua falange. Onde il diritto natural delle nazioni, promosso da' pretori romani nelle provincie, venne, a capo di lunga età, a dar le leggi in casa d'essi romani; perché cadde il diritto eroico de' romani sulle provincie, perché i monarchi vogliono tutti i soggetti uguagliati con le lor leggi. E la giurisprudenza romana, la quale ne' tempi eroici tutta si celebrò sulla legge delle XII Tavole, e poi, fin da' tempi di Cicerone (com'egli il riferisce in un libro De legibus), era incominciata a praticarsi sopra l'editto del romano pretore, finalmente, dall'imperador Adriano in poi, tutta s'occupò d'intorno all'Editto perpetuo, composto ed ordinato da Salvio Giuliano quasi tutto d'editti provinciali. Come da' piccioli distretti, che convengono a ben governarsi le repubbliche aristocratiche, poi per le conquiste, alle quali sono ben disposte le repubbliche libere, si viene finalmente alle monarchie, le quali, quanto sono più grandi, sono più belle e magnifiche. Come da' funesti sospetti delle aristocrazie, per gli bollori delle repubbliche popolari, vanno finalmente le nazioni a riposare sotto le monarchie. Ma ci piace finalmente di dimostrare come sopra quest'ordine di cose umane civili, corpolento e composto, vi convenga l'ordine de' numeri, che sono cose astratte e purissime. Incominciarono i governi dall'uno, con le monarchie famigliari; indi passarono a' pochi, con l'aristocrazie eroiche; s'innoltrarono ai molti e tutti nelle repubbliche popolari, nelle quali o tutti o la maggior parte fanno la ragion pubblica; finalmente ritornarono all'uno nelle monarchie civili. Né nella natura de' numeri si può intendere divisione più adeguata né con altr'ordine che uno, pochi, molti e tutti, e che i pochi, molti e tutti ritengano, ciascheduno nella sua spezie, la ragione dell'uno; siccome i numeri consistono in indivisibili, al dir d'Aristotile, e, oltrepassando i tutti, si debba ricominciare dall'uno. E sì l'umanità si contiene tutta tralle monarchie famigliari e civili. 2. COROLLARIO IL DIRITTO ROMANO ANTICO FU UN SERIOSO POEMA E L'ANTICA GIURISPRUDENZA FU UNA SEVERA POESIA, DENTRO LA QUALE SI TRUOVANO I PRIMI DIROZZAMENTI DELLA LEGAL METAFISICA, E COME A' GRECI DALLE LEGGI USCÌ LA FILOSOFIA. Vi sono altri ben molti e ben grandi effetti, particolarmente nella giurisprudenza romana, i quali non truovano le loro cagioni che 'n questi stessi princìpi. E sopra tutto per quella Degnità: - che, perocché sono gli uomini naturalmente portati al conseguimento del vero, per lo cui affetto, ove non possono conseguirlo, s'attengono al certo, - quindi le mancipazioni cominciarono con vera mano, per dire con «vera forza», perché «forza» è astratto, «mano» è sensibile. E la mano appo tutte le nazioni significò «potestà»; onde sono le «chirothesie» e le «chirotonie» che dicon i greci, delle quali quelle erano criazioni che si facevano con le imposizioni delle mani sopra il capo di colui ch'aveva da eleggersi in potestà, queste eran acclamazioni delle potestà già criate fatte con alzare le mani in alto. Solennità propie de' tempi mutoli, conforme a' tempi barbari ritornati così acclamavano all'elezioni de' re. Tal mancipazion vera è l'occupazione, primo gran fonte naturale di tutti i domini, ch'a' romani detta poi restò nelle guerre; ond'e gli schiavi furono detti «mancipia», e le prede e le conquiste «res mancipi» de' romani, divenute con le vittorie «res nec mancipi» ad essi vinti. Tanto la mancipazione nacque dentro le mura della sola città di Roma per modo d'acquistar il dominio civile ne' commerzi privati d'essi romani! A tal mancipazione andò di séguito una conforme vera usucapione, cioè acquisto di dominio (ché tanto suona «capio») con vero uso (in senso che la voce «usus» significa «possessio»). E le possessioni dapprima si celebrarono col continuo ingombramento de' corpi sopra esse cose possedute, talché «possessio» dev'essere stata detta quasi «porro sessio» (per lo quale proseguito atto di sedere o star fermo i domicili latinamente restaron chiamati «sedes»), e non già «pedum positio», come dicono i latini etimologi, perché il pretore assiste a quella e non a questa possessione e la mantiene con gl'interdetti. Dalla qual posizione, detta thésis da' greci, dovette chiamarsi Teseo, non dalla bella sua positura, come dicono gli etimologi greci, perché uomini d'Attica fondaron Atene con lo stare lungo tempo ivi fermi; ch'è l'usucapione, la qual legittima appo tutte le nazioni gli Stati. Ancora, in quelle repubbliche eroiche d'Aristotile che non avevano leggi da ammendar i torti privati, vedemmo, sopra, le revindicazioni esercitarsi con vera forza (che furono i primi duelli o private guerre del mondo), e le condiczioni essere state le ripresaglie private, che dalla barbarie ricorsa duraron fin a' tempi di Bartolo. Imperciocché, essendosi incominciata ad addimesticare la ferocia de' tempi e, con le leggi giudiziarie, incominciate a proibirsi le violenze private, tutte le private forze andandosi ad unire nella forza pubblica, che si dice «imperio civile», i primi popoli, per natura poeti, dovettero naturalmente imitare quelle forze vere, ch'avevan innanzi usate per conservarsi i loro diritti e ragioni: e così fecero una favola della mancipazion naturale, e ne fecero la solenne tradizion civile, la quale si rappresentava con la consegna d'un nodo finto, per imitare la catena con la qual Giove aveva incatenati i giganti alle prime terre vacue, e poi essi v'incatenarono i loro clienti ovvero famoli; e, con tal mancipazione favoleggiata, celebrarono tutte le loro civili utilità con gli atti legittimi, che dovetter essere cerimonie solenni de' popoli ancora mutoli. Poscia (essendosi la favella articolata formata appresso), per accertarsi l'uno della volontà dell'altro nel contrarre tra loro, vollero ch'i patti, nell'atto della consegna di esso nodo, si vestissero con parole solenni, delle quali fussero concepute stipulazioni certe e precise; e così dappoi in guerra concepivano le leggi con le quali si facevano le rese delle vinte città, le quali si dissero «paci» da «pacio», che lo stesso suona che «pactum». Di che restò un gran vestigio nella formola con la quale fu conceputa la resa di Collazia, che, qual è riferita da Livio, ella è un contratto recettizio fatto con solenni interrogazioni e risposte; onde con tutta propietà gli arresi ne furon detti «recepti», conforme l'araldo romano disse agli oratori collatini; - «Et ego recipio». - Tanto la stipulazione ne' tempi eroici fu de' soli cittadini romani! e tanto con buon senno si è finora creduto che Tarquinio Prisco, nella formola con cui fu resa Collazia, avesse ordinato alle nazioni com'avesser a fare le rese! In cotal guisa il diritto delle genti eroiche del Lazio restò fisso nel famoso capo della legge delle XII Tavole così conceputo: «Si quis nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto», ch'è il gran fonte di tutto il diritto romano antico, ch'i pareggiatori del diritto attico confessano non esser venuto da Atene in Roma. L'usucapione procedé con la possessione presa col corpo, e poi, finta, ritenersi con l'animo. Alla stessa fatta favoleggiarono con una pur finta forza le vendicazioni; e le ripresaglie eroiche passarono dappoi in azioni personali, serbata la solennità di dinonziarla a coloro ch'erano debitori. Né poté usar altro consiglio la fanciullezza del mondo, poiché i fanciulli, come se n'è proposta una degnità, vagliono potentemente nell'imitar il vero di che sono capaci, nella qual facultà consiste la poesia, ch'altro non è ch'imitazione. Si portarono in piazza tante maschere quante son le persone, ché «persona» non altro propiamente vuol dire che «maschera», e quanti sono i nomi, i quali, ne' tempi de' parlari mutoli, che si facevan con parole reali, dovetter essere l'insegne delle famiglie, con le quali furono ritruovati distinguere le famiglie loro gli americani, come sopra si è detto; e sotto la persona o maschera d'un padre d'una famiglia si nascondevano tutti i figliuoli e tutti i servi di quella, sotto un nome reale ovvero insegna di casa si nascondevano tutti gli agnati e tutti i gentili della medesima. Onde vedemmo ed Aiace torre de' greci, ed Orazio solo sostenere sul ponte tutta Toscana, ed a' tempi barbari ritornati rincontrammo quaranta normanni eroi cacciare da Salerno un esercito intiero di saraceni; e quindi furono credute le stupende forze de' paladini di Francia (che erano sovrani principi, come restarono così detti nella Germania) e, sopra tutti, del conte Rolando, poi detto Orlando. La cui ragione esce da' princìpi della poesia che si sono sopra truovati: che gli autori del diritto romano, nell'età che non potevano intendere universali intelligibili, ne fecero universali fantastici; e come poi i poeti, per arte, ne portarono i personaggi e le maschere nel teatro così essi, per natura, innanzi avevano portato i «nomi» e le «persone» nel fòro. Perché «persona» non dev'essere stata detta da «personare», che significa «risuonar dappertutto» - lo che non bisognava ne' teatri assai piccioli delle prime città (quando, come dice Orazio, i popoli spettatori erano piccioli, che si potevano numerare) che le maschere si usassero, perché ivi dentro talmente risuonasse la voce ch'empiesse un ampio teatro; né vi acconsente la quantità della sillaba, la quale, da «sono», debb'esser brieve; - ma dev'esser venuto da «personari», il qual verbo congetturiamo aver significato «vestir pelli di fiere» (lo che non era lecito ch'a' soli eroi), e ci è rimasto il verbo compagno «opsonari», che dovette dapprima significare «cibarsi di carne selvaggine cacciate», che dovetter essere le prime mense opime, qual'appunto de' suoi eroi le descrive Virgilio. Onde le prime spoglie opime dovetter essere tali pelli di fiere uccise, che riportarono dalle prime guerre gli eroi, le quali prime essi fecero con le fiere per difenderne sé e le loro famiglie, come sopra si è ragionato, e i poeti di tali pelli fanno vestire gli eroi e, sopra tutti, di quella del lione, Ercole. E da tal origine del verbo «personari», nel suo primiero significato che gli abbiamo restituito, congetturiamo che gl'italiani dicono «personaggi» gli uomini d'alto stato e di grande rappresentazione. Per questi stessi princìpi, perché non intendevano forme astratte, ne immaginarono forme corporee, e l'immaginarono, dalla loro natura, animate. E finsero l'eredità signora delle robe ereditarie, ed in ogni particolar cosa ereditaria la ravvisavano tutta intiera: appunto come una gleba o zolla del podere, che presentavano al giudice, con la formola della revindicazione essi dicevano «hunc fundum». E così, se non intesero, sentirono rozzamente almeno ch'i diritti fussero indivisibili. In conformità di tali nature, l'antica giurisprudenza tutta fu poetica, la quale fingeva i fatti non fatti, i non fatti fatti, nati gli non nati ancora, morti i viventi, i morti vivere nelle loro giacenti eredità; introdusse tante maschere vane senza subbietti, che si dissero «iura imaginaria», ragioni favoleggiate da fantasia; e riponeva tutta la sua riputazione in truovare sì fatte favole ch'alle leggi serbassero la gravità ed ai fatti ministrassero la ragione. Talché tutte le finzioni dell'antica giurisprudenza furono verità mascherate; e le formole con le quali parlavan le leggi, per le loro circoscritte misure di tante e tali parole - né più, né meno, né altre, si dissero «carmina», come sopra udimmo dirsi da Livio quella che dettava la pena contro di Orazio. Lo che vien confermato con un luogo d'oro di Plauto nell'Asinaria, dove Diabolo dice il parasito esser un gran poeta, perché sappia più di tutti ritruovare cautele o formole, le quali or si è veduto che si dicevano «carmina». Talché tutto il diritto romano antico fu un serioso poema, che si rappresentava da' romani nel fòro, e l'antica giurisprudenza fu una severa poesia. Ch'è quello che, troppo acconciamente al nostro proposito, Giustiniano nel proemio dell'Istituta chiama «antiqui iuris fabulas»: il qual motto dev'essere stato d'alcun antico giureconsulto, ch'avesse inteso queste cose qui ragionate; ma egli l'usa per farne beffe. Ma da queste antiche favole richiama i suoi princìpi, come qui si dimostra, la romana giurisprudenza; e dalle maschere, le quali usarono tali favole dramatiche e vere e severe, che furon dette «personæ», derivano nella dottrina De iure personarum le prime origini. Ma, venuti i tempi umani delle repubbliche popolari, s'incominciò nelle grandi adunanze a ravvisar intelletto; e le ragioni astratte dall'intelletto ed universali si dissero indi in poi «consistere in intellectu iuris». Il qual intelletto è della volontà che 'l legislatore ha spiegato nella sua legge (la qual volontà si appella «ius»), che fu la volontà de' cittadini uniformati in un'idea d'una comune ragionevole utilità, la qual dovettero intendere essere spirituale di sua natura, perché tutti que' diritti che non hanno corpi dov'essi si esercitino (i quali si chiamano «nuda iura», diritti nudi di corpolenza) dissero «in intellectu iuris consistere». Perché, adunque, son i diritti modi di sostanza spirituale, perciò son individui, e quindi son anco eterni, perché la corrozione non è altro che divisione di parti. Gl'interpetri della romana ragione hanno riposta tutta la riputazione della legal metafisica in considerare l'indivisibilità de' diritti sopra la famosa materia De dividuis et individuis. Ma non ne considerarono l'altra non meno importante, ch'era l'eternità, la qual dovevano pur avvertire in quelle due regole di ragione, che stabiliscono, la prima, che, «cessante fine legis, cessat lex»; ove non dicono «cessante ratione», perché il fine della legge è l'uguale utilità delle cause, la qual può mancare; ma la ragione della legge essendo una conformazione della legge al fatto, vestito di tali circostanze, le quali, sempre che vestono il fatto, vi regna viva sopra la ragion della legge; - l'altra, che «tempus non est modus constituendi vel dissolvendi iuris» perché 'l tempo non può cominciare né finire l'eterno, e nell'usucapioni e prescrizioni il tempo non produce né finisce i diritti, ma è pruova che chi gli aveva abbia voluto spogliarsene; né, perché si dica «finire l'usufrutto», per cagion d'esemplo, il diritto finisce, ma dalla servitù si riceve alla primiera sua libertà. Dallo che escono questi due importantissimi corollari: il primo, ch'essendo i diritti eterni nel di lor intelletto, o sia nella lor idea, e gli uomini essendo in tempo, non posson i diritti altronde venire agli uomini che da Dio; il secondo, che tutti gl'innumerabili vari diversi diritti, che sono stati, sono e saranno nel mondo, sono varie modificazioni diverse della potestà del primo uomo, che fu il principe del gener umano, e del dominio ch'egli ebbe sopra tutta la terra. Or, poiché certamente furono prima le leggi, dopo i filosofi, egli è necessario che Socrate, dall'osservare ch'i cittadini ateniesi nel comandare le leggi si andavan ad unire in un'idea conforme d'un'ugual utilità partitamente comune a tutti, cominciò ad abbozzare i generi intelligibili, ovvero gli universali astratti, con l'induzione, ch'è una raccolta di uniformi particolari, che vanno a comporre un genere di ciò nello che quei particolari sono uniformi tra loro. Platone, dal riflettere che 'n tali ragunanze pubbliche le menti degli uomini particolari, che son appassionate ciascuna del propio utile, si conformavano in un'idea spassionata di comune utilità (ch'è quello che dicono: «gli uomini partitamente sono portati da' loro interessi privati, ma in comune voglion giustizia»), s'alzò a meditare l'idee intelligibili ottime delle menti criate, divise da essi menti criate, le qual'in altri non posson esser che in Dio, e s'innalzò a formare l'eroe filosofico, che comandi con piacere alle passioni. Onde Aristotile poscia divinamente ci lasciò diffinita la buona legge: che sia una «volontà scevera di passioni», quanto è dire volontà d'eroe, intese la giustizia regina, la qual siede nell'animo dell'eroe e comanda a tutte l'altre virtù. Perché aveva osservato la giustizia legale (la qual siede nell'animo della civil potestà sovrana) comandar alla prudenza nel senato, alla fortezza negli eserciti, alla temperanza nelle feste, alla giustizia particolare, così distributiva negli erari, come per lo più commutativa nel fòro, e la commutativa la proporzione aritmetica e la distributiva usare la geometrica. E dovette avvertire questa dal censo, ch'è la pianta delle repubbliche popolari, il quale distribuisce gli onori e i pesi con la proporzione geometrica, secondo i patrimoni de' cittadini: perché innanzi non si era inteso altro che la sola aritmetica; onde Astrea, la giustizia eroica, ci fu dipinta con la bilancia, e nella legge delle XII Tavole tutte le pene - le quali ora i filosofi, i morali teologi e dottori che scrivono de iure publico dicono doversi dispensare dalla giustizia distributiva con la proporzione geometrica - tutte si leggono richiamate a «duplio» quelle in danaio e «talio» l'afflittive del corpo. E, poiché la pena del taglione fu ritruovata da Radamanto, per cotal merito egli ne fu fatto giudice nell'inferno, dove certamente si distribuiscono pene. E 'l taglione da Aristotile ne' Libri morali fu detto «giusto pittagorico», ritrovato da quel Pittagora che si è qui truovato fondatore di nazione, i cui nobili della Magna Grecia si dissero Pittagorici, come sopra abbiamo osservato: che sarebbe vergogna di Pittagora il quale poi divenne sublime filosofo e mattematico. Dallo che tutto si conchiude che dalla piazza d'Atene uscirono tali princìpi di metafisica, di logica, di morale. E dall'avviso di Solone dato agli ateniesi: «Nosce te ipsum» (conforme ragionammo sopra in uno de' corollari della Logica poetica) uscirono le repubbliche popolari, dalle repubbliche popolari le leggi, e dalle leggi uscì la filosofia; e Solone, da sappiente di sapienza volgare, fu creduto sappiente di sapienza riposta. Che sarebbe una particella della storia della filosofia narrata filosoficamente, ed ultima ripruova delle tante che 'n questi libri si son fatte contro Polibio, il qual diceva che, se vi fussero al mondo filosofi, non farebber uopo religioni. Che se non vi fussero state religioni, e quindi repubbliche, non sarebber affatto al mondo filosofi, e che se le cose umane non avesse così condotto la provvedenza divina, non si avrebbe niuna idea né di scienza né di virtù. Ora, ritornando al proposito (per conchiudere l'argomento che ragioniamo), da questi tempi umani, ne' quali provennero le repubbliche popolari e appresso le monarchie, intesero che le cause, le quali prima erano state formole cautelate di propie e precise parole (che a «cavendo» si dissero dapprima «cavissæ», e poi restaron dette in accorcio «caussæ»), fussero essi affari o negozi negli altri contratti (i qual'affari o negozi oggi solennizzano i patti, i quali nell'atto del contrarre son convenuti acciocché producano l'azioni); ed in quelli che sono valevoli titoli a trasferir il dominio, solennizzassero la natural tradizione per farlo d'un in altro passare, e ne' contratti soli che si dicono compiersi con le parole (che sono le stipulazioni), in quelli esse cautele fussero le «cause» nella lor antica propietà. Le quali cose qui dette illustrano vieppiù i princìpi sopra posti dell'obbligazioni che nascono da' contratti e da' patti. Insomma - non essendo altro l'uomo, propiamente, che mente, corpo e favella, e la favella essendo come posta in mezzo alla mente ed al corpo - il certo d'intorno al giusto cominciò ne' tempi muti dal corpo; dipoi, ritruovate le favelle che si dicon articolate, passò alle certe idee, ovvero formole di parole; finalmente, essendosi spiegata tutta la nostra umana ragione, andò a terminare nel vero dell'idee d'intorno al giusto, determinate con la ragione dall'ultime circostanze de' fatti. Ch'è una formola informe d'ogni forma particolare, che 'l dottissimo Varrone chiama «formulam naturæ», ch'a guisa di luce di sé informa in tutte le ultime minutissime parti della lor superficie i corpi opachi de' fatti sopra i quali ella è diffusa, siccome negli Elementi si è tutto ciò divisato. LIBRO QUINTO DEL RICORSO DELLE COSE UMANE NEL RISURGERE CHE FANNO LE NAZIONI. Agl'innumerabili luoghi, che, per tutta quest'opera, d'intorno a innumerabili materie si sono finora sparsamente osservati corrispondersi con maravigliosa acconcezza i tempi barbari primi e i tempi barbari ritornati, si può facilmente intendere il ricorso delle cose umane nel risurgere che fanno le nazioni. Ma, per maggiormente confermarlo, ci piace in quest'ultimo libro dar quest'argomento un luogo particolare, per ischiarire con maggior lume i tempi della barbarie seconda (i quali erano giaciuti più oscuri di quelli della barbarie prima, che chiamava «oscuri», nella sua divisione de' tempi, il dottissimo dell'antichità prime Marco Terenzio Varrone), e per dimostrar altresì come l'Ottimo Grandissimo Iddio i consigli della sua provvedenza, con cui ha condotto le cose umane di tutte le nazioni, ha fatto servire agl'ineffabili decreti della sua grazia. 1. Imperciocché, avendo per vie sovrumane schiarita e ferma la verità della cristiana religione con la virtù de' martiri incontro la potenza romana e con la dottrina de' Padri e co' miracoli incontro la vana sapienza greca, avendo poi a surgere nazioni armate, ch'avevano da combattere da ogni parte la vera divinità del suo Autore, permise nascere nuovo ordine d'umanità tralle nazioni, acciocché secondo il natural corso delle medesime cose umane ella fermamente fussesi stabilita. Con tal eterno consiglio, rimenò i tempi veramente divini, ne' quali gli re catolici dappertutto, per difendere la religion cristiana, della qual essi son protettori, vestirono le dalmatiche de' diaconi e consagrarono le loro persone reali (onde serbano il titolo di «Sagra Real Maestà»), presero degnitadi ecclesiastiche, come di Ugone Ciapeto narra Sinforiano Camperio nella Geanologia degli re di Francia che s'intitolava «conte ed abate di Parigi», e 'l Paradino negli Annali della Borgogna osserva antichissime scritture nelle quali i principi di Francia comunemente «duchi ed abati» ovvero «conti ed abati» s'intitolavano. Così i primi re cristiani fondarono religioni armate, con le quali ristabilirono ne' loro reami la cristiana catolica religione incontro ad ariani (de' quali san Girolamo dice essere stato il mondo cristiano quasi tutto bruttato), contro saraceni ed altro gran numero d'infedeli. Quivi ritornarono con verità quelle che si dicevano «pura et pia bella» da' popoli eroici; onde ora tutte le cristiane potenze con le loro corone sostengono sopra un orbe innalberata la croce, la qual avevano spiegata innanzi nelle bandiere, quando facevano le guerre che si dicevano «crociate». Ed è maraviglioso il ricorso di tali cose umane civili de' tempi barbari ritornati, che, come gli antichi araldi, nell'intimare le guerre, essi «evocabant deos» dalle città alle quali le intimavano, con l'elegantissima formola e piena di splendore qual ci si conservò da Macrobio, onde credevano che le genti vinte rimanessero senza dèi, e quindi senz'auspìci (ch'è 'l primo principio di tutto ciò ch'abbiamo in quest'opera ragionato) - ché, per lo diritto eroico delle vittorie, a' vinti non rimaneva niuna di tutte le civili così pubbliche come private ragioni, le quali, come abbiamo sopra pienamente pruovato principalmente con la storia romana, tutte ne' tempi eroici erano dipendenze degli auspìci divini; lo che tutto era contenuto nella formola delle rese eroiche, la quale Tarquinio Prisco praticò in quella di Collazia, che gli arresi «debebant divina et humana omnia» a' popoli vincitori; - così i barbari ultimi, nel prendere delle città, non ad altro principalmente attendevano ch'a spiare, truovare e portar via dalle città prese famosi depositi o reliquie di santi; ond'è che i popoli in que' tempi erano diligentissimi in sotterrarle e nasconderle, e perciò tai luoghi dappertutto si osservano nelle chiese gli più addentrati e profondi; ch'è la cagione per la quale in tali tempi avvennero quasi tutte le traslazioni de' corpi santi. E n'è restato questo vestigio: che tutte le campane delle città prese i popoli vinti devono riscattare da' generali capitani vittoriosi. Di più, perché fino dal Quattrocento, cominciando ad allagare l'Europa ed anco l'Affrica e l'Asia tante barbare nazioni, e i popoli vincitori non s'intendendo co' vinti, dalla barbarie de' nimici della catolica religione avvenne che di que' tempi ferrei non si truova scrittura in lingua volgare propia di quelli tempi, o italiana o francese o spagnuola o anco tedesca (con la quale, come vuole l'Aventino, De annalibus boiorum, non s'incominciaron a scriver diplomi che da' tempi di Federico di Suevia, anzi voglion altri da quelli dell'imperadore Ridolfo d'Austria, come altra volta si è detto), e tra tutte le nazioni anzidette non si truovano scritture che 'n latino barbaro, della qual lingua s'intendevano pochissimi nobili, ch'erano ecclesiastici: onde resta da immaginare che 'n tutti que' secoli infelici le nazioni fussero ritornate a parlare una lingua muta tra loro. Per la quale scarsezza di volgari lettere, dovette ritornar dappertutto la scrittura geroglifica dell'imprese gentilizie, le quali, per accertar i domìni (come sopra si è ragionata), significassero diritti signorili sopra, per lo più, case, sepolcri, campi ed armenti. Ritornarono certe spezie di giudizi divini, che furono detti «purgazioni canoniche»; de' quali giudizi una spezie abbiam sopra dimostro ne' tempi barbari primi essere stati i duelli, i quali però non furono conosciuti da' sagri canoni. Ritornarono i ladronecci eroici; de' quali vedemmo sopra che, come gli eroi s'avevano recato ad onore d'esser chiamati «ladroni», così titolo di signoria fu quello poi di «corsali». Ritornarono le ripresaglie eroiche, le quali sopra osservammo aver durato fin a' tempi di Bartolo. E, perché le guerre de' tempi barbari ultimi furono, come quelle de' primi, tutte di religione, quali testé abbiam veduto, ritornarono le schiavitù eroiche, che durarono molto tempo tra esse nazioni cristiane medesime: perché, costumandosi in que' tempi i duelli, i vincitori credevano che i vinti non avessero Dio (come sopra, ove ragionammo de' duelli, si è detto), e sì gli tenevano niente meno che bestie. Il qual senso di nazioni si conserva tuttavia tra' cristiani e turchi. La qual voce vuol dire «cani» (onde i cristiani, ove vogliono o debbon trattare co' turchi con civiltà, gli chiamano «musulmani», che significa «veri credenti»), e i turchi, al contrario, i cristiani chiamano «porci»; e quindi nelle guerre entrambi praticano le schiavitù eroiche, quantunque con maggior mansuetudine i cristiani. Ma sopra tutto maraviglioso è 'l ricorso che 'n questa parte fecero le cose umane, che 'n tali tempi divini ricominciarono i primi asili del mondo antico, dentro i quali udimmo da Livio essersi fondate tutte le prime città. Perché - scorrendo dappertutto le violenze, le rapine, l'uccisioni, per la somma ferocia e fierezza di que' secoli barbarissimi; né (come si è detto nelle Degnità) essendovi altro mezzo efficace di ritener in freno gli uomini, prosciolti da tutte le leggi umane, che le divine, dettate dalla religione - naturalmente, per timore d'esser oppressi e spenti gli uomini, come in tanta barbarie più mansueti, essi si portavano da' vescovi e dagli abati di que' secoli violenti, e ponevano sé, le loro famiglie e i loro patrimoni sotto la protezione di quelli, e da quelli vi erano ricevuti; le quali suggezione e protezione sono i principali costitutivi de' feudi. Ond'è che nella Germania, che dovett'essere più fiera e feroce di tutte l'altre nazioni d'Europa, restarono quasi più sovrani ecclesiastici (o vescovi o abati) che secolari, e, come si è detto, nella Francia quanti sovrani principi erano, tanti s'intitolavano conti o duchi ed abati. Quindi nell'Europa in uno sformato numero tante città, terre e castella s'osservano con nomi di santi; perché in luoghi o erti o riposti, per udire la messa e fare gli altri ufizi di pietà comandati dalla nostra religione, si aprivano picciole chiesiccuole, le quali si possono diffinire essere state in que' tempi i naturali asili de' cristiani, i quali ivi da presso fabbricavano i lor abituri: onde dappertutto le più antiche cose, che si osservano di questa barbarie seconda, sono picciole chiese in sì fatti luoghi, per lo più dirute. Di tutto ciò un illustre esemplo nostrale sia l'abadia di San Lorenzo d'Aversa, a cui s'incorporò l'abadia di San Lorenzo di Capova. Ella, nella Campania, Sannio, Puglia e nell'antica Calabria, dal fiume Volturno fin al Mar Picciolo di Taranto, governò cento e dieci chiese, o per se stessa o per abati o monaci a lei soggetti; e quasi di tutti i luoghi anzidetti gli abati di San Lorenzo eran essi baroni. 2. RICORSO CHE FANNO LE NAZIONI SOPRA LA NATURA ETERNA DE' FEUDI E QUINDI IL RICORSO DEL DIRITTO ROMANO ANTICO FATTO COL DIRITTO FEUDALE. A questi succedettero certi tempi eroici, per una certa distinzione ritornata di nature quasi diverse, eroica ed umana; da che esce la cagione di quell'effetto, di che si maraviglia Ottomano, ch'i vassalli rustici in lingua feudale si dicon «homines». Dalla qual voce deve venir l'origine di quelle due voci feudali «hominium» ed «homagium», che significano lo stesso; detto «hominium» quasi «hominis dominium», che Elmodio, all'osservar di Cuiacio, vuole che sia più elegante che «homagium», detto quasi «hominis agium», menamento dell'uomo o vassallo ove voglia il barone: la qual voce barbara i feudisti eruditi, per lo vicendevole rapporto, con tutta latina eleganza, voltano «obsequium», che dapprima fu una prontezza di seguir l'uomo, ovunque il menasse, a coltivar i suoi terreni, l'eroe. La qual voce «obsequium» contiene eminentemente la fedeltà che si deve dal vassallo al barone: tanto che l'«ossequio» de' latini significa unitamente e l'omaggio e la fedeltà che si debbono giurare nell'investiture de' feudi; e l'ossequio appresso i romani antichi non si scompagnava da quella ch'a' medesimi restò detta «opera militaris», e da' nostri feudisti si dice «militare servitium», per la quale i plebei romani lunga età a loro propie spese serviron a' nobili nelle guerre, come ce n'ha accertato, sopra, essa storia romana. Il qual ossequio con l'opere restò finalmente a' liberti ovvero affranchiti inverso i loro patroni, il quale aveva incominciato, come sopra osservammo sulla storia romana, da' tempi che Romolo fondò Roma sopra le clientele, che truovammo protezioni di contadini giornalieri da esso ricevuti al suo asilo, le quali «clientele», come indicammo nelle Degnità, non si possono sulla storia antica spiegare con più propietà che per «feudi», siccome i feudisti eruditi con sì fatta elegante voce latina «clientela» voltano questa barbara «feudum». E di tali princìpi di cose apertamente ci convincono l'origini di esse voci «opera» e «servitium». Perché «opera», nella sua significazione natia, è la fatiga d'un giorno d'un contadino, detto quindi da' latini «operarius», che gl'italiani dicono «giornaliere»: qual operaio o giornaliere, che non aveva niun privilegio di cittadino, si duol essere stato Achille trattato da Agamennone, che gli aveva a torto tolta la sua Briseide. Quindi appo i medesimi latini restarono detti «greges operarum», siccome anco «greges servorum», perché tali operai prima, siccome gli schiavi dopo, erano dagli eroi riputati quali le bestie, che si dicono «pasci gregatim»; [e dovettero prima essere tai greggi d'uomini, dipoi le greggi de' bestiami,] e, con lo stesso vicendevol rapporto, dovettero prima essere i pastori di sì fatti uomini (come con tal aggiunto perpetuo di «pastori de' popoli» sempre Omero appella gli eroi), e dopo essere stati i pastori degli armenti e de' greggi. E cel conferma la voce nómos, ch'a' greci significa e «legge» e «pasco», come si è sopra osservato; perché con la prima legge agraria fu accordato a' famoli sollevati il sostentamento in terreni assegnati lor dagli eroi, il quale fu detto «pasco», propio di tali bestie, come il cibo è propio degli uomini. Tal propietà di pascere tali primi greggi del mondo dev'essere stata d'Apollo, che truovammo dio della luce civile, o sia della nobiltà, ove dalla storia favolosa ci è narrato pastore in Anfriso; come fu pastore Paride, il quale certamente era reale di Troia. E tal è 'l padre di famiglia (che Omero appella «re») il quale con lo scettro comanda il bue arrosto dividersi a' mietitori, descritto nello scudo d'Achille, dove sopra abbiamo fatto vedere la storia del mondo, e quivi esser fissa l'epoca delle famiglie. Perché de' nostri pastori non è propio il pascere, ma il guidar e guardare gli armenti e i greggi, non avendosi potuto la pastoreccia introdurre che dopo alquanto assicurati i confini delle prime città, per gli ladronecci che si celebravano a' tempi eroici. Che dev'essere la cagione perché la bucolica o pastoral poesia venne a' tempi umanissimi egualmente tra' greci con Teocrito, tra' latini con Virgilio e tra gl'italiani con Sannazaro. La voce «servitium» appruova queste cose istesse essere ricorse ne' tempi barbari ultimi: per lo cui contrario rapporto il barone si disse «senior», nel senso nel qual s'intende «signore». Talché questi servi nati in casa dovetter esser gli antichi franchi de' quali si maraviglia il Bodino, e generalmente ritruovati, sopra, gli stessi che «vernæ», li quali si chiamarono dagli antichi romani; da' quali «vernaculæ» si dissero le lingue volgari, introdutte dal volgo de' popoli, che noi sopra truovammo essere state le plebi dell'eroiche città, siccome la lingua poetica era stata introdutta dagli eroi, ovvero nobili delle prime repubbliche. Tal ossequio d'affranchiti - essendosi poi sparsa e quindi dispersa la potenza de' baroni tra' popoli nelle guerre civili, nelle qual'i potenti han da dipender da' popoli, e quindi facilmente riunita essendosi nelle persone de' re monarchi - passò in quello che si dice «obsequium principis», nel qual, all'avviso di Tacito, consiste tutto il dovere de' soggetti alle monarchie. Al contrario, per la differenza creduta delle due nature, un'eroica, altra umana, i signori de' feudi furon detti «baroni», nello stesso senso che noi qui sopra truovammo essere stati detti «eroi» da' poeti greci e «viri» dagli antichi latini; lo che restò agli spagnuoli, da' quali l'«uomo» è detto «baron», appresi tai vassalli, perché deboli, nel sentimento eroico, che sopra dimostrammo, di «femmine». Ed oltre a ciò che testé abbiam ragionato, i baroni furon detti «signori», che non può altronde venire che dal latino «seniores», perché d'essi si dovettero comporre i primi pubblici parlamenti de' nuovi reami d'Europa; appunto come Romolo il Consiglio pubblico, che naturalmente aveva dovuto comporre de' più vecchi della nobiltà, aveva detto «senatum». E, come da quelli, che perciò erano e si dicevano «patres», dovettero venire detti «patroni» coloro che danno agli schiavi la libertà; così, in italiano, da questi dovettero venir chiamati «padroni» in significazione di «protettori», i quali «padroni» ritengono nella loro voce tutta la propietà ed eleganza latina. A' quali, per lo contrario, con altrettanta latina eleganza e propietà risponde la voce «clientes», in sentimento di «vassalli rustici», a' quali Servio Tullio, con ordinar il censo, qual è stato sopra spiegato, permise sì fatti feudi, col più corto passo col quale poté procedere sulle clientele di Romolo, come si è sopra pienamente pruovato. Che son appunto gli affranchiti, i quali poi diedero il nome alla nazione de' franchi, come si è detto, nel libro precedente, al Bodino. In cotal guisa ritornarono i feudi, uscendo dalla lor eterna sorgiva additata nelle Degnità, dove indicammo i benefizi che si possono sperare in civil natura; onde i feudi, con tutta propietà ed eleganza latina, da' feudisti eruditi si dicono «beneficia»; ch'è quello ch'osserva, ma senza farne uso, Ottomano: che i vincitori tenevano per sé i campi colti delle conquiste e davano a' poveri vinti i campi incolti per sostentarvisi. E sì ritornarono i feudi del primo mondo che nel secondo libro si son truovati, rincominciando però (come dovett'essere per natura, quale sopra abbiam ragionato) da feudi rustici personali, che truovammo essere state dapprima le clientele di Romolo, delle quali osservammo nelle Degnità essere stato sparso tutto l'antico mondo de' popoli. Le quali clientele eroiche, nello splendore della romana libertà popolare, passarono in quel costume col qual i plebei con le toghe si portavano la mattina a far la corte a' grandi signori, e davano loro il titolo degli antichi eroi: «Ave, rex», gli menavano nel fòro e gli rimenavano la sera in casa; e i signori (conforme gli antichi eroi furon detti «pastori de' popoli») davano loro la cena. Tai vassalli personali devon essere stati appo gli antichi romani i primi «vades», che poi restarono così detti i rei obbligati nella persona di seguir i lor attori in giudizio: la qual obbligazione dicesi «vadimonium». I quali vades, per le nostre Origini della lingua latina, debbon esser derivati dal retto «vas», che da' greci fu detto bás e da' barbari «was», onde fu poi «wassus» e finalmente «vassallus». Della quale spezie di vassalli abbondano oggi tuttavia i regni del più freddo Settentrione, che ritengono ancor troppo della barbarie, e sopra tutti quel di Polonia, ove si dicono «kmetos», e son una spezie di schiavi, de' quali que' palatini sogliono giuocarsi l'intiere famiglie, le quali debbono passare a servir ad altri nuovi padroni; che debbon essere gl'incatenati per gli orecchi, che, con catene d'oro poetico (cioè del frumento) che gli escono di bocca, gli si mena, dove vuol, dietro l'Ercole gallico. Quindi si passò a' feudi rustici di spezie reali, a' quali [si giunse] con la prima legge agraria delle nazioni, che truovammo essere stata tra' romani quella con la quale Servio Tullio ordinò il primo censo, per lo quale permise, come ritruovammo, a' plebei il dominio bonitario de' campi loro assegnati da' nobili sotto certi non, come innanzi, sol personali ma anco reali pesi; che dovetter esser i primi «mancipes», che poi restaron detti coloro i quali in robe stabili son obbligati all'erario. Della qual spezie debbon essere stati i vinti, a' quali Ottomano disse poc'anzi ch'i vincitori davano i campi incolti delle conquiste per sostentarvisi col coltivargli; e sì ritornarono gli Antei annodati alle terre da Ercole greco e i nessi del dio Fidio, ovvero Ercole romano (qual sopra truovammo), sciolti finalmente dalla legge Petelia. Tali nessi della legge Petelia, per le cose le quali sopra ne ragionammo, con tutta la loro propietà cadon a livello per ispiegar i vassalli, che dapprima si dovettero dire «ligi», da cotal nodo legati; i quali ora da' feudisti son diffiniti coloro i quali debbono riconoscere per amici o nimici tutti gli amici o nimici del lor signore: ch'è appunto il giuramento ch'i vassalli germani antichi, appo Tacito, come altra volta l'udimmo, davano a' loro principi di servire alla loro gloria. Tali vassalli ligi, poscia, isplendidendosi tali feudi fin a sovrani civili, furono gli re vinti, a' quali il popolo romano, con la formola solenne con cui la storia romana il racconta, «regna dono dabat», ch'era tanto dire quanto «beneficio dabat»; e ne divenivano alleati del popolo romano, di quella spezie d'alleanza che i latini dicevano «foedus inæquale», e se n'appellavano «re amici del popolo romano», nel sentimento che dagl'imperadori si dicevano «amici» i loro nobili cortegiani. La qual alleanza ineguale non era altro ch'un'investitura di feudo sovrano, la quale si concepiva con quella formola che ci lasciò stesa Livio: che tal re alleato «servaret maiestatem populi romani»; appunto come Paolo giureconsulto dice che 'l pretore rende ragione «servata maiestate populi romani», cioè che rende ragione a chi le leggi la danno, la niega a chi le leggi la niegano. Talché tali re alleati erano signori di feudi sovrani soggetti a maggiore sovranità: di che ritornò un senso comune all'Europa, che per lo più non vi hanno il titolo di «Maestà» che grandi re, signori di grandi regni e di numerose provincie. Con tali feudi rustici, da' qual'incominciarono queste cose, ritornarono l'enfiteusi, con le quali era stata coltivata la gran selva antica della terra; onde il laudemio restò a significar egualmente ciò che paga il vassallo al signore e l'enfiteuticario al padrone diretto. Ritornarono l'antiche clientele romane, che furono dette «commende», le quali poco più sopra abbiamo fatto vedere; onde i vassalli, con latina eleganza e propietà, da' feudisti eruditi ne sono detti «clientes», ed essi feudi si dicono «clientelæ». Ritornarono i censi, della spezie del censo ordinato da Servio Tullio, per lo quale i plebei romani dovettero lungo tempo servir a' nobili nelle guerre a lor propie spese; talché i vassalli detti ora «angarii» e «perangarii» furono gli antichi assidui romani, che, come truovammo sopra, «suis assibus militabant»; e i nobili fino alla legge Petelia, che sciolse alla plebe romana il diritto feudale del nodo, ebbero la ragione del carcere privato sopra i plebei debitori. Ritornarono le precarie, che dovettero dapprima essere di terreni dati da' signori alle preghiere de' poveri per potervisi sostentare col coltivargli; ché tutte sono le possessioni appunto, le quali non mai conobbe la legge delle XII Tavole, come sopra si è dimostrato. E perché la barbarie con le violenze rompe la fede de' commerzi, né lascia altro curar a' popoli ch'appena le cose le quali alla natural vita fanno bisogno, e perché tutte le rendite dovetter esser in frutti che si dicono «naturali», perciò a' medesimi tempi vennero anco i livelli come permutazioni di beni stabili. De' quali si dovett'intender l'utilità, com'altra volta si è detto, ch'altri abbondasse di campi che dassero una spezie di frutti de' quali altri avesse scarsezza, e così a vicenda, e perciò gli scambiassero tra di loro. Ritornarono le mancipazioni, con le quali il vassallo poneva le mani entro le mani del suo signore, per significare fede e suggezione; onde i vassalli rustici, per lo censo di Servio Tullio, poco sopra abbiam detto essere stati i primi mancipes de' romani. E, con la mancipazione, ritornò la divisione delle cose mancipi e nec mancipi, perché i corpi feudali sono nec mancipi, ovvero innalienabili dal vassallo, e sono mancipi del signore; appunto come i fondi delle romane provincie furono nec mancipi de' provinciali e mancipi de' romani. Nell'atto delle mancipazioni, ritornarono le stipulazioni, con le infestucazioni o investiture, che noi sopra dimostrammo essere state l'istesse. Con le stipulazioni, ritornarono quelle che dall'antica giurisprudenza romana osservammo sopra propiamente essere state dapprima dette «cavissæ», che poi in accorcio restarono dette «caussæ», che da' tempi barbari secondi dalla stessa latina origine furon dette «cautele»; e 'l solennizzare con quelle i patti e i contratti si disse «homologare», da quelli «uomini» da' quali qui sopra vedemmo detti «hominium» ed «homagium»: perocché tutti i contratti di quelli tempi dovetter esser feudali. Così, con le cautele, ritornarono i patti cautelati nell'atto della mancipazione, che «stipulati» si dissero da' giureconsulti romani, che sopra truovammo detti da «stipula» che veste il grano; e sì nello stesso senso ch'i dottori barbari, da esse investiture, dette anco «infestucazioni», dissero «patti vestiti», e i patti non cautelati, con la stessa significazione e voce, da entrambi si dissero «patti nudi». Ritornarono le due spezie di dominio diretto ed utile, ch'a livello rispondono al quiritario e bonitario degli antichi romani. E nacque il dominio diretto come tra' romani era nato prima il dominio quiritario, che noi truovammo nel suo incominciamento essere stato dominio de' terreni dati a' plebei da' nobili; dalla possessione de' quali se questi fussero caduti, dovevano sperimentare la revindicazione con la formola «Aio hunc fundum meum esse ex iure quiritium», in tal senso (come abbiamo sopra dimostro) ch'essa revindicazione non altro fusse ch'una laudazione di tutto l'ordine de' nobili (che nell'aristocrazia romana aveva fatto essa città) in autori, da' quali essi plebei avevano la cagione del dominio civile, per lo quale potevano vindicar essi fondi. Il qual dominio dalla legge delle XII Tavole fu sempre appellato «autoritas», dall'autorità di dominio ch'aveva esso senato regnante sul largo fondo romano, nel quale il popolo poi, con la libertà popolare, ebbe il sovrano imperio, come sopra si è ragionato. Della qual «autorità» della barbarie seconda, alla quale, come ad innumerabili altre cose, noi in quest'opera facciam luce con le antichità della prima (tanto ci sono riusciti più oscuri de' tempi della barbarie prima questi della seconda!), sono rimasti tre assai evidenti vestigi in queste tre voci feudali: prima nella voce «diretto», la qual conferma che tal azione dapprima era autorizzata dal diretto padrone; dipoi nella voce «laudemio», che fu detto pagarsi eziandio per lo feudo che si fusse dovuto per cotal laudazione in autore che noi diciamo; finalmente nella voce «laudo», che dovette dapprima significare sentenza di giudice in tali spezie di cause, che poi restò a' giudizi che si dicono «compromessi», perché tali giudizi sembravano terminarsi amichevolmente a petto de' giudizi che si agitavano d'intorno agli allodi (che Budeo oppina essere stati così detti quasi «allaudi», come appo gl'italiani da «laude» si è fatto «lode»), per gli quali prima i signori in duello la si avevan dovuto veder con l'armi, come sopra si è dimostrato: il qual costume ha durato infino alla mia età nel nostro Reame di Napoli, dove i baroni, non coi giudizi civili, ma co' duelli vendicavano gli attentati fatti da altri baroni dentro i territori de' loro feudi. E come dominio quiritario degli antichi romani, così il diretto degli antichi barbari restarono finalmente a significare dominio che produce azione civile reale. E qui si dà un assai luminoso luogo di contemplare nel ricorso che fanno le nazioni anco il ricorso che fece la sorte de' giureconsulti romani ultimi con quella de' dottori barbari ultimi; ché, siccome quelli avevano già a' tempi loro perduto di vista il diritto romano antico, com'abbiamo a mille pruove sopra fatto vedere, così questi negli ultimi tempi perderono di veduta l'antico diritto feudale. Perciò gl'interpetri eruditi della romana ragione risolutamente niegano queste due spezie barbare di dominio essere state conosciute dal diritto romano, attendendo al diverso suono delle parole, nulla intendendo essa identità delle cose. Ritornarono i beni ex iure optimo, qual'i feudisti eruditi diffiniscono i beni allodiali, liberi d'ogni peso pubblico nonché privato, e 'l confrontano con quelle poche case che Cicerone osserva ex iure optimo a' suoi tempi essere restate in Roma. Però, come di tal sorta di beni si perdé la notizia entro le leggi romane ultime, così di tali allodi non si truova a' nostri tempi pur uno affatto. E, come i predi ex iure optimo de' romani innanzi, così dipoi gli allodi ritornarono ad essere beni stabili liberi d'ogni peso reale privato, ma soggetti a' pesi reali pubblici; perché ritornò la guisa con la quale dal censo ordinato da Servio Tullio si formò il censo che fu il fondo dell'erario romano: la qual guisa sopra si è ritruovata. Talché gli allodi e i feudi, ch'empiono la somma divisione delle cose in diritto feudale, si distinguettero tra loro dapprima: ch'i beni feudali portavano di séguito la laudazione del signore, gli allodi non già. Dove, senza questi princìpi, si debbono perdere tutt'i feudisti eruditi, come gli allodi, ch'essi, con Cicerone, voltano in latino «bona ex iure optimo», ci vennero detti «beni del fuso», i quali, nel propio loro significato, come sopra si è detto, erano beni di un diritto fortissimo, non infievolito da niuno peso straniero, anche pubblico; che, come pure sopra abbiam detto, furono i beni de' padri nello stato delle famiglie, e durarono molto tempo in quello delle prime città, i quali beni essi avevano acquistato con le fatighe d'Ercole. La qual difficultà, per questi stessi princìpi, facilmente si scioglie con quel medesimo Ercole il quale poi filava, divenuto servo d'Iole e d'Onfale: cioè che gli eroi s'effeminarono e cedettero le loro ragioni eroiche a' plebei, ch'essi avevano tenuti per femmine (a petto de' quali essi si tenevano e si chiamavano «viri», come si è sopra spiegato), e soffersero assoggettirsi i loro beni all'erario col censo, il quale prima fu pianta delle repubbliche popolari e poi si truovò acconcio a starvi sopra le monarchie. Così, per tal diritto feudale antico, che ne' tempi appresso si era perduto di vista, ritornarono i fondi ex iure quiritium, che spiegammo «diritto de' romani in pubblica ragunanza, armati di lancie», che dicevano «quires»; de' quali si concepì la formola della revindicazione: «Aio hunc fundum meum esse ex iure quiritium», ch'era, come si è detto, una laudazione in autore della città eroica romana; - come dalla barbarie seconda certamente i feudi si dissero «beni della lancia», i quali portavano la laudazione de' signori in autori, a differenza degli allodi ultimi, detti «beni del fuso» (col qual Ercole, invilito, fila, fatto servo di femmine): onde sopra diemmo l'origine eroica al motto dell'arme reale di Francia, iscritto «Lilia non nent», ché 'n quel regno non succedon le donne. Perché ritornarono le successioni gentilizie della legge delle XII Tavole, che truovammo essere «ius gentium romanorum», quale da Baldo udimmo la legge salica dirsi «ius gentium gallorum»; la qual fu celebrata certamente per la Germania, e così dovette osservarsi per tutte l'altre prime barbare nazioni d'Europa, ma poi si ristrinse nella Francia e nella Savoia. Ritornarono finalmente le corti armate, quali sopra truovammo essere state le ragunanze eroiche che si tenevano sotto l'armi, dette di cureti greci e di quiriti romani; e i primi parlamenti de' reami d'Europa dovetter essere di baroni, come quel di Francia certamente lo fu di pari. Del quale la storia francese apertamente ci narra essere stati capi sul principio essi re, i quali in qualità di commessari criavano i pari della curia, i quali giudicasser le cause; onde poi restaron detti i «duchi e pari» di Francia. Appunto come il primo giudizio, che Ciceron dice essersi agitato della vita d'un cittadino romano, fu quello in cui il re Tullo Ostilio criò i duumviri in qualità di commessari, i quali, per dirla con essa formola che Tito Livio n'arreca, «in Horatium perduellionem dicerent», il qual aveva ucciso la sua sorella. Perché, nella severità di tai tempi eroici, ogn'ammazzamento di cittadino (quando le città si componevano di soli eroi, come sopra pienamente si è dimostrato) era riputato un'ostilità fatta contro la patria, ch'è appunto «perduellio»; ed ogni tal ammazzamento era detto «parricidium», perch'era fatto d'un padre, o sia d'un nobile, siccome sopra vedemmo in tali tempi Roma dividersi in padri e plebe. Perciò da Romolo infin a Tullo Ostilio non vi fu accusa d'alcun nobile ucciso, perché i nobili dovevan esser attenti a non commettere tali offese, praticandosi tra loro i duelli, de' quali sopra si è ragionato; e, perché, nel caso di Orazio, non v'era chi con duello avesse vindicato privatamente l'ammazzamento d'Orazia, perciò da Tullo Ostilio ne fu la prima volta ordinato un giudizio. Altronde, gli ammazzamenti de' plebei o eran fatti da' loro padroni medesimi, e niuno gli poteva accusare, o erano fatti da altri, e, come di servi altrui, si rifaceva al padrone il danno, come ancor si costuma nella Polonia, Littuania, Svezia, Danimarca, Norvegia. Ma gl'interpetri eruditi della romana ragione non videro questa difficultà, perché riposarono sulla vana oppenione dell'innocenza del secol d'oro, siccome i politici, per la stessa cagione, riposarono su quel detto d'Aristotile: che nell'antiche repubbliche non erano leggi d'intorno a' privati torti ed offese; onde Tacito, Sallustio e altri per altro acutissimi autori, ove narrano dell'origine delle repubbliche e delle leggi, raccontano, del primo stato innanzi delle città, che gli uomini da principio menarono una vita come tanti Adami nello stato dell'innocenza. Ma, poi che entrarono nella città quelli «homines» de' quali si maraviglia Ottomano e da' quali viene il diritto naturale delle genti che Ulpiano dice «humanarum», indi in poi l'ammazzamento d'ogni uomo fu detto «homicidium». Or in sì fatti parlamenti dovettero discettarsi cause feudali d'intorno [a] o diritti o successioni o devoluzioni de' feudi per cagione di fellonia o di caducazione; le quali cause, confermate più volte con tali giudicature, fecero le consuetudini feudali, le quali sono le più antiche di tutte l'altre d'Europa, che ci attestano il diritto natural delle genti esser nato con tali umani costumi de' feudi, come sopra si è pienamente pruovato. Finalmente, come dalla sentenza, con la qual era stato condannato Orazio, permise il re Tullo al reo l'appellagione al popolo, ch'allor era di soli nobili, come sopra si è dimostrato, perché da un senato regnante non vi è altro rimedio a' rei che 'l ricorso al senato medesimo; così e non altrimente dovettero praticar i nobili de' tempi barbari ritornati di richiamarsi ad essi re ne' di lor parlamenti, come per esemplo agli re di Francia, che dapprima ne furon capi. De' quali parlamenti eroici serba un gran vestigio il Sagro Consiglio napoletano, al cui presidente si dà titolo di «Sagra Regal Maestà», i consiglieri s'appellano «milites» e vi tengono luogo di commessari (perché ne' tempi barbari secondi i soli nobili eran soldati, e i plebei servivano lor nelle guerre, come de' tempi barbari primi l'osservammo in Omero e nella storia romana antica), e dalle di lui sentenze non v'è appellagione ad altro giudice, ma solamente il richiamo al medesimo tribunale. Dalle quali cose tutte sopra qui noverate hassi a conchiudere che furono dappertutto reami, non diciamo di Stato, ma di governo aristocratici; come ancora nel freddo Settentrione or è la Polonia (come, da cencinquant'anni fa, lo erano la Svezia e la Danimarca), che, col tempo, senonsé le impediscano il natural corso straordinarie cagioni, verrà a perfettissima monarchia. Lo che è tanto vero ch'esso Bodino giugne a dire del suo regno di Francia che fu, non già di governo (come diciam noi), ma di Stato aristocratico duranti le due linee merovinga e carlovinga. Ora qui domandiamo il Bodino: - Come il regno di Francia diventò, qual ora è, perfettamente monarchico? Forse per una qualche legge regia, con la quale i paladini di Francia si spogliarono della loro potenza e la conferirono negli re della linea capetinga? - Se egli ricorre alla favola della legge regia finta da Triboniano, con la quale il popolo romano si spogliò del suo sovrano libero imperio e 'l conferì in Ottavio Augusto, per ravvisarla una favola, basta leggere le prime pagine degli Annali di Tacito, nelle quali narra l'ultime cose d'Augusto, con le quali legittima nella di lui persona aver incominciato la monarchia de' romani, la qual sentirono tutte le nazioni aver incominciato da Augusto. - Forse perché la Francia da alcuno de' capetingi fu conquistata con forza d'armi? - Ma di tal infelicità la tengono lontana tutte le storie. Adunque e Bodino, e con lui tutti gli altri politici e tutti i giureconsulti c'hanno scritto de iure publico, devono riconoscere questa eterna natural legge regia, per la quale la potenza libera d'uno Stato, perché libera, deve attuarsi: talché, di quanto ne rallentano gli ottimati, di tanto vi debbano invigorire i popoli, finché vi divengano liberi; di quanto ne rallentano i popoli liberi, di tanto vi debbano invigorire gli re, fintanto che vi divengan monarchici. Per lo che, come quel de' filosofi (o sia de' morali teologi) è della ragione, così questo delle genti è diritto naturale dell'utilità e della forza; il quale, com'i giureconsulti dicono «usu exigente humanisque necessitatibus expostulantibus», dalle nazioni vien celebrato. Da tante sì belle e sì eleganti espressioni della giurisprudenza romana antica, con le quali i feudisti eruditi mitigano di fatto e possono mitigare vieppiù la barbarie della dottrina feudale (sulle quali si è qui dimostrato convenirvi l'idee con somma propietà), intenda Oldendorpio (e tutti gli altri con lui) se 'l diritto feudale è nato dalle scintille dell'incendio dato da' barbari al diritto romano; ché 'l diritto romano è nato dalle scintille de' feudi, celebrati dalla prima barbarie del Lazio, sopra i quali nacquero tutte le repubbliche al mondo. Lo che, siccome in un particolar ragionamento sopra (ove ragionammo della Politica poetica delle prime) si è dimostrato, così in questo libro (conforme nell'Idea dell'opera avevamo promesso di dimostrare) si è veduto dentro la natura eterna de' feudi ritruovarsi l'origini de' nuovi reami d'Europa. Ma finalmente, con gli Studi aperti nell'università d'Italia, insegnandosi le leggi romane comprese ne' libri di Giustiniano, le quali vi stanno concepute sul diritto naturale delle genti umane, le menti, già più spiegate e fattesi più intelligenti, si diedero a coltivare la giurisprudenza della natural equità, la qual adegua gl'ignobili co' nobili in civile ragione, come lo son eguali in natura umana. E appunto come, da che Tiberio Coruncanio cominciò in Roma ad insegnare pubblicamente le leggi, n'incominciò ad uscire l'arcano di mano a' nobili, e a poco a poco se n'infievolì la potenza; così avvenne a' nobili de' reami d'Europa, che si erano regolati con governi aristocratici, e si venne alle repubbliche libere e alle perfettissime monarchie. Le quali forme di Stati, perché entrambe portano governi umani, comportevolmente si scambiano l'una con l'altra; ma richiamarsi a Stati aristocratici egli è quasi impossibile in natura civile. Tanto che Dione siracusano, quantunque della real casa, ed aveva cacciato un mostro de' principi, qual fu Dionigio tiranno, da Siragosa, ed era tanto adorno di belle civili virtù che 'l resero degno dell'amicizia del divino Platone, perché tentò riordinarvi lo Stato aristocratico, funne barbaramente ucciso; e i pittagorici (cioè, come sopra abbiamo spiegato, i nobili della Magna Grecia), per lo stesso attentato, furono tutti tagliati a pezzi, e pochi, che s'erano in luoghi forti salvati, furono dalla moltitudine bruciati vivi. Perché gli uomini plebei, una volta che si riconoscono essere d'ugual natura co' nobili, naturalmente non sopportano di non esser loro uguagliati in civil ragione; lo che consieguono o nelle repubbliche libere o sotto le monarchie. Laonde, nella presente umanità delle nazioni, le repubbliche aristocratiche, le quali ci sono rimaste pochissime, con mille sollecite cure e accorti e saggi provvedimenti, vi tengon, insiem insieme, e in dovere e contenta la moltitudine. 3. DESCRIZIONE DEL MONDO ANTICO E MODERNO DELLE NAZIONI OSSERVATA CONFORME AL DISEGNO DE' PRINCÌPI DI QUESTA SCIENZA. Questo corso di cose umane civili non fecero Cartagine, Capova, Numanzia, dalle quali tre città Roma temé l'imperio del mondo: perché i cartaginesi furono prevenuti dalla natia acutezza affricana, che più aguzzarono coi commerzi marittimi; i capovani furono prevenuti dalla mollezza del cielo e dall'abbondanza della Campagna felice; e finalmente i numantini, perché sul loro primo fiorire dell'eroismo furono oppressi dalla romana potenza, comandata da uno Scipione Affricano, vincitor di Cartagine ed assistito dalle forze del mondo. Ma i romani, da niuna di queste cose mai prevenuti, camminarono con giusti passi, faccendosi regolar dalla provvedenza per mezzo della sapienza volgare, e per tutte e tre le forme degli Stati civili, secondo il lor ordine naturale, ch'a tante pruove in questi libri si è dimostrato, durarono sopra di ciascheduna finché naturalmente alle forme prime succedessero le seconde; e custodirono l'aristocrazia fin alle leggi Publilia e Petelia, custodirono la libertà popolare fin a' tempi d'Augusto, custodirono la monarchia finché all'interne ed esterne cagioni che distruggono tal forma di Stati poterono umanamente resistere. Oggi una compiuta umanità sembra essere sparsa per tutte le nazioni, poiché pochi grandi monarchi reggono questo mondo di popoli; e, se ve n'hanno ancor barbari, egli n'è cagione perché le loro monarchie hanno durato sopra la sapienza volgare di religioni fantastiche e fiere, col congiugnervisi in alcune la natura men giusta delle nazioni loro soggette. E, faccendoci capo dal freddo Settentrione, lo czar di Moscovia, quantunque cristiano, signoreggia ad uomini di menti pigre. Lo cnez o cam di Tartaria domina a gente molle, quanto lo furono gli antichi seri, che facevano il maggior corpo del di lui grand'imperio, ch'or egli ha unito a quel della China. Il negus d'Etiopia e i potenti re di Efeza e Marocco regnano sopra popoli troppo deboli e parchi. Ma in mezzo alla zona temperata, dove nascon uomini d'aggiustate nature, incominciando dal più lontano Oriente, l'imperador del Giappone vi celebra un'umanità somigliante alla romana ne' tempi delle guerre cartaginesi, di cui imita la ferocia nell'armi, e, come osservano dotti viaggiatori, ha nella lingua un'aria simile alla latina; ma, per una religione fantasticata assai terribile e fiera di dèi orribili, tutti carichi d'armi infeste, ritiene molto della natura eroica. Perché i padri missionari, che sonvi andati, riferiscono che la maggior difficultà, ch'essi hanno incontrato per convertire quelle genti alla cristiana religione, è ch'i nobili non si possono persuadere ch'i plebei abbiano la stessa natura umana ch'essi hanno. Quel de' chinesi, perché regna per una religion mansueta e coltiva lettere, egli è umanissimo. L'altro dell'Indie è umano anzi che no, e si esercita nell'arti per lo più della pace. Il persiano e 'l turco hanno mescolato alla mollezza dell'Asia, da essi signoreggiata, la rozza dottrina della loro religione; e così, particolarmente i turchi, temperano l'orgoglio con la magnificenza, col fasto, con la liberalità e con la gratitudine. Ma in Europa, dove dappertutto si celebra la religion cristiana (ch'insegna un'idea di Dio infinitamente pura e perfetta e comanda la carità inverso tutto il gener umano), vi sono delle grandi monarchie ne' lor costumi umanissime. Perché le poste nel freddo Settentrione (come da cencinquant'anni fa furono la Svezia e la Danimarca, così oggi tuttavia la Polonia e ancor l'Inghilterra), quantunque sieno di Stato monarchiche, però aristocraticamente sembrano governarsi; ma, se 'l natural corso delle cose umane civili non è loro da straordinarie cagioni impedito, perverranno a perfettissime monarchie. In questa parte del mondo sola, perché coltiva scienze, di più sono gran numero di repubbliche popolari che non si osservano affatto nell'altre tre. Anzi, per lo ricorso delle medesime pubbliche utilità e necessità, vi si è rinnovellata la forma delle repubbliche degli etoli ed achei; e, siccome quelle furon intese da' greci per la necessità d'assicurarsi della potenza grandissima de' romani, così han fatto i Cantoni svizzeri e le Provincie unite ovvero gli Stati d'Olanda, che di più città libere popolari hanno ordinato due aristocrazie, nelle quali stanno unite in perpetua lega di pace e guerra. E 'l corpo dell'imperio germanico è egli un sistema di molte città libere e di sovrani principi, il cui capo è l'imperadore, e nelle faccende che riguardano lo stato di esso imperio si governa aristocraticamente. E qui è da osservare che sovrane potenze, unendosi in leghe, o in perpetuo o a tempo, vengon esse di sé a formare Stati aristocratici, ne' quali entrano gli anziosi sospetti propi dell'aristocrazie, come si è sopra dimostro. Laonde, essendo questa la forza ultima degli Stati civili (perché non si può intendere in civil natura uno Stato il quale a sì fatte aristocrazie fusse superiore), questa stessa forma debb'essere stata la prima, ch'a tante pruove abbiamo dimostrato in quest'opera che furono aristocrazie di padri, re sovrani delle loro famiglie, uniti in ordini regnanti nelle prime città. Perché questa è la natura de' princìpi: che da essi primi incomincino ed in essi ultimi le cose vadano a terminare. Ora ritornando al proposito, oggi in Europa non sono d'aristocrazie più che cinque, cioè Vinegia, Genova, Lucca in Italia, Ragugia in Dalmazia e Norimberga in Lamagna, e quasi tutte son di brevi confini. Ma dappertutto l'Europa cristiana sfolgora di tanta umanità, che vi si abbonda di tutti i beni che possano felicitare l'umana vita, non meno per gli agi del corpo che per gli piaceri così della mente come dell'animo. E tutto ciò in forza della cristiana religione, ch'insegna verità cotanto sublimi che vi si sono ricevute a servirla le più dotte filosofie de' gentili, e coltiva tre lingue come sue: la più antica del mondo, l'ebrea; la più dilicata, la greca; la più grande, ch'è la latina. Talché, per fini anco umani, ella è la cristiana la migliore di tutte le religioni del mondo, perché unisce una sapienza comandata con la ragionata, in forza della più scelta dottrina de' filosofi e della più colta erudizion de' filologi. Finalmente, valicando l'oceano, nel nuovo mondo gli americani correrebbono ora tal corso di cose umane, se non fussero stati scoperti dagli europei. Ora, con tal ricorso di cose umane civili, che particolarmente in questo libro si è ragionato, si rifletta sui confronti che per tutta quest'opera in un gran numero di materie si sono fatti circa i tempi primi e gli ultimi delle nazioni antiche e moderne; e si avrà tutta spiegata la storia, non già particolare ed in tempo delle leggi e de' fatti de' romani o de' greci, ma (sull'identità in sostanza d'intendere e diversità de' modi lor di spiegarsi) si avrà la storia ideale delle leggi eterne, sopra le quali corron i fatti di tutte le nazioni, ne' loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini, se ben fusse (lo che è certamente falso) che dall'eternità di tempo in tempo nascessero mondi infiniti. Laonde non potemmo noi far a meno di non dar a quest'opera l'invidioso titolo di Scienza nuova, perch'era un troppo ingiustamente defraudarla di suo diritto e ragione, ch'aveva sopra un argomento universale quanto lo è d'intorno alla natura comune delle nazioni, per quella propietà c'ha ogni scienza perfetta nella sua idea, la quale ci è da Seneca spiegata con quella vasta espressione: «Pusilla res hic mundus est, nisi id, quod quærit, omnis mundus habeat». CONCHIUSIONE DELL'OPERA SOPRA UN'ETERNA REPUBBLICA NATURALE, IN CIASCHEDUNA SUA SPEZIE OTTIMA, DALLA DIVINA PROVVEDENZA ORDINATA. Conchiudiamo adunque quest'opera con Platone, il quale fa una quarta spezie di repubblica, nella quale gli uomini onesti e dabbene fussero supremi signori; che sarebbe la vera aristocrazia naturale. Tal repubblica, la qual intese Platone, così condusse la provvedenza da' primi incominciamenti delle nazioni, ordinando che gli uomini di gigantesche stature, più forti, che dovevano divagare per l'alture de' monti, come fanno le fiere che sono di più forti nature, eglino, a' primi fulmini dopo l'universale diluvio, da se stessi atterrandosi per entro le grotte de' monti, s'assoggettissero ad una forza superiore, ch'immaginarono Giove, e, tutti stupore quanto erano tutti orgoglio e fierezza, essi s'umiliassero ad una divinità: ché, 'n tale ordine di cose umane, non si può intender altro consiglio essere stato adoperato dalla provvedenza divina per fermargli dal loro bestial errore entro la gran selva della terra, affine d'introdurvi l'ordine delle cose umane civili. Perché quivi si formò uno stato di repubbliche, per così dire, monastiche, ovvero di solitari sovrani, sotto il governo d'un Ottimo Massimo, ch'essi stessi si finsero e si credettero al balenar di que' fulmini, tra' quali rifulse loro questo vero lume di Dio: - ch'egli governi gli uomini; - onde poi tutte l'umane utilità loro somministrate e tutti gli aiuti pòrti nelle lor umane necessità immaginarono esser dèi e, come tali, gli temettero e riverirono. Quindi, tra forti freni di spaventosa superstizione e pugnentissimi stimoli di libidine bestiale (i quali entrambi in tali uomini dovetter esser violentissimi), perché sentivano l'aspetto del cielo esser loro terribile e perciò impedir loro l'uso della venere, essi l'impeto del moto corporeo della libidine dovettero tener in conato; e sì, incominciando ad usare l'umana libertà (ch'è di tener in freno i moti della concupiscenza e dar loro altra direzione, che, non venendo dal corpo, da cui vien la concupiscenza, dev'essere della mente, e quindi propio dell'uomo), divertirono in ciò: ch'afferrate le donne a forza, naturalmente ritrose e schive, le strascinarono dentro le loro grotte e, per usarvi, le vi tennero ferme dentro in perpetua compagnia di lor vita; e sì, co' primi umani concubiti, cioè pudichi e religiosi, diedero principio a' matrimoni, per gli quali con certe mogli fecero certi figliuoli e ne divennero certi padri; e sì fondarono le famiglie, che governavano con famigliari imperi ciclopici sopra i loro figliuoli e le loro mogli, propi di sì fiere ed orgogliose nature, acciocché poi, nel surgere delle città, si truovassero disposti gli uomini a temer gl'imperi civili. Così la provvedenza ordinò certe repubbliche iconomiche di forma monarchica sotto padri (in quello stato principi), ottimi per sesso, per età, per virtù; i quali, nello stato che dir debbesi «di natura» (che fu lo stesso che lo stato delle famiglie), dovettero formar i primi ordini naturali, siccome quelli ch'erano pii, casti e forti, i quali, fermi nelle lor terre, per difenderne sé e le loro famiglie, non potendone più campare fuggendo (come avevano innanzi fatto nel loro divagamento ferino), dovettero uccider fiere, che l'infestavano, e, per sostentarvisi con le famiglie (non più divagando per truovar pasco), domar le terre e seminarvi il frumento; e tutto ciò per salvezza del gener umano. A capo di lunga età - cacciati dalla forza de' propi mali, che loro cagionava l'infame comunione delle cose e delle donne, nella qual erano restati dispersi per le pianure e le valli in gran numero - uomini empi, che non temevano dèi; impudichi, ch'usavano la sfacciata venere bestiale; nefari, che spesso l'usavano con le madri, con le figliuole; deboli, erranti e soli, inseguiti alla vita da violenti robusti, per le risse nate da essa infame comunione, corsero a ripararsi negli asili de' padri; e questi, ricevendogli in protezione, vennero con le clientele ad ampliare i regni famigliari sopra essi famoli. E sì spiegarono repubbliche sopra ordini naturalmente migliori per virtù certamente eroiche; come di pietà, ch'adoravano la divinità, benché da essi per poco lume moltiplicata e divisa negli dei, e dei formati secondo le varie loro apprensioni (come da Diodoro sicolo, e più chiaramente da Eusebio ne' libri De præparatione evangelica, e da san Cirillo l'alessandrino ne' libri Contro Giuliano apostata, si deduce e conferma); e, per essa pietà, ornati di prudenza, onde si consigliavano con gli auspìci degli dèi; di temperanza, ch'usavano ciascuno con una sola donna pudicamente, ch'avevano co' divini auspìci presa in perpetua compagnia di lor vita; di fortezza, d'uccider fiere, domar terreni; e di magnanimità, di soccorrer a' deboli e dar aiuto a' pericolanti: che furono per natura le repubbliche erculee, nelle quali pii, sappienti, casti, forti e magnanimi debellassero superbi e difendessero deboli, ch'è la forma eccellente de' civili governi. Ma finalmente i padri delle famiglie, per la religione e virtù de' lor maggiori lasciati grandi con le fatighe de' lor clienti, abusando delle leggi della protezione, di quelli facevan aspro governo; ed essendo usciti dall'ordine naturale, ch'è quello della giustizia, quivi i clienti loro si ammutinarono. Ma, perché senz'ordine (ch'è tanto dir senza Dio) la società umana non può reggere nemmeno un momento, menò la provvedenza naturalmente i padri delle famiglie ad unirsi con le lor attenenze in ordini contro di quelli; e, per pacificarli, con la prima legge agraria che fu nel mondo, permisero loro il dominio bonitario de' campi, ritenendosi essi il dominio ottimo o sia sovrano famigliare: onde nacquero le prime città sopra ordini regnanti di nobili. E sul mancare dell'ordine naturale, che, conforme allo stato allor di natura, era stato per spezie, per sesso, per età, per virtù, fece la provvedenza nascere l'ordine civile col nascere di esse città, e, prima di tutti, quello ch'alla natura più s'appressava: - per nobiltà della spezie umana (ch'altra nobiltà, in tale stato di cose, non poteva estimarsi che dal generar umanamente con le mogli prese con gli auspìci divini); - e sì per un eroismo, i nobili regnassero sopra i plebei (che non contraevano matrimoni con sì fatta solennità); e, finiti i regni divini (co' quali le famiglie si erano governate per mezzo de' divini auspìci), dovendo regnar essi eroi in forza della forma de' governi eroici medesimi, la principal pianta di tali repubbliche fusse la religione custodita dentro essi ordini eroici, e per essa religione fussero de' soli eroi tutti i diritti e tutte le ragioni civili. Ma, perché cotal nobiltà era divenuta dono della fortuna, tra essi nobili fece surgere l'ordine de' padri di famiglia medesimi, che per età erano naturalmente più degni; e tra quelli stessi fece nascere per re gli più animosi e robusti, che dovettero far capo agli altri e fermargli in ordini per resistere ed atterrire i clienti ammutinati contr'essoloro. Ma, col volger degli anni, vieppiù l'umane menti spiegandosi, le plebi de' popoli si ricredettero finalmente della vanità di tal eroismo, ed intesero esser essi d'ugual natura umana co' nobili; onde vollero anch'essi entrare negli ordini civili delle città. Ove, dovendo a capo di tempo esser sovrani essi popoli, permise la provvedenza che le plebi, per lungo tempo innanzi, gareggiassero con la nobiltà di pietà e di religione nelle contese eroiche di doversi da' nobili comunicar a' plebei gli auspìci, per riportarne comunicare tutte le pubbliche e private ragioni civili che se ne stimavano dipendenze; e sì la cura medesima della pietà e lo stesso affetto della religione portasse i popoli ad esser sovrani nelle città: nello che il popolo romano avanzò tutti gli altri del mondo, e perciò funne il popolo signor del mondo. In cotal guisa, tra essi ordini civili trammeschiandosi vieppiù l'ordine naturale, nacquero le popolari repubbliche: nelle quali, poiché si aveva a ridurre tutto o a sorte o a bilancia, perché il caso o 'l fato non vi regnasse, la provvedenza ordinò che 'l censo vi fusse la regola degli onori; e così gl'industriosi non gl'infingardi, i parchi non gli pròdigi, i providi non gli scioperati, i magnanimi non gli gretti di cuore, ed in una i ricchi con qualche virtù o con alcuna immagine di virtù non gli poveri con molti e sfacciati vizi, fussero estimati gli ottimi del governo. Da repubbliche così fatte - gl'intieri popoli, ch'in comune voglion giustizia, comandando leggi giuste, perché universalmente buone, ch'Aristotile divinamente diffinisce «volontà senza passioni», e sì volontà d'eroe che comanda alle passioni - uscì la filosofia, dalla forma di esse repubbliche destata a formar l'eroe e, per formarlo, interessata della verità; così ordinando la provvedenza: che, non avendosi appresso a fare più per sensi di religione (come si erano fatte innanzi) le azioni virtuose, facesse la filosofia intendere le virtù nella lor idea, in forza della quale riflessione, se gli uomini non avessero virtù, almeno si vergognassero de' vizi ché sol tanto i popoli addestrati al mal operare può contenere in ufizio. E dalle filosofie permise provenir l'eloquenza, che dalla stessa forma di esse repubbliche popolari, dove si comandano buone leggi, fusse appassionata del giusto; la quale da esse idee di virtù infiammasse i popoli a comandare le buone leggi. La qual eloquenza risolutamente diffiniamo aver fiorito in Roma a' tempi di Scipione Affricano, nella cui età la sapienza civile e 'l valor militare, ch'entrambi sulle rovine di Cartagine stabilirono a Roma felicemente l'imperio del mondo, dovevano portare di séguito necessario un'eloquenza robusta e sappientissima. Ma - corrompendosi ancora gli Stati popolari, e quindi ancor le filosofie (le quali cadendo nello scetticismo, si diedero gli stolti dotti a calonniare la verità), e nascendo quindi una falsa eloquenza, apparecchiata egualmente a sostener nelle cause entrambe le parti opposte - provenne che, mal usando l'eloquenza (come i tribuni della plebe nella romana) e non più contentandosi i cittadini delle ricchezze per farne ordine, ne vollero fare potenza; come furiosi austri il mare, commovendo civili guerre nelle loro repubbliche, le mandarono ad un totale disordine, e sì, da una perfetta libertà, le fecero cadere sotto una perfetta tirannide (la qual è piggiore di tutte), ch'è l'anarchia, ovvero la sfrenata libertà de' popoli liberi. Al quale gran malore delle città adopera la provvedenza uno di questi tre grandi rimedi con quest'ordine di cose umane civili. Imperciocché dispone, prima, di ritruovarsi dentro essi popoli uno che, come Augusto, vi surga e vi si stabilisca monarca, il quale, poiché tutti gli ordini e tutte le leggi ritruovate per la libertà punto non più valsero a regolarla e tenerlavi dentro in freno, egli abbia in sua mano tutti gli ordini e tutte le leggi con la forza dell'armi; ed al contrario essa forma dello stato monarchico, la volontà de' monarchi, in quel loro infinito imperio, stringa dentro l'ordine naturale di mantenere contenti i popoli e soddisfatti della loro religione e della loro natural libertà, senza la quale universal soddisfazione e contentezza de' popoli gli Stati monarchici non sono né durevoli né sicuri. Dipoi, se la provvedenza non truova sì fatto rimedio dentro, il va a cercar fuori; e, poiché tali popoli di tanto corrotti erano già innanzi divenuti schiavi per natura delle sfrenate lor passioni (del lusso, della dilicatezza, dell'avarizia, dell'invidia, della superbia e del fasto) e per gli piaceri della dissoluta lor vita si rovesciavano in tutti i vizi propi di vilissimi schiavi (come d'esser bugiardi, furbi, calonniatori, ladri, codardi e finti), divengano schiavi per diritto natural delle genti ch'esce da tal natura di nazioni, e vadano ad esser soggette a nazioni migliori, che l'abbiano conquistate con l'armi, e da queste si conservino ridutte in provincie. Nello che pure rifulgono due grandi lumi d'ordine naturale: de' quali uno è che chi non può governarsi da sé, si lasci governare da altri che 'l possa; l'altro è che governino il mondo sempre quelli che sono per natura migliori. Ma, se i popoli marciscano in quell'ultimo civil malore, che né dentro acconsentino ad un monarca natio, né vengano nazioni migliori a conquistargli e conservargli da fuori, allora la provvedenza a questo estremo lor male adopera questo estremo rimedio: che - poiché tai popoli a guisa di bestie si erano accostumati di non ad altro pensare ch'alle particolari propie utilità di ciascuno ed avevano dato nell'ultimo della dilicatezza o, per me' dir, dell'orgoglio, ch'a guisa di fiere, nell'essere disgustate d'un pelo, si risentono e s'infieriscono, e sì, nella loro maggiore celebrità o folla de' corpi, vissero come bestie immani in una somma solitudine d'animi e di voleri, non potendovi appena due convenire, seguendo ogniun de' due il suo propio piacere o capriccio, - per tutto ciò, con ostinatissime fazioni e disperate guerre civili, vadano a fare selve delle città, e delle selve covili d'uomini; e, 'n cotal guisa, dentro lunghi secoli di barbarie vadano ad irruginire le malnate sottigliezze degl'ingegni maliziosi, che gli avevano resi fiere più immani con la barbarie della riflessione che non era stata la prima barbarie del senso. Perché quella scuopriva una fierezza generosa, dalla quale altri poteva difendersi o campare o guardarsi; ma questa, con una fierezza vile, dentro le lusinghe e gli abbracci, insidia alla vita e alle fortune de' suoi confidenti ed amici. Perciò popoli di sì fatta riflessiva malizia, con tal ultimo rimedio, ch'adopera la provvedenza, così storditi e stupidi, non sentano più agi, dilicatezze, piaceri e fasto, ma solamente le necessarie utilità della vita; e, nel poco numero degli uomini alfin rimasti e nella copia delle cose necessarie alla vita, divengano naturalmente comportevoli; e, per la ritornata primiera semplicità del primo mondo de' popoli, sieno religiosi, veraci e fidi; e così ritorni tra essi la pietà, la fede, la verità, che sono i naturali fondamenti della giustizia e sono grazie e bellezze dell'ordine eterno di Dio. A questa semplice e schietta osservazione fatta sulle cose di tutto il gener umano, se altro non ce ne fusse pur giunto da' filosofi, storici, gramatici, giureconsulti, si direbbe certamente questa essere la gran città delle nazioni fondata e governata da Dio. Imperciocché sono con eterne lodi di sappienti legislatori innalzati al cielo i Ligurghi, i Soloni, i decemviri, perocché si è finor oppinato che co' lor buoni ordini e buone leggi avesser fondato le tre più luminose città che sfolgorassero mai delle più belle e più grandi virtù civili, quali sono state Sparta, Atene e Roma; le quali pure furono di brieve durata e pur di corta distesa a riguardo dell'universo de' popoli, ordinato con tali ordini e fermo con tali leggi, che dalle stesse sue corrottelle prenda quelle forme di Stati, con le quali unicamente possa dappertutto conservarsi e perpetuamente durare. E non dobbiam dire ciò esser consiglio d'una sovrumana sapienza, la quale, senza forza di leggi (che, per la loro forza, Dione ci disse sopra, nelle Degnità, essere simiglianti al tiranno), ma faccendo uso degli stessi costumi degli uomini (de' quali le costumanze sono tanto libere d'ogni forza quanto lo è agli uomini celebrare la lor natura, onde lo stesso Dione ci disse le costumanze essere simili al re, perché comandano con piacere), ella divinamente la regola e la conduce? Perché pur gli uomini hanno essi fatto questo mondo di nazioni (che fu il primo principio incontrastato di questa Scienza, dappoiché disperammo di ritruovarla da' filosofi e da' filologi); ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch'essi uomini sì avevan proposti; quali fini ristretti, fatti mezzi per servire a fini più ampi, gli ha sempre adoperati per conservare l'umana generazione in questa terra. Imperciocché vogliono gli uomini usar la libidine bestiale e disperdere i loro parti, e ne fanno la castità de' matrimoni, onde surgono le famiglie; vogliono i padri esercitare smoderatamente gl'imperi paterni sopra i clienti, e gli assoggettiscono agl'imperi civili, onde surgono le città; vogliono gli ordini regnanti de' nobili abusare la libertà signorile sopra i plebei, e vanno in servitù delle leggi, che fanno la libertà popolare; vogliono i popoli liberi sciogliersi dal freno delle lor leggi, e vanno nella soggezion de' monarchi; vogliono i monarchi in tutti i vizi della dissolutezza che gli assicuri, invilire i loro sudditi, e gli dispongono a sopportare la schiavitù di nazioni più forti; vogliono le nazioni disperdere se medesime, e vanno a salvarne gli avanzi dentro le solitudini, donde, qual fenice, nuovamente risurgano. Questo, che fece tutto ciò, fu pur mente, perché 'l fecero gli uomini con intelligenza; non fu fato, perché 'l fecero con elezione; non caso, perché con perpetuità, sempre così faccendo, escono nelle medesime cose. Adunque, di fatto è confutato Epicuro, che dà il caso, e i di lui seguaci Obbes e Macchiavello; di fatto è confutato Zenone, e con lui Spinosa, che danno il fato: al contrario, di fatto è stabilito a favor de' filosofi politici, de' quali è principe il divino Platone, che stabilisce regolare le cose umane la provvedenza. Onde aveva la ragion Cicerone, che non poteva con Attico ragionar delle leggi, se non lasciava d'esser epicureo e non gli concedeva prima la provvedenza regolare l'umane cose: la quale Pufendorfio sconobbe con la sua ipotesi, Seldeno suppose e Grozio ne prescindé; ma i romani giureconsulti la stabilirono per primo principio del diritto natural delle genti. Perché in quest'opera appieno si è dimostrato che sopra la provvedenza ebbero i primi governi del mondo per loro intiera forma la religione, sulla quale unicamente resse lo stato delle famiglie; indi, passando a' governi civili eroici ovvero aristocratici, ne dovette essa religione esserne la principal ferma pianta; quindi, innoltrandosi a' governi popolari, la medesima religione servì di mezzo a' popoli di pervenirvi; fermandosi finalmente ne' governi monarchici, essa religione dev'essere lo scudo de' principi. Laonde, perdendosi la religione ne' popoli, nulla resta loro per vivere in società, né scudo per difendersi, né mezzo per consigliarsi, né pianta dov'essi reggano, né forma per la qual essi sien affatto nel mondo. Quindi veda Bayle se possan esser di fatto nazioni nel mondo senza veruna cognizione di Dio! E veda Polibio quanto sia vero il suo detto: che, se fussero al mondo filosofi, non bisognerebbero al mondo religioni! Ché le religioni sono quelle unicamente per le quali i popoli fanno opere virtuose per sensi, i quali efficacemente muovono gli uomini ad operarle, e le massime da' filosofi ragionate intorno a virtù servono solamente alla buona eloquenza per accender i sensi a far i doveri delle virtù. Con quella essenzial differenza tralla nostra cristiana, ch'è vera, e tutte l'altre degli altri, false: che, nella nostra, fa virtuosamente operare la divina grazia per un bene infinito ed eterno, il quale non può cader sotto i sensi, e, 'n conseguenza, per lo quale la mente muove i sensi alle virtuose azioni; a rovescio delle false ch'avendosi proposti beni terminati e caduchi così in questa vita come nell'altra (dove aspettano una beatitudine di corporali piaceri), perciò i sensi devono strascinare la mente a far opere di virtù. Ma pur la provvedenza, per l'ordine delle cose civili che 'n questi libri si è ragionato, ci si fa apertamente sentire in quelli tre sensi: - uno di maraviglia, l'altro di venerazione c'hanno tutti i dotti finor avuto della sapienza innarrivabile degli antichi, e 'l terzo dell'ardente disiderio onde fervettero di ricercarla e di conseguirla; - perch'eglino son infatti tre lumi della sua divinità, che destò loro gli anzidetti tre bellissimi sensi diritti, i quali poi dalla loro boria di dotti, unita alla boria delle nazioni (che noi sopra per prime Degnità proponemmo e per tutti questi libri si son riprese), loro si depravarono; i quali sono che tutti i dotti ammirano, venerano e disiderano unirsi alla sapienza infinita di Dio. Insomma, da tutto ciò che si è in quest'opera ragionato, è da finalmente conchiudersi che questa Scienza porta indivisibilmente seco lo studio della pietà, e che, se non siesi pio, non si può daddovero esser saggio.