Biblioteca Multimediale Marxista


I rimedii


 

Mio caro Dina
I rimedii repressivi di questo stato di cose sono tanto noti, e furono da noi tanto adoperati, da non esservi bisogno di parlarne ancora. Quali sono i rimedii preventivi, quelli che l’on. Castagnola chiamava i soli radicali? L’immensità della quistione spaventa, e l’audacia manca non solo ai nostri uomini politici; ma, quello che è più, anche ai nostri uomini di scienza, molti dei quali affermano che la speranza di mettervi mano è una illusione, e delle più pericolose. Se queste opinioni trovano appoggio nell’ignoranza e nell’egoismo di molti proprietarii, è inutile dirlo. La natura umana è sempre la stessa. Il mio amico di Chieti mi scriveva: «Il primo proprietario, uomo intelligente ed agiato, a cui mi rivolsi per cominciare a raccogliere le desiderate informazioni, arricciò il naso; corrugò la fronte; non seppe e non volle nascondere il suo malcontento, quando udì da me, che si volevano tutte le notizie che valessero a mettere in rilievo la poco prospera condizione dei contadini». E in fondo non è da meravigliarsene. Il proprietario si trova isolato in mezzo ad un esercito di contadini. La sottomissione di questi è immensa; ma è fondata solo sull’antica persuasione che il proprietario può tutto, che il Governo, i tribunali, la polizia dipendono da lui, o sono una sola cosa con lui. E però il contadino non osa far nulla senza sentire il padrone; non si presenta neppure all’autorità che lo invita, ne obbedisce agli ordini che riceve da essa, senza prima aver sentito l’avviso del padrone. Ma tutto ciò non nasce da affetto o da stima. Egli si potrebbe inginocchiare dinanzi al suo padrone con lo stesso sentimento con cui l’Indiano adora la tempesta o il fulmine. Il giorno in cui questo incanto fosse sciolto, il contadino sorgerebbe a vendicarsi ferocemente coll’odio lungamente represso, colle sue brutali passioni. Qualche volta, in fatti, si sono viste quelle orde di schiavi trasformarsi istantaneamente in orde di cannibali. Questo ci obbliga ad esser molto cauti, ma ci obbliga ancora a meditare sul cumulo di odii che andiamo raccogliendo, e sulle conseguenze morali e sociali che possono avere. Noi del resto possiamo liberamente ragionare di ciò, e discuterne nei libri o nei giornali, certi che non una parola arriverà insino a quella gente analfabeta, che neppure intenderebbe il nostro linguaggio. Per parte mia posso dire, che anche a me moltissimi proprietarii non seppero nascondere il loro malcontento, quando chiedevo notizie collo scopo che non celavo a nessuno. Ma da un altro lato le risposte non mancarono mai, e molti viaggiarono, scrissero ad amici, raccolsero notizie, opuscoli, tutto quello che potevo desiderare. La quistione preoccupa seriamente molti, sia per uno spirito di filantropia e di umanità, sia per la convinzione che sotto un governo libero l’antico stato di cose non può durare a lungo, e che è savio consiglio apparecchiarne la graduata trasformazione, piuttosto che aspettare il tempo in cui un’improvvisa catastrofe faccia, in un giorno, pagare le colpe di secoli. La quistione agraria l’ebbero i Romani, ed ognuno sa con quali terribili risultati. L’ebbero anche le nazioni moderne. Alcune ne uscirono per mezzo di sanguinose rivoluzioni, altre le prevenirono con una savia legislazione. Fra queste dobbiamo, prima di tutte, citare la Prussia, la quale, dopo le umiliazioni patite dalla Francia, si pose a ricostituire la propria potenza sopra tre basi: istruzione obbligatoria, servizio militare obbligatorio, riforma agraria. Le due leggi del 1807 e del 1811 costituiscono ciò che tutti i Trattati di economia politica chiamano la legislazione classica dello Stein e dell’Hardenberg, ciò che le storie nazionali della Prussia chiamano una delle pietre angolari della forza del paese. La proprietà fu sciolta dai mille vincoli artificiali che l’inceppavano, il servaggio fu abolito, ed il servo non solo divenne libero, ma ancora proprietario d’un terzo e qualche volta della metà del suolo che coltivava, lasciando il resto in proprietà libera al padrone. Lo scopo che si voleva ottenere era chiaramente esposto nella legge stessa: creare una nuova classe di agricoltori che accrescesse forza al paese. E si ottenne. Senza quelle leggi, la Prussia non avrebbe potuto fare più tardi i prodigi che ha fatti. Se però la Prussia si fosse ristretta solo a quello che abbiamo detto più sopra, ne sarebbe seguito ciò che è avvenuto nelle province meridionali, colla divisione dei beni demaniali. Gli antichi proprietarii avrebbero ricomperata, a basso prezzo, la parte del contadino, che privo di capitali, non avrebbe potuto coltivarla, e sarebbero divenuti padroni assoluti della terra, coltivata da proletarii ridotti ben presto alla condizione poco meno che di schiavi. Invece, la Prussia aggiunse due cose di capitale so importanza: una magistratura locale, che decidesse sommariamente e paternamente le liti insorte fra gli agricoltori ed i ricchi proprietarii; un’istituzione mirabile di Banche destinate ad anticipare al contadino i capitali per coltivare la terra e fare nuovi acquisti, con un interesse così mite che, pagando il 5%, si ammortizzava il capitale in meno di 50 anni. Per fare tutto ciò, occorse una serie di provvedimenti, che, incominciati nel 1807 e nel 1811, finirono solo nel 1850. Allora però la trasformazione fu compiuta, e la Prussia cominciò a sfidare il mondo, pel sentimento cresciuto della propria forza. La divisione delle terre divenne utile solamente per mezzo dell’istituzione delle Banche e delle magistrature speciali e locali. L’impresa colossale dell’abolizione del servaggio in Russia fu condotta coi medesimi principii, pigliando cioè a modello la classica legislazione della Prussia. Ma il paese che, per questo lato, più trova riscontro con le nostre province meridionali, è l’Irlanda, fatta eccezione, ben s’intende, della questione politica e religiosa, nella quale non v’è alcun riscontro possibile. Restringiamoci perciò alla sola questione agraria. L’lrlanda è un paese dedito all’agricoltura, senza alcuna industria d’importanza; un paese di proletarii oppressi crudelmente dai proprietarii, che non hanno o non vogliono spendere capitali per coltivare i loro fondi. I contratti sono in apparenza simili a quelli dell’Inghilterra, ma le condizioni e modificazioni speciali li avevano ridotti a tale, che il contadino emigrava o moriva di fame. I delitti agrarii moltiplicavano spaventosamente; i magistrati non erano sicuri; la pubblica opinione delle moltitudini proteggeva l’assassino, che riguardava come un vendicatore dei torti ricevuti dalla società. Quando l’Inghilterra fu costretta a sospendere in Irlanda I’Habeas corpus, ed a venire a provvedimenti repressivi pel Fenianismo, che pigliava proporzioni gigantesche, non esitò punto ad adoperare il ferro ed il fuoco. Ma non si contentò di questo: – Noi abbiamo, ella disse, un debito d’onore verso l’Irlanda, dobbiamo pagarlo; dobbiamo riparare ai torti che essa ha ricevuti da noi. – Io lascio, per ora, da un lato la radicale riforma della Chiesa inglese in Irlanda, e mi restringo solo alla legge agraria. L’Inghilterra affrontò coraggiosamente il primo problema che si presentava: se lo Stato cioè abbia il diritto di limitare con norme legislative la libertà dei contratti. Il 15 febbraio 1850, il Gladstone, primo ministro d’un paese che è più di tutti in Europa contrario all’ingerenza dello Stato, diceva, in mezzo all’assenso generale della Camera dei Comuni, queste memorabili parole: «Nessuno apprezza più altamente di noi la libertà dei contratti; essa è la radice di ogni condizione normale della società. Ma anche in quelle condizioni sociali, che noi riconosciamo come normali, non è possibile concedere illimitata libertà di contratto. La legislazione inglese è piena di queste ingerenze dello Stato, ed il Parlamento ha dimostrato una decisa tendenza a moltiplicarle. Voi non permettete nelle officine, che il padrone impieghi l’operaio con tutte le condizioni che questi accetterebbe; voi non permettete che lo shipmaster trasporti gli emigrati, con ogni specie di quei contratti che pure ambedue accetterebbero. E il caso dell’Irlanda è anco più grave, perché questi contratti, quantunque nominalmente liberi, tali non sono nel fatto, per le condizioni speciali del paese. Anche nei casi in cui la legge ha lasciato l’Irlandese pienamente libero, le condizioni in cui si trova lo hanno privato della sua libertà; ed è però divenuto nostro stretto dovere l’intervenire per difenderlo. In un paese dove le braccia abbondano, e non v’è altra industria che l’agricoltura, il contadino non è più libero nel fare il contratto col padrone. Può essere perciò necessario di prescrivere con legge, fra certi limiti, i termini e le condizioni dei contratti agrarii». E la legge fu approvata. Per esporla minutamente, bisognerebbe cominciare col descrivere le condizioni speciali dell’agricoltura in Irlanda, e le forme dei contratti agrarii, che sono colà diversissimi dai nostri. Ma per ora basti osservare che la legge, senza seguire alcuna teoria, prima di tutto determina e sanziona una forma di contratto, che l’esperienza di secoli ha dimostrata vantaggiosa al contadino irlandese (Ulster custom). Sarebbe se un nostro legislatore sanzionasse le norme della mezzeria toscana, le quali ora sono anch’esse regolate solo dalla consuetudine. Ma il Parlamento inglese si guardò bene dal rendere obbligatoria per tutti una sola forma di contratto. Invece, lasciando libere quelle che esistevano, si restrinse ad annullare tutte le condizioni che giudicò contrarie alla giustizia ed al pubblico bene. I miglioramenti portati nel fondo dal contadino, che prima anda vano quasi sempre ad esclusivo vantaggio del proprietario, debbono, secondo la nuova legge, essere da questo invece pagati al contadino. Il contratto con cui questi facesse rinunzia d’un tale risarcimento, è nullo. Il proprietario non può, senza ragioni giustificate e determinate, mandar via il contadino che ha preso in affitto la terra, ed è tenuto a rifarlo dei danni che gli reca, licenziandolo senza ragione. La legge tende a prolungare i termini dell’affitto sino a 30 anni, risguardando quelli a breve scadenza come dannosi, e tende a spronare il contadino a migliorare la cultura dei campi, a suo proprio vantaggio. Ma anche qui il legislatore inglese capì, ed il Gladstone dichiarò in Parlamento, che tutto sarebbe stato inutile senza una magistratura speciale paterna, locale, che decidesse le mille liti che possono insorgere fra il proprietario ed il contadino, il quale non oserà mai chiamare innanzi ai tribunali ordinari il suo padrone, per muovergli una lite. E a ciò si aggiunse ancora l’anticipazione fatta dallo Stato al contadino, dei capitali necessarii, a condizioni non molto diverse che in Prussia. I tre cardini della riforma erano cosi solidamente posti, e poco dopo si vide, che nell’Associazione per le scienze sociali, gli stessi Irlandesi dichiaravano, che la legge aveva subito cominciato a portare buoni frutti, e la loro esperienza suggeriva già alcuni modi per migliorarla. Che tutto ciò non valga a calmare gli odii e le passioni politiche, ben s’intende, perché altre ne sono le cagioni. Ma fra noi fortunamente questi odii non esistono. Certo non è solo l’ltalia meridionale quella in cui il contadino soffre ingiustamente. Dobbiamo far eccezione della Toscana, là dove le antiche repubbliche intelligenti, democratiche e civilissime lasciarono tali germi, che la mezzeria è divenuta un contratto che salva da ogni pericolo sociale nell’avvenire, e rende impossibile qualunque diffusione di teorie sovversive. Per la provincia di Venezia basta leggere il libro dell’avv. Carlo Stivanello ( Proprietarii e Coltivator: Venezia 1873), premiato dall’Istituto Veneto, per trovarvi la descrizione dei miseri casolari di canna e di loto, nei quali abita il bracciante. «In questi casolari, egli dice, si recluta la popolazione dei furti, necessario supplemento ai miseri guadagni, e vivono le torme dei poveri, che infestano i mercati e le città, e che sfilano in lunga processione, il sabato, dinanzi alle abitazioni». (Pag. 151). Lo stesso autore ci parla di quei contratti a fiamma e fuoco, coi quali l’agricoltore è obbligato a rinunziare ad ogni ristoro contro la carestia, la grandine, la tempesta; di quelli coi quali rinunzia ad ogni compenso pei miglioramenti recati al fondo, e di molti altri contrarii alla giustizia, al bene generale, al progresso dell’agricoltura. «Il proprietario, nella stolta credenza che l’abilità dell’amministratore avveduto consista nello stipulare patti che strozzino l’altro contraente, ha inventato molte clausole, le quali aggravano la condizione del conduttore» (Pag. 173-4). Il libro finisce col domandare un’inchiesta agraria, la quale, secondo l’autore, metterebbe in evidenza la necessità assoluta di provvedimenti legislativi in difesa degli agricoltori e dell’agricoltura, che egli chiama la povera Cenerentola del Regno d’Italia. L’onorevole Jacini fece nel 1855 una dolorosa descrizione delle popolazioni agrarie, specialmente nella Bassa Lombardia, dove intorno alla ricca, intelligente e patriottica Milano, vivono i più miseri contadini, fra i quali le febbri e la pellagra fanno stragi crudeli; dove s’è risoluto il singolare problema d’unire la più ricca produzione colla maggiore miseria del coltivatore. E nel descrivere a quali miserie esso è qualche volta ridotto dal proprietario, esclama: «È una tale iniquità che la sola giustizia umana non basterebbe a punirla» (Ediz. 1856, pag. 197). Egli proponeva allora un Codice agrario e la istituzione dei Probi Viri. Ciò risponderebbe in parte alle norme sui contratti, ed alla magistratura speciale stabilite dell’Inghilterra in Irlanda. Aggiungendovi le istituzioni efficaci di credito agrario, si avrebbero i capi principali della riforma inglese. Quel libro fu assai popolare, forse perché appariva come una protesta contro l’Austria. Quando il Governo è venuto nelle nostre mani, che cosa abbiamo fatto? Nulla e poi nulla. E quel che è peggio ancora, l’opinione di molti è contraria ad ogni riforma di questo genere. L’indifferenza sulle miserie dei milioni di uomini che lavorano la terra in campagna, e delle migliaia che si abbrutiscono nelle città, non è credibile. Eppure solo pensando ad essi si può crescere davvero la nostra produzione economica, pareggiare permanentemente le nostre finanze. Eppoi non sono essi che formano il nostro esercito, la nostra marineria militare? È cosa di poca importanza renderli civili? Quali sono i giornali, quanti i libri o gli opuscoli che parlano di loro? La nostra letteratura, la nostra scienza e la nostra politica sembrano del pari indifferenti su questo problema, che racchiude il nostro avvenire economico e morale. Il male esiste in molte province, ma nelle Meridionali ha proporzioni assai maggiori. Per parte mia sono convinto che la quistione, fra non molto, diverrà gravissima, e s’imporrà a tutti; che i provvedimenti legislativi saranno riconosciuti necessarii, se non si vorrà affrontare il pericolo d’una catastrofe sociale, la quale può nascere non solo da sommosse sfrenate, ma anche da inerzia ed abbandono prolungati. Presto si vedrà, io credo, che in alcune province occorre proteggere l’agricoltore col fissare norme pei contratti, col dichiarare in esse nulle alcune condizioni assolutamente ingiuste e dannose. E sarà necessario ancora, colla istituzione di arbitri o di una magistratura speciale, assicurare l’applicazione di quelle norme. Il credito agrario deve anch’essere istituito efficacemente, se si vuole liberare il contadino dall’usura, e rendere possibile una classe di agricoltori proletarii. Intanto è utile illuminare la pubblica opinione, rivelando le nostre piaghe e le nostre vergogne, senza paura del ridicolo o del discredito, che si cercherà di gettare su quelli che oseranno parlare. La libera stampa e la scienza hanno da lungo tempo imparato ad affrontare questi ostacoli negli altri paesi, e debbono affrontarli anche fra noi. Quasi tutte le grandi verità sociali cominciarono coll’essere prima dichiarate assurde, per sembrare poi probabili, e divenire finalmente evidenti a tutti. Senza il coraggio di sfidare il ridicolo, o di esporsi alla taccia di visionarii, molti progressi sarebbero stati impossibili, e molte calamità non si sarebbero evitate. Del resto, basta parlare con gli uomini che conoscono appena lo stato delle cose, per convincersi come la necessità di una riforma sia già nella coscienza di molti, i quali ancora esitano a dirlo apertamente, quantunque convintissimi. È bene di certo che questa riforma venga dall’alto, prima che sia richiesta dalle moltitudini; è bene che il Governo la inizii e la diriga. Questo è il solo mezzo, a mio credere, con cui esso potrà vincere il sentimento di crescente opposizione che si è formato in quelle province, e che può nascere da ignoranza e da poco tatto politico; ma che certo trascina ancora molti uomini onesti, moderati e patriotti, i quali vedono che il Governo redentore non ha il coraggio di redimere, che il Governo della libertà lascia che gli oppressi siano calpestati. Senza l’aiuto del Parlamento, senza l’intervento dello Stato, non c’è virtù o iniziativa privata che basti a risolvere questi problemi colossali. Molti sono perciò coloro i quali non si peritano d’affermare, che il Governo presente sia tutto a benefizio d’una sola classe, e non la più numerosa, della società. E quando si dice loro: camorra, mafia; rispondono: consorteria . Queste opinioni bisogna coi fatti sradicarle. Il Tocqueville afferma che due cose fanno ai popoli operare grandi imprese: la religione ed il patriottismo. La religione si può dire quasi spenta in Italia; dove non è superstizione, è abito tradizionale, non è fede viva. E quanto al patriottismo, che forma esso deve prendere ora, a quale nobile scopo indirizzarsi? L’Italia è unita, è libera, è indipendente; conquiste non ne vogliamo, né possiamo farne; una guerra di difesa è impossibile, perché nessuno ci assale. Che cosa dunque vogliamo? Bisogna rivolgere tutta l’attenzione all’interno, ciò è ben chiaro; ma la vita di una nazione non può restringersi tutta ai soli computi del pareggio. Noi potremmo essere uniti, liberi, indipendenti, colle finanze in equilibrio, e pure formare una nazione senza significato nel mondo. Occorre che un nuovo spirito ci animi, che un nuovo ideale baleni dinanzi a noi. E questo ideale è la giustizia sociale, che dobbiamo compiere prima che ci sia domandata. È necessario ridestare in noi quella vita morale, senza cui una nazione non ha scopo, non esiste. Ed è necessario al nostro bene materiale e morale. Senza liberare gli oppressi, non aumenterà fra noi il lavoro, non crescerà la produzione, non avremo la forza e la ricchezza necessarie ad una grande nazione. L’uomo che vive in mezzo agli schiavi, accanto agli oppressi e corrotti, senza resistere, senza reagire, senza combattere, è un uomo immorale che ogni giorno decade. La camorra, la mafia ed il brigantaggio diventano inevitabili. Sotto una o un’altra forma salgono in alto, si diffondono nel paese, ne consumano la midolla spinale, demoralizzandolo. Con un governo dispotico le conseguenze del male non sono così gravi, perché gli ostacoli sono indipendenti dalla nostra volontà, perché c’è un altro nemico da combattere, un altro ideale a cui mirare. Chiunque, infatti, oggi esamina se stesso, s’accorgerà, se è stato patriotta, che la sua condizione nella società era nel passato più morale che non è oggi. Allora c’erano una guerra, una speranza, un sacrifizio ed un pericolo continuo che sollevavano lo spirito nostro. Oggi è invece una lotta di partiti, e qualche volta d’interessi, senza un Dio a cui sacrificare la nostra esistenza. Questo Dio era allora la patria, che oggi sembra divenuta libera per toglierci il nostro ideale. Ciò vuol dire che la libertà non ha ancora messo radici abbastanza profonde in Italia, è rimasta solo alla superficie, solo nella vita politica, ancora non è penetrata nella vita sociale ed individuale. Si permetta a me, che sono insegnante, di citare un esempio cavato appunto dalla scuola, che infine è poi l’officina in cui si forma il cittadino. Molte volte mi è stato chiesto: Credete proprio che con tutti questi maestri e professori, con tutti questi metodi e programmi nuovi, la generazione che sorge saprà e varrà più di quella che la precedette? Sarebbe essa capace di far l’Italia, come I’abbiam fatta noi? lo non dubito che la nuova generazione impari più e meglio di noi. Ma se varrà di più, è una quistione assai diversa. I nostri professori, i nostri libri eran peggiori, e s’imparava meno. Ma nella nostra scuola v’era qualche cosa di sacro che manca oggi. Il giorno in cui capitava nelle nostre mani un Berchet, un Colletta, un Niccolini, quel giorno la nostra piccola stanza s’illuminava, e uno spirito ignoto ci rivelava cose che non sono in alcun programma. Tra professori e scolari era una segreta intelligenza, per la quale ciò che si taceva valeva più di ciò che si diceva. Questo incanto è oggi sparito, gli antichi Dei sono rovesciati sui loro altari, senza che alcuna nuova Divinità venga a prendere il loro posto. L’alunno non vede dinanzi a se che una professione o un impiego; i più eletti pensano alla scienza. Ma ciò neppur basta, perché la scienza stessa ha bisogno d’essere destinata a qualche cosa di più alto, da cui possa essere come santificata. Nella nostra vita tutto ciò che non è santificato, viene profanato. Il vuoto che io vedo nel la scuola, parmi che sia anche nella società, perché è nel cuore del cittadino. A noi manca come l’aria da respirare, perché dopo una vita di sacrifizii, non troviamo più nulla a cui sacrificarci. Eppure l’aiutar coloro che soffrono vicino a noi, è il nostro dovere; è il nostro interesse supremo, urgente, e ci restituirebbe l’ideale perduto. Ed ora mi resta solo di rispondere ad una obbiezione, che alcuni, per patriottismo, non fanno, ma che pure tengono celata nel loro cuore. – Fortunatamente, essi dicono fra se, non tutta l’Italia è nelle condizioni in cui sono le Province Meridionali. Se laggiù il contadino ed il povero sono in così pessimo stato, se la gente colta manca al suo dovere, non reagendo e non migliorando questo stato di cose, peggio per loro; resteranno ancora un pezzo nello stato di semibarbari. Nell’Italia centrale e superiore saremo, come siamo, civili. – lo lascio che molte piaghe, come ho già accennato, sono anche nell’Italia centrale e superiore. Voglio ammettere, per ipotesi, quel che non potrei discutere ne combattere ora, che l’Italia cioè sia divisa nel modo che i poco benevoli oppositori pretendono. Ma, per poter tirare da un tale stato di cose, la conseguenza a cui essi vorrebbero giungere, bisognavano averci pensato prima, lasciando intatto il muro della China, che avevano costruito i Borboni. Dopo l’unità d’Italia, tutto si è mescolato nell’esercito, nella marineria, nella magistratura, nell’amministrazione, ecc. La colpa delle province più civili che, a tutta possa, non aiutano le meno civili, è uguale a quella delle classi più colte ed agiate che, in una medesima società, abbandonano a se stesse le più ignoranti e derelitte. E le conseguenze sono le stesse. Oggi il contadino che va a morire nell’Agro Romano, o che soffre la fame nel suo paese, e il povero che vegeta nei tugurii di Napoli, possono dire a noi ed a voi: Dopo l’unità e la libertà d’Italia non avete più scampo; o voi riuscite a render noi civili, o noi riusciremo a render barbari voi, E noi uomini del Mezzogiorno abbiamo il diritto di dire a quelli dell’Italia superiore e centrale: La vostra e la nostra indifferenza sarebbero del pari immorali e colpevoli. Ora non mi resta che chiederti scusa delle troppe parole, e ringraziarti. Addio Roma, 20 marzo 1875.
Tuo affez. P. VILLARI