Biblioteca Multimediale Marxista


il bolscevico
Organo del Partito Marxista-Leninista Italiano
Fondato il 15 dicembre 1969
(articolo estratto da 'il bolscevico' del 15 dicembre 1997)


Bilancio della Costituzione del '48
50 ANNI FA LA BORGHESIA E I REVISIONISTI VARARONO UNA COSTITUZIONE ANTIPROLETARIA CONTRO LA RIVOLUZIONE E IL SOCIALISMO
La nuova costituzione instaurerà un regime neofascista, presidenzialista e federalista
Sono passati cinquant'anni da quel 1° gennaio 1948 in cui entrò in vigore la Costituzione della Repubblica italiana, cinquant'anni di schiavitù e oppressione per il proletariato, cinquant'anni costati miseria, indicibili privazioni e lutti alle masse popolari mentre la borghesia ha spadroneggiato saldamente al potere appropriandosi di incalcolabili ricchezze e privilegi di ogni tipo. Fin dal suo Congresso di fondazione il PMLI ha ripetutamente denunciato il carattere di classe e i contenuti borghesi della Costituzione del '48: se ``la si pone a base della propria politica, - avvertiva il compagno Giovanni Scuderi nel Rapporto al 2° Congresso nazionale del PMLI - più che essere una garanzia di libertà e democrazia finirebbe con l'essere una prigione invalicabile per il proletariato''(1). Quest'anniversario è l'occasione buona per un bilancio che aiuti il proletariato, forte anche dell'esperienza storica maturata nel secondo dopoguerra, le masse popolari e le nuove generazioni a prendere coscienza della sua natura borghese e antiproletaria.
La Costituzione del '48 ha consacrato attraverso principi essenziali, norme giuridiche fondamentali e ordinamento statale il sistema economico, politico e sociale capitalistico e lo Stato repubblicano a dittatura della borghesia, contribuendo a evitare che l'abbattimento del regime fascista conquistato dalla vittoriosa Resistenza armata contro il nazifascismo potesse in qualche modo compromettere la sopravvivenza e favorire la disgregazione e rovina dello Stato borghese. Ecco qual è il suo carattere di classe e quale il suo significato storico.
Quantunque sia stata oggetto di un vero e proprio culto da parte dei revisionisti togliattiani e della corrente più a sinistra dei costituzionalisti borghesi, e sia tuttora venerata dal PRC, battezzatosi ``popolo della Costituzione'', come una divinità taumaturgica capace di produrre democrazia, la Costituzione del '48 non ha fondato nessuno Stato nuovo ma ha semplicemente riorganizzato sulle basi nuove della repubblica democratico-borghese la forma di dominio e la struttura dello Stato capitalistico configurate e attuate dal regime fascista mussoliniano. Senza ledere in alcun modo il dominio della borghesia, senza cioè toccare l'essenza dello Stato capitalistico, ha semplicemente introdotto quelle modifiche, anche profonde, indispensabili dopo la caduta del fascismo e ha realizzato in Italia quanto non era accaduto prima, accomunandola nel suo percoso storico a tanti paesi capitalisti che si erano già trasformati con tempi e modalità diversificati da monarchie assolute a monarchie costituzionali, a repubbliche, a repubbliche parlamentari. Si ripeteva così in Italia quanto aveva modo di osservare acutamente Marx nel corso delle rivoluzioni borghesi ottocentesche: ``Il dominio borghese come emanazione e risultato del suffragio universale, come espressione della volontà popolare sovrana, questo è il significato della Costituzione''(2). La ``repubblica borghese significa dispotismo assoluto di una classe su altre classi''(3) e rappresenta per le diverse frazioni della borghesia la ``forma più solida e più completa del loro dominio di classe''(4).
Che cos'è una Costituzione e come la concepiva Togliatti
Ancor prima di addentrarci in una qualsiasi analisi marxista-leninista della Costituzione italiana occorre rispondere alla domanda cruciale: che cos'è una Costituzione? Non possiamo cioè definire i caratteri di classe e le peculiarità della Carta costituzionale del '48 senza aver chiarito che cosa dobbiamo intendere per Costituzione in generale. Altrimenti quest'ambiguità finirà per spuntare come un folletto, complicare inspiegabilmente anche la più chiara delle materie e vanificare ogni nostra critica.
Come spiega bene Mao: ``Un'organizzazione deve avere le sue regole e così uno Stato. La Costituzione è un insieme di regole generali, è la legge fondamentale''(5).
``La Costituzione - secondo la precisa definizione data da Stalin che peraltro ci aiuterà moltissimo nel trovare una risposta completa a questa domanda prioritaria - è la legge fondamentale, e null'altro che la legge fondamentale''(6) di uno Stato. Nulla di più e nulla di meno della legge fondamentale. Il che significa, com'ebbe a spiegare bene Stalin, che non le si può attribuire fantasiosi e inconsistenti poteri programmatici né svilirla al rango di un codice legislativo. Soggettivamente potremmo anche contraddire questo assunto, poi ci penserebbe la realtà stessa delle cose a imporsi, a dimostrare l'inconsistenza di ogni nostra ipotesi velleitaria e fantasiosa. E se guardiamo al nostro secondo dopoguerra, la storia ha finito sempre per prendersi la rivincita.
``La Costituzione - aggiunge Stalin - non deve essere confusa con un programma. Ciò vuol dire che tra un programma e la Costituzione vi è una differenza sostanziale. Mentre il programma parla di ciò che non esiste ancora, che deve essere ottenuto e conquistato nell'avvenire, la Costituzione, al contrario, deve parlare di ciò che esiste già, che è già stato ottenuto e conquistato, adesso, nel momento presente''(7). ``La Costituzione non esclude, ma presuppone il lavoro legislativo corrente e di futuri organi legislativi. La Costituzione dà una base giuridica alla futura attività legislativa di questi organi''(8).
Per quanto possa informare l'attività legislativa futura la Costituzione non disegna uno Stato futuribile o auspicabile ma lo presuppone, è espressione di quello Stato storicamente determinato sia esso capitalista che socialista e non può in alcun modo sovvertirlo. Non è lo Stato a poggiare sulla Costituzione bensì è la Costituzione a poggiare sullo Stato. ``La Costituzione è la registrazione e la sanzione legislativa della conquista già ottenuta e garantita''(9). Queste illuminanti definizioni date da Stalin circa il carattere, il ruolo e il valore delle costituzioni sono state esplicitamente negate e contestate da Togliatti in sede di prima sottocommissione dell'Assemblea Costituente. Illustrando le proposte del PCI, questa volpe revisionista si arrampica sugli specchi per dimostrare che nel caso italiano si vede costretto ``a distaccarsi da questa norma''(10). E le ragioni risiederebbero nella peculiarità della caduta del fascismo e dal momento che, a suo dire, ``non è avvenuta, tra di noi una rivoluzione la quale abbia violentemente distrutto tutto un ordinamento sociale gettando le basi di un ordinamento nuovo''(11).
Confondendo ad arte rivoluzione socialista e lotta antifascista, che per forza di cose si era limitata all'abbattimento della dittatura mussoliniana e aveva visto il concorso di correnti e partiti per questo obiettivo comune, Togliatti si appella all'unità antifascista per accomunare partiti che viceversa dovrebbero avere programmi politici diversi e antagonistici, come del resto le vicende successive dimostreranno amaramente: riguardo ``alle trasformazioni sociali, si può dire che è in corso nel nostro paese un processo rivoluzionario profondo, il quale, però, per comune orientamento delle forze progressive, si svolge senza che sia abbandonato il terreno della legalità democratica... Per questo parliamo... Di una `democrazia progressiva'''(12). Il processo rivoluzionario a cui pensa è evidentemente tanto profondo da risultare indefinibile e impercettibile, tanto ambiguo dal punto di vista di classe da presupporre l'abbandono del terreno della lotta di classe, il solo terreno su cui la rivoluzione avanza e non si impantana nel volgare riformismo borghese.
Insomma questo rinnegato cerca di giustificare il tradimento della rivoluzione socialista, che avrebbe dovuto dirigere il PCI dopo la vittoria della Resistenza, attribuendo surrettiziamente alla Costituzione una funzione propulsiva che essa non avrebbe mai potuto intrinsecamente possedere. Anzi ne fa una sorta di surrogato della lotta per il socialismo, la sostituisce alla lotta di classe e vede nella Costituzione il quadro legislativo elastico e aperto entro cui avrebbe dovuto dipanarsi la sua ``via italiana al socialismo'', prestando molta attenzione a non allarmare la borghesia e ad assicurarla sul senso generale delle pretese avanzate dal suo partito in sede di definizione della carta Costituzionale: ``è per questo che le proposte che io faccio, pure muovendosi nella direzione di una trasformazione economica socialista, mi sembra possano essere accettate da tutte le correnti democratiche e progressive dell'assemblea e del paese, poiché del socialismo esse esprimono quello che oramai è entrato nella coscienza comune di tutte queste correnti, e veramente può diventare elemento di orientamento e guida per tutta la nazione''(13).
Se il socialismo a cui pensa Togliatti può essere accettato tranquillamente da tutti i partiti borghesi esistenti, come la DC di De Gasperi, il PSI di Nenni, il PSLI di Saragat, il presidenzialista Partito d'Azione, e divenire spontaneamente ``orientamento e guida per tutta la nazione'', allora quel socialismo è niente di più di una generica e innocua adesione ad altrettanto generici principi che non hanno niente a che vedere col socialismo autentico per cui hanno combattutto Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao. E del resto, paralizzati dalla camicia di forza della legalità democratico-borghese, non si potrebbe andare al di là del pretesco socialismo solidaristico e filantropico vagheggiato come messianico futuro da chi vuol semplicemente stemperare le asprezze del capitalismo, imbellettarlo e renderlo meno inviso agli sfruttati.
Il socialismo, quello vero, non può coesistere ed è inconciliabile col capitalismo: è il frutto della rottura rivoluzionaria ossia della distruzione della macchina statale borghese e della sua sostituzione con la dittatura del proletariato. E come non esistono in Occidente Stati non più borghesi e non ancora socialisti, così è pure fantasia concepire, come fa Togliatti, una Costituzione in grado di compiere quella miracolosa metamorfosi. Tant'è che a cinquant'anni di distanza l'unica metamorfosi che è stata in grado di ispirare e avviare è la restaurazione sotto nuove forme del regime mussoliniano.
Solo se si fa piazza pulita di ogni fumosa ambiguità sul carattere di classe borghese della Costituzione italiana, se ne possono evidenziare le particolarità essenziali. Chiamarla, come fa Togliatti, ``progressiva'' poiché non si limita all'enunciazione dei diritti civili e politici, ma prevede un presunto programma di trasformazione dei rapporti sociali, è invece un modo per aggiungere ambiguità ad ambiguità e si risolve in un opportunistico artificio per evitarne una esplicita definizione di classe.
Una Costituzione borghese da cima a fondo
La Costituzione italiana è una Costituzione borghese da cima a fondo, dall'articolo 1, che la apre e ne elenca i primi ``Principi fondamentali'', fino all'articolo 139, che la chiude prima delle ``Disposizioni transitorie e finali''. E ciò lo evidenziano ogni suo passaggio e formulazione.
Ma esistono due ragioni fondamentali che precedono ogn'altra considerazione: la prima è il carattere capitalistico del sistema economico da essa presupposto, sancito e tutelato, un carattere ritenuto tanto scontato dai costituenti da indurli a non trattarlo in modo organico e completo in un solo articolo ma a lasciarlo trasparire come una legge indiscutibile, naturale e assoluta che non suscita perplessità e quindi non necessita di essere affermata e sottolineata. Tale scelta fu senz'altro suggerita da opportunità di carattere contingente, come la necessità di coprire il PCI di Togliatti che avrebbe solennemente sottoscritto quella carta costituzionale e l'avrebbe persino elevata a stella polare del suo programma politico; tuttavia, se ci riflettiamo, risponde a un'altra e più ambiziosa necessità che accomuna tutte le costituzioni borghesi, cioè quella di sacralizzare i principi borghesi come se fossero principi naturali, inviolabili, eterni e universali. La proprietà privata capitalistica è considerata dai costituenti come un assioma, una proposizione primitiva accettata per vera ed evidente, e come tale non si discute, un fondamento entrato a far parte del Dna della società borghese a cui evidentemente pensano. Per far affiorare il primo comandamento borghese che la proprietà privata capitalistica è sacra, occorre passare in rassegna i tredici articoli dedicati ai ``Rapporti economici'' e cogliere quei passaggi da cui risulta il suo carattere prioritario.
Due sono in particolare gli articoli significativi, il 41 e il 42, che recitano rispettivamente: ``L'iniziativa economica privata è libera''; ``la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto''. A evidenziare il conflitto tra capitale e lavoro salariato che contraddistingue il sistema economico capitalistico ci pensano poi gli articoli 36 e 37, che fissano le regole di quello che definiscono senza imbarazzo ``lavoro salariato''. E le fissano capovolgendo le modalità che legittimano e consacrano la proprietà privata. Mentre l'articolo 41 sanziona l'illimitata libertà del capitale, il 36 disciplina le questioni essenziali relative alla produzione e riproduzione della forza-lavoro.
La seconda ragione fondamentale a rendere la Costituzione italiana una Costituzione borghese è il cordone ombelicale che la lega allo Stato capitalistico, da essa sanzionato, riorganizzato e ridisegnato. Pur senza addentrarci nell'esame dell'``Ordinamento della Repubblica'' che costituisce la Parte seconda della Costituzione, appare indubitabile che, al di là delle nuove forme, della riorganizzazione statale, delle nuove norme giuridiche fondamentali dell'intero ordinamento statale rispetto al precedente Stato fascista, essa non sostituisce ma perpetua lo Stato capitalistico, non instaura un fantomatico Stato di tutto il popolo, democratico e al di sopra delle classi, ma impone la dittatura della borghesia nella forma più evoluta e aggiornata. ``Il tipo più perfetto e progredito di Stato borghese - spiegava Lenin - è la repubblica democratica parlamentare: il potere appartiene al parlamento; la macchina statale, l'apparato amministrativo e l'organo di direzione sono quelli di sempre: esercito permanente, polizia, burocrazia praticamente irremovibile, privilegiata, posta al di sopra del popolo''(14).
Per quanto possa apparire profondo ed esteso il cambiamento prodottosi con l'avvento della Repubblica si tratta pur sempre di un cambiamento che tocca le forme del dominio di classe e non l'essenza della macchina statale capitalistica. Tant'è che per decenni è proseguita la polemica sulla continuità sostanziale e persino formale tra Stato fascista e Stato repubblicano che del precedente manteneva la vecchia legislazione, il codice Rocco, i vecchi apparati polizieschi e burocratici, e istituti di controllo governativo sul potere locale e sul territorio, come il sistema prefettizio.
Lo Stato riorganizzato dalla Costituzione repubblicana rimane lo Stato capitalistico anche se il suo nuovo volto può apparire esteriormente quasi irriconoscibile, ove si dimentichi che essa fu il prodotto della vittoria della Resistenza, di quella lotta armata di popolo che racchiuse in sé il duplice carattere di rivoluzione antifascista e di guerra civile. Il rivolgimento sociale e politico da essa provocato era stato il frutto di un'alleanza tra svariate classi come il proletariato, i contadini, la piccola borghesia e la borghesia democratica e repubblicana. Un'alleanza che i dirigenti revisionisti togliattiani lasciarono egemonizzare alla borghesia democratica e repubblicana che finì per conferire a quell'evento il carattere di un ``secondo risorgimento'', ossia si limitò a dare uno sbocco positivo e compiuto a quella rivoluzione democratico-borghese che l'Italia aveva conosciuto in maniera parziale e monca, soffocata, com'era, da rapporti economici angusti e arretrati, poco evoluti dal punto di vista capitalistico, e da una borghesia pavida e gretta, più incline al vile compromesso con la feudalità e la monarchia che a slanci politici per vedere integralmente realizzati i suoi ideali e i suoi modelli giuridici e istituzionali.
Quando si esamina una qualsiasi legge e a maggior ragione la ``legge fondamentale della Repubblica'' non si può non considerare in quale contesto storico politico nazionale e internazionale e con quale concorso di classi e partiti politici essa vede la luce. La classe dominante borghese italiana viveva nel timore che il crollo del fascismo trascinasse con sé il sistema capitalistico e l'intero Stato borghese; d'altra parte il proletariato, forte del successo ottenuto quale classe più numerosa e decisiva della lotta di liberazione contro il nazifascismo, occupava la scena politica con sempre maggiore fiducia in sé e confidava di dare in prospettiva un futuro socialista all'Italia.
I rapporti di forza tra le classi e i relativi partiti all'interno del fronte unito antifascista non erano certo favorevoli alla borghesia, ecco perché essa si vide costretta a venire incontro alle aspettative e rivendicazioni della piccola e media borghesia per non perdere e salvaguardare la sua egemonia politica.
La Costituzione del '48 sanzionò la repubblica democratico-borghese perché la Resistenza non poteva avere alcuno sbocco diverso. Erano quelle caratteristiche storiche e sociali a imporlo. Anche un autentico partito del proletariato avrebbe stipulato un compromesso nella situazione che si era venuta a creare, ma non certo con i contenuti che si ritrovano nella Costituzione vigente e purché non rinunciasse alla sua indipendenza di classe, ribadisse la sua libertà d'azione e riaffermasse che il suo programma politico non si fermava al regime democratico e repubblicano borghese, la cui conquista schiudeva la fase della lotta per il socialismo.
Un compromesso tra DC e PCI indirizzato contro la rivoluzione e il socialismo
Al contrario il compromesso stipulato dal PCI di Togliatti, dalla DC di De Gasperi, dal PSI di Nenni e dal Partito socialdemocratico di Saragat era unicamente indirizzato contro il proletariato e la rivoluzione. Fu lo stesso Togliatti ad ammettere gli intenti controrivoluzionari della partecipazione del PCI alla Costituente: ``Questo è dovuto al fatto che i comunisti, nel 1946, respinsero la via della rottura della legalità per disperatamente tentare di affermare il potere e scelsero la via della partecipazione ai lavori della Costituente''(15). E in questo senso la Costituzione fu tacitamente vista come lo strumento che doveva disinnescare la mina della rivoluzione piuttosto che rappresentare una grande conquista sulla strada dell'emancipazione. Infatti così fu concepita dai costituenti, tra i quali non c'era nessuno, neppure i costituenti revisionisti, a considerarla semplicemente una tappa, un compromesso temporaneo prima che si creassero tutte le condizioni per la conquista del socialismo. Lo stesso presidente dell'Assemblea Costituente, quell'Umberto Terracini che non aveva mai nascosto polemicamente le sue simpatie per il ``socialismo liberale'' di Gobetti, per i rinnegati scissionisti trotzkisti e per una politica di destra e di copertura verso la socialdemocrazia che pure aveva ceduto e aperto la strada al fascismo, pur essendo uno dei massimi esponenti del CC del PCI, ebbe a ribadire che ``l'unica democrazia che si poteva creare era la democrazia borghese''(16).
Da qui bisogna partire per comprendere appieno il tipo di compromesso deteriore e controrivoluzionario sottoscritto da Togliatti. Costui vendette l'anima, cioè rinunciò a tutto in cambio di vuote promesse e di formule tanto generiche e retoriche quanto inefficaci e prive di vincoli ed obblighi concreti. Rinunciò al socialismo col miraggio che la Costituzione avrebbe dato vita a ``un regime, uno Stato nuovo''(17) né capitalista né socialista che ponesse le premesse, per la prima volta nella storia, per l'avvicendamento al potere tra la vecchia classe sfruttatrice e la nuova classe oppressa in forme indolori, senza conflitti e spargimenti di sangue.
Com'ebbe modo di spiegare Togliatti l'11 marzo '47 nel dibattito che precedette l'esame del primo progetto di Costituzione davanti all'Assemblea Costituente, si trattava finalmente di dare soluzione al: ``problema dell'avvento di una nuova classe dirigente alla testa della vita nazionale. La nuova Costituzione deve essere tale che per lo meno apra la via alla soluzione di questo problema''(18). Dunque la vera preoccupazione di Togliatti non è quella di strappare nella Costituzione borghese le condizioni più favorevoli alla lotta del proletariato, non è quella di conquistare, attraverso un onorevole e vantaggioso compromesso, l'ultima tappa storica prima di spalancare le porte alla lotta rivoluzionaria per il socialismo, ma piuttosto garantirsi un impianto costituzionale che fosse visto come un traguardo storico e lo mettesse al riparo dalle critiche e dagli attacchi di tradimento che gli sarebbero piovuti da sinistra e che potesse giustificare in qualche modo la ``svolta'' di Salerno compiuta al suo rientro in Italia nel '44 e la sua riformistica ``via italiana al socialismo''. Così si capiscono le ragioni delle defatiganti trattative su certi articoli e della rinuncia a sollevare obiezioni pregiudiziali su altri. Lui rinuncia alla rivoluzione e la borghesia è disposta a fargli qualche concessione formale purché non siano in alcun modo toccati il carattere borghese dello Stato e il carattere capitalistico del sistema economico.
Quando gli apologeti della Costituzione, presenti soprattutto nelle file della sinistra borghese e dei rinnegati del comunismo, ne hanno esaltato il carattere innovativo e persino rivoluzionario rispetto ai precedenti storici e l'hanno additata a modello di una democrazia avanzata, frutto di un accordo di alto profilo tra le tre componenti principali dell'antifascismo: l'operaia, la cattolica e la liberaldemocratica raggruppate rispettivamente nel PCI e nel PSI, nella DC e nel Partito d'Azione nonché intorno a prestigiose personalità borghesi quali Orlando, Nitti, Croce, Einaudi, Calamandrei; ebbene costoro si guardano bene dal dire due questioni fondamentali e chiarificatrici. Anzitutto che le ``novità'' della Carta del '48 si fermano essenzialmente all'enunciazione dei principi fondamentali e alla Prima parte e non riguardano che marginalmente l'ordinamento della Repubblica e inoltre che certe formulazioni costituzionali furono il frutto di un compromesso che doveva rendere credibile la controrivoluzionaria operazione togliattiana agli occhi del proletariato e davanti all'allora movimento comunista internazionale. Un compromesso costato un certo prezzo alla borghesia ma che non ha paragone con quello pagato dal proletariato. Si è trattato di una condotta della borghesia non nuova nella storia della lotta di classe.
Ogni volta che si è sentita minacciata da rivolgimenti rivoluzionari e incapace di governarli e vincerli col solo uso della repressione, la borghesia ha tentato il tutto per tutto arrivando a concedere anche le riforme più radicali pur di non perdere l'essenziale, cioè il potere. Ed è appunto quanto si è verificato durante i lavori preparatori della Costituzione. Può apparire incomprensibile che mentre si precostituiva tutte le condizioni interne e internazionali per il colpo di Stato sferrato con l'estromissione il 13 maggio 1947 del PCI e del PSI dal governo e mentre si assicurava il saldo controllo degli organi polizieschi, militari e giudiziari e già pensava alla Gladio anticomunista e magari alla ``legge truffa'', De Gasperi non avesse difficoltà a fare delle concessioni a Togliatti in tema di ``eguaglianza'' (comma 2 dell'art. 3), diritto al lavoro (art. 4) e diritti dei lavoratori (art. 35 e seguenti), governo pubblico dell'economia e limitazioni al monopolio (art. 41, 42, 43).
Enunciare dei principi che in molti casi non troveranno alcuna applicazione nell'ordinamento e nella vita concreta non costa nulla e in ciò la borghesia è maestra. Del resto la DC aveva modo di apporre il suo marchio ideologico nell'ispirazione solidaristica e personalistica (art. 2) nell'attribuzione della tutela della pace a organizzazioni internazionali (art. 11), nell'imposizione dei Patti Lateranensi (art. 7), nel riconoscimento del ruolo della famiglia e della maternità (art. 29, 30, 31) e della scuola privata (art. 33), nella promozione del collaborazionismo di classe cogestionario (art. 46) e nella tutela della piccola e media proprietà contadina (art. 44 e 47).
Non è strana la loro condotta. Il compromesso fu raggiunto più attraverso convergenze che contrasti, attraverso complicità talvolta clamorose, come fu il caso dell'art. 7, il più delle volte naturali e raggiunte senza sforzo, visto che il solidarismo cattolico ben si coniuga all'interclassismo revisionista ed esisteva una solida convergenza politico-ideale tra la DC di De Gasperi e il PCI di Togliatti di carattere strategico che fu interrotta sul piano governativo non per loro autonoma iniziativa ma perché vi furono indotti, costretti dall'inizio della ``guerra fredda'' e dalla politica di accerchiamento e di aggressione che l'imperialismo Usa e occidentale inaugurarono contro l'Urss socialista di Stalin, uscita dalla guerra con un rinnovato patrimonio di autorevolezza e simpatie tra il proletariato e i popoli del mondo, e diventata pertanto più temibile e da arginare. L'utilità era reciproca.
La DC travasava organicamente le ispirazioni ideali cattoliche nella carta Costituzionale e le dava connotazioni corrispondenti alla sua concezione del mondo, come mai era accaduto prima in età liberale e nel regime fascista.
Il PCI conquistava un quadro istituzionale e costituzionale entro il quale Togliatti aveva buon gioco per contrabbandare il carattere né capitalista né socialista dello Stato italiano e la via delle ``riforme di struttura'' quale alternativa alla via rivoluzionaria per conquistare il socialismo. Quanto fosse sciagurato, truffaldino e canagliesco il revisionismo togliattiano è sotto gli occhi di tutti: la sola ``riforma di struttura'' di questi cinquant'anni è quella neofascista varata dalla Bicamerale golpista di D'Alema, alla quale hanno partecipato anche Bertinotti e Cossutta, ora all'esame delle Camere.
Preclusa al proletariato la conquista del potere per via elettorale
La complicità non impediva la concorrenza: sia DC sia PCI puntavano all'egemonia parlamentare e governativa. Ciò alimentava reciproci sospetti e diffidenze, che avrebbero indotto i costituenti, per questa ragione ma anche per i comprensibili timori dettati dalla fragilità repubblicana e dalla pesante eredità fascista che era stata liquidata solo superficialmente e in piccolissima parte, a scegliere una Costituzione di tipo rigido. Quella del '48 infatti è una Costituzione rigida, e non flessibile come era stato un secolo prima lo Statuto Albertino, che poteva essere modificato e persino soppresso dal parlamento nell'esercizio della sua normale attività legislativa. E di fatti fu emendato e piegato dal parlamento fascista alle esigenze del regime mussoliniano senza mai essere formalmente abrogato. La rigidità le deriva dalla superiore efficacia giudirica delle leggi costituzionali rispetto alle leggi ordinarie, giacché le prime pretendono di essere modificate attraverso la particolare procedura fissata dall'art. 138 mentre le seconde sono sempre soggette al controllo di costituzionalità da parte della Corte Costituzionale, secondo quanto detta il Titolo VI, Garanzie costituzionali.
Oggi, guardando alla facilità con cui è stato aggirato e calpestato l'art. 138 dalla legge istitutiva della Bicamerale golpista, tale rigidità può apparire di cartone, ma allora era vista come una sorta di assicurazione per il futuro, una garanzia, appunto com'è scritto nello stesso Titolo VI, affinché nessuno partito o governo la travalicasse a destra o a sinistra.
Assicuratasi l'integrità dello Stato e del sistema capitalistici, la borghesia ergeva costituzionalmente una diga contro la minaccia della conquista del potere politico da parte del partito del proletariato attraverso le elezioni e la conquista della maggioranza all'interno delle istituzioni. E che questa diga fosse eretta a senso unico, rivolta più contro il socialismo che contro il fascismo lo conferma peraltro la discussione in aula della proposta dell'art. 50 poi diventato 54 formulata dalla Commissione dei 75, il cui secondo comma suonava così: ``Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all'oppressione è diritto e dovere del cittadino''. Non siamo al celebre motto di Engels: ``Il diritto alla rivoluzione è del resto il solo VERO `diritto storico'; l'unico su cui riposano tutti gli Stati moderni''(19); ma è pur sempre vero che esso suscitò vivacissime polemiche e incontrò l'opposizione dei settori più reazionari della Costituente che lo giudicarono una sorta di riconoscimento di un diritto quasi rivoluzionario e segnalarono le minacce che ne sarebbero potute scaturire anche in conseguenza del mancato rispetto di diritti come quello al lavoro da parte dello Stato. Quantunque, come spiega Engels, il diritto alla rivoluzione avesse accompagnato la nascita degli Stati borghesi al punto di essere diventato un loro carattere fondamentale e ``incontrollabilmente penetrato nella coscienza universale''(20), la votazione finale della Costituente respinse quel principio e a nulla valsero le assicurazioni del relatore della commissione dei 75 che ``l'articolo non favorisce né autorizza rivoluzioni e rivolte''(21) e aveva precedenti storici persino nel codice Zanardelli.
Altro che Costituzione avanzatissima e diversissima rispetto ai classici modelli di costituzioni di età liberale, quella italiana, a cominciare dal suo primo articolo, è maestra di un colossale inganno ai danni del proletariato. L'impianto e il modo in cui sono formulati i suoi articoli hanno una forte carica di demagogia oltreché retorica. Che significa la definizione di esordio: ``L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro''? Certo non ha nessun valore e senso classista, se è vero che la propose durante i lavori alla Costituente il democristiano Fanfani in alternativa alla già interclassista e rassicurante formula preferita dal PCI e dal PSI: ``L'Italia è una Repubblica democratica di lavoratori''.
Tuttavia non può sfuggire che mentre sancisce semplicemente il principio borghese che non esistono alcun genere di privilegi nobiliari ereditari, essa confonde e trae in inganno il proletariato, gli lascia credere di essere il fondamento della Repubblica. Basta aggiungere l'aggettivo sottinteso: ``fondata sul lavoro salariato'', ed ecco svelato il trucco, la formula svanisce come vuota enunciazione ed appare nel suo nudo e crudo significato che ben contraddistingue il capitalismo.
Essendo una repubblica democratico-borghese la sovranità formalmente appartiene al popolo ma nella realtà esso potrà esercitarla solo ``nelle forme e nei limiti della Costituzione'', ossia entro le forche caudine del parlamentarismo borghese e nel quadro del sistema e dell'ordinamento capitalistico.
Solidarismo cattolico e interclassismo revisionista
Per non lasciarci frastornare da siffatte altisonanti formulazioni, abbiamo già spiegato che mai si deve dimenticare quando e come nacque la Costituzione, cioè non appena si era stabilizzato il processo che aveva portato al rovesciamento del regime mussoliniano e alla successiva cacciata della monarchia e si trattava di sanzionare il compromesso tra le diverse componenti antifasciste, anzitutto DC e PCI, intorno alla repubblica democratico-borghese. Cionondimeno non deve sfuggire che le contraddittorie ispirazioni di carattere liberale, revisionista e cattolico trovarono l'accordo nell'ambito di un disegno complessivo improntato al solidarismo cattolico.
Il solidarismo cattolico è il cemento costituzionale, il terreno di incontro tra le istanze che spingono a privilegiare rispettivamente o l'individuo o l'aspetto sociale o la persona umana. A ciò aveva del resto esplicitamente puntato la DC come testimoniano le parole del costituente Dossetti: le ``possibili impostazioni sistematiche'' da adottare devono prescindere da una ``visione soltanto individualistica'', riconoscere la ``precedenza sostanziale della persona umana... Rispetto allo Stato e la destinazione di questo a servizio di quella'' con la ``necessaria solidarietà di tutte le persone''(22).
Le classi sembrano non esistere e la lotta di classe è trasfigurata e convertita nella rassicurante conciliazione e solidarietà tra le classi. Fin dall'art. 2 l'``uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità'' viene anteposto non solo all'uomo concreto in quanto appartenente a questa o a quella classe sociale ma persino alla figura del cittadino di ispirazione liberale. Una preminenza evidente nella stessa struttura formale del testo costituzionale: la ``persona umana'' compare già tra i ``Principi fondamentali'' che precedono ``Diritti e doveri dei cittadini''. E laddove l'art. 3 chiama lo Stato a ``rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitano di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono lo sviluppo della persona umana'', subito conclude con l'invocazione al collaborazionismo interclassista togliattiano, ossia alla ``effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese''.
La sconfessione e l'infinita falsità di quest'articolo sono sotto gli occhi di tutti in questi cinquant'anni di regno della diseguaglianza sociale, dove gli illimitati privilegi della borghesia sono alimentati dalla negazione dei diritti più elementari per il proletariato e le masse popolari. Solo così si misura la bontà di un principio: andando a verificarlo nella costituzione materiale e nella vita di tutti i giorni per esaminare come esso nella realtà sia salvaguardato nei fatti dalla legislazione applicativa. Il resto sono parole, affermazioni, tanto altisonanti quanto vuote.
Tutte le costituzioni borghesi partono di solito dall'assunto dell'assolutezza del sistema capitalistico e dei suoi sacri e indiscutibili capisaldi quali la proprietà privata capitalistica, il mercato, il lavoro sa-lariato e quindi danno per scontata l'esistenza di sfruttati e sfruttatori. Non hanno bisogno di gridarli ma di sussurrarli, presupporli, suggerirli ora in questa ora in quella formula. Se nel passato potevano prevalere testi che negavano e riducevano drasticamente lo stesso elenco dei principi democratico-borghesi, col tempo hanno finito col prevalere quelle che danno pieno riconoscimento, ostentandoli, ai principi democratici civili, politici e sociali, salvo poi mutilarne l'esercizio in diversa misura tramite le limitazioni di vario genere della legislazione applicativa.
La continuità dello Stato borghese
Secondo la consuetudine del diritto borghese, nella nostra carta Costituzionale il riconoscimento solenne dei principi democratici non viene soltanto vanificato dall'esistenza delle classi e della diseguaglianza sociale ma persino sfrontatamente contraddetto dalle leggi chiamate a regolarli. Come in tutte le altre costituzioni borghesi, in essa esiste una parte di articoli vuoti e menzogneri, senza alcuna corrispondenza con la realtà, e un'altra parte di articoli vincolanti e prescrittivi. è quanto accade, per esempio, al tanto osannato art. 21 secondo il quale: ``Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione''. Eppure il proletariato e le masse popolari non possono esercitarlo per lo stato di oppressione e di miseria e per lo stato di soggezione materiale e mentale in cui versano mentre la proprietà privata dei più importanti mezzi di comunicazione come la stampa e la televisione lo ha ridotto a privilegio esclusivo di un ristrettissimo numero di gruppi monopolistici che hanno modo di orientare, manipolare e omologare l'opinione pubblica piegandola ai propri disegni. Eppure l'opposizione di classe è imbavagliata e repressa, com'è accaduto ripetutamente al PMLI, al suo Segretario generale Giovanni Scuderi e al suo organo di stampa ``Il Bolscevico'', da un codice penale elaborato da Rocco in epoca fascista tra i cui numerosi articoli più famigerati contro i delitti di opinione annovera il 270 e 272, ideati esplicitamente per reprimere pesantemente la lotta per il socialismo e i marxisti-leninisti che fanno ``propaganda per la instaurazione della dittatura di una classe sociale sull'altra, o per la soppressione violenta di una classe''.
Altrettanto si può dire a proposito dell'art. 11 che pur escludendo a priori qualsiasi coinvolgimento e intervento imperialista dell'Italia all'estero non impedisce la sua partecipazione alle spedizioni militari ai danni di paesi storicamente vittime del colonialismo italiano né ha impedito l'incriminazione del compagno Scuderi e de ``Il Bolscevico'' per averli osteggiati con l'accusa di incitamento alla diserzione.
Aveva ragione Marx a osservare: ``Qui, e in tutto il testo, si osservi come la Costituzione francese garantisce la libertà, ma sempre con la riserva delle eccezioni previste dalla legge o che la legge deve ancora stabilire (...) Essa è, dal principio alla fine, un insieme di belle parole che nascondono un'intenzione quanto mai fallace. Già nel modo stesso in cui è formulata, infrangerla è impossibile, poiché ogni sua norma contiene in sé la propria antitesi - si annulla da sé (...) Le eterne contraddizioni di questa parodia di Costituzione mostrano con sufficiente chiarezza che la borghesia può essere democratica a parole, ma non nei fatti, essa potrà ben riconoscere le verità di un principio ma non lo metterà mai in pratica - e la vera `Costituzione' della Francia non sta nella Carta di cui abbiamo riferito, ma nelle leggi organiche emanate sulla base di questa''(23).
All'emanazione di nuove leggi che finiscono per mutilarla e contraddirla, si aggiunge nel nostro Paese la sopravvivenza in ogni campo della legislazione fascista. L'assenza nella Costituzione del '48 di un'esplicita norma analoga all'art. 81 dello Statuto albertino, secondo cui ``è abrogata'' ``ogni legge contraria'' a esso, svela i caratteri della sua rigidità, rivolti più a impedire in futuro la fuoriuscita di una maggioranza elettorale di sinistra dall'ordinamento vigente che a rompere in modo netto col passato fascista.
Sono ben note le generalizzate denunce di continuità tra fascismo e repubblica levatesi nel Paese negli anni cinquanta e sessanta per stigmatizzare la politica reazionaria e anticomunista della DC e dei suoi governi. Una continuità che fece scrivere polemicamente al costituzionalista Carlo Esposito: ``nella repubblica italiana sopravvive il regno d'Italia''(24). E così l'assenza di una attiva norma abrogativa ha consentito ai codici e ai numerosi testi unici fascisti, in mancanza di espliciti pronunciamenti di illegittimità da parte della Corte costituzionale (entrata in funzione solo nel 1956) di continuare a regolare la vita politica e i rapporti civili, economici e sociali e a essere massicciamente applicati dai tribunali.
Nella prima parte più che altrove risalta la vera novità della Costituzione italiana rispetto ai modelli liberali. Il solidarismo cattolico si presenta come l'involucro, il motivo ispiratore e, insieme, la chiave in grado di assemblare i quattro titoli che la suddividono e si susseguono in quest'ordine: rapporti civili, etico-sociali, economici, politici. Al titolo secondo dei rapporti etico-sociali fortemente voluto dalla DC segue quello dei rapporti economici, di chiara matrice revisionista togliattiana; ma l'equilibrio complessivo prevede che norme più sbilanciate in una direzione convivano con altre di segno uguale e contrario. Ne è un esempio eclatante l'art. 33 che da una parte si dilunga nel conferire, in netto contrasto col principio risorgimentale del monopolio statale dell'istruzione pubblica, alla scuola privata (leggi confessionale) pari dignità e funzioni di quella statale, una parità tutelata nei principi e nella riaffermazione delle sue prerogative, e poi dall'altra avverte seccamente per controbilanciarlo in qualche modo, ``senza oneri per lo Stato''. Una formulazione compromissoria e ambigua che si presta a un'interpretazione e alla sua negazione in quanto è il risultato dell'estenuante braccio di ferro tra la DC e i partiti non confessionali. La prima non strappava semplicemente il diritto costituzionale di istituire scuole confessionali ma assicurava loro un ruolo fondamentale e persino ``la parità'' con le scuole statali e ai suoi alunni trattamenti scolastici ``equipollenti''. In cambio della vile rinuncia a questi elementari principi liberaldemocratici, i secondi ottenevano soltanto, attraverso le parole ``senza oneri per lo Stato'', che fosse escluso il finanziamento pubblico delle scuole private. Ciononostante i governi a guida DC negli ultimi cinquant'anni hanno trovato il modo per dirottare un fiume di finanziamenti statali alle scuole private e il governo Prodi-D'Alema-Bertinotti si è spinto impunemente a farne scempio approvando nel luglio scorso il disegno di legge sulla parità e finanziamento delle scuole private.
La Costituzione economica
Il PCI di Togliatti dà mano libera alla DC di De Gasperi nell'ancorare i diritti etico-sociali intorno alla famiglia borghese, definita dall'art. 29 ``una società naturale fondata sul matrimonio'', appunto in contrapposizione alla famiglia naturale e di fatto, e intorno alla tutela della vocazione alla maternità e dell'infanzia, senza che si avverta alcun richiamo né si ponga rimedio allo stato di schiavitù domestica della donna.
La DC contraccambia accontentando i revisionisti affinché ai rapporti economici risulti dedicato un corpo di ben 13 articoli, così innovativi da essere salutati da alcuni di loro come l'introduzione di elementi di socialismo nell'Italia repubblicana. In realtà quest'innovazione aveva riguardato in diversa misura tutte le costituzioni borghesi europee più recenti, successive a quella della Germania di Weimar, votata l'11 agosto 1919 all'indomani della feroce e sanguinosa repressione anticomunista scatenata dal governo socialdemocratico. Fu allora che si tentò per la prima volta la conciliazione dei principi liberalborghesi con quelli di vaga ispirazione socialista e infatti è riconosciuta come il ``passaggio dalle Costituzioni di tipo ottocentesco ... a quelle del Novecento, caratterizzate dall'interventismo statale al fine di attuare ideali di solidarietà e giustizia sociale''(25).
In realtà quei 13 articoli non sono niente di più di un surrogato di socialismo per accontentare i revisionisti togliattiani, peraltro rispondente alle esigenze economiche capitalistiche del dopoguerra. Al loro interno ci sono affermazioni di principio demagogiche, innocue e inconcludenti, tanto da essere riconosciute in numerose sentenze come meramente propagandistiche e non immediatamente precettive e vincolanti, e ci sono norme che ben si adattano a quella congiuntura economica del tutto straordinaria, dove il mercato abbisognava di dirigismo e del massiccio intervento dello Stato in qualità di capitalista collettivo. Su questo terreno non era difficile far incontrare la tradizionale critica cattolica del capitalismo selvaggio e dei suoi aspetti più inaccettabili con la politica revisionista togliattiana, per dar vita a un capitalismo di Stato in salsa socialcristiana. Non vi è nulla di rivoluzionario né di vagamente socialista nel disciplinare le modalità entro cui si deve svolgere la produzione capitalistica e nel fissare le regole a cui sono soggetti capitale e lavoro. Si tratta di quella costituzione economica oggi apertamente contestata dai più sfegatati neoliberisti non perché quelle modalità e regole risultino conflittuali col capitalismo, prova ne è il cinquantennio trascorso, ma piuttosto perché cambiando il contesto economico e politico sono di intralcio invece di essere di aiuto. Il primato del mercato e le massicce e inedite concentrazioni e centralizzazioni di capitali non ammettono lacci e lacciuoli.
Allora, dal punto di vista politico, il mondo era dominato dall'alternativa perentoria tra sistema capitalistico e sistema socialista e, dal punto di vista economico, prevaleva in occidente la politica keynesiana dei massicci investimenti statali e dell'aumento della spesa pubblica per aumentare la domanda, mentre l'Italia, come del resto gli altri paesi europei, non aveva altra strada per risollevarsi dalle distruzioni belliche e dall'arretratezza del suo sistema economico assai poco industrializzato che affidarsi allo Stato favorendo la nascita di monopoli statali, come aveva già iniziato Mussolini favorendo la nascita dell'Iri. Al punto che il liberale Einaudi propose, alla Costituente, senza successo, che i monopoli privati fossero osteggiati dalla legge e sottoposti ``al pubblico controllo a mezzo di amministrazione pubblica delegata o diretta''. Non appare strano, dunque, che l'Assemblea abbia approvato senza contrasti e quasi senza discussione il primo e il secondo comma dell'art. 41: ``L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana''. Quel che colpisce in questo articolo è la dichiarazione solenne e assoluta come se si trattasse di un comandamento divino: la proprietà privata è libera. Questo è prioritario, il resto, ossia le limitazioni stanno uno a due gradini più sotto e non possono sostanzialmente scalfirla, non potranno mai mettere in discussione la libertà primordiale del capitale.
Ben diverso è il trattamento che la Costituzione riserva all'altro soggetto del conflitto, il lavoro salariato, quando affronta un suo diritto sacro e inviolabile come il diritto di sciopero. Recita l'art. 40: ``Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano''. Si guarda bene dal definirlo libero, preferisce circoscriverne l'esercizio nell'ambito delle leggi, quelle leggi che per lungo tempo non furono varate grazie all'opposizione sindacale e dei partiti di origine operaia e che ora lo hanno regolamentato nei servizi pubblici e nei settori definiti essenziali finendo per comprometterlo, mutilarlo e svuotarlo, e magari un domani potrebbero finire per limitarlo ulteriormente.
Sul tema del diritto di sciopero il PCI avrebbe dovuto dare battaglia intransigente per vederlo riconosciuto senza alcuna limitazione per tutti i lavoratori invece vi rinunciò, lasciò cadere il testo originario proposto dai 75 che suonava: ``Tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero'' e votò a favore della vigente formulazione assicurando per bocca di Di Vittorio: ``però non vogliamo chiuderci in una intransigenza assoluta e cieca... ricerchiamo l'accordo con gli altri''(26).
Ciò facendo ha ridotto lo sciopero a un diritto a sovranità limitata, comprimibile sia nelle modalità e portata sia nei soggetti che vi possono ricorrere, e ha prestato il fianco all'introduzione di leggi che ne cancellano la carica conflittuale e le forme più avanzate com'è accaduto coi tentativi inaugurati dal progetto Rubinacci del '51 e proseguiti fino ai nostri giorni con i risultati che ben sappiamo. Ad analoga sovranità limitata sono sottoposti i sindacati dall'art. 39 che attraverso la registrazione finiscono per subire i controlli politici sulla democraticità degli statuti e ordinamenti e i controlli amministrativi sulle modalità di rappresentanza. Insomma, per finire, ``la proprietà è pubblica o privata'' (art. 42) ma gli operai vengono a tutti gli effetti considerati degli schiavi salariati che hanno il diritto, in base all'art. 36, a un salario ``sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia'' la produzione e la riproduzione della forza-lavoro, a una giornata lavorativa di durata massima stabilita dalla legge e al riposo settimanale e alle ferie, e possono ambire tutt'al più ``a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende'' (art. 46).
Carattere antifascista e ordinamento dello Stato
Dopo aver dimostrato ampiamente che lo Stato ricostruito nel secondo dopoguerra è lo Stato borghese e che la democrazia introdotta per la prima volta in Italia non è di ``tipo nuovo'', non ci rimane che rispondere a un'ultima domanda: la seconda parte della Costituzione del '48 disegna una repubblica democratico-borghese di tipo avanzato?
C'è chi ne ha riconosciuto il peculiare carattere avanzato nel primato attribuito al parlamento e nel delicato, e per certi versi inedito, equilibrio dei poteri da essa garantito. In realtà l'unico aspetto avanzato di quella Costituzione sta nell'antifascismo. Se l'antifascismo fu il massimo comune denominatore dei costituenti, per forza di cose la carta si fonda sull'antifascismo, che traspare e la attraversa come motivo ricorrente e in polemica dichiarata verso la dittatura mussoliniana. Verso la quale, innumerevoli sono le norme implicitamente conflittuali. E tuttavia la sola norma esplicitamente antifascista, la XII disposizione transitoria e finale, denuncia una concezione ristretta che nel vietare la ricostruzione di quel ``disciolto partito fascista'', guarda al passato e a quell'esperienza storicamente conclusa piuttosto che a impedire la rinascita del fascismo sotto qualsiasi forma.
Per il resto il nuovo assetto istituzionale è tutt'altro che avanzato. E alla domanda possiamo rispondere anzitutto che la repubblica parlamentare fu una scelta obbligata dall'esito della lotta antifascista e dalla necessità di rompere, nelle forme che apparissero le più nette e inconciliabili, col regime mussoliniano e la sua estrema centralizzazione e concentrazione del potere affinché il nuovo regime ne guadagnasse in credibilità e autorità tra la popolazione; e in secondo luogo, che il garantismo è stato dettato da un'unica preoccupazione: impedire con ogni mezzo il sovvertimento dall'interno del quadro costituzionale borghese. Come hanno concordemente notato tanti costituzionalisti e storici: ``Il motivo determinante dell'intera attività della Costituente'' è dato dalla ``necessità di garantire in primo luogo la democraticità del sistema da ogni pericolo di sovvertirlo dall'interno''(27). Insomma si trattava di impedire al PCI di prendere il potere, ove avesse conquistato nelle elezioni la maggioranza parlamentare, evitando che potesse mettere in discussione la scelta di campo operata con la ``svolta'' di Salerno.
In questa chiave vanno interpretati l'istituzione del Senato, quale garanzia di conservazione e di freno verso repentini e indesiderati capovolgimenti delle maggioranze parlamentari, l'equilibrio fra gli organi costituzionali senza che nessuno abbia modo di prevalere ed esautorare gli altri, le competenze e i poteri ampi e numerosi attribuiti al presidente della repubblica e infine la rigidità del testo costituzionale, di cui abbiamo già detto.
Le alchimie della divisione dei poteri e il complesso assetto di pesi e contrappesi avevano ragione di esistere allora che si fronteggiavano partiti con storie e patrimoni antitetici e conflittuali e per di più occorreva dare un segno visibile e incontrovertibile della rottura netta col regime fascista e della svolta e novità rispetto al passato attraverso un impianto costituzionale conforme al modello classico e rimodernato di repubblica democratico-borghese. Ma oggi, a cinquant'anni di distanza, che i partiti come il PDS e il PRC sono pienamente omologati al capitalismo e allo Stato borghese, l'ordinamento disegnato dalla Costituzione del '48 diventa un intralcio inammissibile al decisionismo e alla governabilità e viene gettato a mare per essere sostituito da un nuovo assetto istituzionale dove siano garantiti col presidenzialismo la massima concentrazione dei poteri, decisioni rapide ed esecutive imposte senza essere sottoposte a estenuanti trattative e siano necessariamente frutto di laboriosi compromessi tra i diversi partiti, settori e bande della borghesia.
Il bicameralismo introdotto nel '48 è stato uno strumento reazionario e antidemocratico, analogamente a come era concepito dallo Statuto Albertino che bilanciava l'esistenza della Camera elettiva con un Senato di nomina regia. Diversamente da quello non rappresentò il compromesso tra aristocratici e borghesi, ossia tra vecchie e nuove classi dominanti, e tuttavia nacque dalla stessa preoccupazione politica: frenare e impedire improvvise, eccessive e indesiderate iniziative parlamentari. E nacque come un'ulteriore garanzia di conservazione per la classe dominante borghese, un prezzo a imprevisti salti generazionali e capovolgimenti politici che potessero stravolgere i preesistenti rapporti di forza tra i partiti in campo. Fu concepito per attenuare e controllare l'operato della Camera in virtù di un diverso sistema elettorale, tendenzialmente e sia pure solo in linea di principio maggioritario e non proporzionalistico, e di un elettorato attivo e passivo più anziano e in piccola parte di nomina presidenziale.
Se dal punto di vista del marxismo-leninismo-pensiero di Mao la divisione e indipendenza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario è una fandonia bell'e buona inventata e propugnata storicamente dalla borghesia per contestare, disgregare e sostituire il potere assoluto della monarchia e non comporta l'esistenza di tre poteri autonomi e al di sopra delle classi ma semplicemente una forma di organizzazione statale che esclude il predominio assoluto di un potere sull'altro in quanto tutti sono dipendenti dallo Stato borghese nel suo complesso, dal punto di vista costituzionale l'equilibrio fra gli organi costituzionali introdotto nel '48 non ha niente di innovativo e di rivoluzionario ma risponde unicamente alla preoccupazione dei costituenti di evitare come abbiamo già chiarito in precedenza, che un partito o coalizione parlamentare maggioritari potessero accentrare un controllo diretto su ogn'altro potere. Insomma la borghesia si assicurava la garanzia che mai, neppure nella per lei più malaugurata delle ipotesi, la conquista della maggioranza parlamentare da parte di un partito a lei ostile potesse in qualche modo scalzarla dal potere giacché lo avrebbe impedito la sua macchina statale, con il suo consolidato e sperimentato sistema di leggi, il fidato e sicuro potere poliziesco e giudiziario e la burocrazia nel suo complesso. Quando si richiama l'art. 101 (``I giudici sono soggetti soltanto alla legge'') per dimostrare che la Costituzione tutela ed esalta il principio di indipendenza del potere giudiziario nei confronti del parlamento, del governo e di qualsiasi altro potere, si nasconde che l'autonomia dei giudici non va mai al di là né delle leggi borghesi che essi sono obbligati ad applicare né delle condizioni materiali di vita e formazione ideologica e giuridica borghesi in cui essi vivono. Insomma la loro fedeltà assoluta alla borghesia non è in discussione perchè essi stessi sono dei borghesi nella vita e nelle idee. è semmai in discussione quali meccanismi debbano regolare l'autonomia dell'ordine giudiziario nei confronti delle diverse fazioni e cosche borghesi, come regolare la sua indipendenza formale affinché sia salvaguardata la sua dipendenza sostanziale.
Quantunque nella discussione sul tipo di repubblica fosse prevalsa allora la tesi della repubblica parlamentare rispetto a quella della repubblica presidenziale, appare evidente che il modello parlamentare realizzato è stato caricato di fortissimi connotati presidenziali ove si considerino gli eccessivi e anomali poteri attribuiti al governo e soprattutto al presidente della Repubblica. Il quale, è bene ricordare, ha il potere di sciogliere le Camere anche senza proposta governativa, il potere di esternare su ogni materia indipendentemente dalla controfirma ministeriale, il diritto di veto sulle leggi con la restituzione al parlamento con un messaggio, il potere di nomina libera di cinque giudici sui quindici della Corte Costituzionale, il potere di nomina dei senatori a vita e infine ha la presidenza di due organi cruciali come il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio supremo di difesa. ``Sono tutti poteri - ha osservato Paolo Barile, costituzionalista di area pidiessina - che caratterizzano il nostro presidente della Repubblica, quindi la nostra Repubblica, in senso presidenziale''(28).
Per lungo tempo intorno alla Costituzione borghese si è registrato il consenso unanime di un ampio schieramento parlamentare, il cosiddetto arco costituzionale appunto, che escludeva soltanto i seguaci di Mussolini rappresentati dal MSI. Alla Costituzione si richiamava, ciascuno a modo suo, sia la destra DC e i partiti più reazionari e anticomunisti sia i dirigenti revisionisti di destra e di ``sinistra'' trotzkisti del PCI e quelle correnti della borghesia favorevoli alla loro integrazione e ascesa governativa. E ciascuno poteva rivendicare la sua fedeltà al dettato costituzionale enfatizzando questo piuttosto che quell'altro articolo. I contrasti semmai vertevano sull'interpretazione da dare a norme formulate in modo volutamente contraddittorio, ambiguo, retorico, tanto da prestarsi a dimostrare tutto e il contrario di tutto. Non fu certo la Costituzione ma la lotta di classe e la mobilitazione popolare a impedire alla DC dell'anticomunista De Gasperi di assicurarsi nel '53, dopo che col colpo di Stato del 13 maggio 1947 aveva estromesso i partiti di origine operaia dal governo, il potere assoluto con la famigerata ``legge truffa''; a impedire di riportare al governo i fascisti come voleva Tambroni nel 1960.
Assicuratasi la continuità dello Stato borghese e una volta conquistata l'egemonia governativa, alla DC non rimaneva che evitare ulteriori sommovimenti e assicurare la massima gradualità alla trasformazione dello Stato fascista in Stato repubblicano. Ecco perché congelava la Costituzione, ne allungava i tempi di attuazione e ne diluiva i contenuti mentre i revisionisti togliattiani si esaurivano nel gridare al tradimento e nell'invocarne l'applicazione integrale e rigorosa.
La nuova Costituzione neofascista
Questa Costituzione avrebbe dovuto avviare, a detta di Togliatti, ``alcune riforme fondamentali che...sono improntate di socialismo''(29) e invece a cinquant'anni dalla sua entrata in vigore è stata prima sostanzialmente svuotata, poi calpestata, infine ripudiata e stracciata anche dal punto di vista formale dalla controriforma costituzionale che ridà vita al mostro del fascismo in forme nuove, attraverso l'instaurazione del regime neofascista, presidenzialista e federalista. Gli apologeti di ieri si sono trasformati nei suoi più accaniti affossatori e liquidatori. Dopo averla mitizzata in funzione antirivoluzionaria, averla definita come la più avanzata in occidente e averne invocata l'attuazione piena e conseguente, seminando a piene mani mortali illusioni costituzionali, elettorali e parlamentari nella classe operaia, gli antichi revisionisti, oggi ribattezzatisi liberali e socialisti, capeggiano con D'Alema la Bicamerale golpista, istituita in flagrante violazione dell'articolo 138 e delle procedure di revisione costituzionale, che cancella, con la riscrittura di 84 dei suoi 139 articoli, lo Stato e la Costituzione della prima Repubblica per dar vita alla seconda repubblica neofascista.
Colpiscono a morte la Costituzione del '48 sparandogli al cuore, ossia sovvertendone la seconda parte che non si limita a declamare principi astratti ma riguarda l'essenziale, l'organizzazione e l'ordinamento dello Stato, i suoi istituti principali, i loro poteri e le loro funzioni. Si sono assicurati, anche grazie alla caduta della pregiudiziale antifascista, l'unanimismo parlamentare sulla prima parte della Costituzione che comprende anche i fascisti storici di AN di Fini; ora, ha avvertito il presidente della Bicamerale D'Alema il 10 dicembre scorso a Palazzo Giustiniani: ``Noi stiamo rinnovando gli strumenti, ma i valori fondamentali restano quelli stabiliti nella Costituzione approvata 50 anni fa''.
Dopo tanti tentativi parlamentari andati falliti, dopo tanti progetti neofascisti rimasti sulla carta, è significativo che sia proprio il segretario del PDS a raccogliere dalle mani del capo della P2 Gelli e di Craxi - poiché è di costoro il progetto della repubblica presidenziale in via di realizzazione - questo nero testimone per tagliare per primo il traguardo, in ciò benedetto e fortemente sostenuto dal governo dell'Ulivo e in prima persona dal presidente del Consiglio Romano Prodi, nonché dal capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro. Come e peggio di Turati che favorì invece di impedire l'ascesa di Mussolini, Massimo D'Alema, spalleggiato da Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini e non ostacolato seriamente dai cacasotto revisionisti e trotzkisti Fausto Bertinotti e Armando Cossutta, è il primo responsabile dell'instaurazione del fascismo sotto nuove forme.
Con la nuova Costituzione la repubblica presidenziale prende il posto della repubblica parlamentare attraverso il trasferimento dei poteri, delle competenze e dell'autorità sin qui posseduti dal parlamento e dai partiti parlamentari al presidente della repubblica, consacrato dall'elezione diretta e dall'investitura plebiscitaria come un nuovo monarca e duce al tempo stesso: ``Egli è l'eletto della nazione - metteva a nudo Marx - (...) L'Assemblea nazionale eletta è unita alla nazione da un rapporto metafisico, il presidente eletto è unito alla nazione da un rapporto personale. è ben vero che l'Assemblea nazionale esprime nei suoi rappresentanti i molteplici aspetti dello spirito nazionale; ma nel presidente questo spirito si incarna. Egli possiede rispetto all'Assemblea una specie di diritto divino; egli è per grazia del popolo''(30).
In nome della governabilità neofascista si fa scempio della rappresentatività democratico-borghese e così la nuova ``legge truffa'' maggioritaria soppianta gradualmente ogni residuo di legge elettorale proporzionalistica e finisce per rendere indistinti e per omologare i partiti e le coalizioni fra loro.
La magistratura vede assottigliarsi i margini della sua indipendenza e autonomia istituzionale e viene irreggimentata e assoggettata definitivamente al potere esecutivo.
La sovranità e l'unità nazionale risultano menomate e ridimensionate dall'attacco congiunto della costituzionalizzazione del potere sovranazionale dell'Unione europea imperialista e del trasferimento di poteri e competenze ai comuni, province e regioni che prefigura una forma di Stato di tipo federalista ai limiti del separatismo e del secessionismo.
Una tale sovversione dell'ordinamento e dell'organizzazione dello Stato non può non ripercuotersi direttamente e indirettamente sui principi esposti nella prima parte della Costituzione, che solo formalmente e per ora non risulta cambiata mentre nella sostanza finisce per essere stravolta. Si pensi, solo per fare un esempio, al principio di ``sussidarietà'' che cancella l'obbligo per lo Stato di assicurare a tutti l'assistenza sociale, lo spoglia delle funzioni che gli sono proprie nell'amministrazione, nei servizi, nell'assistenza, nella previdenza, nella sanità, dando il primato alle imprese private e al mercato.
Da questa situazione - come abbiamo denunciato nel nostro Documento del 23 gennaio 1997, all'indomani della costituzione della Bicamerale golpista, - non si esce difendendo le vecchie istituzioni e la vecchia Costituzione, ormai divenuta carta straccia, bensì combattendo la seconda repubblica, il capitalismo e il governo anticomunista del DC Prodi che li sorregge, e sviluppando la lotta di classe per dischiudere le porte al socialismo.
Noi siamo per l'Italia unita, rossa e socialista. Solo nel socialismo, infatti, la classe operaia potrà esercitare il potere politico e realizzare un sistema economico, uno Stato e una Costituzione che siano in grado di liberare veramente se stessa e le masse dallo sfruttamento, dall'oppressione, dalla disoccupazione, dalla miseria, dalla disparità territoriale e di sesso, dal razzismo e dal fascismo che derivano dal capitalismo.
Coi maestri vinceremo!
Firenze, 15 Dicembre 1997
L'Ufficio politico del PMLI

NOTE
1) II Congresso nazionale del Partito marxista-leninista italiano, Documenti, Firenze, 6-7-8 novembre 1982, p. 114, Firenze, 1983.
2) Karl Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, 1850, sta in Marx-Engels, Opere complete, vol. X, p. 130, Editori Riuniti, Roma, 1977.
3) Karl Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, 1851-1852, sta in Marx-Engels, Opere complete, op. cit., vol XI, p. 115.
4) Karl Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, op. cit., p. 131.
5) Mao Zedong, Sulla bozza di Costituzione della Repubblica Popolare Cinese, 14 giugno 1954, sta in Mao Zedong, Rivoluzione e Costruzione, p. 167, Einaudi, Torino, 1979.
6) Stalin, Sul progetto di Costituzione dell'Urss, 25 novembre 1936, sta in Stalin, Questioni del leninismo, p. 569, Edizioni in lingue estere di Mosca.
7) Stalin, Ibidem, p. 559.
8) Stalin, Ibidem, p. 569-570.
9) Stalin, Ibidem, p. 570.
10) Palmiro Togliatti, Discorsi alla Costituente, marzo 1947, Editori Riuniti, Roma, 1973, p.36.
11) Palmiro Togliatti, Ibidem, p. 36.
12) Palmiro Togliatti, Ibidem, p. 36.
13) Palmiro Togliatti, Ibidem, p. 37.
14) Lenin, I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione, 10 aprile 1917, sta in Lenin, Opere complete, vol. 24, p. 61, Editori Riuniti, Roma, 1966.
15) Palmiro Togliatti, Rapporto alla Sessione plenaria del CC del PCI, marzo 1956.
16) Umberto Terracini, Come nacque la Costituzione (Intervista a cura di Pasquale Balsamo), Editori Riuniti, Roma, 1977.
17) Palmiro Togliatti, Discorsi alla Costituente, op. cit., p. 9.
18) Palmiro Togliatti, Ibidem, p. 7.
19) Friedrich Engels, Introduzione a ``Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850'' (ediz. 1895) di K. Marx, sta in Marx-Engels, Opere complete, cit., vol. X, p. 656.
20) Friedrich Engels, Ibidem, p. 656.
21) A cura di Falzone, Palermo, Cosentino, La Costituzione della Repubblica italiana, pp. 172-173, Mondadori, Vicenza, 1976.
22) Giuseppe Armani, La Costituzione italiana, p. 79, Garzanti, Milano, 1988.
23) Karl Marx, La Costituzione della Repubblica francese approvata il 4 novembre 1848, 14 giugno 1851, sta in Marx-Engels, Opere complete, cit., vol. X, pp. 583-592.
24) Giuseppe Armani, op. cit., p. 131.
25) C. Mortati, La Costituzione di Weimar, p. 18 e segg., Firenze, 1946.
26) A cura di Falzone..., op. cit., p. 139.
27) Carlo Ghisalberti, Storia costituzionale d'Italia 1849-1948, p. 429, Editori Laterza, 1974.
28) Paolo Barile, Lineamenti generali, sta in 1945-1975 Italia. Fascismo antifascismo. Resistenza rinnovamenti, p. 364, Feltrinelli, Milano, 1975.
29) Palmiro Togliatti, Rapporto alla Sessione plenaria del CC del PCI, marzo 1956.
30) Karl Marx, Il diciotto brumaio..., op. cit., p. 121.