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Scienza e anarchia



NOTA: Ci scusiamo con i lettori ma questo testo ci è pervenuto in una forma grafica non eccellente ed è troppo lungo per essere riaggiustato rapidamente

INDICE
Introduzione 7
Nota bio-bibliografica 27
I. La nascita dello Stato 33
II. La Rivoluzione francese 49
III. Questioni di metodo 61
IV. L’aiuto reciproco in natura 79
V. La solidarietà umana 93
VI. L’etica 119
VII. Piccolo è bello 147
VIII. L’integrazione del lavoro 181
IX. Il comunismo anarchico 205
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I
Il problema dello Stato è centrale nel pensiero anarchico.
Kropotkin, tuttavia, a differenza di altri autori non lo
pone come un tema a sé stante perché gli dedica un’attenzione
più storica che teoretica con un saggio pubblicato
nel 1897 che porta il titolo Lo Stato e il suo ruolo storico.
In questo volume è soprattutto storicizzata la genesi, che
viene collocata, «classicamente», all’inizio dell’età moderna.
Con tale interpretazione egli opera un distacco netto
dalla precedente tradizione anarchica, secondo cui
l’entità statale è una forma meta-storica che riassume,
par excellence, il principio informatore del dominio. Sulla
scia della sinistra hegeliana, questa tradizione aveva
infatti identificato nello Stato – come del resto nella religione
– l’alienazione suprema del genere umano. Ora,
tale concetto non si ravvisa nell’anarchico russo che, al
contrario, vede nella formazione statale soltanto un
momento politico storicamente ben definito e particolare
del dominio dell’uomo sull’uomo. L’umanità, infatti, è
vissuta per secoli senza conoscere questa forma politica.
Qual è dunque la natura politica, sociale ed economica
dello Stato? Per Kropotkin la risposta è una sola:
nell’essere costitutivamente l’intreccio organico delle
funzioni coercitive operanti contro la società. Ciò è particolarmente
evidente se si analizza il ruolo storico da
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questi assunto nel periodo che va dal XVI al XIX secolo.
Si vedrà allora che la legislazione sulla proprietà, il
meccanismo fiscale, la costituzione dei monopoli, la
difesa del territorio hanno rappresentato l’insieme concreto
dell’organizzazione trasversale di tutti i privilegi
costituiti senza distinzione di sorta. Ad esempio, lo
sfruttamento economico determinato dal modo di produzione
capitalistico non avrebbe potuto sussistere e svilupparsi
senza l’aiuto dello Stato, specialmente per
quanto riguarda l’originaria formazione dei grandi
interessi dell’industria, del commercio e dell’agricoltura.
Mentre le rivoluzioni susseguitesi dal XV al XIX secolo
sono state tutte dirette a liberare la persona dal giogo
del lavoro obbligatorio, la reazione dello Stato è stata
sempre volta a rifondare la struttura gerarchica entro le
stesse determinazioni storiche dell’economia, della
società e della politica. Lo Stato, infatti, non è un’entità
separata dalla vita degli individui, non costituisce la
loro forma istituzionalmente alienata, la coscienza rovesciata
della loro autentica socialità. Al contrario, esso
consiste nell’essere parte integrante di ogni manifestazione
individuale e collettiva. Precisamente, quale
espressione funzionante della somma dei poteri esistenti
si manifesta come principio organizzatore di tutte le
espressioni particolari del conflitto, della violenza e della
sopraffazione.
Lo Stato – riassunzione suprema della loro sinergia –
acquista forma, identità e stabilità solo quando inizia
l’irreversibile processo della delega di potere: allora i
vincoli umani e comunitari si traducono in istituzioni
con una vita propria, il costume lascia il posto alla legge,
il governo finisce per assorbire l’amministrazione.
Dalla sovrapposizione sinergica di tutte queste funzioni,
dalla loro autonomizzazione prende vita la forma statale:
si passa, appunto, dal sociale al politico.
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione
na di Lo Stato e il suo ruolo storico del 1981,
nella traduzione (rivista) di Alfredo M. Bonanno.


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LA NASCITA DELLO STATO
Per prima cosa bisogna intendersi su ciò che indichiamo
con la parola Stato.
La scuola tedesca, la quale si compiace di confondere
lo Stato con la Società, ha prodotto notevoli lavori, elaborati
dai migliori pensatori tedeschi ma anche da molti
francesi, in cui gli autori non riescono a concepire la
società senza la concentrazione statale. Da ciò deriva la
solita accusa rivolta agli anarchici di voler «distruggere
la società», di predicare il ritorno a una «guerra permanente
di tutti contro tutti».
Eppure, ragionare così significa ignorare completamente
i progressi compiuti nel campo della storia
durante gli ultimi trent’anni; significa ignorare che
l’uomo è vissuto in società per migliaia di anni prima di
aver conosciuto lo Stato; significa dimenticare che per
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le nazioni europee lo Stato è di origine recente, datando
appena dal XVI secolo; significa infine disconoscere che i
periodi più gloriosi dell’umanità sono stati quelli in cui
le libertà e la vita locale non erano ancora state distrutte
dallo Stato, e in cui grandi masse di uomini vivevano
in Comuni e in libere federazioni.
Lo Stato è solo una delle forme che la società ha
assunto nel corso della storia; e non si possono confondere
tra loro queste due entità.
Altri ancora hanno confuso lo Stato con il governo.
Non essendo possibile avere Stato senza governo, si è
detto, bisogna mirare all’assenza del governo e non
all’abolizione dello Stato.
A mio avviso, tuttavia, nello Stato e nel governo si
debbono identificare due nozioni di ordine diverso.
L’idea di Stato indica una cosa ben diversa dall’idea di
governo. Essa comprende non solo l’esistenza di un
potere collocato al di sopra della società, ma anche una
concentrazione territoriale e una concentrazione di molte
funzioni della vita sociale nelle mani di pochi; e comporta
altresì l’instaurarsi di nuovi rapporti con i membri
della società. Si tratta, come si vede, di una distinzione
che a prima vista può sfuggire, ma che appare
chiara quando si studiano le origini dello Stato.
Peraltro, se si vuole comprendere lo Stato, non c’è
che un mezzo per farlo: studiarlo nel suo sviluppo storico,
cosa che tenteremo di fare nel presente lavoro.
L’impero romano fu uno Stato nel vero senso della
parola, tanto che fino ai giorni nostri resta un punto di
riferimento per l’uomo di legge.
Le sue istituzioni ricoprivano con una rete fittissima
un vasto dominio. Tutto affluiva verso Roma: la vita
economica, la vita militare, i rapporti giudiziari, le ricchezze,
l’educazione e persino la religione. Da Roma
provenivano le leggi, i magistrati, le legioni per difendere
il territorio, i prefetti, gli dei. Tutta la vita dell’impero
risaliva al Senato, e più tardi a Cesare, l’onnipotente,
l’onniscente, il dio dell’impero. Ogni provincia, ogni
distretto, aveva il suo Campidoglio in miniatura, la sua
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piccola porzione di sovrano romano che ne dirigeva tutta
la vita. Una sola legge, la legge imposta da Roma,
regnava sull’impero; e questo non era una confederazione
di cittadini, ma solo un gregge di sudditi.
Ancor oggi il legislatore e l’autoritario ammirano
l’unità di questo impero, lo spirito unitario delle sue
leggi, la bellezza – a loro dire – e l’armonia di questa
organizzazione.
Ma lo sfacelo interno, assecondato dalle invasioni
barbariche, la morte della vita locale, l’incapacità di
resistere agli attacchi esterni e alla cancrena interna,
spezzarono l’impero. Dalle sue rovine nacque una nuova
civiltà, che oggi è la nostra.
Se mettiamo da parte lo studio delle civiltà antiche
per esaminare piuttosto le origini e gli sviluppi della
giovane civiltà barbarica, sino ai periodi in cui essa, a
sua volta, dette origine ai nostri Stati moderni, riusciremo
a comprendere meglio l’essenza dello Stato. Si
tratta di porre in atto uno studio molto più efficace di
quello che sarebbe possibile fare immergendoci nell’esame
dell’impero romano o di quello di Alessandro, oppure
nell’esame del dispotismo orientale.
Prenderemo quindi come punto di partenza quei possenti
demolitori barbari dell’impero romano, tentando
di rintracciare l’evoluzione della nostra civiltà dalle sue
origini fino alla fase statale.
La maggior parte dei filosofi del XVIII secolo si era
fatta un’idea molto elementare dell’origine delle
società. All’inizio, sostenevano, gli uomini vivevano in
piccole famiglie isolate in guerra perpetua fra di loro.
Questa guerra rappresentava la condizione normale.
Un bel giorno, però, si resero conto degli inconvenienti
di queste lotte senza tregua, e quindi decisero di mettersi
in società. Un contratto sociale fu concluso tra le
famiglie sparse, che si sottomisero volentieri ad una
autorità la quale – ho bisogno di sottolinearlo? – divenne
il punto di partenza e l’iniziatrice di ogni progresso.
Non occorre nemmeno aggiungere, poiché l’abbiamo
appreso a scuola, che i nostri governi attuali hanno
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mantenuto questa loro positiva immagine di sapienti
pacificatori e civilizzatori della specie umana.
Questa idea, concepita in un’epoca in cui non si sapeva
ancora molto sulle origini dell’uomo, dominò per tutto
il secolo; e va riconosciuto che nelle mani degli enciclopedisti
e di Rousseau, l’idea del «contratto sociale»
diventò un’arma potente per combattere la monarchia
di diritto divino. Però, malgrado i servizi resi in passato,
questa tesi deve essere riconosciuta come falsa.
In effetti, salvo alcuni carnivori e alcuni rapaci, nonché
alcune specie che vanno scomparendo, tutti gli animali
vivono in società. Nella lotta per la vita sono le
specie sociali che vincono su quelle che non lo sono. In
ogni classe di animali esse occupano il vertice della scala,
e non può esserci alcun dubbio che i primi umanoidi
vivessero già in società.
Non è l’uomo quindi che ha creato la società, ma questa
preesisteva all’uomo.
Al giorno d’oggi la cosa è nota, avendo l’antropologia
chiarito perfettamente che il punto di partenza dell’umanità
non fu la famiglia ma il clan e la tribù. La famiglia
patriarcale, quale noi la conosciamo e quale ci viene
dipinta dalla tradizione ebraica, non fece la sua
apparizione che molto più tardi: trascorsero decine di
migliaia di anni durante i quali l’uomo visse nella fase
tribale o clanica; e in questa prima fase – chiamiamola
pure, se così ci piace, di tribalismo primitivo o selvaggio
– l’uomo sviluppò tutta una serie di istituzioni, di usi e
di costumi molto anteriori alle istituzioni della famiglia
patriarcale. [...]
Questa fase durò diverse migliaia di anni, e i barbari
che invasero l’impero romano l’avevano attraversata,
anzi ne uscivano appena allora.
Nei primi secoli della nostra era immense migrazioni
interessarono le tribù e le confederazioni tribali che
abitavano l’Asia centrale e boreale. Enormi fiumane di
popolazione, sospinte da popoli più o meno civili discesi
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dagli altipiani asiatici, probabilmente scacciati dalla
rapida essiccazione di questi altipiani, si riversarono
sull’Europa urtandosi fra loro e mescolandosi nel tentativo
di spingersi verso occidente.
Nel corso di queste migrazioni, durante le quali tante
tribù di origine diversa si trovarono riunite, le tribù primitive
che ancora esistevano nella maggior parte degli
insediamenti selvaggi d’Europa, dovettero necessariamente
scomparire. La tribù era basata sulla comunanza
di origine, sul culto di comuni antenati, ma non poteva
più esistere alcuna comunanza di origini in quelle
agglomerazioni che uscirono dal confuso miscuglio delle
migrazioni, delle scorribande, delle guerre inter-tribali,
durante le quali, qua e là, incominciava a scorgersi
l’origine della famiglia patriarcale, il nucleo che andava
formandosi intorno al possesso, che alcuni erano riusciti
ad accaparrarsi, delle donne conquistate o rapite alle
tribù vicine.
Gli antichi legami vennero così spezzati e sotto pena
di dispersione (come avvenne, infatti, per molte tribù
ormai scomparse dalla storia) nuovi legami dovevano
sorgere. Ed essi sorsero. Furono trovati nel possesso
comune della terra, cioè del territorio sul quale una certa
agglomerazione aveva finito per insediarsi.
Il possesso comune di un certo territorio – di valli e
di colline – divenne la base di un nuovo accordo. Gli dei
degli antenati avevano ormai perduto il loro significato,
gli dei locali, della vallata, del fiume, della foresta, diedero
la consacrazione religiosa alle nuove agglomerazioni
sostituendo le credenze della tribù primitiva. Più
tardi il cristianesimo, sempre pronto ad adattarsi alle
sopravvivenze pagane, ne fece dei santi locali.
La comunità di villaggio, composta in parte o interamente
di famiglie distinte – unite tutte però dal possesso
comune della terra – divenne per i secoli che seguirono
il necessario elemento di congiunzione. [...]
La comunità di villaggio si componeva, come si com-
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pone ancora, di famiglie distinte. Ma le famiglie di uno
stesso villaggio possedevano la terra in comune. Esse la
consideravano come loro patrimonio comune e la ripartivano
in base all’estensione delle famiglie, ai loro bisogni
e alle loro forze. Centinaia di milioni di uomini,
nell’Europa orientale, nelle Indie, a Giava ecc., vivono
ancora oggi sotto questo regime, che è lo stesso stabilito
liberamente dai contadini russi quando, in epoca recente,
lo Stato ha loro permesso di occupare l’immenso territorio
della Siberia. [...]
In tutti i suoi affari la comunità di villaggio era
sovrana. L’usanza locale faceva legge e l’assemblea plenaria
di tutti i capi di famiglia, uomini e donne, era il
giudice – il solo giudice – in materia civile e penale.
Quando un abitante ne «querelava» un altro, piantava
il suo coltello nel luogo dove di regola la comunità si
riuniva, e questa doveva «emettere la sentenza» secondo
il costume locale, dopo che il fatto contestato dalle
due parti fosse stato chiarito dai giudici.
Sarebbe veramente lungo indicare tutto ciò che questa
fase offre di interessante. Basterà ricordare che tutte
le istituzioni di cui gli Stati si impadronirono più tardi
a vantaggio delle minoranze, tutte le nozioni di diritto
che troviamo (mutilate a vantaggio delle minoranze)
nei nostri codici, nonché tutte le forme di procedura
giudiziaria che offrono garanzie per l’individuo, ebbero
la loro origine nella comunità di villaggio. Così, quando
crediamo di aver fatto un grande progresso introducendo,
ad esempio, la giuria, non abbiamo fatto altro che
riportare alla luce un’istituzione dei barbari, dopo averla
modificata a vantaggio delle classi dominanti. Il
diritto romano non fece che sovrapporsi al diritto consuetudinario.
Nello stesso tempo si andava sviluppando il sentimento
di unità nazionale per mezzo delle grandi federazioni
di libere comunità di villaggio.
Fondata sul possesso e, spessissimo, sulla coltivazione
in comune della terra, sovrana come giudice e come
legislatore del diritto consuetudinario, la comunità di
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villaggio rispondeva a una buona parte dei bisogni
dell’essere sociale. Ma molti di questi bisogni restavano
ancora da soddisfare. Ora, lo spirito dell’epoca non era
portato a fare appello al governo non appena un nuovo
bisogno si faceva sentire; al contrario, tendeva a prendere
autonomamente l’iniziativa per unirsi, federarsi,
creare un’intesa, grande o piccola, allargata o ristretta,
che rispondesse a questo bisogno. La società di allora si
trovava letteralmente ricoperta da una rete di patti di
fratellanza, di cooperazioni per il mutuo appoggio, di
«congiurazioni», sia nel villaggio che fuori, nella federazione.
[...]
L’arbitraggio delle dispute era diventata un’istituzione
profondamente radicata, una pratica giornaliera;
malgrado e contro i vescovi e i reucci nascenti che
avrebbero voluto che ogni disputa venisse portata
davanti a loro o davanti ai loro emissari per approfittare
della fred, un’ammenda pagata dal villaggio d’origine
dei violatori della pace pubblica.
Con il tempo, centinaia di villaggi si riunirono in
potenti federazioni – germi delle nazioni europee – che
sottoscrissero un patto per mantenere la pace interna e
difendere reciprocamente il loro territorio considerato
come un patrimonio comune. Ancor oggi è possibile studiare
queste federazioni dal vivo in seno alle tribù mongole,
ugro-finniche, malesi. [...]
Lungi dall’essere quella bestia sanguinaria che si è
voluto dipingere allo scopo di convalidare la necessità
del potere, l’uomo ha sempre amato la tranquillità e la
pace. Più battagliero che feroce, egli di norma preferisce
il suo bestiame e la sua terra al mestiere delle armi.
È per questo che non appena le grandi migrazioni barbariche
hanno cominciato a stabilizzarsi, non appena le
orde e le tribù hanno cominciato a insediarsi nei loro
rispettivi territori, si è assistito all’attribuzione dei
compiti di difesa territoriale contro nuove possibili
invasioni di altri immigranti a particolari individui, i
quali iniziano ad arruolare piccole bande di avventurieri,
di uomini agguerriti o di briganti, mentre la gran
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massa degli abitanti continua ad allevare il bestiame e
a coltivare il suolo. Questi difensori cominciano ben
presto ad accumulare ricchezze: prestano cavalli e ferro
(allora costosissimi) al povero, asservendolo; si costituiscono
così i primi embrioni del potere militare.
D’altra parte, la tradizione – che fa legge – viene a
poco a poco dimenticata dalla maggior parte degli individui.
Resta appena qualche vecchio che ha conservato
nella memoria le strofe e i canti che raccontano i «precedenti
» di cui si compone la legge consuetudinaria, e li
recita nei giorni delle grandi feste davanti alla comunità
riunita. E così, a poco a poco, in alcune famiglie si
forma una tradizione trasmessa da padre in figlio: quella
di ritenere a memoria quei canti e quei versetti, di
conservare insomma la «legge» nella sua purezza. Presso
queste famiglie si recano gli abitanti del villaggio per
giudicare le loro questioni più difficili, soprattutto
quando due villaggi o due confederazioni si rifiutano di
accettare le decisioni degli arbitri scelti al loro interno.
L’autorità di principi e re è già in germe in queste
famiglie, e più approfondisco lo studio delle istituzioni
di quell’epoca, più mi accorgo che la conoscenza delle
leggi consuetudinarie ha contribuito molto più alla
costituzione di questa autorità che non la forza delle
armi. L’uomo si è lasciato sottomettere più dal desiderio
di punire secondo la «legge» che per diretta conquista
militare. Infatti la prima «concentrazione di potere
», il primo accordo reciproco a fini di dominio, è stato
quello tra il giudice e il capo militare, accordo che viene
fatto contro la comunità di villaggio. Un solo uomo riveste
queste due funzioni, circondandosi di uomini armati
per fare eseguire le decisioni giudiziarie, fortificandosi
nel suo ridotto, accumulando per sé e per la propria
famiglia le ricchezze dell’epoca – cereali, bestiame, terra
– ed estendendo a poco a poco il suo dominio sugli
abitanti del circondario.
L’intellettuale di quel tempo, cioè lo stregone o il prete,
non tarda a dargli il suo appoggio e a condividerne il
dominio; oppure, unendo la forza della lancia al suo
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temuto potere di mago, se ne impadronisce per proprio
conto.
Bisognerebbe dilungarsi moltissimo su questo argomento,
trattandosi di un soggetto pieno di nuovi insegnamenti
che ci fa comprendere come degli uomini liberi
diventino gradatamente dei servi obbligati a lavorare
per il padrone, laico o religioso, del castello; come
l’autorità si costituisca man mano al di sopra dei villaggi
e delle borgate; come i contadini si ribellino lottando
contro questa dominazione crescente, ma come le loro
lotte si infrangano contro le robuste mura del castello,
contro gli uomini ricoperti di ferro che lo difendono.
Sarà sufficiente dire che, verso il X e l’XI secolo,
l’Europa avanzava in pieno verso la costituzione di quei
regimi barbarici, come oggi se ne scoprono nel cuore
dell’Africa, o di quelle teocrazie, come si conoscono studiando
la storia dell’Oriente. Tutto ciò non avvenne
ovviamente in un giorno, ma i germi dei piccoli reami e
delle piccole teocrazie già esistevano e si andavano
affermando sempre più.
Fortunatamente lo spirito barbaro – scandinavo, sassone,
celtico, germanico, slavo – che aveva spinto gli
uomini durante sette o otto secoli a cercare la soddisfazione
dei loro bisogni nell’iniziativa individuale e nella
libera intesa delle fratellanze e delle gilde, fortunatamente,
dicevamo, questo spirito sopravviveva nei villaggi
e nelle borgate. I barbari si lasciavano dominare,
lavoravano per il padrone, ma il loro spirito di libera
intesa non si era ancora lasciato corrompere. Le loro
fratellanze erano più che mai vive e le crociate non avevano
fatto altro che risvegliarle e svilupparle in tutto
l’Occidente.
Fu allora, tra l’XI e il XII secolo, che la rivoluzione dei
Comuni urbani sorti dall’unione tra la comunità di villaggio
e le fratellanze – rivoluzione che lo spirito federativo
dell’epoca preparava da lungo tempo – scoppiò
con mirabile accordo.
Questa rivoluzione, che la maggior parte degli storici
accademici preferisce ignorare, salvò l’Europa dalla
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minaccia che gravava su di essa: arrestò l’evoluzione
dei regimi teocratici e dispotici, nei quali la nostra
civiltà avrebbe probabilmente trovato la propria fine.
Infatti, dopo alcuni secoli di pomposo sviluppo, essa
sarebbe stata affossata come affossate furono le civiltà
mesopotamica, assira e babilonese. Questa rivoluzione
schiuse invece una nuova fase di vita: la fase dei liberi
Comuni.
Si capisce facilmente perché gli storici moderni, educati
allo spirito romano e preoccupati di far risalire le
origini di tutte le istituzioni a Roma, stentino tanto a
capire lo spirito del movimento comunalista del XII
secolo. Questo movimento fu una forte affermazione
dell’individuo, che giunse a costituire la società per
mezzo della libera federazione di uomini, villaggi e
città. Esso fu anche un’assoluta negazione dello spirito
unitario e accentratore romano, con il quale si cerca
ancor oggi di spiegare la storia nel nostro insegnamento
universitario. Questo movimento non si ricollega ad
alcun personaggio storico di particolare rilievo né ad
alcuna istituzione centralizzata. Fu uno sviluppo naturale,
proprio, come la tribù e la comunità di villaggio, a
una certa fase dell’evoluzione umana e non a questa
nazione o a quella regione. [...]
La vittoria dello Stato sui Comuni e sulle istituzioni
federative medievali non fu tuttavia immediata. Vi fu
anzi un momento in cui tale vittoria fu così minacciata
da sembrare del tutto incerta.
Un immenso movimento popolare – religioso quanto
a forma ed espressione, ma sostanzialmente egualitario
e comunista quanto ad aspirazioni – si produsse nelle
città e nelle campagne dell’Europa centrale. [...]
Nato nelle città, questo movimento si estese ben presto
nelle campagne. I contadini si rifiutavano di obbedire
a chiunque e montando una vecchia scarpa su di una
picca, a guisa di bandiera, riprendevano le terre ai
signori, spezzavano i legami di servitù, scacciavano pre-
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te e giudice e si costituivano in libero Comune. Solo
ricorrendo al rogo, alla ruota e alla forca, al massacro di
centinaia di migliaia di contadini compiuto in pochi
anni, il potere regale o imperiale, alleato della Chiesa
papista o riformata – giacché Lutero incitava al massacro
dei contadini ancor più violentemente dello stesso
papa – mise fine a questo movimento che aveva per un
certo periodo minacciato la formazione degli Stati
nascenti.
Nato dall’anabattismo popolare, il riformismo luterano
massacrò il popolo insieme allo Stato e schiacciò il
movimento dal quale aveva avuto origine. I resti di
quell’immensa ondata si rifugiarono nelle comunità dei
«Fratelli Moravi», che a loro volta furono, circa un secolo
dopo, distrutte dalla Chiesa e dallo Stato. [...]
Lo Stato ormai aveva messo al sicuro la propria esistenza.
Il legislatore, il prete, e il signore-soldato, riunitisi
in alleanza solidale intorno al trono, potevano, d’ora
in avanti, compiere la loro opera di distruzione.
Sono moltissime le menzogne su questo periodo accumulate
dagli storici stipendiati dallo Stato.
Abbiamo tutti appreso a scuola, ad esempio, che lo
Stato avrebbe reso il grande servizio di costruire, sulle
rovine della società feudale, le unioni nazionali, rese
precedentemente impossibili dalle rivalità cittadine.
L’abbiamo imparato a scuola e quasi tutti l’abbiamo
continuato a credere anche in età adulta. Oggi invece
arriviamo a capire che, malgrado tutte le loro rivalità,
le città medievali avevano lavorato, durante quattro
secoli, a costruire queste unioni per mezzo della federazione
volontaria liberamente accettata, e in pratica vi
erano riuscite.
La Lega lombarda, ad esempio, comprendeva le città
dell’Alta Italia e aveva la sua cassa federale custodita a
Genova e a Venezia. Altre federazioni si ritrovavano
per tutta l’Europa, come la Lega toscana, la Lega renana
(che comprendeva sessanta città), le federazioni della
Westfalia, della Boemia, della Serbia, della Polonia,
delle città russe. Nello stesso tempo l’unione commer-
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ciale della Lega Anseatica comprendeva le città scandinave,
tedesche, polacche, russe e di tutto il bacino del
Mar Baltico. Vi erano già in tali unioni tutti gli elementi
di larghe agglomerazioni umane liberamente organizzate.
La prova vivente di tali raggruppamenti la si può
vedere in Svizzera. L’unione, in questo Paese, si
affermò dapprima fra le comunità di villaggio (i vecchi
cantoni), non diversamente da come si costituì, nello
stesso periodo, anche in Francia, nel lionese. E poiché
in Svizzera la separazione tra la città e il villaggio non
fu mai così profonda come nelle lontane città commerciali,
accadde che le città diedero man forte all’insurrezione
dei contadini (nel XVI secolo), facendo in modo che
l’unione risultasse più forte e si mantenesse fino ai
giorni nostri.
Ma lo Stato, per il suo stesso principio, non può tollerare
la federazione libera, che rappresenta una cosa
orrenda per l’uomo di legge: «uno Stato nello Stato». Lo
Stato non può riconoscere un’unione liberamente accettata
che funzioni nel suo seno, esso non riconosce che
sudditi, per cui soltanto lo Stato, insieme alla Chiesa,
può accampare il diritto di servire da unione tra gli
uomini. Di conseguenza, lo Stato doveva per forza
distruggere le città basate sull’unione diretta tra i cittadini:
doveva abolire ogni unione nella città, abolire la
città stessa, e sostituire infine al principio federativo il
principio di sottomissione e di disciplina. È questa la
sostanza stessa dello Stato, che senza tale principio cesserebbe
di esistere.
Il XVI secolo – secolo di massacri e di guerre – si riassume
interamente in questa lotta dello Stato nascente
contro le città libere e le loro federazioni. Le città vengono
assediate, prese d’assalto, saccheggiate, e i loro
abitanti decimati ed espulsi.
Lo Stato ha riportato la vittoria su tutta la linea, ed
eccone le conseguenze. Nel XV secolo l’Europa era piena
di città prospere, i cui artefici – muratori, tessitori,
cesellatori – producevano meravigliose opere d’arte, le
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cui università ponevano le fondamenta della scienza, le
cui carovane percorrevano i continenti, i cui navigli toccavano
tutti i mari e i fiumi.
Due secoli dopo resta ben poco di tutto questo. Città
che erano arrivate fino a cinquanta o centomila abitanti,
che avevano posseduto – come Firenze – più scuole e
più letti d’ospedale per abitante di quelli oggi posseduti
da città meglio fornite, sono diventate borghi in rovina.
Dopo averne massacrato ed espulso gli abitanti, lo Stato
si è impadronito delle loro ricchezze. L’industria, sotto
la minuziosa tutela dei funzionari dello Stato, si spegne.
Il commercio muore. Le strade stesse, che una volta
collegavano queste città tra loro, nel XVII secolo
diventano assolutamente impraticabili.
Lo Stato è la guerra, e le guerre devastano l’Europa,
finendo di distruggere le città che lo Stato non ha
distrutto direttamente.
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II
Al nodo storico cruciale della Rivoluzione francese
Kropotkin dedica anni intensi di studio che alla fine
producono un’opera di notevole rilievo: La Grande Rivoluzione.
In questo testo l’anarchico russo delinea contemporaneamente
la sua interpretazione storica del
1789 e la sua concezione di rivoluzione. Nella ricostruzione
kropotkiniana della Rivoluzione francese possiamo
osservare la preminenza delle masse anonime –
soprattutto contadine – nei confronti delle singole personalità
storiche, la subordinazione di ogni forma di soggettività
politica all’emergenza oggettiva della corale
socialità dal basso e dunque la supremazia della dimensione
collettiva rispetto a quella individuale; inoltre, la
concreta e strutturale tendenza del mutuo appoggio
manifestatasi attraverso la domanda prioritaria dell’uguaglianza
sociale, la quale risulta più profonda e
significativa della spinta ideale verso la libertà politica.
In conclusione, la rivoluzione francese costituisce per
Kropotkin la riflessione storica fondamentale da cui
partire per studiare e costruire l’azione rivoluzionaria
futura.
Secondo Kropotkin dal 1789 non sono scaturite molteplici
rivoluzioni (aristocratica, costituzionale, girondina,
giacobina), come è stato affermato dalle varie storio-
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grafie liberali, socialiste e democratiche, ma una sola
rivoluzione, precisamente la Grande Rivoluzione, che
nel suo moto progressivo ha cercato la propria verità nel
fondo spontaneo, popolare, comunista e anarchico che
ha attraversato fin dall’inizio lo stesso evento rivoluzionario.
Questo giudizio costituisce la chiave di volta dell’interpretazione
kropotkiniana della Rivoluzione francese:
il «fondo» e l’«essenza» di questa rivoluzione non
appartengono veramente alla borghesia, che è stata
rivoluzionaria suo malgrado. La classe borghese è stata
trascinata dall’ondata popolare, alla quale ha cercato di
opporre la moderazione del costituzionalismo monarchico.
La svalutazione della volontà rivoluzionaria della
borghesia attraversa tutta la ricostruzione storica
dell’anarchico russo, che tende pertanto a vedere anche
nelle conquiste del liberalismo politico l’effetto di una
spinta più grande e possente: la lotta popolare per il
comunismo, nella forma ancora rozza della semplice,
diretta distribuzione egualitaria dei beni.
L’opera kropotkiniana ha influenzato largamente il
pensiero rivoluzionario contemporaneo. Lenin, ad esempio,
l’apprezzava molto. Ancora nel 1970 ne è stata tirata
in Unione Sovietica un’edizione di 43.700 copie. Nella
storiografia di sinistra del secondo dopoguerra La
Grande Rivoluzione ha avuto ulteriori echi. Nelle opere
di Daniel Guérin (La lutte de classe sous la Première
République 1793-1797 e Bourgeois et bras nus 1793-
1795) si può ad esempio ravvisare la ripresa di molte
intuizioni dell’anarchico russo.
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’antologia
La società aperta, a cura di Herbert Read, nella
traduzione (rivista) di Annamaria Savegnago.
50
LA RIVOLUZIONE FRANCESE
Due grandi correnti prepararono e fecero la Rivoluzione
francese. Una, la corrente delle idee, il prorompere
di nuove idee sulla riorganizzazione politica dello
Stato, proveniva dalla borghesia. L’altra, la corrente
dell’azione, proveniva dalle masse popolari, dai contadini
e dai proletari delle città, che volevano ottenere
miglioramenti immediati e tangibili della loro condizione
economica. E quando queste due correnti si incontrarono
in un obiettivo inizialmente comune, quando
praticarono per un certo periodo un appoggio mutuo, il
risultato fu la rivoluzione.
I filosofi del XVIII secolo avevano già da tempo cominciato
a scalzare le fondamenta delle società civili
dell’epoca, dove il potere politico e una parte immensa
delle ricchezze apparteneva all’aristocrazia e al clero,
51
mentre la gran massa del popolo altro non era se non la
bestia da soma delle classi al potere. Proclamando la
sovranità della ragione, predicando la fiducia nella
natura umana e dichiarando che quest’ultima, pur corrotta
dalle istituzioni che nel corso della storia avevano
ridotto l’uomo in servitù, avrebbe ciononostante riacquisito
tutte le sue qualità una volta riconquistata la
libertà, questi filosofi avevano aperto nuovi orizzonti
all’umanità. Decretando l’uguaglianza di tutti gli uomini,
senza distinzione di nascita, chiedendo a ogni cittadino,
fosse egli re o contadino, obbedienza alla legge,
che si suppone esprima la volontà della nazione quando
è stata emanata dai rappresentanti del popolo, e infine
chiedendo la libertà di contratto tra uomini liberi, nonché
l’abolizione delle servitù feudali, e formulando tutte
queste richieste, collegate tra loro dal metodo e dallo
spirito sistematico caratteristici del pensiero francese, i
filosofi avevano senza dubbio preparato, almeno nelle
menti degli uomini, la caduta del vecchio regime.
Questo da solo, tuttavia, non sarebbe stato sufficiente
a provocare la rivoluzione. Bisognava ancora passare
dalla teoria all’azione, dal concepire un ideale nella propria
immaginazione al metterlo in pratica nei fatti. E
ciò che interessa oggi da un punto di vista storico sono
le circostanze che, in un dato momento, resero possibile
alla nazione francese di fare questo sforzo: dare inizio
alla realizzazione dell’ideale. [...]
La rivoluzione è un cambiamento rapido, nello spazio
di pochi anni, di istituzioni che ci avevano messo dei
secoli a mettere radici nel suolo e che sembravano tanto
solide e immutabili che persino i più accesi riformatori
a malapena osavano attaccarle nei loro scritti. È la
caduta, lo sgretolarsi in un breve lasso di tempo di tutto
ciò che fino a quel momento costituiva l’essenza stessa
della vita sociale, religiosa, politica ed economica di una
nazione. È il sovvertimento delle idee acquisite e delle
nozioni condivise sulle complesse relazioni tra le varie
componenti dell’insieme umano.
È infine il fiorire di concezioni nuove, egualitarie, nei
52
rapporti tra cittadini, concezioni che ben presto diventano
realtà e cominciano così ad espandersi tra le
nazioni vicine, sconvolgendo il mondo e consegnando
all’epoca successiva le sue parole d’ordine, i suoi problemi,
la sua scienza, le sue linee di sviluppo economico,
politico e morale.
Per arrivare a un risultato di tale importanza, perché
un movimento assuma le proporzioni di una rivoluzione
(come successe in Inghilterra nel 1648 e nel 1688
e in Francia nel 1789 e nel 1793), non è sufficiente che
un movimento di idee, non importa quanto radicate, si
manifesti tra le classi colte; e non è sufficiente che le
rivolte, non importa quanto frequenti o estese, si producano
in seno al popolo. È necessario che l’azione rivoluzionaria
proveniente dal popolo coincida con il movimento
di pensiero rivoluzionario proveniente dalle classi
colte. Deve, cioè, esserci un’unione dei due. [...]
Eppure la storia di questo doppio movimento è ancora
da scrivere. La storia della Grande Rivoluzione francese
è stata scritta e riscritta innumerevoli volte e da
molti punti di vista differenti; ma sino a questo momento
gli storici si sono dedicati a raccontare soprattutto la
storia politica, la storia delle conquiste della borghesia
a scapito del partito della Corte e di quanti difendevano
le istituzioni della vecchia monarchia. Così, conosciamo
molto bene il risveglio del pensiero che precede la rivoluzione.
Conosciamo i princìpi che dominarono durante
la rivoluzione e che si tradussero nella sua opera legislativa.
Siamo estasiati davanti alle grandi idee che
lanciò in tutto il mondo e che il XIX secolo ha poi cercato
di realizzare nei Paesi civili. In breve, la storia parlamentare
della rivoluzione, le sue guerre, la sua politica
e la sua diplomazia, sono state studiate e raccontate in
tutti i particolari. Ma la storia popolare della rivoluzione
rimane ancora da fare. La parte avuta nella rivoluzione
dal popolo delle campagne e delle città non è mai
stata studiata e narrata nella sua interezza. Delle due
correnti che fecero la rivoluzione, la corrente del pensiero
è conosciuta, ma l’altra, quella dell’azione popolare,
53
non è stata ancora nemmeno abbozzata.
Sta a noi, i discendenti di quelli che i contemporanei
chiamavano gli «anarchici», studiare questa corrente
popolare evidenziandone quantomeno i tratti essenziali.
[...]
Nei villaggi, fu la Comune dei contadini a reclamare
l’abolizione dei tributi feudali e a ratificare il rifiuto di
continuare a pagarli; fu la Comune a riprendere ai proprietari
terrieri quelle terre che precedentemente erano
comuni, a resistere ai nobili, a lottare contro i preti, a
proteggere i patrioti e più tardi i sans-culottes, ad arrestare
i nobili emigrati che tornavano o il re che scappava.
Nelle città, fu la Comune municipale a ricostruire
ogni aspetto della vita, ad arrogarsi il diritto di scegliere
i giudici, a modificare di propria iniziativa la ripartizione
delle tasse e, più tardi, seguendo gli sviluppi della
rivoluzione, a divenire l’arma dei sans-culottes nella
loro lotta contro la monarchia e i cospiratori monarchici
e contro gli invasori tedeschi. In tempi ancora successivi,
nell’Anno II della Repubblica, furono sempre le
Comuni che si assunsero il compito di redistribuire le
ricchezze.
E, come ben sappiamo, fu la Comune di Parigi a
detronizzare il re e a divenire, dopo il 10 agosto, il
nucleo reale, la vera forza della rivoluzione, che manterrà
il proprio vigore soltanto fino a quando la Comune
sopravviverà.
L’anima della Grande Rivoluzione fu dunque nelle
Comuni, e senza questi focolai sparsi su tutto il territorio,
la rivoluzione non avrebbe mai avuto la forza di
abbattere il vecchio regime, di respingere l’invasione
tedesca e di rigenerare la Francia.
Sarebbe però sbagliato rappresentarsi le Comuni di
quel tempo come i moderni corpi municipali ai quali i
cittadini, dopo pochi giorni di eccitamento dovuto alle
elezioni, ingenuamente affidano l’amministrazione di
54
tutti i propri affari, senza occuparsi più di niente. La
folle fiducia nel governo rappresentativo che caratterizza
la nostra epoca non esisteva durante la Grande
Rivoluzione. La Comune nata dai movimenti popolari
non si separerà mai dal popolo. Attraverso i suoi
«distretti», «sezioni» o «tribù», costituiti come altrettanti
organi di amministrazione popolare, rimarrà del
popolo; ed è appunto questo che darà la forza rivoluzionaria
a tali organismi.
Dal momento che è l’organizzazione e la vita dei
«distretti» e delle «sezioni» di Parigi che sono meglio
conosciute, sarà appunto degli organismi di questa città
che parleremo, tanto più che studiando la vita delle
«sezioni» parigine impariamo a conoscere con buona
approssimazione anche la vita delle migliaia di Comuni
della provincia.
Fin dall’inizio della rivoluzione, ma già da quando gli
eventi avevano spinto Parigi a prendere l’iniziativa alla
vigilia del 14 luglio, il popolo, con la sua meravigliosa
attitudine per l’organizzazione rivoluzionaria, si stava
già organizzando in vista della lotta che avrebbe dovuto
sostenere, e della quale sentì immediatamente l’importanza.
[...]
Dopo la presa della Bastiglia, vediamo subito i
distretti agire come organi riconosciuti dell’amministrazione
municipale. [...]
Fu per mezzo dei distretti che, d’allora in poi, Danton,
Marat e tanti altri furono messi nella possibilità di
ispirare le masse popolari parigine con il soffio della
rivolta; e fu così che le masse si abituarono a fare a
meno dei corpi rappresentativi e cominciarono a mettere
in pratica l’autogoverno.
Immediatamente dopo la presa della Bastiglia, i
distretti avevano ordinato ai loro delegati di preparare,
d’accordo con il sindaco di Parigi, Bailly, un piano di
organizzazione municipale che doveva poi essere nuovamente
sottoposto ai distretti. Ma in attesa di questo
schema, i distretti andarono avanti allargando la sfera
delle proprie funzioni a seconda delle necessità.
55
Quando l’Assemblea nazionale cominciò a discutere
l’ordinamento municipale, lo fece, com’era logico aspettarsi
da un corpo così eterogeneo, con un’esasperante
lentezza. «Dopo due mesi», dice Lacroix, «il primo articolo
del nuovo piano municipale doveva ancora essere
scritto» [Actes, t.II, p.XIV]. Si comprende bene come
«questi ritardi sembrassero sospetti ai distretti», e da
questo momento cominciò a manifestarsi verso l’Assemblea
dei rappresentanti della Comune un’ostilità sempre
più marcata di una parte dei suoi rappresentati.
Ma quello che è importante notare è che, mentre cercavano
di dare una forma legale al governo municipale, i
distretti cercavano al contempo di mantenere la propria
indipendenza. Essi cercavano l’unità d’azione, ma non
sottomettendosi a un comitato centrale, bensì all’interno
di una confederazione.
«Lo spirito espresso dai distretti [...]», scrive ancora
Lacroix [Actes, t.II, pp.XIV-XV], «è caratterizzato al contempo
da un forte sentimento di unità comunalista e da
una tendenza non meno forte verso l’autogoverno. […]
Parigi non vuol essere una federazione di sessanta
repubbliche, ognuna delle quali ritagliata a caso in un
proprio territorio: la Comune è una, è composta
dall’insieme di tutti i suoi distretti [...]. Non si trova un
solo esempio di un distretto che pretenda di vivere
appartato dagli altri [...]. Ma accanto a questo principio
assodato, se n’è manifestato un altro [...], e cioè che la
Comune deve legiferare e amministrare se stessa quanto
più direttamente possibile; il governo rappresentativo
deve essere ridotto al minimo; tutto ciò che nella
Comune può essere fatto direttamente deve essere fatto
senza alcun intermediario, senza alcuna delega, o da
delegati ridotti al ruolo di mandatari con delega univoca,
che agiscono sotto il continuo controllo dei mandanti
[…]. È ai distretti, ai cittadini riuniti in assemblee
generali di distretto, che appartiene il diritto ultimo di
legiferare e di amministrare nella Comune».
Appare così evidente che i princìpi dell’anarchismo,
espressi qualche anno dopo in Inghilterra da William
56
Godwin, datano già dal 1789, e che essi hanno avuto
origine non in speculazioni teoriche ma nei fatti della
Grande Rivoluzione. [...]
Una nuova Francia è nata da questi quattro anni di
rivoluzione. Per la prima volta dopo secoli il contadino
mangia a sazietà. Raddrizza la schiena! Osa parlare!
Bisogna leggere i rapporti particolareggiati sul ritorno
di Luigi XVI a Parigi, quando viene riportato prigioniero
da Varennes, nel giugno del 1791, dai contadini, e chiedersi:
«Una cosa simile, un tale interesse per la cosa
pubblica, una tale devozione, e una totale indipendenza
di giudizio e di azione, potevano essere possibili prima
del 1789?». Stava nascendo una nuova nazione, proprio
come oggi vediamo nascere una nuova nazione in Russia
e in Turchia.
Ed è grazie a questa rinascita che la Francia sarà in
grado di reggere tutte le guerre della Repubblica e di
Napoleone, e di portare i princìpi della Grande Rivoluzione
in Svizzera, Italia, Spagna, Belgio, Olanda e Germania
sino ai confini della Russia. E quando, dopo tutte
quelle guerre, dopo aver visto le armate francesi arrivare
sino in Egitto e a Mosca, ci aspetteremmo di trovare
la Francia del 1815 impoverita, devastata, ridotta alla
miseria, troviamo invece che le campagne – persino
quelle dell’Est e del Giura – sono molto più prospere di
quello che erano ai tempi in cui Pétion, mostrando a
Luigi XVI le rive lussureggianti della Marna, gli chiese
se ci fosse in nessun’altra parte del mondo un regno più
bello di quello.
L’energia interiore accumulatasi nei villaggi è tale
che in pochi anni la Francia diventerà un Paese di contadini
benestanti, e ben presto si scoprirà che nonostante
tutto il sangue versato e le perdite subite, la
Francia, in termini di produttività, è il Paese più ricco
d’Europa. E la sua ricchezza non la ricava dalle Indie o
dal suo commercio con Paesi lontani, ma viene dal suo
suolo, dal suo amore per la terra, dalla sua abilità e
57
industriosità. È il Paese più ricco grazie alla redistribuzione
della sua ricchezza, ed è ancora più ricco grazie
alle possibilità che offre per il futuro.
È stato questo l’effetto della rivoluzione. E se uno
sguardo distratto non vede nella Francia di Napoleone
che l’amore per la gloria, lo storico si rende conto che
persino le guerre condotte dalla Francia in quel periodo
sono state intraprese per assicurare i frutti della rivoluzione,
ovvero le terre riprese ai signori, ai preti e ai possidenti,
e le libertà sottratte al dispotismo e alla monarchia.
Se la Francia è disposta in quegli anni a dissanguarsi
a morte soltanto per impedire a tedeschi, inglesi
e russi di imporre un Luigi XVIII, ciò è avvenuto perché
non vuole che il ritorno dei nobili emigrati possa significare
che i ci-devants, «quelli di prima», si riprendano le
terre bagnate dal sudore dei contadini e le libertà
bagnate dal sangue dei patrioti. E la Francia combatte
così bene per ventitré anni che, quando alla fine è
costretta a riammettere i Borboni, riesce a imporgli le
proprie condizioni: che i Borboni regnino pure, ma le
terre dovranno rimanere a coloro che se le sono riprese
dai signori feudali. E lo stesso Terrore bianco dei Borboni
non oserà toccarle. Il vecchio regime non sarà più
restaurato.
Questo è ciò che si conquista facendo una rivoluzione.
Ma ci sono altre cose che vanno evidenziate. Nella
storia dei popoli arriva un momento in cui s’impone un
mutamento profondo di tutta la vita nazionale. Nel
1789 il dispotismo monarchico e il feudalesimo stanno
morendo: non è più possibile mantenerli, bisogna
rinunciarvi.
A questo punto si aprono due vie: riforma o rivoluzione.
C’è sempre un momento in cui la riforma è ancora
possibile. Ma se non si è approfittato di quel momento,
se si è opposta un’ostinata resistenza alle esigenze del
nuovo modo di vivere, sino al punto di far scorrere il
sangue nelle strade, come il 14 luglio 1789, allora non
58
può esserci che la rivoluzione. E una volta che la rivoluzione
ha inizio, deve necessariamente svilupparsi sino
alle sue estreme conseguenze, cioè sino al punto più
alto che, in sintonia con lo spirito dei tempi, sarà capace
di raggiungere, pur se solo temporaneamente.
Se si rappresenta il lento progredire di un periodo di
evoluzione con una linea tracciata su un grafico, si constaterà
che questa linea gradualmente, anche se lentamente,
si innalza. Ma ecco che sopraggiunge una rivoluzione
e la linea s’impenna facendo un improvviso balzo
verso l’alto. In Inghilterra la linea mostrerebbe
un’impennata al tempo della Repubblica puritana di
Cromwell; in Francia s’impennerebbe al tempo della
Repubblica sans-culotte del 1793. Tuttavia, l’andamento
non può mantenersi a questo livello; tutte le forze
ostili si coalizzano contro e, dopo aver raggiunto questi
picchi, le repubbliche crollano e le linee scendono.
Segue la reazione e, quantomeno in politica, la linea del
progresso precipita. Ma a poco a poco si alza di nuovo e
quando torna la pace – nel 1815 in Francia e nel 1688
in Inghilterra – entrambi i Paesi si trovano a un livello
molto più alto di quello che avevano prima delle loro
rivoluzioni.
Si torna all’evoluzione, e la nostra linea ricomincia a
salire lentamente. Ma questa ascesa parte da un livello
molto più elevato di quello rilevato prima della turbolenza,
e quasi sempre la sua crescita sarà più rapida.
Questa è una legge del progresso umano, ed anche
del progresso individuale. E la storia della Francia
moderna, che passa attraverso la Comune per arrivare
alla Terza Repubblica, conferma proprio questa legge.
L’opera della Rivoluzione francese non si limita solo
a ciò che ha ottenuto e che ha realizzato in Francia, ma
la si ritrova anche nei princìpi che ha tramandato al
secolo successivo, nell’orientamento con cui ha contrassegnato
il futuro.
Una riforma è sempre un compromesso con il passato,
mentre il progresso ottenuto tramite una rivoluzione
è sempre una promessa di progresso futuro. Se la Gran-
59
de Rivoluzione francese riassume in sé un secolo di evoluzione,
sarà poi lei a impostare il programma d’evoluzione
che segnerà il corso del XIX secolo. […]
I popoli si sforzano di realizzare nelle proprie istituzioni
l’eredità ricevuta dalla precedente rivoluzione.
Tutto ciò che essa non ha potuto mettere in pratica, tutte
le grandi idee messe in circolo durante quel periodo
turbolento ma che la rivoluzione non ha potuto o saputo
applicare, tutti i tentativi di ricostruzione sociologica
nati durante la rivoluzione, tutto questo costituirà il
contenuto dell’evoluzione che seguirà a tale rivoluzione.
A ciò si aggiungeranno le nuove idee cui questa evoluzione
darà vita quando cercherà di mettere in pratica il
programma ereditato dall’ultimo sommovimento. Poi,
una nuova grande rivoluzione avrà luogo in qualche
altra nazione, ed essa fisserà, a sua volta, i punti di
riferimento dell’epoca successiva.
È stato appunto questo il cammino della storia.
Due grandi conquiste, in effetti, hanno caratterizzato
il secolo seguito agli eventi del 1789-1793. Entrambe
hanno avuto la propria origine nella Rivoluzione francese,
che a sua volta portava avanti l’opera della Rivoluzione
inglese, ampliandola e rinvigorendola con tutto
il progresso fatto dopo che la borghesia inglese aveva
tagliato la testa al suo re trasferendone il potere al parlamento.
Queste due grandi conquiste sono l’abolizione
della servitù e l’abolizione dell’assolutismo, conquiste
che hanno conferito all’individuo libertà personali inimmaginabili
per il servo della gleba e per il suddito del
sovrano assoluto, ma che allo stesso tempo hanno portato
anche allo sviluppo della borghesia e del regime
capitalistico.
60
III
Il testo kropotkiniano più importante relativo alle
questioni metodologiche è La scienza moderna e l’anarchia,
uscito per la prima volta a Parigi nel 1913. L’opera
riassume i temi attinenti al rapporto fra anarchismo
e scienza e stabilisce il primato assoluto della conoscenza
e della ragione nel processo di emancipazione umana.
Kropotkin inserisce la tradizione anarchica nell’alveo
dell’Illuminismo, con l’intento di operare una rottura
radicale con la cultura storicistica e, in modo particolare,
con l’hegelismo. Egli vuole portare l’anarchismo
fuori dall’ambito della filosofia idealistica e, in generale,
fuori da ogni ascendenza vitalistica, mistica, irrazionale.
La critica alla dialettica hegeliana e marxista è, a
questo proposito, emblematica.
L’anarchismo, per non imboccare la strada inconcludente
della mistificazione del reale, deve rimanere saldamente
agganciato alla grande cultura razionalistica
nata con l’Illuminismo. Specificamente, l’identificazione
è fra il metodo anarchico e quello induttivo delle scienze
naturali. Lo scopo è quello di evidenziare, nell’accostamento
metodologico, la sostanziale analogia fra natura
e anarchia. In questo modo lo sperimentalismo scientifico
per il suo carattere di «apertura», di «modificabilità»,
per il suo costituzionale antidogmatismo svolge, in un
61
certo senso, una funzione analoga a quella svolta dal
pluralismo all’interno del procedimento proprio dell’anarchismo.
L’analogia fra sperimentalismo e pluralismo
è data dalla comune natura di essere entrambi un
metodo regolativo più che costitutivo rispetto al problema
di una costruzione sociale e di un pari sviluppo
scientifico.
Kropotkin però non si limita ad una identificazione
attinente all’ambito metodologico, ma amplia tale identificazione
al campo più vasto dell’idea anarchica e del
concetto di natura, fondendo così scienza e anarchia in
una Weltanschauung di forte significato generalizzante.
A questo proposito Kropotkin fa coincidere il metodo
scientifico con la metodologia anarchica fondata sulla
coerenza logica ed etica fra mezzi e fini. L’adeguamento
dei mezzi ai fini vuol significare che la scienza deve
essere completamente al servizio di una volontà, di
un’idea. Se si considera come in questa metodologia si
evidenzia la dimensione più rivoluzionaria dell’anarchismo,
è possibile a questo punto vedere il senso di tale
coniugazione e dunque il tentativo di superare la stessa
concezione meramente deterministica dell’identificazione
fra scienza e anarchia. Il rapporto della necessaria
coerenza tra metodo e scopo ci dice infatti che i fini non
possono essere raggiunti che attraverso l’adeguamento
dei mezzi alla natura dei fini stessi. Ciò comporta un
intervento volontario e cosciente della mano rivoluzionaria
nella modificazione continua della prassi, un intervento
che non fa altro che rimandare ad una considerazione
fondamentale: e cioè che gli scopi – anche se estrapolati
da tendenze latenti del presente – devono essere
collocati volontariamente a dispetto di ogni contingenza.
Sono, in altri termini, immessi coscientemente nel processo
storico come obiettivi determinati.
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione
di Ginevra del 1913 de La scienza moderna e
l’anarchia.
62
QUESTIONI DI METODO
Benché l’anarchia, in ciò simile a tutte le correnti
rivoluzionarie, sia nata in seno al popolo, nel tumulto
della lotta e non nello studio di un pensatore, è però
utile capire dove si colloca fra le diverse correnti del
pensiero scientifico e filosofico contemporaneo. Come si
pone di fronte a queste diverse correnti? A quale fa riferimento
di preferenza? Quale metodo di ricerca adopera
per avallare le sue conclusioni? In altre parole, a quale
scuola di filosofia del diritto appartiene l’anarchia? Con
quale corrente della scienza moderna presenta le maggiori
affinità?
Di fronte all’entusiasmo per la metafisica economica
che abbiamo visto recentemente nei circoli socialisti,
questa questione è di qualche interesse. Cercherò, quindi,
di rispondervi brevemente e nel modo più semplice
63
possibile, evitando i termini difficili ogni volta che si
possono evitare.
Il movimento intellettuale del XIX secolo ha le sue
origini nell’opera dei filosofi inglesi e francesi elaborata
tra la metà e la fine del secolo precedente. Il risveglio
del pensiero determinatosi in quell’epoca ispirò a questi
pensatori il desiderio di raccogliere tutte le umane conoscenze
in un sistema generale: il sistema della natura.
Rifiutando interamente la scolastica e la metafisica
medievale, ebbero il coraggio di posare il loro sguardo
su tutta la natura – il mondo delle stelle, il nostro sistema
solare, la Terra e lo sviluppo delle piante, degli animali
e delle società umane sulla sua superficie – come
su una serie di fatti che possono essere studiati allo
stesso modo in cui si studiano tutte le scienze naturali.
Avvalendosi ampiamente del vero metodo scientifico
– il metodo induttivo-deduttivo – quei pensatori intrapresero
l’esame di tutto ciò che la natura ci offre, tanto
del mondo stellare o animale quanto di quello delle credenze
e delle istituzioni umane, in modo del tutto eguale
a quello che avrebbe adoperato un naturalista per
studiare problemi di fisica.
Essi annotavano dapprima con pazienza i fatti e
quando, in seguito, si mettevano a trarne delle generalizzazioni,
lo facevano per via induttiva. Avanzavano,
naturalmente, talune ipotesi, ma a queste ipotesi non
attribuivano maggiore importanza di quella che Darwin
aveva attribuito alla sua ipotesi sull’origine delle
nuove specie nella lotta per l’esistenza, o che Mendeleeff
aveva attribuito alla sua ipotesi sulla tavola periodica
degli elementi. Essi non vi vedevano che delle supposizioni,
le quali offrivano una spiegazione provvisoria
facilitando l’aggregazione dei fatti e il loro esame, ma
non dimenticavano affatto che tali supposizioni dovevano
essere confermate dalla compatibilità con una moltitudine
di altri fatti e che andavano spiegate anche per
via deduttiva. Queste non potevano diventare «leggi»
(cioè generalizzazioni provate) se non dopo essere stata
sottoposte a tale verifica e solo dopo che le cause dei
64
rapporti costanti da loro espressi fossero state spiegate.
Quando il centro del movimento filosofico del XVIII
secolo passò dalla Scozia e dall’Inghilterra alla Francia,
i filosofi francesi, con la propensione per la sistematicità
che è loro propria, si misero a ricostruire su un piano
generale e secondo gli stessi princìpi, tutte le conoscenze
umane, naturali e storiche. Quello che tentarono
fu di fondare il sapere generale – la filosofia dell’universo
e della sua vita – con un metodo strettamente scientifico,
respingendo quindi tutte le costruzioni metafisiche
dei filosofi precedenti e spiegando tutti i fenomeni
con l’azione di quelle forze fisiche (vale a dire meccaniche)
che avevano ritenuto sufficienti a spiegare l’origine
e l’evoluzione del globo terrestre. […]
Risulta così evidente che i pensatori del XVIII secolo
non cambiavano di metodo quando nei loro studi passavano
dal mondo delle stelle a quello delle reazioni chimiche,
o dal mondo fisico e chimico a quello della vita
delle piante e degli animali, o a quello delle dinamiche
economiche e politiche della società, o delle forme evolutive
delle religioni, e così via. Il metodo era sempre lo
stesso. A tutte le branche della scienza essi applicavano
sempre il metodo induttivo. E poiché non trovarono
mai, tanto nello studio delle religioni quanto nell’analisi
del senso morale e del pensiero in generale, anche un
solo punto in cui tale metodo si rivelasse insufficiente e
un altro se ne imponesse; poiché non si videro mai
costretti a ricorrere né a concezioni metafisiche (dio,
anima immortale, forza vitale, imperativo categorico
ispirato da un essere superiore, ecc.), né a qualsivoglia
metodo dialettico, essi cercarono di spiegare tutto l’universo
e i suoi fenomeni con il sistema NATURALISTA. [...]
Quale posto occupa dunque l’anarchia nel grande
movimento intellettuale del XIX secolo? La risposta a
questa domanda è venuta delineandosi in base a quan-
65
to abbiamo già detto precedentemente. L’anarchia è
una concezione dell’universo basata su un’interpretazione
meccanica dei fenomeni (meglio sarebbe dire cinetica,
ma è parola meno conosciuta) che abbraccia tutta
la natura, ivi compresa la vita delle società. Il suo
metodo è quello delle scienze naturali, e in base a questo
metodo ogni conclusione scientifica dev’essere verificata.
La sua tendenza è di fondare una filosofia di sintesi,
che includa tutti i fatti della natura, compresa la
vita delle società umane e i loro problemi economici,
politici e morali; senza però cadere negli errori nei quali
incorsero, per le ragioni già indicate, Comte e Spencer.
È dunque evidente che per ciò stesso l’anarchia, di
fronte a tutte le questioni poste dalla vita moderna,
deve necessariamente dare risposte diverse e assumere
atteggiamenti diversi da quelli di tutti gli altri partiti
politici, non eccettuato in buona misura il Partito socialista,
che non si è ancora sbarazzato delle vecchie finzioni
metafisiche.
Indubbiamente, l’elaborazione di una concezione
meccanica complessiva della natura e delle società
umane non è che ai suoi esordi per quanto riguarda gli
aspetti sociologici, che trattano appunto della vita e
dell’evoluzione delle società. Tuttavia, il poco che si è
fatto finora presenta già – talvolta addirittura in modo
inconscio – il carattere che abbiamo indicato. Nella filosofia
del diritto, nella teoria della morale, nell’economia
politica e nello studio della storia dei popoli e delle istituzioni,
gli anarchici hanno già dimostrato di non
accontentarsi di soluzioni metafisiche, ma di voler dare
alle loro conclusioni un fondamento naturalista. Essi
non si lasciano suggestionare dalla metafisica di Hegel,
di Schelling e di Kant, dai commentatori del diritto
romano e del diritto canonico, dai dotti professori di
diritto dello Stato o dall’economia politica dei metafisici;
piuttosto, cercano di rendersi esattamente conto dei
vari problemi emersi in questi campi, rifacendosi agli
studi con la prospettiva naturalista compiuti negli ultimi
quaranta-cinquanta anni.
66
Proprio come la filosofia materialista (meccanica, o
meglio cinetica) ha abbandonato le concezioni metafisiche
del tipo «Spirito universale», «Forza creatrice della
natura», «Attrazione simpatica della materia», «Incarnazione
dell’Idea», «Finalità della Natura e sua Ragion
d’essere», «Inconoscibile», «Umanità» intesa nel senso di
entità animata dal «Soffio dello Spirito», ecc., mentre
gli embrioni delle generalizzazioni occultate dietro queste
parole sono stati tradotti nel linguaggio concreto dei
fatti, così noi ci sforziamo di fare altrettanto quando ci
mettiamo ad esaminare i fatti della vita in società.
Quando i metafisici vogliono persuadere il naturalista
che la vita intellettuale e passionale dell’uomo si
svolge secondo «le leggi immanenti dello Spirito», il
naturalista scrolla le spalle e continua la sua indagine
paziente dei fenomeni della vita, dell’intelligenza, delle
passioni, al fine di dimostrare che tutti questi possono
essere ridotti a fenomeni fisici e chimici. Egli cerca di
scoprire le loro leggi naturali.
Parimenti, quando si viene a dire ad un anarchico
che secondo Hegel «ogni evoluzione rappresenta una
tesi, un’antitesi e una sintesi», oppure che «il diritto ha
per fine l’instaurazione della giustizia, che rappresenta
la sustanziazione materiale dell’Idea suprema», o ancora
quando gli si chiede qual è secondo lui «lo scopo della
vita», anche l’anarchico scrolla le spalle e si domanda:
«Come mai, nonostante lo sviluppo attuale delle scienze
naturali, si possono trovare ancora uomini tanto arretrati
da credere a simili baggianate? Uomini tanto
retrogradi che parlano ancora la lingua del selvaggio
primitivo, il quale ‘antropomorfizzava’ la natura, credendola
governata da esseri fatti a somiglianza
dell’uomo?».
Gli anarchici non subiscono il fascino delle «parole
altisonanti» poiché sanno che queste parole servono
sempre a coprire l’ignoranza – cioè l’investigazione
incompiuta – o, il che è peggio, la superstizione. Ecco
perché, quando si parla loro questo linguaggio, passano
oltre, senza fermarsi, portando avanti il loro studio del-
67
le concezioni sociali e delle istituzioni del passato e del
presente in base al metodo naturalista. E così scoprono
che lo sviluppo della vita sociale è infinitamente più
complesso (e ben più interessante dal punto di vista
pratico) di quanto si potrebbe supporlo attenendosi alle
formulazioni precedenti.
Recentemente, si è molto sentito parlare del metodo
dialettico, che i socialdemocratici raccomandano per
elaborare l’ideale socialista. Noi non accettiamo affatto
questo metodo, che del resto non è riconosciuto da nessuna
scienza naturale. Al naturalista moderno questo
«metodo dialettico» ricorda qualcosa di molto vecchio, di
già vissuto e che fortunatamente la scienza ha dimenticato
da un pezzo. Non una delle grandi scoperte del XIX
secolo – in meccanica, astronomia, fisica, chimica, biologia,
psicologia o antropologia – si deve al metodo dialettico.
Tutte invece sono frutto del metodo induttivodeduttivo,
il solo veramente scientifico. E poiché l’uomo
è parte della natura, poiché la sua vita personale e
sociale è anch’essa un fenomeno della natura – alla
stessa stregua della crescita di un fiore o dell’evoluzione
della vita sociale di formiche e api – non vi è alcuna
ragione perché, passando dal fiore all’uomo, da un
gruppo di castori a una città umana, noi si debba
abbandonare il metodo che ci ha servito così bene fino a
questo momento per cercarne un altro nell’arsenale della
metafisica.
Il metodo induttivo-deduttivo che adoperiamo nelle
scienze naturali si è rivelato talmente efficace che, nel
corso del XIX secolo, la scienza ha fatto in cento anni
più progressi che nei due millenni precedenti. E da
quando si è cominciato (nella seconda metà di quel
secolo) ad applicare questo metodo anche allo studio
delle società umana, non ci si è mai minimamente trovati
nella necessità di doverlo rigettare per far ritorno
alla scolastica medievale resuscitata da Hegel. [...]
Aggiungiamo ancora una parola. L’indagine scientifica
non è fruttuosa se non a condizione di avere un
obiettivo determinato, d’essere, cioè, intrapresa con
68
l’intenzione di trovare una risposta a una questione
chiara e ben definita. Qualsiasi ricerca sarà tanto più
fruttuosa quanto meglio verranno identificate le relazioni
esistenti fra la questione posta e le linee fondamentali
della nostra concezione generale dell’universo.
Quanto più una data questione rientra in questa concezione
generale, tanto più facile ne sarà la soluzione.
Orbene, la questione che l’anarchia si propone di
risolvere potrebbe esprimersi come segue: «Quali sono
le forme sociali che in una data società, e per estensione
a tutta l’umanità, possono meglio garantire il massimo
di benessere e, di conseguenza, il massimo di vitalità?
Quali forme sociali favoriscono meglio l’accrescimento
di questo benessere, il suo sviluppo quantitativo e qualitativo
consentendogli così di divenire quanto più completo
e generale possibile (cosa che, sia detto fra parentesi,
ci dà anche la formula del progresso)?». Il desiderio
di aiutare in questo senso l’evoluzione determina le
caratteristiche proprie all’anarchico nella sua attività
sociale, scientifica, artistica, ecc. […]
Gli anarchici, guidati da diverse considerazioni
d’ordine storico, politico ed economico, come pure dagli
insegnamenti della vita moderna, giungono, come si è
detto, a una concezione della società ben differente da
quella cui si rifanno i vari partiti politici, che mirano
tutti ad arrivare al potere.
Noi ci rappresentiamo una società in cui le relazioni
tra i suoi membri non sono più regolate dalle leggi, eredità
d’un passato d’oppressione e barbarie, o da qualsivoglia
autorità, eletta o al potere per diritto ereditario,
ma da impegni reciproci liberamente presi e sempre
revocabili, come pure da usi e costumi liberamente concordati.
Questi costumi, però, non devono essere pietrificati
e cristallizzati dalla legge o dalla superstizione,
ma è bene che abbiano uno sviluppo continuo, adattandosi
ai nuovi bisogni, ai progressi del sapere e delle
invenzioni, e al crescere d’un ideale sociale sempre più
69
razionale ed elevato.
Quindi, nessuna autorità che imponga agli altri la
propria volontà. Nessun governo dell’uomo sull’uomo.
Nessuna immobilità nella vita, ma un’evoluzione continua,
alcune volte più rapida, altre volte più lenta, proprio
come nella vita della natura. Piena libertà d’azione
all’individuo per lo sviluppo di tutte le sue capacità
naturali, della sua individualità, di ciò che può avere
d’originale, di personale. In altre parole, nessuna azione
imposta all’individuo sotto minaccia d’una punizione
sociale, qualunque essa sia, o d’una pena soprannaturale,
mistica: la società non chiede nulla all’individuo che
questi non abbia liberamente consentito di fare nel
momento stesso in cui lo fa. E inoltre, uguaglianza completa
di diritti per tutti.
Noi siamo dunque a favore di una società di uguali,
senza alcuna coercizione di sorta, e malgrado quest’assenza
di coercizione non temiamo affatto che gli atti
antisociali di alcuni individui possano assumere in una
società di uguali proporzioni pericolose. Una società di
uomini liberi saprà salvaguardarsi meglio delle nostre
società attuali, che demandano la difesa della moralità
sociale alla polizia, alle spie, alle prigioni (università
del crimine), agli aguzzini, ai carnefici e ai loro complici.
Soprattutto, essa saprà prevenire tali atti.
È evidente che, sino ad oggi, non è mai esistita una
società che abbia praticato questi princìpi. Ma in ogni
tempo l’umanità ha manifestato una tendenza ad una
loro realizzazione. Ogni volta che certi settori della
società riuscivano, per un certo periodo, a rovesciare le
autorità che li opprimevano, o a cancellare le ineguaglianze
esistenti (schiavitù, servaggio, autocrazia,
governo di certe caste o classi); ogni volta che una nuova
luce di libertà e d’uguaglianza si sprigionava nella
società, il popolo, gli oppressi, cercavano di mettere in
pratica, anche solo parzialmente, i princìpi appena
enunciati.
Possiamo dire, quindi, che l’anarchia è uno specifico
ideale di società che differisce in modo essenziale da
70
quanto è stato preconizzato sino ad oggi dalla maggior
parte dei filosofi, degli intellettuali e degli uomini politici,
che hanno tutti avuto la pretesa di governare gli
uomini e di dar loro delle leggi. Non è mai stata l’ideale
dei privilegiati, ma è spesso stata l’ideale più o meno
cosciente delle masse.
Nondimeno, sarebbe falso affermare che questa concezione
della società sia un’utopia dato che nel linguaggio
ordinario si attribuisce a questa parola l’idea di
qualche cosa che non si può realizzare. [...]
Nel nostro caso è ancora più errato parlare d’utopia
in quanto le tendenze da noi identificate hanno già avuto
una parte assai importante nella storia della civiltà,
poiché sono esse che hanno dato origine al diritto consuetudinario,
diritto che ha dominato in Europa dal V
al XVI secolo. Ora queste tendenze si vanno nuovamente
affermando in quelle società che per più di tre secoli
hanno sperimentato lo Stato. È su questa osservazione,
la cui importanza non sfuggirà allo storico della civiltà,
che ci basiamo per considerare l’anarchia come un ideale
possibile, realizzabile. [...]
«Utopisti» sono stati coloro che, guidati solamente
dai loro desideri, non hanno voluto tener conto delle
tendenze nuove che si facevano strada; sono stati coloro
che hanno attribuito troppa stabilità alle cose del passato,
senza chiedersi se non fossero semplicemente il
risultato di certe condizioni storiche temporanee. [...]
Se i monopoli costituiti e consolidati dallo Stato cessassero
d’esistere, lo Stato stesso non avrebbe più
ragion d’essere. E una volta che i rapporti tra gli uomini
non fossero più quelli tra sfruttati e sfruttatori, nuove
forme di aggregazione sorgerebbero. La vita si semplificherebbe
se il meccanismo che permette ai ricchi di
sfruttare il lavoro dei poveri venisse disattivato.
L’idea di comunità indipendenti per aggregazioni in
base al territorio e di ampie federazioni di mestiere per
aggregazioni in base alla funzione sociale – dove le due
71
s’intersecano e cooperano al fine di soddisfare i bisogni
della società – permette agli anarchici di concepire in
modo concreto, reale, la possibile organizzazione di una
società emancipata. Non ci resta che aggiungere le
aggregazioni in base alle affinità personali – aggregazioni
innumerevoli, che possono variare all’infinito,
essere di lunga durata o effimere, costituirsi in base
alle necessità del momento e per gli scopi più disparati
– che già abbiamo visto sorgere nella società attuale al
di fuori dei raggruppamenti politici e professionali.
Questi tre tipi di aggregazione, che s’intrecciano tra
loro in una grande rete, consentirebbero di soddisfare
tutti i bisogni sociali: il consumo, la salute, l’istruzione,
la protezione reciproca dalle aggressioni, il mutuo
appoggio, la difesa del territorio, e anche la soddisfazione
dei bisogni di tipo scientifico, artistico, letterario,
ludico. Un insieme pieno di vita e sempre pronto a
rispondere con nuovi adattamenti ai nuovi bisogni e
alle nuove influenze dell’ambiente sociale e intellettuale.
Se una società di questo tipo si sviluppasse su un territorio
abbastanza vasto e popolato da permettere una
gran varietà di inclinazioni e bisogni, sarebbe subito
evidente che la coercizione di un’autorità, qualunque
essa sia, sarebbe del tutto inutile. Inutile tanto per
mantenere la vita economica della società che per impedire
la maggior parte degli atti antisociali.
In effetti, il più grave impedimento a sviluppare e
mantenere nello stato attuale il senso morale, necessario
alla vita in società, risiede innanzi tutto nell’assenza
dell’uguaglianza. Senza uguaglianza – «senza uguaglianza
di fatto», come si diceva nel 1793 – è assolutamente
impossibile che il sentimento di giustizia si generalizzi.
La giustizia non può che essere egualitaria,
mentre i sentimenti egualitari in questa nostra società
stratificata in classi sono smentiti in ogni istante e in
ogni situazione. È necessario praticare l’uguaglianza
perché i sentimenti di giustizia verso tutti entrino nei
costumi, nelle consuetudini. Ed è appunto quello che
72
accadrà in una società di uguali.
Allora, il bisogno di un’autorità coercitiva, o piuttosto
il desiderio di ricorrere alla coercizione, non si farebbe
più sentire. Si maturerebbe la convinzione che la
libertà dell’individuo non ha bisogno di essere limitata,
come lo è oggi, dal timore di una punizione, legale o
mistica, oppure dall’ubbidienza ad individui ritenuti
superiori o ad entità metafisiche create dalla paura o
dall’ignoranza; cosa che porta nella società attuale alla
servitù intellettuale, alla riduzione dell’iniziativa personale,
al decadimento del senso morale, all’arresto del
progresso.
In un contesto egualitario, l’uomo potrebbe lasciarsi
guidare con fiducia dalla propria ragione, che essendosi
sviluppata in questo stesso ambiente avrebbe necessariamente
l’impronta delle abitudini sociali che gli sono
proprie. E potrebbe dunque proporsi di conseguire il
pieno sviluppo di tutte le sue facoltà, il pieno sviluppo,
cioè, della sua individualità. All’opposto di quell’individualismo
preconizzato ai nostri giorni dalla borghesia
come un mezzo «adatto alle nature superiori» per arrivare
al pieno sviluppo dell’essere umano, che altro non
è se non un inganno. Questo individualismo è anzi
l’ostacolo più sicuro allo sviluppo di individualità forti.
[…]
Quando un economista ci viene a dire: «In un mercato
assolutamente aperto, il valore delle merci si misura
in base alla quantità di lavoro socialmente necessaria
per produrre queste merci» (si veda Ricardo, Proudhon,
Marx e tanti altri), non accettiamo quest’asserzione
come un articolo di fede solo perché è stata enunciata
da tali autorità, oppure perché appare «massimamente
socialista» affermare che il lavoro è la vera misura dei
valori mercantili. È possibile che sia vero, diciamo. Ma
non vi accorgete che, facendo questa affermazione,
ammettete implicitamente che il valore e la quantità
del lavoro necessario sono proporzionali, proprio come
73
la velocità di un corpo che cade è proporzionale ai
secondi di durata della caduta? Viene così affermata
una certa relazione quantitativa fra queste due grandezze.
E allora, avete forse fatto delle misurazioni, delle
osservazioni quantitativamente misurate, che sole
potrebbero confermare una tale asserzione a proposito
delle quantità?
Dire che in generale il valore di scambio aumenta se
la quantità di lavoro necessario è maggiore, è ammissibile.
Ed è da parecchio tempo che Adam Smith si è
espresso in questo senso. Ma concludere che, per conseguenza,
le due quantità sono proporzionali, e che una è
la misura dell’altra, significa commettere un errore
grossolano. Grossolano come affermare, ad esempio,
che la quantità di pioggia che cadrà domani sarà proporzionale
alla quantità di millimetri che il barometro
segnerà al di sotto della media stabilita per il tal luogo
e per la tal stagione. Chi per primo ha notato che esiste
una certa correlazione tra il basso livello del barometro
e la quantità di pioggia che cade, o chi per primo ha
constatato che una pietra caduta da una grande altezza
acquista una velocità superiore a una pietra caduta da
appena un metro, ha fatto delle scoperte scientifiche
(come appunto ha fatto Adam Smith per il valore). Ma
l’uomo che venisse dopo di essi ad affermare che la
quantità di pioggia caduta si misura da quanto il barometro
è sceso al di sotto della media, oppure che lo spazio
percorso da una pietra che cade è proporzionale alla
durata della caduta e si misura secondo questa, ci
direbbe delle bestialità. E proverebbe inoltre che il
metodo di ricerca scientifica gli è assolutamente estraneo
e che il suo lavoro non è scientifico, per quanto zeppo
sia di parole riprese dal gergo della scienza.
Notiamo inoltre che se a mo’ di scusa ci si nascondesse
dietro la mancanza di dati precisi per stabilire, grazie
a misurazioni esatte, il valore d’una data merce e la
quantità di lavoro necessaria per produrla, questa scusa
non sarebbe affatto unica. Conosciamo nelle scienze
esatte migliaia di casi simili, di correlazioni nelle quali
74
vediamo nettamente che una data quantità dipende da
un’altra, che una s’accresce quando l’altra pure s’accresce.
Come nel caso, ad esempio, della rapidità di sviluppo
d’una pianta che dipende, fra l’altro, dalla quantità
di calore e di luce che la pianta riceve, o come in quello
del rinculo d’un cannone che aumenta quando aumenta
la quantità di polvere bruciata nella carica.
Tuttavia, quale scienziato degno di questo nome avrà
la ridicola pretesa di affermare – prima d’aver misurato
in quantità i loro rapporti – che, di conseguenza, la
rapidità di crescita d’una pianta e la quantità di luce
ricevuta, oppure il rinculo del cannone e la carica di
polvere bruciata, sono quantità proporzionali; che l’una
aumenta due, tre, dieci volte se l’altra aumenta nella
stessa proporzione, cioè se, in altre parole, si commisurano,
come viene affermato per il valore e il lavoro da
Ricardo in poi?
E ancora, chi mai, dopo aver fatto l’ipotesi, la supposizione,
che un rapporto di tal genere esista fra le due
dette quantità, oserebbe presentare questa ipotesi come
una legge? Non ci sono che economisti o giuristi – uomini
che non hanno alcuna idea di ciò che viene concepito
come «legge» nelle scienze naturali – a fare simili affermazioni.
Generalmente, il rapporto fra due quantità è estremamente
complesso, come è appunto nel caso del valore
e del lavoro; nello specifico, il valore di scambio e la
quantità di lavoro non sono mai proporzionali l’uno
all’altra, l’uno non misura mai l’altra. È ciò che aveva
già fatto notare Adam Smith. Dopo aver detto che il
valore di scambio di ogni oggetto si misura con la quantità
di lavoro necessaria per produrre questo oggetto, si
è visto costretto ad aggiungere (in seguito ad uno studio
dei valori mercantili) che se ciò avveniva nel regime di
scambio primitivo, non era più così nel regime capitalista.
Cosa perfettamente vera. Il regime capitalista del
lavoro obbligato e dello scambio finalizzato al profitto
distrugge questi semplici rapporti e introduce parecchi
nuovi fattori che alterano i rapporti tra lavoro e valore
75
di scambio. Ignorarli vuol dire smettere di fare economia
politica. Vuol dire imbrogliare le idee e impedire lo
sviluppo della scienza economica.
L’osservazione appena fatta per il valore s’applica a
quasi tutte le affermazioni economiche che oggi circolano
come verità stabilite (specialmente tra i socialisti
che amano definirsi scientifici) e che vengono presentate,
con impagabile ingenuità, come leggi naturali. Non
solamente la maggior parte di queste pretese leggi sono
del tutto erronee, ma siamo pure convinti che coloro che
ci credono se ne accorgerebbero subito da sé se solo
arrivassero a comprendere la necessità di verificare le
loro affermazioni quantitative con delle ricerche altrettanto
quantitative.
Del resto, tutta l’economia politica si presenta a noi
anarchici sotto un aspetto differente da quello attribuitole
dagli economisti, siano essi borghesi o socialdemocratici.
Essendo il metodo scientifico induttivo assolutamente
estraneo a entrambi, non si rendono affatto conto
di cosa sia una «legge naturale», malgrado la predilezione
che hanno per questa espressione. Essi non
s’accorgono che ogni legge di natura ha un carattere
condizionale, che si esprime sempre così: «Se nella
natura si presentano queste condizioni, il risultato sarà
questo o quest’altro… Se una linea retta interseca
un’altra linea retta, in modo da formare degli angoli
uguali dalle due parti del punto d’intersezione, le conseguenze
saranno le seguenti… Se i movimenti che esistono
nello spazio interplanetario agiscono in modo
esclusivo sopra due corpi, e se dunque non si incontrano
altri corpi agenti su questi due a una distanza che
non sia infinita, allora i centri di gravità dei due corpi
si avvicinano a quella data velocità (legge della gravitazione
universale)». E così di seguito, ma sempre con il
suo se, sempre con una condizione.
Di conseguenza, tutte le pretese leggi e teorie
dell’economia politica non sono in realtà che affermazioni
che rispondono a quanto segue: «Ammettendo che
si trovi sempre in un dato Paese una quantità conside-
76
revole di persone che non possono vivere né un mese e
neppure quindici giorni senza accettare le condizioni di
lavoro che vorrà loro imporre lo Stato (sotto forma di
imposte), o che saranno loro offerte da quelli che lo Stato
riconosce come proprietari del suolo, delle officine,
delle ferrovie, ecc., ecco le conseguenze che ne risulteranno…
».
Fino ad oggi, l’economia politica non è stata altro che
una enumerazione di ciò che succede in simili condizioni:
senza però enumerare e analizzare le condizioni
stesse, senza esaminare come queste condizioni agiscano
in ogni caso particolare, né ciò che le mantiene. E se
anche capita che queste condizioni vengano ricordate in
un certo frangente, un momento dopo sono già dimenticate.
Ma gli economisti non si limitano solo a simili
dimenticanze, bensì rappresentano i fatti che si producono
in seguito a queste condizioni come leggi fatali e
immutabili.
Quanto all’economia politica socialista, è vero che
essa critica alcune di queste conclusioni, oppure ne
spiega altre in modo diverso, ma ugualmente commette
la stessa dimenticanza e, ad ogni modo, non si è ancora
tracciata un proprio cammino, rimanendo su quello vecchio.
Il massimo che ha fatto (con Marx) è stato di
riprendere le definizioni dell’economia politica metafisica
e borghese per dire: «Vedete bene che, anche accettando
le vostre definizioni, si arriva a provare che il
capitalista sfrutta l’operaio», cosa che suonerà forse
bene in una polemica, ma che non ha nulla a che vedere
con la scienza.
In generale, riteniamo che la scienza dell’economia
politica vada costituita in modo diverso: deve essere
trattata come una scienza naturale e proporsi una nuova
meta; deve occupare in rapporto alle società umane
un posto simile a quello che la fisiologia occupa in rapporto
alle piante e agli animali: deve diventare insomma
una fisiologia della società. Il suo scopo deve essere
lo studio dei bisogni sempre crescenti della società e dei
diversi mezzi impiegati per soddisfarli; deve analizzare
77
questi mezzi per vedere fino a che punto sono stati una
volta e sono oggi appropriati allo scopo; e in ultimo –
poiché lo scopo finale di ogni scienza è la previsione e
l’applicazione alla vita pratica (ed è un bel pezzo che
Bacone l’ha affermato) – essa dovrà studiare i mezzi
per meglio soddisfare la somma dei bisogni moderni e
ottenere con la minore spesa d’energia (con economia) i
migliori risultati per l’umanità in generale.
Si capisce, così, perché noi si arrivi a conclusioni tanto
differenti, sotto molti aspetti, da quelle cui giunge la
maggior parte degli economisti borghesi o socialdemocratici;
perché non riconosciamo il titolo di «leggi» a certe
correlazioni da loro indicate; perché la nostra «esposizione
» del socialismo differisce dalla loro; perché
deduciamo, dallo studio delle tendenze e delle direzioni
di sviluppo attualmente osservabili nella vita economica,
conclusioni del tutto differenti dalle loro per quanto
concerne il desiderabile e il possibile; o in altri termini,
perché noi arriviamo al comunismo libertario, mentre
essi giungono al capitalismo di Stato e al salariato collettivista.
Siamo forse noi nel torto ed essi nel vero? Può darsi.
Ma per verificare chi di noi ha torto o ragione non serve
fare dei commentari bizantini su ciò che questo o quello
scrittore ha detto o voluto dire, né parlarci della trilogia
di Hegel, né soprattutto continuare a far uso del metodo
dialettico.
Per verificarlo non si può che mettersi a studiare i
rapporti economici allo stesso modo in cui si studiano i
fatti delle scienze naturali.
78
IV
L’opera più importante di Kropotkin, Il mutuo appoggio,
è stata pubblicata per la prima volta a Londra nel
1902 e costituisce l’approdo di una lunga ricerca iniziata
una quindicina d’anni prima. La ricerca kropotkiniana
vuole dimostrare l’inconsistenza scientifica di quella
linea culturale del bellum omnium contra omnes che va
da Hobbes a Huxley, secondo cui la legge della vita si
compendia nella lotta tra le specie e tra gli individui
all’interno della stessa specie; linea che porta a riconoscere
l’ineluttabilità dell’affermarsi dei più forti. La
valenza politica di questa credenza «universale», che alla
fine del XIX secolo è riformulata sotto il nome di «darwinismo
sociale», si rintraccia nella giustificazione ideologica
al capitalismo più sfrenato e dunque la sua importanza
supera di gran lunga la cifra specificamente scientifica
della stessa teoria. È evidente che Kropotkin considera
centrale demistificare questa concezione conflittualistica
del mondo: qualora infatti risultasse che essa
risponde a verità, sarebbe allora impossibile pensare ad
una società anarchica che, al contrario, pone l’armonia,
l’uguaglianza e l’amore tra gli esseri umani quali premesse
indispensabili per il suo stesso costituirsi.
Situandosi all’opposto dell’assunto darwiniano, o
meglio della sua vulgata, Kropotkin nega che il conflitto
79
tra gli individui all’interno della stessa specie costituisca
la condizione generale dell’evoluzione, anche se
ammette l’esistenza del conflitto tra le specie. Kropotkin
vede una correlazione strettissima tra la pratica del
mutuo appoggio e la tendenza associativa, nel senso che
queste forme sono aspetti di un’unica realtà: quella della
vita in generale. La vita animale è di per se stessa
eminentemente sociale. L’associazione è la regola, la legge
della natura, perché si riscontra in tutti i gradi
dell’evoluzione.
Il «mutuo appoggio», come potente forza evolutiva,
opera oltretutto anche a livello interspecifico come «simbiosi
» (e, come simbiosi, è stata recentemente ipotizzata
addirittura la formazione di organuli intracellulari,
come i mitocondri!).
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione
italiana del 1925 de Il mutuo appoggio, nella traduzione
(rivista) di Camillo Berneri.
80
L’AIUTO RECIPROCO IN NATURA
Il concetto di lotta per l’esistenza come fattore
dell’evoluzione, introdotto nella scienza da Darwin e da
Wallace, ci ha messi in grado di includere un vasto
insieme di fenomeni in un’unica generalizzazione, che è
ben presto divenuta la base stessa delle nostre speculazioni
filosofiche, biologiche e sociologiche. Un’immensa
varietà di fatti – adattamento della funzione e della
struttura degli organismi viventi al proprio ambiente;
evoluzione fisiologica e anatomica; progresso intellettivo
e sviluppo morale – che venivano spiegati un tempo
con tante cause diverse, sono stati riuniti da Darwin in
un’unica concezione generale. Egli vi ha identificato
uno sforzo continuo, una lotta contro le circostanze
avverse, per lo sviluppo degli individui, delle razze, delle
specie e delle società, teso al massimo della pienezza,
81
della varietà e dell’intensità di vita. Può anche darsi
che, da principio, lo stesso Darwin non si sia reso perfettamente
conto dell’importanza ben più generale del
fattore da lui primariamente individuato solo per spiegare
una serie di fatti relativi all’accumularsi di variazioni
individuali nelle specie nascenti. Ma egli stesso
aveva previsto che il termine che stava introducendo
nella scienza avrebbe perso il suo significato filosofico, e
più vero, se fosse stato impiegato esclusivamente nel
senso più ristretto: quello di una lotta fra singoli individui
per i puri mezzi di sopravvivenza. Già nei primi
capitoli della sua memorabile opera insisteva perché il
termine fosse preso nel suo «senso largo e metaforico,
che comprende l’interdipendenza degli esseri viventi e
che comprende inoltre (cosa ancor più importante) non
soltanto la vita dell’individuo ma anche il successo della
sua discendenza» (L’origine delle specie, cap. III). [...]
La teoria di Darwin ha avuto la sorte di tutte le teorie
che trattano dei rapporti umani. Invece di svilupparla
secondo gli indirizzi che le erano propri, i suoi
continuatori l’hanno sempre più ridotta. E mentre Herbert
Spencer, partendo da osservazioni indipendenti
ma analoghe, ha tentato di allargare la discussione
ponendo il grande quesito su chi sono i più adatti (in
modo particolare nell’appendice alla terza edizione di
Princìpi di etica), gli innumerevoli seguaci di Darwin
hanno ridotto la nozione di lotta per l’esistenza al suo
più angusto significato. Essi sono arrivati a concepire il
mondo animale come un mondo di lotta perpetua fra
individui affamati, assetati di sangue, facendo risuonare
la letteratura contemporanea del grido di guerra
«Guai ai vinti», come se fosse questa l’ultima parola della
moderna biologia. E per interessi personali hanno
elevato questa lotta «spietata» all’altezza di principio
biologico, al quale anche l’uomo deve sottomettersi, sotto
pena di soccombere in un mondo fondato sul reciproco
sterminio. Lasciando da parte gli economisti, che di
scienze naturali non sanno che qualche parola presa a
prestito dai divulgatori di seconda mano, bisogna rico-
82
noscere che anche i più autorevoli interpreti di Darwin
hanno fatto del loro meglio per consolidare queste false
idee. [...]
[Viceversa] quando studiamo gli animali, non soltanto
nei laboratori e nei musei ma anche nelle foreste e
nelle praterie, nelle steppe e sulle montagne, ci accorgiamo
subito che, benché in natura siano fortemente
presenti la guerra e lo sterminio fra specie diverse, e
soprattutto fra differenti classi di animali, vi si ritrova
al contempo altrettanto se non più mutuo appoggio,
mutua assistenza e mutua difesa tra gli animali appartenenti
alla stessa specie, o almeno allo stesso gruppo
sociale. La socialità è una legge della natura tanto
quanto la lotta reciproca. È senza dubbio molto difficile
valutare, anche approssimativamente, l’importanza
percentuale di queste due serie di fatti. Ma se ricorriamo
a una testimonianza indiretta e domandiamo alla
natura: «Quali sono i più adatti: coloro che sono continuamente
in lotta tra loro, o coloro che si aiutano l’un
l’altro?», vediamo che i più adatti sono, senza dubbio,
gli animali che hanno acquisito abitudini di solidarietà.
Essi hanno maggiori probabilità di sopravvivere e raggiungono,
nelle loro rispettive classi, il più alto sviluppo
delle capacità intellettive e fisiche. Se gli innumerevoli
fatti che possono esser citati a sostegno di questa tesi
vengono presi in considerazione, possiamo affermare
con certezza che il mutuo appoggio è una legge della
vita animale tanto quanto la lotta reciproca, ma che,
come fattore dell’evoluzione, il primo ha probabilmente
un’importanza decisamente maggiore in quanto favorisce
lo sviluppo delle abitudini e dei caratteri più adatti
ad assicurare la preservazione e lo sviluppo della specie,
oltre a procurare con una minor perdita di energia
una maggior quantità di benessere e di felicità per ciascun
individuo. […]
83
Quando si comincia a studiare la lotta per l’esistenza
sotto i suoi due aspetti, quello proprio e quello metaforico,
ciò che colpisce subito è l’abbondanza di dati sul
mutuo appoggio, e non soltanto per quanto riguarda
l’allevamento della prole, come riconosce la maggior
parte degli evoluzionisti, ma anche la sicurezza
dell’individuo e il procacciamento del cibo necessario. In
molte categorie del regno animale l’aiuto reciproco è la
regola. Si va scoprendo il mutuo appoggio anche fra gli
animali più in basso nella scala evolutiva, ed è lecito
aspettarsi che, prima o poi, i ricercatori che studiano al
microscopio la vita elementare individuino forme di
mutuo appoggio incosciente anche fra i microrganismi.
Vero è che la nostra conoscenza degli invertebrati, a
eccezione delle termiti, delle formiche e delle api, è
estremamente limitata; e tuttavia, anche in ciò che concerne
gli animali inferiori possiamo raccogliere alcuni
dati, opportunamente verificati, di cooperazione. Le
innumerevoli società di cavallette, farfalle, cicindelidi,
cicale, ecc., sono in realtà pochissimo conosciute, ma il
fatto stesso della loro esistenza indica che esse devono
essere organizzate più o meno secondo gli stessi princìpi
delle società temporanee di formiche e api finalizzate
alle migrazioni. Quanto ai coleotteri, abbiamo fenomeni
di mutuo appoggio perfettamente osservabili fra i
necrofori. Questi hanno bisogno di materia organica in
decomposizione per deporvi le uova e per assicurare il
nutrimento delle larve. Ma questa materia organica
non deve decomporsi troppo rapidamente, così hanno
l’abitudine di sotterrare nel suolo i cadaveri di piccoli
animali di ogni specie che incontrano sul proprio cammino.
Di norma vivono isolati, ma quando uno di loro
scopre il cadavere di un topo o di un uccello che gli riuscirebbe
difficile seppellire da solo, chiama quattro, sei
o persino dieci altri necrofori per portare a termine
l’operazione riunendo gli sforzi; se necessario, trasportano
il cadavere in un terreno morbido e ve lo seppelliscono,
dando prova di molto buon senso e senza poi
entrare in conflitto per scegliere colui che avrà il privi-
84
legio di deporre le uova nel corpo sepolto. [...]
Anche da questa breve rassegna possiamo vedere
come la vita in società non costituisca l’eccezione nel
mondo animale: essa è piuttosto la regola, la legge della
natura che raggiunge il suo completo sviluppo nei vertebrati
superiori. Le specie che vivono isolate o in piccole
famiglie sono relativamente poche e il numero dei
loro membri limitato. Sembra anzi molto probabile che,
tranne qualche eccezione, gli uccelli ed i mammiferi che
attualmente non sono gregari, vivessero in società prima
che l’uomo invadesse il globo, intraprendendo una
guerra permanente contro di essi o semplicemente
distruggendo le loro fonti primarie di nutrimento. «Non
ci si associa per morire», è stata l’acuta osservazione di
Espinas; e Houzeau, che ha studiato la fauna di certe
regioni dell’America quando questo Paese non era ancora
stato modificato dall’uomo, ha scritto nel medesimo
senso.
La socialità si riscontra nel mondo animale in tutti i
gradi dell’evoluzione, e secondo la grande idea di Herbert
Spencer, brillantemente sviluppata in Colonie animali
di Périer, nel regno animale essa è all’origine stessa
dell’evoluzione. Ma via via che si sale nella scala evolutiva,
possiamo notare come la socialità divenga sempre
più cosciente: essa perde il suo carattere puramente
fisico, cessa di essere semplicemente istintiva, e diventa
razionale. Nei vertebrati superiori è periodica, ovvero
gli animali vi ricorrono per la soddisfazione di un bisogno
particolare: la continuazione della specie, le migrazioni,
la caccia o la reciproca difesa. Si produce anche
accidentalmente, ad esempio quando alcuni uccelli
s’associano contro un predatore o quando alcuni mammiferi,
sotto la pressione di circostanze eccezionali, si
aggregano per migrare. In quest’ultimo caso è una vera
e propria deroga volontaria ai costumi abituali.
L’aggregazione appare qualche volta a due o più gradi:
la famiglia dapprima, poi il gruppo, ed infine l’associa-
85
zione di gruppi abitualmente sparpagliati, ma che si
riuniscono in caso di necessità, come abbiamo visto
presso i bisonti e presso altri ruminanti. Questa associazione
può prendere anche forme più sofisticate, assicurando
maggiore indipendenza all’individuo senza privarlo
dei vantaggi della vita sociale. Presso quasi tutti i
roditori, l’individuo ha una sua tana particolare nella
quale può ritirarsi quando preferisce restare solo, ma
queste tane sono disposte in villaggi e in città così da
assicurare a tutti gli animali che vi abitano i vantaggi e
le gioie della vita sociale. Infine, presso varie specie
come i topi, le marmotte, le lepri, ecc., la vita sociale è
mantenuta nonostante il carattere litigioso e alcune
tendenze egoistiche del singolo individuo. Tuttavia,
questa associazione non è imposta, come nel caso delle
formiche e delle api, dalla struttura fisiologica degli
individui, ma è coltivata per i benefici che derivano dal
mutuo appoggio o per i piaceri che essa procura. Questo,
naturalmente, si realizza in tutti i gradi possibili e
con la maggiore varietà di caratteri individuali e specifici,
e la varietà stessa degli aspetti che assume la vita
in società è una conseguenza, e per noi una prova in
più, della sua generalità.
Solo recentemente la socialità, vale a dire il bisogno
dell’animale di associarsi con i suoi simili, l’amore della
società per la sua stessa salvaguardia, combinato alla
«gioia di vivere», hanno cominciato a ricevere dagli zoologi
l’attenzione che meritano. […]
Gli esempi citati ci hanno mostrato come la vita in
società sia l’arma più potente nella lotta per l’esistenza
presa nel senso più ampio del termine, e sarebbe agevole
portare ulteriori prove, ammesso che fosse necessario.
La vita in comune rende gli insetti, gli uccelli e i
mammiferi più deboli capaci di lottare e di proteggersi
contro i più temibili carnivori o contro i rapaci; essa
favorisce la longevità; rende le specie in grado di allevare
la loro prole con un minimo dispendio di energia, e di
86
mantenere altresì un numero sufficiente di membri
anche se la loro natalità è ridottissima; consente agli
animali gregari di migrare in cerca di nuovi habitat.
Dunque, pur ammettendo pienamente che la forza, la
rapidità, la colorazione mimetica, l’astuzia, la resistenza
alla fame e alla sete, ricordati da Darwin e Wallace,
siano qualità che rendono l’individuo o la specie più
adatti in certe circostanze, affermiamo che, in ogni circostanza,
la socialità rappresenta un grande vantaggio
nella lotta per l’esistenza. Le specie che, volontariamente
o no, abbandonano quest’istinto associativo, sono
condannate a regredire. Viceversa, gli animali che
meglio sanno mettersi insieme hanno le maggiori probabilità
di sopravvivenza e di ulteriore evoluzione, e
questo anche se sono inferiori ad altri animali in ciascuna
delle facoltà enumerate da Darwin e Wallace,
con l’eccezione di quella intellettiva. I vertebrati superiori,
e gli uomini in particolare, sono la prova migliore
di quest’asserzione. Quanto alla facoltà intellettiva, se
tutti i darwinisti sono d’accordo con Darwin nel pensare
che è l’arma più possente nella lotta per la vita e il fattore
più potente di ulteriore evoluzione, non potranno
non ammettere altresì che l’intelligenza è una qualità
eminentemente sociale. Il linguaggio, l’imitazione e le
esperienze accumulate sono altrettanti elementi di progresso
intellettuale che mancano all’animale non sociale.
Così, troviamo in cima alle differenti classi di animali
le formiche, i pappagalli e le scimmie, che uniscono
tutte un alto grado di socialità con un alto grado di sviluppo
intellettivo. I più adatti alla vita sono dunque gli
animali più socievoli, e la socialità appare come uno dei
principali fattori dell’evoluzione, sia direttamente, assicurando
il benessere della specie e diminuendo nel contempo
l’inutile dispendio di energia, sia indirettamente,
favorendone lo sviluppo intellettivo.
È inoltre evidente che la vita in società sarebbe assolutamente
impossibile senza un corrispondente incremento
dei sentimenti sociali, e particolarmente di un
certo senso di giustizia collettiva che tende a divenire
87
consuetudinario. Se ciascun individuo commettesse
costantemente abusi a suo personale vantaggio, senza
che gli altri intervenissero in favore di chi ne viene leso,
nessuna vita sociale sarebbe possibile. Sentimenti di
giustizia si sviluppano quindi, più o meno, presso tutti
gli animali che vivono in gruppi. [...]
Se la visione sviluppata nelle pagine precedenti è
valida, il quesito che necessariamente ne deriva è fino a
che punto questi fatti sono congruenti con la teoria della
lotta per l’esistenza così come l’hanno esposta
Darwin, Wallace e i loro discepoli. Cercherò ora di dare
brevemente una risposta a questo quesito. Innanzi tutto
nessun naturalista può dubitare che l’idea di una lotta
per l’esistenza estesa a tutta la natura organica non
sia la più importante generalizzazione dell’ultimo secolo.
La vita è lotta, e in questa lotta il più adatto sopravvive.
Ma davanti a domande come: «Quali sono le armi
più adatte a sostenere questa lotta?», le risposte differiscono
grandemente a seconda dell’importanza data ai
due diversi aspetti di questa lotta, di cui uno è proprio,
la lotta per il nutrimento e la sicurezza dei singoli individui,
mentre l’altro è la lotta che Darwin descriveva
come «metaforica», lotta molto spesso collettiva contro
le circostanze avverse. Nessuno può negare che ci sia,
in seno a ciascuna specie, una certa competizione effettiva
per il nutrimento, quantomeno in certi periodi. Ma
la questione è sapere se la lotta ha le proporzioni sostenute
da Darwin o anche da Wallace, e se questa lotta
ha esercitato nell’evoluzione del regno animale il compito
che le si attribuisce.
L’idea che permea l’opera di Darwin è certamente
quella di una reale competizione all’interno di ogni
gruppo animale per il cibo, la sicurezza individuale e la
riproduzione. Il grande naturalista parla spesso di
regioni così piene di vita animale che non potrebbero
contenerne di più; da questa sovrappopolazione deriva
la necessità della competizione. Ma quando cerchiamo
88
nella sua opera prove concrete di questa lotta, dobbiamo
confessare che non le troviamo sufficientemente
convincenti. Se facciamo riferimento al paragrafo intitolato
La lotta per la vita è più aspra tra gli individui e
le sottoclassi della stessa specie, non vi riscontriamo
quell’abbondanza di prove e di esempi che solitamente
troviamo negli scritti di Darwin. La lotta tra individui
della stessa specie non è confermata, in questo stesso
paragrafo, da alcun esempio: è data per scontata. E la
lotta tra le specie strettamente imparentate non è provata
che da cinque esempi, di cui uno almeno (concernente
due specie di tordi) sembra ora da porsi in dubbio.
Ma quando cerchiamo maggiori particolari per stabilire
fino a che punto il declinare d’una specie sia stato
causato dall’espandersi di un’altra specie, Darwin con
la sua buona fede abituale ci dice: «Possiamo vagamente
intravedere perché la competizione debba essere più
accanita tra specie simili che quasi occupano la stessa
collocazione in natura; ma probabilmente in nessun
caso riusciremo a dire con precisione perché una specie
trionfi su un’altra nella grande battaglia della vita».
Quanto a Wallace, che cita gli stessi fatti sotto un
titolo leggermente modificato, La lotta per la vita tra gli
animali e le piante strettamente imparentati è spesso
delle più aspre, fa la seguente osservazione che dà
tutt’altro aspetto ai fatti sopra citati [i corsivi sono
miei]: «In alcuni casi, si ha senza dubbio una vera guerra
tra le due specie, in cui la più forte uccide la più
debole, ma questo non è in alcun modo necessario, e ci
possono essere casi in cui la specie più debole trionferà
fisicamente per le sue capacità di riproduzione più rapida,
per la sua maggiore resistenza ai mutamenti climatici,
o per la sua superiore abilità nello sfuggire ai
comuni nemici».
In questi casi ciò che viene chiamata competizione
può non essere affatto una vera competizione. Una specie
soccombe non perché sia sterminata o affamata da
un’altra specie, ma perché non s’adatta bene alle nuove
condizioni, mentre l’altra ci si adatta. Di nuovo, l’e-
89
spressione «lotta per la vita» è qui impiegata in senso
metaforico, e non può averne altro. Quanto all’effettiva
competizione tra individui della stessa specie, di cui si
parla in un altro passo relativo ad una mandria in Sud
America durante un periodo di siccità, il valore dell’esempio
è diminuito dal fatto che si tratta di animali
domestici. In condizioni simili, i bisonti migrano allo
scopo d’evitare la lotta. Per quanto dura sia la lotta delle
piante – cosa abbondantemente provata – non possiamo
che ripetere l’osservazione di Wallace, il quale fa
rilevare che «le piante vivono dove possono», mentre gli
animali hanno in larga misura la possibilità di scegliere
il proprio habitat. E allora ci chiediamo di nuovo: fino a
che punto la competizione esiste realmente in ogni specie
animale? Su cosa viene basata questa opinione?
Occorre fare la stessa osservazione anche a proposito
dell’argomento indiretto a favore di un’implacabile competizione
e di una lotta per la vita in seno ad ogni specie,
argomento che si basa sullo «sterminio delle varietà
transitorie» così di frequente ricordato da Darwin. Si sa
che per lungo tempo Darwin si è arrovellato sulla difficoltà
che individuava nell’assenza di una ininterrotta
catena di forme intermedie tra le specie prossime, e che
ha poi identificato la soluzione di questa difficoltà nel
supposto sterminio delle forme intermedie. Tuttavia,
un’attenta lettura dei differenti capitoli nei quali
Darwin e Wallace parlano di tale soggetto, ci porta ben
presto alla conclusione che non bisogna intendere «sterminio
» nel senso letterale della parola; la stessa osservazione
fatta da Darwin sull’espressione «lotta per la
vita» s’applica anche alla parola «sterminio»: non deve
essere presa in senso proprio, bensì «in senso metaforico
».
Se partiamo dalla supposizione che un dato spazio è
popolato da animali al massimo della sua capacità e
che, di conseguenza, si scatena un’aspra competizione
tra tutti i suoi abitanti per assicurarsi il cibo quotidiano,
allora la comparsa di una nuova varietà vincente
significherebbe in molti casi (benché non sempre) la
90
comparsa di individui capaci di appropriarsi di una
quota superiore alla loro porzione di mezzi di sussistenza.
Il risultato sarebbe che, affamandole, questi individui
trionferebbero prima sulla varietà primitiva che
non possiede le nuove modificazioni e poi sulle varietà
intermedie che non le posseggono al medesimo grado. È
possibile che dapprima Darwin si sia rappresentato in
questo modo la comparsa di nuove varietà, o almeno
l’impiego frequente della parola «sterminio» dà questa
impressione. Ma Darwin e Wallace conoscevano troppo
bene la natura per non accorgersi che questo processo
di cose non è il solo possibile, e oltretutto non è affatto
necessario.
Se le condizioni fisiche e biologiche d’una data regione,
l’estensione dell’area occupata da una specie e le
abitudini dei membri di questa specie restassero invariate,
la comparsa subitanea d’una nuova varietà in tali
condizioni potrebbe significare l’annientamento per
fame e lo sterminio di tutti gli individui non sufficientemente
dotati delle nuove qualità proprie alla nuova
varietà. Ma un tale concorso di circostanze è precisamente
ciò che in natura non si vede. Ogni specie tende
continuamente a estendere il proprio territorio; le
migrazioni verso nuovi spazi sono la regola, tanto presso
la lenta lumaca quanto presso il rapido uccello; le
condizioni fisiche si trasformano incessantemente in
ogni regione; e le nuove varietà animali in un gran
numero di casi, se non nella maggioranza, si formano
non grazie allo sviluppo di nuove armi capaci di strappare
il nutrimento ai propri simili – il nutrimento non è
che una delle centinaia di condizioni necessarie alla
vita – ma, come lo stesso Wallace mostra in un interessante
paragrafo sulla «divergenza dei caratteri», grazie
all’adozione di nuove abitudini, allo spostamento verso
nuovi habitat e all’assunzione di nuovi alimenti. In questi
casi non ci sarà sterminio e neppure competizione,
poiché il nuovo adattamento porta ad attenuare la competizione,
ammesso che effettivamente ci fosse. Tuttavia
ci sarà, dopo un certo periodo, assenza di forme
91
intermedie, semplicemente per effetto della sopravvivenza
dei meglio dotati rispetto alle nuove condizioni; e
ciò sempre nell’ipotesi dello sterminio delle forme primitive.
È appena necessario aggiungere che se ammettiamo
con Spencer, con tutti i lamarckiani e con Darwin
stesso, l’influsso moderatore dell’ambiente sulle specie,
diventa ancor meno necessario ammettere lo sterminio
delle forme intermedie. […]
Fortunatamente la competizione non è la regola né
nel mondo animale né nel genere umano. Negli animali
è ristretta a periodi eccezionali, mentre la selezione
naturale trova occasioni decisamente migliori per operare.
Condizioni migliori sono appunto create dalla eliminazione
della competizione per mezzo del reciproco
aiuto e del mutuo appoggio. Nella grande lotta per la
vita – per una vita di massima pienezza e intensità a
fronte di un minimo dispendio di energia – la selezione
naturale cerca sempre i mezzi per evitare la competizione
per quanto è possibile. [...]
È questa la tendenza della natura, sempre presente
pur se non sempre pienamente realizzata. È questa la
parola d’ordine che ci viene dal cespuglio e dalla foresta,
dal fiume e dall’oceano: «Unitevi! Praticate il
mutuo appoggio! Esso è il mezzo più sicuro per dare a
tutti e a ciascuno il massimo di sicurezza, è la migliore
garanzia di esistenza e di progresso fisico, intellettuale
e morale». Ecco ciò che la natura ci insegna, e che quegli
animali che hanno raggiunto la più elevata posizione
nelle loro rispettive classi mettono in pratica. Ma è
pure ciò che l’uomo, anche l’uomo più primitivo, ha fatto;
ed è proprio per questo che l’uomo ha potuto raggiungere
la posizione che occupa attualmente, come
vedremo nel capitolo seguente, consacrato al mutuo
appoggio nelle società umane.
92
V
Lo stesso paradigma interpretativo che regge l’idea
dell’aiuto intraspecifico costituisce anche la base teorica
del concetto di solidarietà, le cui linee di fondo sono
ricavate, non a caso, dal Mutuo appoggio, con la differenza
però che qui l’attenzione è rivolta al mondo storico-
umano. La filosofia kropotkiniana della storia è debitrice
dell’evoluzionismo in quanto afferma l’esperienza
comune dell’umanità, nel senso che le necessità della
vita sono sostanzialmente le stesse, così che nel corso del
tempo gli uomini finiscono per percorrere canali pressoché
uniformi.
Secondo Kropotkin la storia dell’uomo non ha fondazione
autonoma, non è creatrice di proprie forme e di
proprie leggi, perché è una variabile della più grande
storia della natura; come questa, a sua volta, non è altro
che l’espressione dinamica della vita intesa nel senso
universale del termine. Le leggi di questa si impongono
alle vicende degli uomini e perciò, da questo punto di
vista, la lotta tra libertà e autorità, tra uguaglianza e
disuguaglianza si delinea quale momento di una continua
opposizione trasversale tale da determinare tutti i
possibili comportamenti storici. Ne consegue che nel
pensiero kropotkiniano non c’è un concetto di lotta sociale
inteso quale lotta di classe, appunto perché il conflitto
93
non è precipuo di una specifica situazione spazio-temporale,
ma scaturisce da una contrapposizione universale:
il mutuo appoggio e la lotta sono momenti che attraversano
tutta la storia dell’uomo essendo insiti alle leggi
della vita; anzi, sono la vita stessa intesa sul piano storico-
umano.
Per mettere in luce la pratica della solidarietà, egli
sceglie l’età medievale e moderna perché, a suo giudizio,
questo periodo mostra con maggior chiarezza lo spirito
comunitario. L’età comunale raffigura, in generale, un
modello societario fondato sull’autonomia e sulla decentralizzazione.
Testimonia un’epoca di libertà e di creatività
popolare, di autonoma iniziativa individuale e di
spontanea edificazione collettiva, premesse fondamentali
per una democrazia dal basso e per un esercizio effettivo
del potere da parte del popolo. La linfa vitale della
storia, la sua ricorrente fecondità creativa, si rinviene
nelle masse popolari anonime che con le loro migliaia di
atti quotidiani di concreta e spontanea solidarietà collettiva
hanno contribuito alla costruzione societaria, a
stratificare cioè, nel corso dei secoli, quella civiltà selezionata
di pratiche, di consuetudini e di saperi che globalmente
costituiscono il work in progress della perfettibilità
umana.
La sua tesi si riallaccia comunque, senza soluzione di
continuità, con l’idea proudhoniana dell’autonomia del
sociale rispetto all’eteronomia del politico; vuole confermare
l’esistenza di una spontanea autofondazione della
società quale premessa storica decisiva per concepire la
possibilità di una sua edificazione anarchica.
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione
italiana del 1925 de Il mutuo appoggio, nella traduzione
(rivista) di Camillo Berneri.
94
LA SOLIDARIETÀ UMANA
Nel precedente capitolo è stata brevemente analizzata
l’immensa parte avuta dal mutuo appoggio nell’evoluzione
del mondo animale. Occorre ora gettare uno
sguardo sulla parte avuta da questo stesso fattore
nell’evoluzione del genere umano. Abbiamo visto come
siano rare le specie animali che vivono isolate e come
numerose siano quelle che vivono in società per la difesa
reciproca, per la caccia, per immagazzinare le provviste,
per allevare la prole o semplicemente per godere
della vita in comune. Abbiamo anche visto che sebbene
avvengano guerre tra le diverse classi di animali e le
diverse specie, o anche tra i diversi gruppi della stessa
specie, la concordia e il mutuo appoggio sono la regola
all’interno dei gruppi e delle specie; e abbiamo anche
visto che le specie che meglio sanno unirsi ed evitare la
95
competizione hanno le maggiori probabilità di sopravvivere
e di svilupparsi ulteriormente. Queste prosperano,
mentre le specie non sociali deperiscono.
Sarebbe dunque del tutto contrario a quello che sappiamo
della natura se gli uomini facessero eccezione a
una regola così generale, e cioè che una creatura disarmata,
come fu l’uomo alla sua origine, avesse trovato
sicurezza e progresso non nel mutuo soccorso, come gli
altri animali, ma nella sfrenata competizione per il
vantaggio personale senza riguardo per gli interessi
della specie. Per una mente abituata all’idea di unità in
natura, una tale affermazione sembra assolutamente
insostenibile. Tuttavia, per quanto improbabile e non
filosofica sia, non ha mai mancato di partigiani. Vi sono
sempre stati pensatori che hanno giudicato con pessimismo
il genere umano. Essi lo conoscono più o meno
superficialmente nei limiti della loro esperienza; sanno
della storia ciò che ne dicono gli annali, sempre attenti
alle guerre, alle crudeltà, all’oppressione, e a nient’altro.
E ne concludono che il genere umano non è altro
che una fluttuante aggregazione di individui sempre
pronti a battersi l’uno contro l’altro e trattenuti dal farlo
solo grazie all’intervento di una qualche autorità.
È stato appunto questo l’atteggiamento assunto da
Hobbes. E se alcuni dei suoi successori del XVIII secolo
si sono sforzati di provare che in nessuna epoca della
sua esistenza, neppure nella più primitiva, l’uomo ha
vissuto in uno stato di guerra permanente, ma che è
stato sociale anche allo «stato di natura», e che è stata
l’ignoranza, piuttosto che le sue cattive tendenze naturali,
a spingere il genere umano agli orrori delle prime
epoche storiche, la scuola di Hobbes ha continuato ad
affermare, al contrario, che il preteso «stato di natura»
altro non era se non una guerra permanente tra individui
accidentalmente riuniti dal semplice capriccio della
loro bestiale esistenza.
È senza dubbio vero che la scienza, dopo Hobbes, ha
fatto progressi e che per ragionare su questo soggetto
abbiamo ora basi più sicure di quelle a disposizione di
96
Hobbes e di Rousseau per le loro speculazioni. Ciononostante,
la filosofia di Hobbes ha ancora numerosi ammiratori,
tanto che ultimamente tutta una scuola di pensatori,
applicando la terminologia di Darwin più che le
sue idee fondamentali, ne ha tratto degli argomenti
favorevoli alle opinioni di Hobbes sull’uomo primitivo,
riuscendo persino a dar loro parvenza scientifica. Huxley,
come si sa, si è messo a capo di questa scuola e, in
un articolo scritto nel 1888, ha presentato gli uomini
primitivi come delle tigri o dei leoni, privi di qualsiasi
concezione etica, capaci di spingere la lotta per l’esistenza
fino ai più crudeli eccessi, impegnati in una vita
di «sfrenato combattimento continuo». Per citare le sue
parole, «al di fuori dei ristretti e temporanei legami
familiari, la guerra hobbesiana di tutti contro tutti era
lo stato normale dell’esistenza».
Si è fatto notare più d’una volta che l’errore principale
di Hobbes, come dei filosofi del XVIII secolo, è stato di
supporre che il genere umano sia cominciato sotto forma
di piccole famiglie isolate, un po’ simili alle famiglie
«limitate e temporanee» dei grandi carnivori, mentre
ora si sa in modo certo che non è avvenuto così. Beninteso,
non abbiamo testimonianze dirette sul modo di
vivere dei primi esseri umani. Non siamo nemmeno certi
dell’epoca della loro prima comparsa, anche se attualmente
i geologi sono inclini a individuarne le prime
tracce nel pliocene o addirittura nel miocene, sedimenti
dell’era terziaria. Ma abbiamo il metodo indiretto che ci
permette di gettare qualche luce su questa remota antichità.
Un’indagine minuziosa delle istituzioni sociali dei
popoli primitivi è stata fatta durante gli ultimi quarant’anni,
ed essa ha individuato nelle istituzioni attuali
tracce di istituzioni molto più antiche, scomparse da
lungo tempo, che tuttavia hanno lasciato indiscutibili
segni della loro esistenza anteriore. Tutta una scienza
consacrata alle origini delle istituzioni umane s’è così
sviluppata grazie ai lavori di Bachofen, MacLennan,
Morgan, Edwin Tylor, Maine, Post, Kovalevsky, Lub-
97
bock e parecchi altri, stabilendo con certezza che l’umanità
non ha incominciato sotto forma di piccole famiglie
isolate.
Lungi dall’essere una forma primitiva di organizzazione,
la famiglia è un prodotto molto tardivo dell’evoluzione
umana. Per quanto indietro ci si possa spingere
con la paleoetnologia, troviamo uomini che vivono in
società, in gruppi simili a quelli dei mammiferi superiori;
ed è poi stata necessaria un’evoluzione estremamente
lenta e lunga per condurre questo tipo di società
all’organizzazione clanica, che è passata a sua volta
attraverso un’altra lunghissima evoluzione prima che i
germi della famiglia, poligama o monogama, potessero
apparire. Dunque, sono stati i gruppi, le bande, le tribù
– e non le famiglie – le forme primitive di organizzazione
umana presso gli antenati più remoti. Cosa cui è
arrivata l’etnologia dopo laboriose ricerche, arrivando a
dimostrare semplicemente quello che uno zoologo
avrebbe potuto prevedere. Nessuno dei mammiferi superiori
– eccetto qualche carnivoro e qualche primate,
come gli orangutan e i gorilla, la cui decadenza è indubitabile
– vive in piccole famiglie isolate erranti nella
foresta. Tutti vivono in società. E lo stesso Darwin,
peraltro, avendo ben capito che i primati solitari non
avrebbero mai potuto trasformarsi in esseri umani, ne
ha indotto che l’uomo discende da una specie relativamente
debole, ma sociale, quale è quella degli scimpanzé
piuttosto che da una specie più forte, ma non
sociale, quale è quella dei gorilla. La zoologia e la
paleoetnologia sono così d’accordo nel ritenere che il
branco, e non la famiglia, è stata la prima forma di vita
sociale. Le prime società umane non sono state altro
che uno sviluppo ulteriore di quelle forme associative
che avevano costituito l’essenza stessa della vita presso
gli animali superiori. [...]
Non si può studiare l’uomo primitivo senza essere
profondamente colpiti dalla socialità della quale dà pro-
98
va fin dai primi passi della vita. Tracce di società umane
sono state trovate nei reperti dell’età paleolitica e
neolitica, e quando studiamo i selvaggi contemporanei,
il cui genere di vita è ancora quello dell’uomo neolitico,
li troviamo strettamente uniti dall’antichissima organizzazione
clanica, che permette loro di mettere insieme
le capacità individuali, altrimenti deboli, di godere
della vita in comune e così di progredire. In natura,
l’uomo non è un’eccezione, ma si conforma anche lui al
grande principio del mutuo appoggio, che dà le migliori
probabilità di sopravvivenza a quelli che sanno meglio
aiutarsi nella lotta per l’esistenza. Tali sono le conclusioni
alle quali siamo giunti nel precedente capitolo.
Tuttavia, quando arriviamo a un grado più alto di
civiltà e ci rivolgiamo alla storia, che ha già qualche
cosa da dire su questo periodo, siamo colpiti dalle lotte
e dai conflitti che rivela. Gli antichi legami sembrano
essere interamente spezzati: si vedono clan combattere
altri clan, tribù contro tribù, individui contro individui.
Dal caos e dallo scontro di queste forze ostili, il genere
umano esce diviso in caste, asservito a despoti, separato
in Stati sempre pronti a farsi guerra. Basandosi su
questa storia del genere umano, il filosofo pessimista
conclude trionfalmente che la guerra e l’oppressione
sono l’essenza stessa della natura umana, che gli istinti
di guerra e di rapina dell’uomo possono esser contenuti
entro certi limiti solo da una forte autorità che lo
costringa alla pace, concedendo a un pugno degli uomini
più nobili l’opportunità di progettare per il genere
umano una vita migliore per il futuro.
Tuttavia, da quando la vita quotidiana degli esseri
umani in periodo storico è stata sottoposta ad una più
accurata analisi, com’è avvenuto recentemente in
numerosi e pazienti studi sulle istituzioni dei tempi
remoti, questa vita appare sotto un aspetto del tutto
differente. Se lasciamo da parte le idee preconcette della
maggior parte degli storici e la loro marcata predilezione
per gli aspetti drammatici della storia, ci rendiamo
conto che sono propri i documenti che studiamo ad
99
esagerare la parte di vita umana votata alle lotte trascurandone
i lati pacifici. I giorni sereni e soleggiati
sono perduti di vista nelle tormente e negli uragani.
Anche nella nostra epoca i voluminosi documenti che
accumuliamo per i futuri storici con la nostra stampa, i
nostri tribunali, i nostri uffici ministeriali, ma anche
con i nostri romanzi e le nostre opere poetiche, sono
gravati della stessa parzialità. Essi trasmettono alla
posterità le più minuziose descrizioni di ogni guerra,
battaglia o scaramuccia, di ogni contestazione, di ogni
atto di violenza, di ogni sorta di sofferenza individuale,
mentre riportano a malapena qualche traccia degli
innumerevoli atti di solidarietà e affetto che ognuno di
noi conosce per esperienza personale. Riportano a
malapena ciò che forma l’essenza stessa della nostra
vita quotidiana: i nostri istinti e i nostri costumi sociali.
Non c’è da stupirsi se le testimonianze del passato sono
state così inesatte. Coloro che hanno compilato gli
annali, infatti, non hanno mai mancato di raccontare le
più piccole guerre o calamità sofferte dai loro contemporanei
senza prestare alcuna attenzione alla vita delle
masse; che pure hanno vissuto lavorando pacificamente,
mentre solo un piccolo numero di uomini guerreggiavano
fra di loro. I poemi epici, le iscrizioni monumentali,
i trattati di pace… quasi tutti i documenti storici
hanno il medesimo carattere: trattano della violazione
della pace, non della pace stessa. Cosicché lo storico,
per quanto ben intenzionato, fa inconsciamente un quadro
inesatto dell’epoca che si sforza di illustrare. Per
trovare la proporzione reale tra i conflitti e la consociazione,
occorre ricorrere all’analisi minuziosa di migliaia
di piccoli fatti e di indicazioni accessorie, conservate
accidentalmente tra le reliquie del passato; occorre poi
interpretarle con l’aiuto dell’etnologia comparata e,
dopo aver tanto udito parlare di tutto quello che ha
diviso gli uomini, bisogna ricostruire pietra su pietra le
istituzioni che li tenevano uniti.
Ben presto occorrerà riscrivere la storia con una
nuova prospettiva, al fine di tener conto di questi due
100
aspetti della vita umana e di apprezzare la parte rappresentata
da ciascuno dei due nell’evoluzione. Nell’attesa,
possiamo trarre profitto dall’immenso lavoro preparatorio
fatto recentemente con l’intento di ritrovare
le linee principali di quel secondo aspetto fino ad ora
così trascurato. Dai tempi storici meglio conosciuti possiamo
già trarre qualche esempio della vita delle masse,
con l’intento di rilevarvi la parte rappresentata dal
mutuo appoggio; e per non estendere troppo il lavoro,
possiamo dispensarci dal risalire fino agli Egizi o anche
fino all’antichità greca e romana. L’evoluzione del genere
umano non ha infatti avuto il carattere di una successione
ininterrotta: parecchie volte si è esaurita in
una data regione, presso un certo popolo, ed è rinata
altrove, tra altri popoli. Però, ad ogni nuovo inizio ricomincia
con le stesse istituzioni claniche che abbiamo
già rilevato presso i selvaggi. Se dunque consideriamo
l’ultima rinascita, quella degli inizi della nostra attuale
civiltà, tra quelli che i Romani chiamavano i «Barbari»,
avremo tutta la scala dell’evoluzione, cominciando dalle
gentes e terminando con le istituzioni dei nostri tempi.
Cosa alla quale sono appunto dedicate le pagine che
seguono. […]
Nessun periodo della storia può meglio mostrare il
potere creatore delle masse popolari quanto il X e l’XI
secolo, allorché i villaggi fortificati e le loro piazze del
mercato, «oasi nella foresta feudale», hanno cominciato
a liberarsi dal giogo dei signorotti, preparando lentamente
la futura organizzazione delle città. Sfortunatamente,
è un periodo sul quale le informazioni storiche
sono particolarmente rare: conosciamo i risultati, ma
sappiamo poco circa i mezzi con i quali sono stati ottenuti.
Al riparo delle loro mura, le assemblee popolari delle
città – sia completamente indipendenti, sia rette dalle
principali famiglie nobiliari o mercantili – conquistavano
e conservavano il diritto di eleggere il defensor, il
101
difensore militare della città, e il supremo magistrato, o
quantomeno di scegliere tra quelli che aspiravano a
tale carica. In Italia i giovani Comuni licenziavano continuamente
i loro defensores o domini, combattendo
quelli che rifiutavano di andarsene. La stessa cosa
accadeva a Est: in Boemia, i ricchi e i poveri insieme
(Bohemicae gentis magni et parvi, nobiles et ignobiles)
prendevano parte all’elezione; nelle citta russe le
assemblee popolari, le vyeches, eleggevano regolarmente
i loro duchi – tutti regolarmente della famiglia Rurik
– e stipulavano insieme le loro convenzioni, esautorandoli
però se ne erano scontenti. Alla stessa epoca, nella
maggior parte delle città dell’Europa occidentale e
meridionale la tendenza era di prendere per defensor
un vescovo eletto dalla città stessa; e molti vescovi si
sono messi alla testa della resistenza per proteggere le
«immunità» cittadine e difendere le loro libertà, tanto
che, dopo la morte, molti sono stati santificati divenendo
i patroni delle loro città, come san Uthelred di Winchester,
san Ulrik di Asburgo, san Wolfgang di Ratisbona,
san Heribert di Colonia, san Adalbert di Praga e
così via. Anche molti abati e monaci sono diventati santi
patroni delle città per aver sostenuto i diritti del
popolo. Con questi nuovi defensores – laici o ecclesiastici
– i cittadini hanno conquistato la piena autorità giuridica
e amministrativa per le loro assemblee popolari.
[...]
Tuttavia, oltre all’idea di comunità rurale, occorreva
un altro elemento capace di dare a questi centri in cerca
di libertà l’unità di pensiero, azione e iniziativa che
ha fatto la loro forza nel XII e XIII secolo. La diversità
crescente di arti e mestieri, nonché l’estensione del
commercio a Paesi lontani, hanno fatto desiderare una
nuova forma di aggregazione, il cui elemento necessario
sono state le corporazioni. Si sono scritte molte opere su
queste associazioni che sotto il nome di corporazioni,
gilde, fratellanze – o druzhestya, minne, artels in Rus-
102
sia, esnaifs in Serbia e in Turchia, amkari in Georgia,
ecc. – si sono sviluppate in modo considerevole nel
Medio evo tanto da rappresentare una parte sostanziale
nell’emancipazione delle città. Ma ci sono voluti più
di sessant’anni perché gli storici riconoscessero l’universalità
di questa istituzione e il suo vero carattere.
Solo oggi, dopo che centinaia di statuti corporativi sono
stati pubblicati e studiati e dopo che i loro rapporti originari
con i collegiae romani e le antiche unioni della
Grecia e dell’India sono stati riconosciuti, possiamo
parlarne con piena cognizione di causa e possiamo
affermare con certezza che queste fratellanze rappresentano
uno sviluppo degli stessi princìpi che abbiamo
visto in azione tra le gentes e nelle comunità rurali. [...]
Così, quando un certo numero di artigiani – muratori,
carpentieri, tagliatori di pietre, ecc. – si riunivano
per costruire ad esempio una cattedrale, essi appartenevano
tutti a una città con il suo ordinamento politico,
e inoltre ciascuno apparteneva alla propria arte, ma
tutti si consociavano altresì per l’impresa comune, che
conoscevano meglio di chiunque, e s’organizzavano in
un corpo, stringendo forti legami, quantunque temporanei,
e fondando una gilda per l’erezione della cattedrale.
Anche oggi possiamo riscontrare questi stessi fatti
nel çof dei Cabili: essi hanno la loro comunità rurale,
ma questa associazione non basta per tutti i bisogni
politici, commerciali e personali dell’unione ed essi
costituiscono quindi una fratellanza più stretta nel çof.
Quanto ai caratteri sociali delle gilde medievali,
qualsiasi statuto può darne un’idea. Prendiamo ad
esempio lo skraa di qualche primitiva gilda danese: vi
leggiamo dapprima un’esposizione dei sentimenti di
fraternità generale che devono regnare nella gilda, poi
vengono le regole relative all’auto-giurisdizione in caso
di litigio tra due fratelli, o tra un fratello e un esterno;
infine vengono enumerati i doveri sociali dei fratelli. Se
la casa di un fratello è distrutta dal fuoco, o se egli ha
perduto il suo bastimento, o ancora se ha sofferto
durante un pellegrinaggio, tutti i fratelli devono venire
103
in suo aiuto. Se un fratello cade gravemente ammalato,
altri due fratelli devono vegliare presso il suo letto fino
a che non sia fuori pericolo; se muore, devono sotterrarlo
– faccenda non da poco in tempi di pestilenze –
accompagnandolo in chiesa e alla tomba. Dopo la sua
morte devono soccorrere i suoi figli se sono nel bisogno,
mentre molto spesso la vedova diventa una «sorella»
della gilda.
Questi due caratteri fondamentali s’incontrano in
tutte le fratellanze formate non importa a quale scopo.
Sempre i membri devono trattarsi in modo fraterno,
tanto da chiamarsi appunto fratelli e sorelle, e sono tutti
uguali di fronte alla gilda. Essi possiedono in comune
il cheptel (bestiame, terre, bastimenti, fondi agricoli).
Tutti i fratelli sono tenuti a giurare di dimenticare gli
antichi dissensi e, senza imporsi reciprocamente di non
litigare nuovamente, devono convenire che nessuna lite
deve degenerare in vendetta o condurre a un processo
davanti ad altra corte che non sia il tribunale della fratellanza.
Se uno è implicato in una contesa con qualcuno
estraneo alla gilda, questa lo deve sostenere, sia che
abbia torto sia che abbia ragione; ovvero, tanto nel caso
che venga ingiustamente accusato di aggressione quanto
nel caso che sia realmente l’aggressore, i fratelli lo
devono sostenere e condurre le cose a una conclusione
pacifica. A meno che non si tratti di un’aggressione
occulta – nel qual caso verrebbe proscritto – la fratellanza
lo difende. Se i parenti dell’uomo leso vogliono
vendicarsi prontamente dell’offesa con una nuova
aggressione, la fratellanza gli procura un cavallo per
fuggire, o una barca e un paio di remi, un coltello e un
acciarino; se rimane in città, dodici fratelli lo accompagnano
per proteggerlo, e nello stesso tempo si occupano
di comporre il conflitto. Inoltre, i fratelli si presentano
davanti alla corte di giustizia per sostenere sotto giuramento
la veridicità delle dichiarazioni del loro fratello,
e se viene riconosciuto colpevole, non lo abbandonano a
completa rovina, né lo fanno diventare schiavo: se egli
non può pagare il compenso dovuto, lo pagano loro,
104
come facevano le gentes nelle epoche precedenti. Ma se
qualcuno viene meno alla sua lealtà verso i fratelli della
gilda, o verso altri, viene escluso dalla fratellanza
«con la fama di uomo da nulla» (tha scal han maeles af
brödrescap met nidings nafn).
Tali sono le idee dominanti in queste fratellanze, e a
poco a poco si estenderanno a tutti gli aspetti della vita
medievale. Infatti, si conoscono gilde in tutte le professioni
immaginabili: gilde di servi, gilde di uomini liberi
e gilde miste di servi e uomini liberi; gilde formate per
uno scopo specifico, quale la caccia, la pesca o un’impresa
commerciale, e disciolte quando questo scopo specifico
viene raggiunto; gilde che invece per certe professioni
o certi mestieri durano secoli. Via via che le attività
si diversificano, il numero delle gilde cresce. Così, non
ci sono soltanto mercanti, artigiani, cacciatori o contadini
uniti da questi legami, ma ci sono pure gilde di
preti, di pittori, di maestri di scuola primaria e di
docenti universitari, gilde per rappresentare la «passione
», per costruire una chiesa, per occuparsi dei «misteri
» di una data scuola o di particolari arti e mestieri, e
persino gilde di mendicanti, di boia e di «donne perdute
», tutte organizzate sotto il doppio principio dell’autogiurisdizione
e del mutuo appoggio. Per la Russia
abbiamo la prova manifesta che il suo consolidamento è
stato tanto opera dei suoi artels, o associazioni di cacciatori,
di pescatori e di mercanti, quanto del germogliare
delle comunità rurali; e ancor oggi il Paese è pieno
di artels. [...]
Un’istituzione così adatta a soddisfare i bisogni consociativi,
senza privare l’individuo della sua iniziativa,
non poteva che estendersi e rafforzarsi. Una difficoltà si
era presentata quando si era cercata una forma che
permettesse di federare le unioni delle gilde senza invadere
il campo di quelle delle comunità rurali e di federare
le une e le altre in un tutto armonico. Quando questa
combinazione venne trovata, e un insieme di circo-
105
stanze favorevoli permise alle città di affermare la propria
indipendenza, esse lo fecero con un’unità di pensiero
che non può che suscitare la nostra ammirazione,
persino nel secolo delle strade ferrate, dei telegrafi e
della stampa. Ci sono pervenute centinaia di «carte»
con le quali le città proclamavano la loro indipendenza
e in tutte – nonostante l’infinita varietà di particolari
correlati ad un’emancipazione più o meno completa – si
ritrova la stessa idea dominante: un’organizzazione cittadina
basata sulla federazione di piccole comunità
rurali e di gilde. [...]
Questa ondata emancipativa si diffuse nel XII secolo
per tutto il continente, toccando sia le città più ricche
sia i villaggi più poveri. E se possiamo dire che, in generale,
le città italiane furono le prime a liberarsi, non
possiamo identificare alcun centro dal quale il movimento
si sarebbe propagato. Molto spesso un piccolo
borgo dell’Europa centrale prendeva l’iniziativa per la
sua regione e i grandi agglomerati accettavano la carta
della piccola città come modello per la loro. […]
L’auto-giurisdizione era il punto essenziale, e autogiurisdizione
significava auto-amministrazione. Ma il
Comune non era semplicemente una parte «autonoma»
dello Stato (queste parole ambigue non erano ancora
state inventate): era esso stesso uno Stato. Aveva diritti
di guerra e di pace, di federazione e di alleanza con i
vicini; era sovrano nei propri affari e non interferiva
con quelli degli altri. Il potere politico supremo poteva
essere rimesso interamente a un foro democratico,
come era il caso a Pskov, la cui assemblea popolare
(vyeche) inviava e riceveva ambasciatori, stipulava trattati,
accettava e rifiutava principi, o ne faceva a meno
per decenni. Oppure il potere veniva esercitato, o usurpato,
da un’aristocrazia a volte nobiliare a volte mercantile,
come avveniva in centinaia di città dell’Italia e
del centro Europa. Il principio, tuttavia, rimaneva
immutato: la città era uno Stato e, cosa ancor più notevole,
quando il potere della città veniva usurpato da
un’aristocrazia nobiliare o mercantile, la vita interna
106
della città ne risentiva marginalmente e il carattere
democratico della vita quotidiana non scompariva: perché
l’uno e l’altro dipendevano molto poco da ciò che si
potrebbe chiamare la forma politica dello Stato.
Il segreto di questa apparente anomalia è che una
città medievale non era uno Stato accentrato. Durante i
primi secoli della sua esistenza, la città poteva a malapena
essere chiamata uno Stato per quanto riguardava
la sua organizzazione interna, perché il Medio evo non
conosceva l’attuale accentramento delle funzioni né
tanto meno l’accentramento territoriale del nostro tempo.
Ogni gruppo aveva la sua parte di sovranità. [...]
La città medievale ci appare così come una doppia
federazione: innanzi tutto quella di tutte le unità domestiche
all’interno di territori delimitati – la strada, la
parrocchia, il quartiere – e poi quella degli individui
uniti da giuramento in gilde secondo le loro professioni.
Mentre la prima era un prodotto della comunità rurale,
origine della città, la seconda era una creazione posteriore
la cui esistenza derivava dalle mutate condizioni.
Garantire la libertà, l’auto-amministrazione e la pace
era lo scopo principale della città medievale, e il lavoro,
come vedremo tra poco parlando delle gilde di mestiere,
ne era la base. Ma la «produzione» non assorbiva tutta
l’attenzione degli economisti del Medio evo. Con il loro
spirito pratico, essi compresero che il «consumo» doveva
essere garantito al fine di ottenere la produzione; di
conseguenza, il principio fondamentale di ogni città era
di provvedere alla sussistenza comune e all’alloggio
tanto dei poveri quanto dei ricchi (gemeine notdurft und
gemach armer und richer). L’acquisto di viveri e di altri
beni di prima necessità (carbone, legna, ecc.) prima che
fossero passati per il mercato o in condizioni particolarmente
favorevoli dalle quali altri fossero esclusi – in
una parola la preemptio – era assolutamente vietata.
Tutto doveva passare dal mercato ed essere offerto in
acquisto a tutti fino a quando la campana non avesse
chiuso il mercato. Solo a quel punto il venditore al
minuto poteva comprare ciò che restava, e anche allora
107
il suo profitto doveva rimanere nei limiti di un «onesto
guadagno». Di più, quando il frumento veniva comprato
all’ingrosso da un fornaio dopo la chiusura del mercato,
ogni cittadino aveva comunque il diritto di reclamare,
al prezzo all’ingrosso, una parte di tale frumento (circa
due kg.) per proprio uso, a condizione che lo reclamasse
prima della chiusura delle contrattazioni; a sua volta,
ogni panettiere poteva reclamare lo stesso diritto nel
caso fosse un cittadino a comprare il frumento per
rivenderlo. Nel primo caso il frumento non aveva che
da essere portato al mulino della città per essere macinato
a un prezzo convenuto, e il pane poteva poi essere
cotto nel forno comunale. Insomma, se una carestia colpiva
la città tutti, più o meno, ne soffrivano, ma a parte
queste calamità, finché sono esistite le città libere, nessuno
vi è morto di fame, come disgraziatamente oggi
avviene anche troppo spesso. [...]
Insomma, più conosciamo la città del Medio evo, più
vediamo che non era una semplice organizzazione politica
per la difesa di determinate libertà. Era un tentativo,
su ben più vasta scala rispetto alla comunità rurale,
di organizzare una stretta unione di assistenza e
appoggio mutuo per il consumo, per la produzione e per
la vita sociale nel suo insieme, senza frapporre gli
impedimenti dello Stato, ma lasciando piena libertà di
espressione al genio creatore di ciascun gruppo nelle
arti, nei mestieri, nelle scienze, in commercio e in politica.
Vedremo meglio fino a che punto questo tentativo
ha avuto successo quando analizzeremo, nel capitolo
seguente, l’organizzazione del lavoro nella città medievale
e le relazioni delle città con la popolazione delle
campagna circostanti. […]
I risultati di questo nuovo progresso dell’umanità
nella città medievale furono immensi. All’inizio del
secolo XI le città europee erano piccoli raggruppamenti
di capanne miserabili, ornati solamente di chiese basse
e tozze delle quali il costruttore sapeva appena fare la
108
volta. Le arti – vi erano solo tessitori e fabbriferrai –
erano ad uno stadio primitivo; il sapere non si trovava
che in qualche raro monastero. Trecentocinquant’anni
più tardi il panorama europeo era mutato. Il territorio
era disseminato di città benestanti circondate da spesse
mura, munite di torri e porte, ciascuna delle quali era
un’opera d’arte. Le cattedrali, d’uno stile grandioso e
riccamente decorate, innalzavano verso il cielo i loro
campanili di una purezza di forme e di un ardire di
immaginazione che oggi ci sforzeremmo inutilmente di
raggiungere. Le arti e i mestieri avevano raggiunto in
molte attività un grado di perfezione che oggi non possiamo
vantarci di aver superato se diamo maggior valore
all’abilità inventiva dell’operaio e alla perfezione del
suo lavoro che non alla rapidità di esecuzione. Le navi
delle città libere solcavano i mari europei in tutte le
direzioni, e sarebbe bastato solo uno sforzo ulteriore per
varcare gli oceani. Su vasti spazi di territorio il benessere
aveva sostituito la miseria, e il sapere si era sviluppato
e diffuso. Si andavano elaborando i metodi
scientifici e ponendo le basi della fisica, si stava preparando
il cammino per tutte le invenzioni meccaniche
delle quali il nostro secolo è così orgoglioso. Tali furono
i magici cambiamenti compiuti in Europa in meno di
quattrocento anni. E se ci si vuol rendere conto delle
perdite subite dall’Europa dopo la distruzione delle
città libere, occorre raffrontare il secolo XVII con il XIV o
il XIII: la prosperità che caratterizzava in altri tempi la
Scozia, la Germania, le pianure d’Italia, è scomparsa, le
strade sono cadute nell’abbandono, le città sono spopolate,
il lavoro è asservito, l’arte è in decadenza, e lo
stesso commercio è in declino.
Se anche le città medievali non ci avessero lasciato
alcun documento scritto a testimonianza del loro splendore,
ma solo i monumenti architettonici che vediamo
ancor oggi in tutta Europa, dalla Scozia all’Italia e da
Girona in Spagna a Breslavia in territorio slavo, potremmo
comunque affermare che il periodo in cui le
città ebbero una vita indipendente fu quello del più alto
109
sviluppo dello spirito umano dall’era cristiana fino al
XVIII secolo. Se guardiamo, ad esempio, un quadro del
Medio evo raffigurante Norimberga con le sue torri e i
suoi campanili slanciati, ciascuno dei quali porta
l’impronta di un’arte liberamente creatrice, abbiamo
qualche difficoltà a pensare che trecento anni prima la
città non era che un ammasso di misere capanne. E la
nostra ammirazione non fa che crescere quando entriamo
nei particolari dell’architettura e dei fregi di ciascuna
delle innumerevoli chiese, dei campanili, dei palazzi
municipali, delle porte di città ecc., presenti in Europa
e che arrivano ad est fino alla Boemia e alle città, oggi
morte, della Galizia polacca. Non è unicamente l’Italia,
questa patria delle arti, ma tutta l’Europa ad essere
ricoperta da tali monumenti. Il fatto stesso che tra tutte
le arti sia proprio l’architettura – arte sociale per
eccellenza – a toccare il suo più alto sviluppo è significativo.
Per arrivare al grado di perfezione che ha raggiunto,
quest’arte non poteva che essere il prodotto
d’una vita eminentemente sociale.
L’architettura medievale ha raggiunto la sua grandezza
non soltanto perché fu il fiorire spontaneo di un
mestiere, come è stato detto recentemente; non soltanto
perché ogni costruzione, ogni decorazione architettonica
era l’opera di uomini che conoscevano con l’esperienza
delle proprie mani gli effetti artistici che si possono
ottenere dalla pietra, dal ferro, dal bronzo, o anche
semplicemente da travi e calcina; non soltanto perché
ogni monumento era il risultato dell’esperienza collettiva
accumulata in ciascun «mistero» o mestiere: l’architettura
medievale fu grande perché derivò da una grande
idea. Come l’arte greca, essa scaturì da una concezione
di fratellanza e di unità generata dalla città. Aveva
un’audacia che non si può acquistare se non con lotte
audaci e con vittorie; esprimeva vigore perché il vigore
impregnava tutta la vita della città. Una cattedrale, un
palazzo comunale, simboleggiavano la grandezza di un
insieme del quale ciascun muratore e ciascun tagliatore
di pietra era un costruttore. Un monumento del Medio
110
evo non era uno sforzo temporaneo, dove migliaia di
schiavi eseguivano la parte loro assegnata dall’immaginazione
di un solo uomo: tutta la città vi contribuiva.
L’alto campanile svettava su una costruzione che aveva
in sé della grandezza, in cui si sentiva palpitare la vita
della città; non era una costruzione assurda come la
torre in ferro alta 300 metri di Parigi o come quella fabbrica
in pietra fatta per nascondere la bruttezza d’una
armatura di ferro, come la Tower Bridge a Londra.
Come l’Acropoli di Atene, la cattedrale di una città del
Medio evo era innalzata con l’intenzione di glorificare
la grandezza della città vittoriosa, di simboleggiare
l’unione delle sue arti e dei suoi mestieri, di esprimere
la fierezza di ogni cittadino per una città che era la sua
propria creazione. Spesso, compiuta la seconda rivoluzione
dei nuovi mestieri, si videro le città innalzare
nuove cattedrali proprio per esprimere la nuova unità,
più profonda ed estesa, che veniva allora alla luce. [...]
Tutte le arti erano progredite in modo analogo nelle
città medievali. Le arti del nostro tempo non sono, per
la maggior parte, che una continuazione di quelle sviluppatesi
in quest’epoca. La prosperità delle città fiamminghe
era basata sulla fabbricazione di bei tessuti di
lana. Firenze all’inizio del XIV secolo, prima della peste
nera, fabbricava dai 70.000 ai 100.000 panni di stoffa di
lana, valutati intorno a 1.200.000 fiorini d’oro. La cesellatura
dei metalli preziosi, l’arte del fondere, i bei ferri
lavorati furono creazioni dei «misteri» medievali, che
riuscirono a eseguire, ciascuno nel proprio campo, tutto
ciò che era possibile fare a mano, senza l’aiuto di un
potente motore. [...]
È vero, come dice Whewell, che nessuna di queste
scoperte era stata il risultato di qualche nuovo principio.
E tuttavia la scienza del Medio evo aveva fatto
qualcosa di più che la scoperta propriamente detta di
nuovi princìpi: aveva preparato la scoperta di tutti i
nuovi princìpi che conosciamo attualmente nelle scienze
meccaniche. Aveva cioè abituato il ricercatore ad
osservare i fatti e a ragionarci sopra. Era la scienza
111
induttiva, quantunque non avesse ancora pienamente
capito l’importanza e il potere del metodo induttivo;
comunque sia, essa poneva già le basi della meccanica e
della fisica. Francesco Bacone, Galileo e Copernico sono
stati i discendenti diretti di un Ruggero Bacone e di un
Michele Scoto, proprio come la macchina a vapore è stato
un prodotto diretto delle continue ricerche nelle università
italiane dell’epoca sul peso dell’atmosfera e
degli studi tecnici e matematici fatti a Norimberga.
Ma è necessario insistere sui progressi delle scienze e
delle arti nella città medievale? Non basta citare le cattedrali
nel campo dell’abilità tecnica o la lingua italiana
e i poemi danteschi nel campo del pensiero per dare
immediatamente la misura di ciò che la città medievale
ha creato durante i suoi quattro secoli di vita?
Le città del Medio evo hanno reso un immenso servizio
alla civiltà europea: le hanno impedito di avviarsi
verso le teocrazie e gli Stati dispotici dell’antichità; le
hanno dato la diversità, la fiducia in se stessa, lo spirito
d’iniziativa e le immense energie intellettuali e materiali
che possiede ancor oggi e che sono la miglior
garanzia della sua capacità di resistere ad una nuova
invasione che venga da Oriente. Ma perché dunque
questi centri di civiltà, che avevano tentato di rispondere
a bisogni così profondi della natura umana e che erano
così pieni di vita, non sopravvissero più a lungo?
Forse perché furono colpiti da debolezza senile nel XVI
secolo e, dopo aver respinto tanti assalti esterni e aver
reagito inizialmente con vigore alle lotte interne, alla
fine soccombettero sotto questo duplice attacco?
Varie cause hanno contribuito a questo risultato;
alcune avevano le loro radici in un lontano passato,
altre rimandavano a colpe commesse dalle città stesse.
Verso la fine del XV secolo, vennero costituiti alcuni
potenti Stati che si rifacevano al vecchio modello romano.
In ogni regione, qualche signore feudale, più abile,
più avido di ricchezze e spesso meno scrupoloso dei suoi
vicini, era riuscito ad assicurarsi più ricchi possedimenti
personali, un più alto numero di contadini per le sue
112
terre e di cavalieri per il suo seguito, un più consistente
tesoro nei suoi scrigni. Aveva scelto come sua residenza
un gruppo di villaggi ben situati, dove non si era ancora
sviluppata la libera vita municipale – Parigi, Madrid o
Mosca – e con il lavoro dei suoi servi ne aveva fatto delle
città regie fortificate. Là attirava compagni d’arme,
cui concedeva villaggi con liberalità, e mercanti, cui
offriva la sua protezione per il commercio. Si andava
così formando il germe d’un futuro Stato, che gradatamente
avrebbe cominciato ad assorbire altri centri
simili. In questi centri vi era inoltre una abbondanza di
giureconsulti, razza di uomini tenaci e ambiziosi usciti
dalla borghesia e versati nello studio del diritto romano,
che detestavano in pari grado l’alterigia dei signori
e ciò che chiamavano lo «spirito ribelle» dei contadini.
Trovavano ripugnante la forma stessa della comunità
rurale, che i loro codici ignoravano, e i princìpi federativi,
che consideravano un’eredità dei «barbari»; viceversa,
appoggiavano un cesarismo, sostenuto dalla menzogna
del consenso popolare e dalla forza delle armi, e
lavoravano alacremente per quelli che promettevano di
attuarlo.
La Chiesa cristiana, una volta avversaria della legge
romana e ora sua alleata, lavorò nello stesso senso.
Essendo fallito il tentativo di costituire in Europa
l’Impero teocratico, i vescovi più intelligenti e più ambiziosi
diedero il loro appoggio a quelli sui quali contavano
per ricostruire il potere dei re d’Israele o degli imperatori
di Costantinopoli. La Chiesa consacrò questi primi
dominatori, li incoronò come rappresentanti di Dio
sulla Terra, e mise al loro servizio la scienza e lo spirito
politico dei suoi ministri, le sue benedizioni e le sue
maledizioni, le sue ricchezze e l’influenza che aveva
conservato tra i poveri. I contadini che le città non avevano
potuto o voluto liberare, vedendo come queste non
riuscissero a metter fine alle interminabili guerre tra
nobili, guerre per le quali pagavano un alto prezzo, volgevano
allora le loro speranze verso re, imperatori e
principi; così, mentre li aiutavano a schiacciare i poten-
113
ti signori feudali, li aiutavano anche a costruire lo Stato
centralizzato. Infine, le invasioni dei Mongoli e dei Turchi,
le guerre sante contro i Mori di Spagna, le terribili
guerre che ben presto scoppiarono tra i centri della
nascente sovranità – tra Ile de France e Borgogna,
Scozia e Inghilterra, Inghilterra e Francia, Lituania e
Polonia, Mosca e Tver, ecc. – contribuirono tutte allo
stesso risultato: vennero costituiti potenti Stati e alle
città toccò ora resistere non solamente a vaghe alleanze
di signori, ma anche a centri di potere saldamente organizzati
che avevano armate di servi a loro disposizione.
Il peggio fu che queste autocrazie in ascesa trovarono
appoggi grazie anche alle divisioni che si erano formate
in seno alle città stesse. L’idea fondamentale della città
medievale era grande, e tuttavia non era abbastanza
vasta. L’aiuto e il sostegno reciproco non potevano essere
limitati ad una piccola associazione, ma dovevano
estendersi al territorio circostante, senza tuttavia che
questo assorbisse l’associazione. Ma sotto questo aspetto
il cittadino del Medio evo aveva commesso fin da
principio un grave errore. Invece di vedere nei contadini
e negli operai che si riunivano sotto la protezione
delle sue mura altrettanti ausiliari che avrebbero contribuito
alla prosperità della città – come fu effettivamente
il caso – tracciarono una profonda divisione tra
le famiglie della vecchia borghesia e i nuovi venuti. Ai
primi furono riservati tutti i benefici derivanti dal commercio
e dalle terre comunali; niente fu invece lasciato
agli ultimi, eccetto il diritto di servirsi liberamente
dell’abilità delle loro mani. La città fu così divisa: da
una parte i «borghesi» o «il Comune», e dall’altra «gli
abitanti». Il commercio, che era dapprima comunale,
diventò il privilegio di alcune famiglie di mercanti e di
artigiani; non vi era ormai che un passo da fare perché
divenisse un privilegio individuale o di un gruppo di
oppressori, e questo inevitabile passo fu fatto.
Tale divisione si andò consolidando tanto nella città
propriamente detta che nei villaggi circostanti. Il Comune
aveva ben tentato, inizialmente, di emancipare i
114
contadini, ma le sue guerre contro i signori divennero,
come abbiamo già detto, guerre per liberare la città dai
signori anziché per liberare i contadini. La città lasciò
al signore i suoi diritti sui contadini, a condizione che
non la molestasse più e divenisse un concittadino. Ma i
nobili «adottati» dalla città, e ora residenti nelle sue
mura, non fecero che portare la loro tradizionale bellicosità
nella cinta stessa della città. Benché non tollerassero
di sottomettersi a un tribunale di semplici artigiani
e di mercanti, continuarono nelle loro antiche
ostilità tra famiglie, nelle loro guerre private portate
nelle vie cittadine. Ogni città aveva ora i suoi Colonna e
i suoi Orsini, i suoi Overstolze e i suoi Wise. Grazie alle
cospicue rendite delle terre che avevano conservate, si
circondarono di numerosi clienti, feudalizzando i costumi
e le abitudini della città stessa. E quando i dissensi
cominciarono a farsi sentire tra gli artigiani, offrirono
le loro spade e le loro compagnie d’armi per risolvere le
liti invece di lasciare che i dissensi trovassero soluzioni
più pacifiche, come tradizionalmente accadeva nei tempi
passati. […]
Il più grave e funesto errore fatto dalla maggior parte
delle città fu di prendere per base della loro ricchezza
il commercio e l’industria a detrimento dell’agricoltura.
Ripeterono in tal modo l’errore già commesso dalle città
della Grecia antica, e proprio per questo caddero negli
stessi delitti. Estraniatesi dal mondo agricolo, un gran
numero di città si trovarono necessariamente trascinate
in una politica avversa ai contadini. Questo divenne
sempre più evidente al tempo di Eduardo III e delle jacqueries
in Francia, delle guerre ussite e delle guerre
contadine in Germania. D’altra parte, la politica commerciale
le impegnava in imprese lontane, tanto che
colonie furono fondate dalle città italiane nel sud-est,
dalle città tedesche nell’est, dalle città slave nell’estremo
nord-est.
Si cominciarono a mantenere milizie mercenarie per
le guerre coloniali e ben presto anche per la difesa della
città stessa. Fu necessario sottoscrivere prestiti in pro-
115
porzioni talmente smisurate da demoralizzare completamente
i cittadini; e la conflittualità interna imperò a
ogni elezione nella quale la politica coloniale, di cui
beneficiavano solo alcune famiglie, era in gioco. La divisione
tra ricchi e poveri diventò più profonda e, nel
secolo XVI, in ogni città l’autorità regia trovò alleati solleciti
e l’appoggio dei poveri.
Ci fu ancora un’altra causa nella rovina delle istituzioni
comunali, più profonda e insieme di ordine più
elevato delle precedenti. La storia delle città medievali
rappresenta uno dei più grandiosi esempi del potere
delle idee e dei princìpi sui destini del genere umano, e
dell’estrema diversità nei possibili esiti che accompagnano
ogni profonda trasformazione delle idee prevalenti.
La fiducia in se stessi e il federalismo, la sovranità
di ogni gruppo e la costituzione del corpo politico
dal semplice al complesso, erano le idee prevalenti nel
secolo XI. Ma nelle epoche successive le opinioni si
modificarono profondamente. Gli studiosi di diritto
romano e i prelati della Chiesa, strettamente alleati
dall’epoca di Innocenzo III, riuscirono a neutralizzare
l’idea – l’antica idea greca – che aveva presieduto alla
fondazione delle città. Durante due-trecento anni predicarono
dall’alto del pulpito, insegnarono nelle università,
pronunciarono dal banco del tribunale, che occorreva
cercare la salvezza in uno Stato fortemente centralizzato,
posto sotto un’autorità semi-divina. Questa si
sarebbe incarnata in un uomo dotato di pieni poteri, un
dittatore che, solo, avrebbe potuto salvare la società; in
nome della salute pubblica, questi avrebbe potuto commettere
qualunque specie di violenza: bruciare uomini
e donne sul rogo, farli perire a seguito di indescrivibili
torture, sprofondare intere province nella più abbietta
miseria. E non esitarono a mettere in pratica queste
teorie con inaudita crudeltà, ovunque potesse arrivare
la spada del re, o il fuoco della Chiesa, o tutti e due
insieme. Con questi insegnamenti e questi esempi,
costantemente ripetuti fino a condizionare l’opinione
pubblica, lo spirito stesso dei cittadini fu modellato in
116
modo nuovo. Ben presto nessuna autorità fu trovata
eccessiva, nessuna esecuzione a fuoco lento parve troppo
crudele se compiuta «per la sicurezza pubblica». E
con questa nuova attitudine di spirito, e questa nuova
fede nella potenza di un uomo, il vecchio principio federalista
svanì e il genio creatore delle masse si estinse.
L’idea romana trionfava e, in queste circostanze, lo Stato
accentrato trovò nelle città una facile preda.
Nel XV secolo Firenze offre il miglior esempio di questo
mutamento. Nelle epoche precedenti, una rivoluzione
popolare era il segnale d’un nuovo slancio. Ora,
quando spinto dalla disperazione il popolo insorge, non
ha più idee costruttive, nessuna nuova idea lo illumina.
Un migliaio di rappresentanti entrano nel consiglio
comunale invece di quattrocento; cento uomini entrano
nella signoria invece di ottanta. Ma una rivoluzione di
cifre non vuol dir niente. Lo scontento del popolo cresce
e nuove rivolte scoppiano. Allora si fa appello a un salvatore,
al «tiranno». Questi massacra i ribelli, e tuttavia
il disgregamento del corpo comunale continua, peggio
che mai. Quando, dopo una nuova rivolta, il popolo
di Firenze si rivolge all’uomo più popolare della città,
Gerolamo Savonarola, il monaco risponde: «Popolo mio,
sai bene che non posso occuparmi degli affari di Stato...
purifica la tua anima, e se in questa disposizione di spirito
riformerai la tua città, allora, popolo di Firenze,
avrai inaugurato la riforma di tutta l’Italia!». Vengono
bruciate le maschere di carnevale e i cattivi libri, si fa
decretare una legge di carità, un’altra contro l’usura…
ma la democrazia di Firenze resta tal quale. Lo spirito
del tempo antico è ormai morto. Per aver avuto troppa
fiducia nel governo, i cittadini hanno cessato d’aver
fiducia in se stessi, sono incapaci di trovare nuove vie.
Allo Stato non resta che farsi avanti e schiacciare le
ultime libertà.
E tuttavia la corrente del mutuo appoggio non si è
del tutto inaridita nelle moltitudini, ma ha continuato a
scorrere anche dopo questa disfatta. Si è ingrossata di
nuovo con una forza formidabile agli appelli comunisti
117
dei primi propagatori della Riforma, e ha continuato a
scorrere anche dopo che le masse, non essendo riuscite
a realizzare quell’esistenza che speravano di inaugurare
sotto l’ispirazione della religione riformata, sono
nuovamente cadute sotto la dominazione di un potere
autocratico. Il flusso scorre ancora oggi alla ricerca di
una nuova manifestazione, che non sarà più lo Stato,
né la città del Medio evo, né la comunità rurale dei barbari,
né il clan dei selvaggi, ma che parteciperà di tutte
queste forme, pur superandole grazie a una concezione
più ampia e profondamente umana.
118
VI
Per Kropotkin l’idea del bene e del male esiste
nell’umanità, nel senso che il sentimento morale non si
configura come una semplice irruzione soggettiva
dell’anima, ma come la verità della sua datità biologiconaturale
giunta al punto del suo auto-riconoscimento
razionale. Perciò diventa legittima la fondazione di
un’etica basata sulle scienze naturali, o meglio sulla
ricerca «etologica» delle leggi del comportamento umano
derivato dallo studio naturalistico dei costumi; ciò che,
in termini attuali, può essere definita la «scuola adattiva
» della cultura. La dimensione positivistica ed evoluzionistica
di tale concezione si rende evidente quando si
afferma che è possibile colmare la profonda sfasatura
esistente tra lo sviluppo delle scienze naturali e quello
delle scienze morali, tra le prime che hanno fatto immensi
progressi e le seconde che sono rimaste arretrate
ad uno stadio di elaborazione metafisica, compenetrando
queste due dimensioni in un’unica Weltanschauung.
A questo proposito ecco che cosa ha recentemente
scritto uno scienziato notissimo a livello mondiale (e che
non ha nulla a che vedere con la scuola socio-biologica),
Luca Cavalli Sforza: «Oggi la moralità non è più considerata
una prerogativa della nostra specie. Gli studi
effettuati da trent’anni a questa parte sulla vita sociale
119
di numerose specie di animali – in particolare mammiferi
– e soprattutto su scimmie e primati indicano che il
senso della giustizia [il tondo è mio], di simpatia e di
empatia sono diffusi anche fra parecchi animali. Non
solo: se vogliamo comprendere l’origine di questi fenomeni
nella nostra stessa specie ci conviene guardare al
lontano passato, alla lunghissima evoluzione che i
nostri antenati hanno diviso con gli antenati delle scimmie
attuali».
In conclusione viene confermato quanto sostenuto da
Kropotkin: la socialità non è una scelta dei protagonisti,
ma una necessità della specie, non discende dalla
volontà dei singoli, ma dalla loro appartenenza alla collettività.
E la società, a sua volta, è il risultato dell’evoluzione
spontanea della natura, perché deriva da un
lento ma irreversibile sviluppo delle potenzialità libertarie
ed egualitarie latenti negli esseri viventi, per cui soltanto
la piena coscienza scientifica di questa tendenza
naturale trasforma la sua datità deterministica in una
possibilità progettuale di liberazione: gli individui si
liberano solo attraverso il pieno riconoscimento della
loro inscindibile appartenenza alla specie e dunque della
loro ineliminabile dimensione collettiva.
Per Kropotkin il punto centrale è rappresentato dall’idea
di giustizia quale pratica immanente alle relazioni
sociali. Con il progredire della società, infatti, si fa
largo anche il concetto di uguaglianza. Così equità e
uguaglianza tendono a coincidere con il sentimento
innato di socialità, e in questo senso la giustizia non è
un valore soggettivo, o una mera formulazione ideale,
ma un fatto intrinseco alle leggi della vita sociale, la
quale non può svolgersi se non viene esplicata la reciprocità
fra i suoi membri.
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione
italiana de L’etica del 1972, nella traduzione (rivista)
di Alfredo M. Bonanno e Vincenzo Di Maria.
120
L’ETICA
Lo scopo principale dell’etica realistica moderna è
[...] di dare una definizione del fine morale cui tendiamo.
Ma questo fine, o questi fini, quale che sia il carattere
ideale che essi comportano e quale che sia la lontananza
della loro realizzazione, devono nonostante tutto
appartenere al mondo reale.
La morale non può avere per scopo qualche cosa di
«trascendente», cioè di superiore a ciò che in realtà esiste,
come vogliono certi idealisti; il suo scopo deve essere
reale. È nella vita, e non in uno stato successivo al
decorso naturale della vita, che dobbiamo trovare la
nostra soddisfazione morale.
Quando Darwin ha formulato la sua teoria della «lotta
per l’esistenza» e ha presentato questa lotta come il
fattore principale dell’evoluzione, egli ha sollevato anco-
121
ra una volta il vecchio problema della moralità o della
possibile immoralità della natura. L’origine delle nozioni
di bene e male, che ha occupato il pensiero filosofico
dopo lo Zend-Avesta, è stata nuovamente posta sul tappeto
con maggiore energia e profondità. I darwinisti
hanno considerato la natura come un vasto campo di
battaglia dove i più deboli vengono sterminati dai più
forti, dai più abili, dai più astuti. In queste condizioni la
natura non può insegnare all’uomo che la lotta, il corpo
a corpo.
Queste idee, come sappiamo, si sono diffuse largamente.
Partendo da esse il filosofo evoluzionista ha
dovuto però risolvere una grave contraddizione da lui
stesso introdotta nella sua filosofia. In base a questa
filosofia, infatti, non ci si può dichiarare assolutamente
certi che l’uomo sia in possesso di un’idea superiore del
«bene» e che la credenza nel trionfo graduale del bene
sul male sia profondamente radicata nella natura umana.
Pertanto, questa dottrina è tenuta a spiegare da
dove proviene la nozione di bene, la credenza nel progresso.
Essa non può adagiarsi sul comodo guanciale
epicureo che il poeta Tennyson descrive con le seguenti
parole: «In un modo qualsiasi il bene si troverà come
risultato definitivo del male». La dottrina evoluzionistica
non può concepire la natura «tinta di sangue» – red
in tooth and clow (con gli artigli e i denti rossi di sangue),
come la descrivono Tennyson e il darwinista Huxley
– sempre in lotta contro il bene, negazione vivente
del bene, e affermare nello stesso tempo che «in ultima
analisi» il principio del bene trionferà. Deve, quantomeno,
spiegare questa contraddizione.
Se uno studioso riconosce che la sola lezione che
l’uomo da se stesso può ricavare dalla natura è la lezione
della violenza, egli dovrà nello stesso tempo riconoscere
l’esistenza di qualche altra influenza, esterna alla
natura, soprannaturale, che ispira all’uomo l’idea di
«bene supremo» e conduce verso un fine superiore lo
sviluppo dell’umanità. E così facendo, annullerà il suo
stesso tentativo di spiegare l’evoluzione dell’umanità
122
con il solo gioco delle forze naturali.
In realtà, le posizioni della teoria evoluzionistica
sono lontane dall’essere così poco solide; esse non conducono
affatto alle contraddizioni in cui è caduto Huxley.
Lo studio della natura, come ha dimostrato Darwin
stesso nella sua seconda opera, L’origine dell’uomo, è
lontano dal confermare la prospettiva pessimista di cui
abbiamo appena parlato. La concezione di Tennyson e
di Huxley è incompleta, unilaterale e, conseguentemente,
falsa; la anti-scientificità diventa chiara se si pensa
al fatto che Darwin parla, in un capitolo del suo libro,
di un aspetto assai differente della vita e della natura.
La natura stessa, egli dice, ci mostra, accanto alla
lotta, un’altra categoria di fatti con un significato assolutamente
diverso: il mutuo appoggio all’interno della
stessa specie; questi fatti hanno una importanza superiore
a quelli precedenti perché sono necessari a mantenere
la prosperità della specie.
Questa tesi estremamente importante, che la maggior
parte dei darwinisti si rifiuta di tenere in conto e
che Alfred Russel Wallace è arrivato persino a negare,
io ho cercato invece di svilupparla, citando a tal proposito
una gran quantità di fatti in una serie di articoli in
cui ho dimostrato l’enorme importanza del mutuo
appoggio per la sopravvivenza delle specie animali e
dell’umanità, e soprattutto per il loro sviluppo progressivo,
per la loro evoluzione.
Senza cercare di attenuare il fatto che numerosi animali
si nutrono di specie appartenenti ad altre classi
del mondo animale o di specie più piccole della stessa
famiglia zoologica, ho dimostrato che in natura la lotta
è spesso circoscritta a una lotta fra specie differenti, ma
che all’interno di ciascuna specie, e spesso all’interno di
un raggruppamento formato da specie diverse ma
viventi in comune, il mutuo appoggio è la regola generale.
È per questo che il lato sociale della vita animale
svolge in natura un ruolo molto più importante che il
mutuo sterminio, avendo oltretutto un’estensione più
vasta. Il numero delle specie sociali tra i ruminanti,
123
nella maggior parte dei roditori, presso numerosi uccelli,
nelle api, nelle formiche ecc., cioè le specie che non
vivono cacciandosi a vicenda, è in effetti considerevolissimo,
e il numero di individui che comprende ciascuna
di queste specie è estremamente alto. Inoltre, presso
tutte le fiere e tutti i rapaci, soprattutto quelli che non
sono in via di estinzione a seguito dello sterminio condotto
dall’uomo o per altre ragioni, viene praticato in
certa misura il mutuo appoggio. Il mutuo appoggio è di
fatto dominante in natura. [...]
Essendo necessario alla conservazione, alla prosperità
e allo sviluppo di ciascuna specie, il mutuo appoggio
è diventato ciò che Darwin ebbe a definire un istinto
permanente costantemente in azione presso tutti gli
animali sociali, ivi compreso, naturalmente, l’uomo.
Questo istinto, che si manifesta fin dai primordi
dell’evoluzione del regno animale, è, senza dubbio,
profondamente radicato presso tutti gli animali, inferiori
e superiori, come l’istinto materno; anzi si traduce in
un vantaggio nei casi in cui è dubbia l’esistenza di un
istinto materno, come nei molluschi, in certi insetti e
nella maggior parte dei pesci.
Così Darwin aveva pienamente ragione quando affermava
che l’istinto della mutua attrazione si manifesta
presso gli animali sociali in modo più costante
dell’istinto egoista alla conservazione personale. Egli vi
vedeva, come sappiamo, il rudimento di una coscienza
morale: fatto che, malauguratamente, i darwinisti hanno
troppo spesso dimenticato.
Ma non è tutto: questo istinto, una volta apparso,
sarà l’origine dei sentimenti di benevolenza e di accettazione
parziale del singolo nel suo gruppo, diventando
il punto di partenza di tutti i sentimenti superiori. È
infatti su questa base che si svilupperanno i sentimenti
più elaborati di giustizia, equità, uguaglianza e, infine,
di ciò che abbiamo convenuto chiamare abnegazione.
[...]
Comprendiamo così non soltanto che la natura non ci
dà lezioni di comportamento amorale, ovvero di indiffe-
124
renza riguardo la morale, indifferenza che, essendo un
principio estraneo alla natura, dovrebbe combattere per
dominarla, ma che al contrario la nozione di bene e di
male, i ragionamenti sul «bene supremo», sono improntati
alla natura stessa. Essi non sono che i riflessi, nei
ragionamenti dell’uomo, di ciò che egli ha visto presso
gli animali; nel corso della vita sociale queste impressioni
vanno a comporre la nozione generale di bene e di
male. E non si tratta di punti di vista personali di qualche
individuo, ma dei sentimenti della maggioranza.
Questi giudizi ci confermano gli elementi di giustizia e
di mutua attrazione, quale che sia il soggetto presso cui
si riscontrano; è qualcosa di analogo alle nozioni di
meccanica che, dedotte dalle osservazioni fatte sulla
superficie terrestre, si applicano benissimo ai problemi
degli spazi celesti.
Non possiamo non ammettere la stessa cosa quando
si parla dello sviluppo del carattere e delle istituzioni
umane. Anche l’evoluzione dell’uomo si effettua tramite
la natura, da cui riceve un impulso positivo. Le stesse
istituzioni di assistenza e di mutuo appoggio create
all’interno della società mostrano all’uomo, con sempre
maggiore evidenza, quale potenza può generarsi attraverso
il loro impiego. Con un simile mezzo di azione
sociale la fisionomia morale dell’uomo si elabora in
modo più pieno. Ricerche storiche recenti permettono di
concepire la storia dell’umanità, per ciò che concerne
l’elemento etico, come un’evoluzione del bisogno, caratteristico
dell’uomo, di organizzare la sua esistenza sulla
base del mutuo appoggio. Tanto nei clan che, più tardi,
nelle comunità rurali, nelle repubbliche e nelle città
libere, queste forme sociali diventeranno, malgrado
alcuni periodi di regresso, le fondamenta del nuovo progresso.
S’intende che dobbiamo rinunciare all’idea di studiare
la storia dell’umanità nel senso di una catena ininterrotta,
di un’evoluzione che va dall’età della pietra
fino all’epoca attuale. Lo sviluppo della società non è
avvenuto senza interruzioni. Più volte si è stati costret-
125
ti a ricominciare: in India, in Egitto, in Mesopotamia,
in Grecia, a Roma, nella penisola scandinava, nell’Europa
occidentale; ogni volta partendo da tribù primitive
e in seguito da comunità rurali. Se consideriamo ciascuna
di queste linee di sviluppo, una dopo l’altra, vedremo
soprattutto nell’Europa occidentale, dopo la caduta
dell’Impero romano, un graduale estendersi delle nozioni
di aiuto e di soccorso reciproco, prima dalla tribù alla
città, poi alla nazione e infine all’unione internazionale
delle nazioni. D’altra parte, a dispetto delle fasi di
regresso che a diverse riprese si sono manifestate presso
le stesse nazioni più civili, si può constatare una tendenza
a estendere sempre più i benefici delle idee correnti
sulla giustizia e sul reciproco aiuto tra gli uomini.
Questa tendenza è portata avanti in seno ai popoli civili
dagli esponenti del pensiero più avanzato e da quei
movimenti popolari che vogliono attuare il progresso
ponendo in essere alcune di quelle concezioni che sembra
desiderabile attendersi dallo sviluppo futuro
dell’evoluzione.
Il fatto stesso che le fasi di regresso verificatesi
periodicamente presso i diversi popoli siano considerate
dalla parte più colta della società come dei fenomeni
passeggeri, verosimilmente evitabili in avvenire, dimostra
come il criterio etico sia collocato su un livello più
elevato. Man mano che aumentano nella società civile i
mezzi per soddisfare i bisogni dell’insieme della popolazione,
aprendo in tal modo la via a una migliore comprensione
della giustizia per tutti, le esigenze etiche
diventano necessariamente sempre più elevate.
Così, ponendosi dal punto di vista di un’etica scientifica
e realistica, l’uomo può non soltanto credere nel
progresso morale, ma fondare questa credenza su delle
basi scientifiche, malgrado tutte le lezioni di pessimismo
che riceve. La credenza nel progresso che all’inizio
non era che una semplice ipotesi, si trova ora pienamente
confermata dalla conoscenza; e d’altro canto non
bisogna dimenticare che l’ipotesi precede sempre la scoperta
scientifica.
126
Se la filosofia dell’empirismo, che si fonda sulle
scienze naturali, non ha potuto, fino a oggi, provare
l’esistenza di un progresso continuo delle regole morali
(che si può considerare come uno degli elementi fondamentali
dell’evoluzione), lo si deve, in gran parte, ai
filosofi speculativi, cioè non scientifici. Sono questi che
hanno insistentemente negato l’origine naturale del
senso morale, abbandonandosi a infinite sottili dissertazioni
per attribuirgli un’origine soprannaturale. Il
loro lavoro si è talmente dilatato, fino alla «predestinazione
dell’uomo», allo «scopo della nostra esistenza», ai
«fini della natura e della Creazione», che una reazione
doveva necessariamente prodursi contro tutte queste
idee mitologiche e metafisiche. Contemporaneamente,
gli evoluzionisti moderni, dopo aver mostrato l’esistenza
nel regno animale di un’aspra lotta per la vita tra le
diverse specie, si sono visti nell’impossibilità di ammettere
che un fenomeno così brutale, origine di tante sofferenze
per gli esseri viventi, potesse essere un’espressione
della volontà dell’Essere Supremo. Così hanno
finito per negare l’esistenza di un qualsiasi elemento
morale. Ciò non significa che ora, quando si comincia a
considerare lo sviluppo graduale delle specie, delle razze
umane, delle istituzioni umane e dei princìpi stessi
dell’etica nel senso di un’evoluzione naturale, non
diventi possibile studiare, senza cadere nella filosofia
del soprannaturale, le diverse forze che presiedono a
queste evoluzioni, ivi compresa la forza naturale della
morale che è costituita dal mutuo appoggio e dalla crescente
attrazione reciproca.
Perseverando in questo senso, si attua una grande
conquista per la filosofia. Siamo così in diritto di concludere
che lo studio della natura e della storia, giustamente
inquadrato, denuncia l’esistenza costante di una
doppia tendenza: da un lato la tendenza alla socialità;
dall’altro, come risultato di questa, l’aspirazione a una
maggiore intensità di vita, da cui il bisogno di una maggiore
felicità per l’individuo, e l’aspirazione verso un
progresso rapido dal punto di vista fisico, intellettuale e
127
morale.
Questa duplice aspirazione è caratteristica della vita
in generale, costituendo una delle proprietà fondamentali
e uno degli attributi necessari a qualsiasi aspetto
della vita nel nostro pianeta o altrove. Non si tratta di
un tentativo della metafisica di inficiare la «universalità
della legge morale», né di una semplice supposizione.
Senza un aumento costante della socialità, cioè
dell’intensità della vita e della varietà di sensazioni che
essa apporta, la vita stessa è impossibile. Qui appunto
risiede l’essenza centrale dell’esistenza. Se questa condizione
viene meno, la vita stessa ne viene menomata
avviandosi alla propria distruzione. Siamo davanti ad
una vera e propria legge di natura.
Ne risulta che la scienza, lungi dal misconoscere i
fondamenti dell’etica, dà al contrario un contenuto concreto
alle nebulose affermazioni metafisiche dell’etica
trascendentale, cioè soprannaturale. Man mano che la
scienza penetra sempre più a fondo nella natura essa
dona all’etica evoluzionistica una certezza filosofica
incontestabile, là dove il pensatore trascendentale non
poteva fondarsi che su ipotesi assai vaghe.
Un altro rimprovero spesso mosso al pensiero fondato
sullo studio della natura, è ancor meno giustificato.
Sarebbe un modo di pensare che non può che condurre
alla conoscenza di una fredda verità matematica. Le
conoscenze di questo tipo avrebbero poca influenza sulle
nostre azioni. Lo studio della natura ci può tutt’al più
ispirare l’amore per la verità, ma solo la religione può
ispirare un’emozione superiore, come quella della «infinita
bontà».
Non è difficile provare che tale affermazione è infondata
ed è per conseguenza falsa. L’amore per la verità
costituisce già in sé una buona meta, la «migliore» di
tutta la dottrina morale. E i credenti che siano anche
persone intelligenti lo comprendono benissimo. Quanto
alla nozione di bene e all’aspirazione verso questo bene,
la «verità» di cui parliamo – il riconoscimento del
mutuo appoggio come carattere fondamentale dell’esi-
128
stenza di tutti gli esseri viventi – è chiaramente una
verità ispiratrice destinata un giorno a esprimere
degnamente la poesia della natura, in quanto aggiunge
alla conoscenza di questa un nuovo tratto: l’umanitarismo.
Goethe, con la perspicacia del suo genio panteista,
ne comprese tutta l’importanza filosofica quando lo zoologo
Eckermann gliene fece cenno nel corso di una conversazione.
Man mano che studiamo più da vicino l’uomo primitivo,
constatiamo sempre più che dalla vita degli animali,
con i quali viveva in stretta comunanza, egli
acquisì le prime lezioni sulla coraggiosa difesa dei propri
simili, sull’abnegazione a favore del gruppo,
sull’amore illimitato per la famiglia, sull’utilità generale
della vita in società. Le nozioni di «virtù» e di «vizio»
non sono soltanto umane, ma zoologiche.
Non è necessario insistere sull’influenza che le idee
hanno sulle nozioni morali, come pure sull’influenza
inversa che le nozioni morali hanno sulla fisionomia
intellettuale di ciascuna epoca. L’aspetto e lo sviluppo
intellettuale di un’epoca possono qualche volta prendere
una direzione completamente falsa sotto la pressione
di circostanze esterne diverse: sete di ricchezza, guerre,
ecc.; esse possono, durante il corso della storia, rimbalzare
in una nuova direzione e raggiungere, in questo
modo, un livello più elevato. Ma nell’uno o nell’altro
caso, la vita intellettuale di un’epoca esercita sempre
una profonda influenza sull’insieme delle nozioni morali
di una società. La stessa cosa è vera anche quando si
tratta di un individuo.
È altrettanto certo che i pensieri, le idee, sono delle
forze, per usare l’espressione di Fouillée; essi diventano
forze etiche, morali, quando sono giusti e sufficientemente
diffusi per esprimere la vita della natura nel suo
insieme e non soltanto in uno dei suoi aspetti. È per
questo che quando si tratta di creare una morale
suscettibile di determinare un’influenza duratura sulla
società, bisogna cominciare a stabilirne le basi per mezzo
di verità solidissime. Questo costituisce uno dei prin-
129
cipali ostacoli all’elaborazione di un sistema etico completo,
capace di soddisfare le esigenze del nostro tempo.
La causa è data dallo stato infantile in cui si trova
ancora la scienza della società. La sociologia ha riunito
da poco i suoi materiali; essa comincia soltanto ora a
studiarli allo scopo di stabilire la direzione probabile
della futura evoluzione dell’umanità. Essa urta continuamente
contro una gran quantità di pregiudizi inveterati.
L’etica moderna ha per compito principale quello di
cercare, con la riflessione filosofica, ciò che vi è di comune
tra le due categorie di sentimenti contrapposti che
esistono nell’uomo; essa aiuta così a trovare non un
semplice compromesso o un accordo tra i due, ma la
loro sintesi, la loro generalizzazione. Alcuni di questi
sentimenti portano gli uomini a dominare i loro simili
in vista di scopi personali; altri, all’inverso, li portano a
unirsi tra di loro per attendere con uno sforzo comune
all’attuazione di ciò che non è possibile realizzare da
soli. I primi rispondono a un bisogno fondamentale
dell’uomo: il bisogno della lotta; i secondi rispondono a
un altro bisogno egualmente fondamentale: quello
dell’unione e della reciproca attrazione. Questi due
gruppi di sentimenti non possono non entrare in conflitto,
ma è assolutamente necessario trovare la loro sintesi,
sotto una forma qualsiasi. Ciò è tanto più necessario
per l’uomo moderno in quanto, se non ha delle convinzioni
precise che lo mettano in grado di riconoscere il
suo posto in questo conflitto, egli rischia di perdere la
sua potenza attiva. Egli non può ammettere che la lotta
per il predominio, la guerra al coltello tra gli individui e
le nazioni, sia l’ultima parola della scienza; d’altra parte
egli non crede che la questione possa essere risolta
predicando la fratellanza e l’abnegazione, come il cristianesimo
ha fatto per secoli senza mai arrivare però
né alla fratellanza tra i popoli o tra gli uomini, né alla
reciproca tolleranza tra le diverse dottrine cristiane.
Quanto alla dottrina comunista, la maggioranza non vi
crede per la stessa ragione su esposta. Così lo scopo
130
principale dell’etica è attualmente quello di aiutare
l’uomo a trovare una soluzione a questa fondamentale
contraddizione. A tal proposito, rivolgeremo ora l’attenzione
ad un’analisi dettagliata dei mezzi ai quali gli
uomini hanno fatto ricorso nei secoli per arrivare al più
alto grado di benessere per tutti senza paralizzare, al
contempo, l’energia personale di ciascuno. Allo scopo di
giungere alla sintesi voluta, dobbiamo studiare egualmente
le tendenze analoghe che si rivelano nella nostra
società, i primi tentativi ancora timidi come le possibilità
latenti. Poiché nessun nuovo movimento si produce
senza risvegliare un certo entusiasmo, necessario a vincere
l’inerzia intellettuale, la nuova etica avrà per compito
fondamentale quello di suggerire all’uomo un ideale
capace di risvegliare l’entusiasmo, donando agli
uomini la forza necessaria per realizzare nella vita reale
ciò che può conciliare l’energia individuale con il
lavoro per il bene di tutti.
Questa necessità di un ideale legato alla realtà ci
porta a considerare la principale obiezione opposta a
questi sistemi etici non religiosi. Essi mancherebbero
dell’autorità necessaria, si dice, le loro finalità non risveglierebbero
che il semplice sentimento del dovere,
dell’obbligo. È perfettamente vero che l’etica empirica
non ha mai preteso, come suo carattere vincolante, ciò
che fonda, ad esempio, i dieci comandamenti di Mosé. È
altrettanto vero che quando Kant propone l’«imperativo
categorico» come fondamento della legge morale – «agisci
in modo tale che l’aspirazione della volontà possa
divenire il principio di una legge suscettibile di applicazione
universale» – egli intende dimostrare che questa
regola non ha bisogno di alcuna sanzione superiore per
essere riconosciuta come universalmente vincolante.
Essa è, continua Kant, una forma necessaria del pensiero,
una categoria della nostra ragione; non è dedotta
da alcuna considerazione utilitaristica.
Ma la critica moderna, dopo Schopenhauer, ha
mostrato che Kant sbaglia. Egli non ha provato per
quali ragioni l’uomo si dovrebbe sottomettere a questo
131
«imperativo», ed è curioso che il ragionamento conduca
lo stesso Kant all’idea che la sola ragione che permette
al suo «imperativo» di aspirare al generale riconoscimento
è la sua utilità sociale. Eppure le pagine in cui
Kant dimostra che in nessun caso le considerazioni di
utilità devono essere date come base per la morale sono
le più belle che abbia scritto. In realtà egli ha composto
uno splendido elogio del sentimento del dovere, ma non
è riuscito a trovare a questo sentimento altra base che
la conoscenza intima dell’uomo e il suo desiderio di conservare
un’armonia tra le sue idee e i suoi atti.
La morale empirica non cessa certamente di controbattere
all’ingiunzione religiosa espressa dalle parole
«Io sono il signore Dio tuo»; ma la contraddizione
profonda che continua ad esistere tra le prescrizioni del
cristianesimo e la vita reale delle società che si definiscono
cristiane toglie comunque all’accusa in questione
tutta la sua forza. Bisogna dire che la morale empirica
non è completamente priva di un carattere condizionante.
I diversi sentimenti e atti che, dopo August
Comte, si chiamano «altruisti» possono essere facilmente
suddivisi in due categorie. I primi, assolutamente
necessari se si vuole vivere in società, non dovrebbero
mai essere definiti altruisti: essi contengono un carattere
di reciprocità e sono compiuti dall’individuo esclusivamente
nel proprio interesse, come avviene per tutti
gli atti dettati dall’istinto di conservazione. Accanto a
questi atti ne esistono altri che non presuppongono
alcuna reciprocità. Chi li compie dà la sua forza, la sua
energia, il suo entusiasmo, senza attendere nulla in
cambio, senza presupporre alcuna ricompensa. Sono
proprio questi atti i grandi fattori di perfezionamento
morale che è possibile definire obbligatori. Queste due
categorie di atti sono costantemente confusi da tutti gli
autori che trattano di morale, ed è per questo che si
rilevano così tante contraddizioni nelle questioni relative
all’etica.
È facile, tuttavia, uscire da questa confusione. È
chiaro fin dall’inizio che non bisogna confondere il
132
dominio dell’etica con quello della legislazione. L’etica
non dà risposta alcuna a questo problema: una legislazione
è, o meno, necessaria? La morale è al di sopra di
questo problema. Si conoscono numerosi studiosi di etica
che negano la necessità di una qualsiasi legislazione
e si appellano direttamente alla coscienza umana; agli
inizi della Riforma, questi pensatori esercitarono una
notevole influenza. Il compito dell’etica non è quello di
insistere sui difetti dell’uomo e rimproverargli i suoi
«peccati»: essa deve fare opera positiva, indirizzandosi
ai suoi migliori istinti. L’etica definisce e spiega i
princìpi fondamentali senza i quali né gli animali né gli
uomini avrebbero potuto vivere in società. Successivamente,
fa appello a qualcosa di superiore: all’amore, al
coraggio, alla fratellanza, al rispetto di se stessi, a una
vita conforme all’ideale. Infine, dice all’uomo che se
vuole vivere una vita nella quale tutte queste forze trovino
piena espressione, deve rinunciare una volta per
tutte a credere che sia possibile vivere senza tener conto
dei bisogni e dei desideri dei suoi simili. L’etica insegna
che ci si avvicina a questa vita solo quando si stabilisce
una certa armonia tra l’individuo e coloro che lo
circondano. E aggiunge: «Guardate la natura, studiate
il passato dell’uomo, vi troverete la verità». Quando
l’uomo, per una ragione qualsiasi, esita non sapendo
come agire in un caso determinato, l’etica gli viene in
aiuto mostrandogli come lui stesso vorrebbe che gli altri
agissero nei suoi riguardi nelle stesse circostanze.
Anche in questo caso, l’etica non indica alcuna linea
di condotta in modo rigido, perché l’uomo deve misurare
da sé il valore dei diversi argomenti. A chi è incapace
di sopportare uno scacco, è inutile consigliare il rischio.
Allo stesso modo è inutile predicare a un giovane pieno
di energia la prudenza dell’età matura. Egli ribatterà
con le parole profondamente giuste con le quali Egmont
si rivolge al vecchio conte Oliver nel dramma di Goethe,
ed avrà ragione: «Come se fossero posseduti da spiriti
invisibili, i corsieri luminosi del tempo trasportano il
leggero veicolo del nostro destino; non ci resta che tene-
133
re coraggiosamente le redini e guidare il carro, a sinistra,
per evitare una pietra, a destra, per evitare una
frana. Dove siamo condotti? Non si sa. Noi sappiamo
soltanto da dove veniamo». [...]
Ma lo scopo principale dell’etica non è quello di dare
consigli individuali. Essa tende piuttosto a prospettare
all’insieme degli uomini un fine supremo, un ideale che
li guidi e li inciti ad agire istintivamente nella direzione
voluta, meglio di qualsiasi consiglio. Proprio come lo
scopo dell’educazione è di abituare a effettuare quasi
inconsciamente una moltitudine di ragionamenti appropriati,
così lo scopo dell’etica è di creare un’atmosfera
sociale in grado di far comprendere alla maggioranza
degli uomini, in modo assolutamente abitudinario, cioè
senza esitazioni, gli atti che conducono al benessere di
tutti e al massimo di felicità per ciascuno.
È questo lo scopo finale dell’etica. Per raggiungerlo,
dobbiamo sbarazzare le teorie etiche dalle contraddizioni
interne.
Così, ad esempio, la morale che predica la «benevolenza
» per misericordia e per pietà, porta in sé una
mortale contraddizione. Essa comincia con il proclamare
la necessità della giustizia per tutti, cioè l’uguaglianza
o una fratellanza perfetta, che poi è la stessa cosa
dell’uguaglianza, o almeno un’uguaglianza di diritto.
Successivamente si affretta ad aggiungere che è inutile
perseguire questo scopo: l’uguaglianza è irrealizzabile...
Quanto alla fratellanza, che poi è la base di tutte le
religioni, non bisogna prenderla alla lettera: è solo una
parola poetica usata da predicatori entusiasti. «La disuguaglianza
è una legge di natura», affermano i predicatori
religiosi che, in questo caso, evocano la natura. Ma
noi consigliamo di domandare delle lezioni alla natura
piuttosto che alla religione, la quale ha preteso di sottomettere
la natura. Ma diventando troppo evidente la
disuguaglianza tra gli uomini, continuando le ricchezze
a essere accaparrate da una piccola minoranza delimitata,
la maggioranza degli uomini è ridotta a vivere nella
più grave miseria. Essere in favore del povero è allo-
134
ra un vero e proprio dovere sacro, purché ciò non intacchi
la propria situazione privilegiata. Una morale simile
può certamente mantenersi per qualche tempo, o
anche per parecchio tempo se viene sostenuta dalla
religione così come l’interpreta la Chiesa imperante.
Ma dal momento in cui l’uomo applica alla religione il
suo spirito critico e cerca di stabilire dei convincimenti
concreti per mezzo della ragione, e non per mezzo della
fede e dell’obbedienza evangelica, questa contraddizione
interna non può reggere a lungo: egli cercherà di
separarsene, e prima lo fa meglio è; la contraddizione
interna è la morte dell’etica, un verme che rode e
distrugge tutta l’energia di un uomo.
La moderna teoria della morale è basata su una condizione
fondamentale: essa non deve intralciare l’attività
spontanea dell’individuo, neanche per uno scopo
elevato quale potrebbe essere il bene della società o della
specie. Wundt, nella sua eccellente esposizione delle
dottrine etiche, fa osservare che dopo «il secolo dei
lumi», alla metà del XVIII secolo, quasi tutti i sistemi
morali sono diventati individualistici. Ma questo punto
di vista è vero solo in parte, in quanto i diritti dell’individuo
sono stati difesi con grande energia solo in campo
economico. E anche qui la libertà individuale è stata, in
pratica come in teoria, più apparente che reale. Quanto
agli altri settori – politico, intellettuale, artistico – si
può dire che man mano che l’individualismo economico
si è affermato con maggiore energia, l’assoggettamento
dell’individuo all’organizzazione militare dello Stato e
al suo sistema di istruzione, per non parlare della disciplina
intellettuale necessaria a mantenere le istituzioni
esistenti, è costantemente aumentato. Anche la maggior
parte dei riformatori sociali di tendenze estremiste
ammettono ora, come premessa necessaria delle loro
previsioni future, una maggiore ingerenza dello Stato
nel raggio di azione dell’individuo.
Questa tendenza non ha mancato di sollevare proteste,
formulate da Godwin agli inizi del XIX secolo e da
Spencer nella seconda metà dello stesso secolo; essa ha
135
portato Nietzsche ad affermare che è meglio rifiutare la
morale, se non le si può trovare altra base che il sacrificio
dell’individuo a favore del genere umano. Questa
critica delle dottrine morali correnti costituisce una delle
caratteristiche intellettuali della nostra epoca, tanto
più che il suo movente principale non è tanto un’aspirazione
all’indipendenza economica (come è avvenuto nel
XVIII secolo per tutti i difensori dei diritti dell’individuo,
Godwin escluso), quanto invece il desiderio appassionato
di indipendenza individuale in vista della creazione
di un nuovo e migliore ordine sociale, dove il benessere
di tutti diventerà la base per il completo sviluppo
dell’individuo.
Uno sviluppo insufficiente dell’individuo conduce
invece a una mentalità gregaria, caratterizzata da
mancanza di iniziativa e di forza creatrice personale.
Ciò costituisce uno dei difetti peculiari del nostro tempo.
L’individualismo economico non ha rispettato le sue
promesse: non ha condotto al rigoglioso sbocciare della
personalità... D’altro canto, nel settore sociale l’opera
creatrice si è manifestata con estrema lentezza e l’imitazione
resta il grande sistema di diffusione delle innovazioni
fatte dal progresso. Le nazioni moderne ripetono
la storia delle popolazioni barbare e delle città
medievali, che copiavano le une dalle altre i loro movimenti
politici, religiosi ed economici, e le loro «carte della
libertà». Nazioni intere hanno di recente assimilato
con sorprendente rapidità la civiltà industriale e militare
europea, e queste riedizioni – non ancora riordinate
– di antichi modelli mostrano in modo chiarissimo la
superficialità di ciò che chiamiamo cultura e come tutto
si basi su semplici modelli imitativi.
È ora naturale porsi questa domanda: le dottrine
morali attualmente diffuse non hanno contribuito a
questa subordinazione imitativa? Non si sono date troppo
da fare a costruire un uomo che sia «automa di idee»,
nel senso indicato da Herbart, un essere immerso nella
contemplazione e che cova dentro tutte le tempeste delle
passioni? Non è giunto il momento di difendere i
136
diritti dell’uomo pieno di energia, capace di amare con
forza ciò che è degno di amore e di odiare ciò che merita
l’odio, sempre pronto a combattere per l’ideale che esalta
il suo amore e giustifica le sue antipatie? I filosofi del
mondo antico proposero una particolare interpretazione
della «virtù», diffusa anche oggi, nel senso di una «saggezza
» che incoraggia l’uomo a «sviluppare la bellezza
del suo animo» piuttosto che a lottare contro i mali del
suo tempo a fianco dei suoi «simili». Più tardi si chiamò
virtù la «non resistenza al male», e per lunghi secoli la
«salute dell’anima», unita alla rassegnazione e all’attitudine
passiva verso il male, ha costituito l’essenza
dell’etica cristiana. Ne sono scaturiti una serie di sottili
argomenti in favore dell’«individualismo virtuoso» e
l’apologia di una indifferenza monastica verso i mali
della società. Fortunatamente, comincia a farsi sentire
una reazione contro questo tipo di virtù egoista. E una
domanda si fa avanti: l’attitudine passiva a contatto del
male non è una vigliaccheria criminale? Non aveva
ragione lo Zend-Avesta quando affermava che la lotta
attiva contro Ahriman è la condizione prima della
virtù? Il progresso morale è necessario, ma è impossibile
senza il coraggio morale.
Nel groviglio dei problemi posti dalla dottrina morale,
questi sono quelli che abbiamo potuto discernere
nell’attuale conflitto di idee. Tutti portano a una conclusione
fondamentale: la richiesta di un nuovo modo di
intendere la morale, in particolare i suoi princìpi essenziali
che devono essere assai flessibili per dare nuova
vita alla nostra civiltà; e ancora, la richiesta di liberarla
dalle sopravvivenze extranaturali e trascendentali,
come pure dalle ristrette idee dell’utilitarismo borghese.
Gli elementi per questa nuova visione della morale
esistono già. L’importanza della socialità e del mutuo
appoggio nell’evoluzione animale e nella storia
dell’umanità può, mi sembra, essere ammessa come
una verità scientifica stabilita, e non più ipotetica. Possiamo
inoltre considerare come provato il fatto che man
137
mano che il mutuo appoggio diventa, nella società, un
costume consolidato, realizzato per così dire istintivamente,
questa pratica conduce allo sviluppo del sentimento
di giustizia, con il suo senso di uguaglianza o
equità come corollario obbligato, e all’attitudine a contenere
i propri impulsi nel nome di questa uguaglianza.
L’idea che i diritti individuali sono inviolabili, allo stesso
modo dei diritti naturali di tutti gli altri, si sviluppa
man mano che scompaiono le distinzioni di classe. Questa
idea diventa una nozione corrente quando una corrispondente
trasformazione si fa sentire nelle istituzioni
sociali.
Un certo grado di identificazione degli interessi propri
dell’individuo con quelli del suo gruppo ha dovuto
necessariamente esistere agli inizi della vita sociale;
esso si manifesta anche presso gli animali inferiori. Ma
con il radicarsi dei rapporti di uguaglianza e di giustizia
nelle società umane, si è preparato il terreno per lo
sviluppo e l’estensione ulteriori di questi rapporti. Grazie
a questi l’uomo si è abituato a capire e a rilevare le
ripercussioni dei suoi atti sull’intera società, incominciando
a trattenersi dal danneggiare gli altri, anche nel
caso di dover rinunciare a soddisfare un proprio desiderio;
egli arriva ora a identificare i suoi sentimenti con
quelli degli altri, che si dimostrano pronti a donargli le
proprie forze senza attendere nulla in cambio. Questo
genere di sentimenti e di abitudini non egoiste, che si
designano ordinariamente con i nomi assai inesatti di
altruismo e abnegazione, merita a parer mio solo il
nome di morale, benché la maggior parte dei pensatori
continui a confonderlo ancor oggi con il semplice senso
di giustizia.
Il mutuo appoggio, la giustizia, la morale, sono i gradi
ascendenti degli stati psichici che si sono resi evidenti
grazie allo studio del mondo animale e dell’uomo.
Essi sono una necessità organica, che ha in sé una propria
giustificazione e che conferma tutta l’evoluzione
del mondo animale, dai primi scalini (sotto forma di
colonie di molluschi) su per la successiva scala evoluti-
138
va fino alle più perfezionate società umane. Possiamo
dire che in questo vi è una legge generale e universale
dell’evoluzione organica, che agisce in modo che il
mutuo appoggio, la giustizia e la morale siano profondamente
radicati nell’uomo con tutta la potenza degli
istinti innati. Il primo dei tre, l’istinto del mutuo appoggio,
è evidentemente il più forte; il terzo, il più tardo ad
apparire, è un sentimento incostante e considerato
quello meno obbligante. [...]
Questa è la solida base che la scienza può fornirci per
l’elaborazione e la giustificazione di un nuovo sistema
etico. Invece di proclamare il «fallimento della scienza»,
dobbiamo quindi esaminare come sia possibile edificare
un’etica scientifica con gli elementi acquisiti a questo
scopo dalle ricerche moderne fondate sulla teoria
dell’evoluzione. […]
La nozione di «giustizia», che ha avuto agli inizi lo
stesso significato di vendetta, si riallaccia direttamente
all’osservazione degli animali. È assai probabile però
che la stessa idea di ricompensa e castigo (giusto e
ingiusto) nei confronti degli animali, sia nata nell’uomo
primitivo dalla considerazione che gli animali si vendicano
dell’uomo che non li tratta come occorre. Questo
pensiero è così profondamente radicato nello spirito dei
selvaggi del mondo intero che lo si deve considerare
come una delle nozioni fondamentali dell’umanità. A
poco a poco questa nozione si è espansa ed è diventata
l’idea del Gran Tutto, in cui tutte le parti si riuniscono
in base a princìpi di mutuo appoggio. Questo Gran Tutto
sorveglia gli atti di tutti gli esseri viventi e, in ragione
di questa reciprocità, ha il compito di punire le azioni
malvagie.
Da questa nozione è nata l’idea delle Erinni e delle
Moire presso i Greci, delle Parche presso i Romani, di
Karma presso gli Indù. La leggenda greca delle gru di
Ibycus, che lega il mondo degli uomini a quello degli
uccelli, e le innumerevoli leggende orientali sono l’e-
139
spressione poetica di questa stessa idea. Più tardi esse
si sono estese ai fenomeni celesti: nei libri sacri più
antichi dell’India, i «Veda», le nuvole sono, ad esempio,
esseri viventi analoghi agli animali.
Ecco ciò che l’uomo primitivo ha visto nella natura,
ecco gli insegnamenti che ne ha ricevuto. Sotto l’influenza
del nostro insegnamento scolastico, che ignora
sistematicamente la natura ed estrinseca gli atti più
normali dell’esistenza facendo ricorso alla superstizione
o alle astrusità metafisiche, noi abbiamo cominciato a
dimenticare queste grandi lezioni. Ma per i nostri antenati
dell’età della pietra, la socialità e il mutuo appoggio
all’interno della tribù dovevano essere fatti del tutto
abituali e generali in quanto non poteva esserci per loro
altra rappresentazione della vita.
L’idea dell’uomo come essere isolato è un frutto della
civiltà più avanzata, un prodotto delle leggende create
in Oriente tra uomini che rifuggivano la società. Lunghi
secoli sono stati sprecati per diffondere nell’umanità
questa idea astratta. Agli occhi degli uomini primitivi
l’esistenza di un essere isolato appariva così estranea,
così rara e contraria alla natura degli esseri viventi,
che quando vedevano la tigre, il tasso o il toporagno
condurre una vita isolata, oppure un albero crescere
solo fuori dalla foresta, restavano tanto colpiti da affidare
le loro impressioni alla leggenda per spiegare un
fenomeno talmente strano. Non si sono mai create leggende
per spiegare la vita in società, ma sempre per
spiegare un esempio di vita isolata. Spesso, se l’eremita
non era un saggio che si ritirava temporaneamente dal
mondo, per meglio meditare sui suoi destini, e non era
neppure uno stregone, era allora un bandito cacciato
dal suo gruppo per qualche grave violazione dei costumi
stabiliti dalla vita comunitaria. Esso aveva compiuto
un atto talmente in contrasto con il modo di esistenza
abituale che la società lo aveva espulso. Frequentemente
si trattava di uno stregone cui si attribuivano poteri
sulle forze del male e in rapporto con i cadaveri, fonti di
infezione. Per questo si aggirava solo nella notte perse-
140
guendo nell’oscurità i suoi disegni malvagi.
Tutti gli altri esseri vivono in società ed è con questo
orientamento che lavora lo spirito dell’uomo: la vita
sociale, cioè noi e non io, ecco il modo di esistenza naturale.
Si tratta della vita stessa in azione. Per questo
«noi» deve essere stata la forma di pensiero comune
dell’uomo primitivo, una «categoria» del suo spirito,
come direbbe Kant.
Con questa identificazione, o meglio con questa dissoluzione
dell’«io» nella tribù e nella popolazione, vengono
gettati i rudimenti di tutto il pensiero etico, di tutte
le nozioni morali. L’affermazione dell’individualità è
venuta molto più tardi. Ancora adesso, la personalità,
l’«individuo», quasi non esistono nella mentalità dei selvaggi
primitivi. Il primo posto appartiene nel loro spirito
al clan, con i suoi costumi ben definiti, i suoi pregiudizi,
le sue credenze, le sue difese, le sue abitudini, i
suoi interessi.
È in questa identificazione costante dell’umanità con
il tutto che si rinviene l’origine dell’etica; per conseguenza
è da essa che sono nate le idee di giustizia e le
idee ancora più elevate di morale. [...]
La natura è stata quindi la prima ad insegnare
all’uomo la morale. Non quel genere di natura che
descrivono i filosofi nel chiuso dei loro studi, o i naturalisti
che non la studiano se non attraverso gli esemplari
senza vita dei musei; ma la natura di cui si sono occupati
i grandi iniziatori della zoologia descrittiva studiandola
sul continente americano (con una popolazione
all’epoca ancora ridotta), in Africa e in Asia, cioè studiosi
come Audubon, Asara, Wied, Brehm e altri. Ci
riferiamo, pertanto, a quella natura cui pensava
Darwin quando ha scritto, ne L’origine dell’uomo, una
breve esposizione dell’origine del senso morale nell’individuo.
È fuor di dubbio che l’istinto di socialità ereditato
dall’uomo, e pertanto profondamente radicato in lui, ha
141
dovuto via via svilupparsi e fortificarsi a seguito anche
dell’aspra lotta per l’esistenza. […]
I primi elementi di questa morale si trovano, come si
è detto, nel sentimento di socialità. L’istinto gregario, il
bisogno di aiuto reciproco, esistono presso tutti gli animali
e si sono sviluppati in seguito nelle società umane
primitive. D’allora in poi diventa naturale che l’uomo,
grazie all’esistenza del linguaggio che sviluppa la
memoria e crea la tradizione, stabilisca regole di vita
molto più complesse di quelle esistenti presso gli animali.
Successivamente, con la nascita della religione,
anche nelle sue forme più grossolane, un nuovo elemento
viene introdotto nell’etica umana, elemento che contribuisce
a darle una certa stabilità e, più tardi, un certo
spirito e un certo idealismo.
Con l’evolversi della vita sociale, la nozione di equità
nelle relazioni reciproche viene a prendere un posto via
via più grande. I primi rudimenti della giustizia, sotto
forma di parità di trattamento, si osservano già presso
gli animali, in particolare i mammiferi. Infatti la madre
allatta diversi piccoli senza discriminazioni, mentre nei
giochi si hanno delle regole stabilite e obbligatorie per
tutti indistintamente. Ma il passaggio dall’istinto di
socialità, cioè dalla semplice attrazione, dal semplice
bisogno di vivere in mezzo ai propri simili, alla concezione
della necessità della giustizia nei rapporti reciproci
si effettua nell’uomo, nell’interesse stesso della
vita sociale. In ogni società infatti i desideri e le passioni
di un individuo urtano contro i desideri e le passioni
degli altri individui anche loro membri della società.
Questi conflitti condurrebbero fatalmente a continue
discordie e alla disgregazione finale della società senza
la nozione, elaborata al contempo tra gli uomini (così
come era già stata elaborata tra taluni animali), di
uguaglianza tra tutti i membri della società. Questa
nozione fa nascere, a poco a poco, quella di equità, che
esprime, come dice la stessa parola (aequitas), un’idea
142
di uguaglianza. È per questo che gli antichi rappresentavano
la giustizia sotto l’aspetto di una donna con gli
occhi bendati e una bilancia in mano. [...]
È certo che in tutte le società, a qualsiasi grado di
evoluzione si trovino, vi sono sempre stati e sempre vi
saranno individui che vogliono approfittare della loro
forza, della loro abilità, del loro acume o del loro coraggio
per sottomettere le volontà altrui; e alcuni raggiungono
lo scopo. Se ne trovano certamente anche presso i
popoli primitivi, come presso tutti i popoli e tutte le razze,
a tutti i livelli di civiltà. Ma, a tutti i livelli, vediamo
anche che, per controbilanciare le loro azioni, compaiono
dei costumi diretti a impedire l’espandersi dell’individuo
a spese della società. Tutte le istituzioni che
l’umanità ha elaborato nelle diverse epoche – il clan, la
comunità rurale, la città, le repubbliche con le loro
assemblee popolari, l’autonomia delle parrocchie e delle
province, il governo rappresentativo ecc. – tutte avevano
lo scopo di proteggere la società contro la volontà
individuale di questi uomini e contro la nascita del loro
potere. […]
Tutta la storia dell’umanità può essere considerata,
in definitiva, come la manifestazione di due tendenze:
da una parte, la tendenza degli individui o dei gruppi a
impadronirsi del potere per sottomettere le grandi masse
al loro dominio; dall’altra, la tendenza a mantenere
l’uguaglianza (almeno tra le persone di sesso maschile)
e a resistere a questa conquista del potere, o almeno a
limitarla, cioè a mantenere la giustizia all’interno del
clan, della tribù o della federazione dei clan.
Quest’ultima tendenza si manifesta in maniera nettissima
anche in seno alle città libere del Medio evo,
soprattutto durante i secoli successivi all’emancipazione
dai signori feudali. Le città libere erano in ultima
analisi delle unioni difensive di cittadini che si mettevano
insieme per lottare contro i feudatari vicini. Ma
ben presto la popolazione di queste città si divise in
143
strati. Inizialmente, il commercio era praticato dalla
città intera, e infatti i prodotti delle industrie urbane e
le merci acquistate nelle campagne erano esportate dalla
città stessa, tramite alcuni mandatari, e il profitto
restava alla città nel suo complesso. A poco a poco,
però, da sociale il commercio divenne privato, arricchendo
non solo le città ma in particolare i liberi mercanti
(mercatori libri) che, soprattutto dopo le Crociate,
intrapresero un attivo commercio con l’Oriente. Successivamente
nacque la classe dei banchieri alla quale si
rivolgevano, in caso di bisogno, non solo i nobili cavalieri
decaduti ma, via via, le stesse città.
È così che all’interno delle città, un tempo libere, si
era andata costituendo una classe aristocratica di mercanti
che le dominava e che dava il suo sostegno al
papa o all’imperatore, nell’intento di avere dalla loro
questa o quella città, oppure a un re o a un principe
che, interessato alla conquista di una città, si appoggiava
ai ricchi mercanti oltre che alla popolazione più
povera. Gli Stati centralizzati moderni si sono formati
in questo modo. […] L’assoggettamento delle piccole
unità alle più forti e la concentrazione del potere vennero
poi completati con la formazione dei grandi Stati
politici.
Naturalmente una tale trasformazione, fondamentale
per la vita pubblica come per le rivolte religiose o le
guerre, non mancò di imprimere il suo modello all’insieme
delle idee morali di ogni Paese e di ogni epoca. Un
giorno sarà fatto uno studio dell’evoluzione morale in
rapporto alle modificazioni della vita sociale. Per adesso
questo campo viene lasciato dalla scienza delle idee e
delle dottrine morali (l’etica) a un’altra scienza (la
sociologia), che è la scienza della vita e dell’evoluzione
delle società. Per evitare di oscillare tra questi due
campi è bene, per il nostro lavoro, limitarci a quello di
stretta competenza dell’etica.
Presso tutti gli uomini, per quanto rudimentale sia il
loro grado di sviluppo, come presso certi animali sociali,
constatiamo – come abbiamo fatto personalmente – cer-
144
ti tratti che attengono alla morale. In tutti i gradi
dell’evoluzione umana troviamo la socialità e il sentimento
comunitario. Alcuni uomini si mostrano più
pronti ad aiutare gli altri, qualche volta anche a rischio
della loro stessa vita. Queste qualità contribuiscono a
mantenere e sviluppare la vita sociale che, a sua volta,
assicura a tutti la vita stessa e il benessere. Esse vengono
man mano considerate, anche nelle epoche più
remote, non solo qualità desiderabili ma necessarie. I
vecchi saggi, gli stregoni dei popoli primitivi e, più tardi,
i preti raffigurano questi tratti della natura umana
come effetti di ordini venuti dall’alto, emanati da forze
misteriose, che siano dei o un creatore unico. Ma fin dai
tempi più remoti, in particolare dopo l’epoca della fioritura
delle scienze in Grecia, cioè da più di 2500 anni,
alcuni pensatori si sono posti il problema dell’origine
naturale di quei sentimenti e di quelle idee morali che
impediscono agli uomini di compiere in generale atti
nocivi per i loro simili o per i legami societari. Essi hanno
cercato, in altri termini, una spiegazione naturale a
ciò che si chiama morale dell’uomo e a ciò che in tutte le
società è indiscutibilmente considerato come desiderabile.
Tentativi di questo genere sembra siano stati fatti
anche in epoche molto remote, e infatti se ne trovano
tracce anche in Cina e in India. Ma solo quelli della
Grecia antica sono arrivati fino a noi in forma scientifica.
In Grecia, per quasi quattro secoli, tutta una serie
di pensatori – Socrate, Platone, Aristotele, Epicuro e,
più tardi, gli stoici – hanno esaminato seriamente, da
un punto di vista filosofico, le fondamentali questioni
che seguono:
• da dove provengono nell’uomo le regole morali in
grado di contrastare le sue passioni e spesso di frenarle?
• da dove deriva il sentimento obbligante della morale,
sentimento che si manifesta anche presso uomini
che negano le regole morali esistenziali?
145
• si tratta forse del frutto della nostra educazione, di
cui saremmo incapaci di sbarazzarci, come affermano
attualmente alcuni pensatori e come hanno già affermato
in passato alcuni negatori della morale?
• oppure la coscienza dell’uomo è frutto della natura
stessa? E in questo caso, non si è radicata nel corso della
sua vita in società durante migliaia e migliaia di
anni?
• e se è così, bisogna allora sviluppare questa
coscienza, oppure sarebbe meglio distruggerla e incoraggiare
il sentimento opposto, l’egoismo, secondo cui
l’ideale dell’uomo di cultura è negare ogni morale?
Dopo più di duemila anni i pensatori lavorano ancora
su questi problemi, inclinando periodicamente ora verso
l’una ora verso l’altra delle soluzioni prospettate. Dai
loro lavori è nata una scienza: l’etica.
146
VII
In Campi, fabbriche, officine non è delineato soltanto
il concetto di piccola comunità, ma anche quello di integrazione
fra città e campagna quale risoluzione sintetica
del trinomio uomo-natura-ambiente. Per Kropotkin
un piano della libertà e dell’uguaglianza deve esplicarsi
attraverso due aspetti complementari: l’integrazione in
ogni individuo del lavoro manuale con quello intellettuale,
l’integrazione geografico-sociale della città con la
campagna. I due aspetti sono complementari perché
mirano al superamento di due forme dello stesso fenomeno
del dominio, così com’è concepito dal più classico
schema anarchico, vale a dire quale rapporto che va
dall’alto al basso, dal centro alla periferia, dal punto
più alto della piramide alla linea più bassa della base.
In questo senso diventa logico modellare le istituzioni
umane sui ritmi naturali della crescita sociale, immettendo
nella creazione culturale delle forme continuamente
adattabili e funzionali al senso spontaneo dello
sviluppo collettivo. La rete di questa comunità si compone
di un’infinita varietà di associazioni federate di tutte
le dimensioni e gradi, locali, regionali, nazionali e internazionali
– temporanee o permanenti – per tutti gli scopi
possibili. Come nella vita organica, l’armonia risulta
dall’assestamento e riassestamento, dall’equilibrio con-
147
tinuo di forze e di influenze diverse secondo una radicale
insorgenza dal basso, una irreversibile immanenza
del sociale che deve rendere impossibile ogni costruzione
politica imposta dall’alto.
In altri termini, i problemi della convivenza non vanno
risolti attraverso mega-strutture, ma riformulando
completamente le domande di una socialità integrata e
controllabile, interrogando questa rispetto ai bisogni
effettivi della comunità che si trova a vivere in un determinato
contesto fisico, sotto un determinato clima e perciò
carica di un determinato passato. Scrive Lewis
Mumford in La città nella storia: «Con quasi mezzo
secolo di anticipo sul pensiero tecnico ed economico contemporaneo,
Kropotkin aveva intuito che la duttilità e
l’adattabilità delle comunicazioni e dell’energia elettrica,
unite alla possibilità di un’agricoltura intensiva e
biodinamica, avevano posto le basi di un’evoluzione
urbana più decentrata da svolgersi attraverso piccole
comunità basate sul contatto umano diretto e provviste
dei vantaggi della città oltre che di quelli della campagna.
Kropotkin si rese conto che i nuovi mezzi di trasporto
e di comunicazione, uniti alla possibilità di trasmettere
l’energia elettrica attraverso una rete e non
mediante una linea unidimensionale, mettevano le piccole
comunità sullo stesso piano della supercongestionata
metropoli per quanto concerneva la possibilità delle
attrezzature tecniche essenziali. [...] Prendendo come
base la piccola comunità, egli colse l’opportunità di una
vita locale più responsabile e più sensibile, che lasciasse
maggior campo d’azione a quegli aspetti umani trascurati
e frustrati dall’organizzazione di massa».
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione
italiana di Campi, fabbriche, officine del 19822,
nella traduzione (rivista) di Franco Marano.
148
PICCOLO È BELLO
Le due attività sorelle dell’agricoltura e dell’industria
non sono sempre state così estranee l’una all’altra
come lo sono oggi. C’è stato un tempo, e quel tempo non
è molto lontano, in cui entrambe erano intimamente
legate: i villaggi ospitavano allora una molteplicità di
officine e gli artigiani delle città non abbandonavano
l’agricoltura; molte città non erano altro che villaggi
industriali. Se la città medievale ha costituito la culla
di quelle industrie che confinavano con l’arte e che avevano
lo scopo di soddisfare i bisogni delle classi più
agiate, era pur sempre la produzione rurale a soddisfare
i bisogni delle masse, come avviene attualmente in
Russia e in buona parte anche in Germania e in Francia.
Ma più tardi, con l’avvento delle turbine, del vapore,
con lo sviluppo della meccanica, i legami che una
149
volta vincolavano la fattoria all’officina si sono spezzati.
Le fabbriche sono cresciute e i campi sono stati abbandonati.
Ci si è andati aggregando lì dove la vendita dei
prodotti risultava più facile, o dove le materie prime e il
combustibile potevano essere ottenuti a miglior prezzo.
Nuove città sono state costruite e le vecchie si sono
rapidamente estese, mentre i campi venivano progressivamente
disertati. Milioni di contadini, strappati a
viva forza dai campi, si sono raccolti nelle città in cerca
di lavoro, dimenticando ben presto i vincoli che una volta
li univano alla terra. E noi, nella nostra ammirazione
per i prodigi compiuti dalla nuova organizzazione
industriale abbiamo trascurato i vantaggi della vecchia,
in cui chi dissodava il suolo era al tempo stesso un lavoratore
industriale. Abbiamo così condannato alla sparizione
tutti quei settori dell’industria che un tempo solevano
prosperare nei villaggi, condannando a sua volta
nell’industria tutto ciò che non somigliava alla grande
fabbrica.
È vero, i risultati sono stati straordinari per quanto
riguarda l’aumento delle capacità produttive dell’uomo
Ma si sono rivelati terribili per milioni di esseri umani,
precipitati nella miseria, che nelle nostre città hanno
potuto contare su mezzi di sussistenza precari. Inoltre,
nel suo complesso, la nuova organizzazione ha provocato
le stesse condizioni anomale che ho cercato di tratteggiare
nei primi due capitoli. Siamo stati cacciati,
così, in un vicolo cieco, e mentre si va delineando
l’imperiosa necessità di un cambiamento totale degli
attuali rapporti tra lavoro e capitale, si è reso anche
inevitabile un completo rimodellamento di tutta la
nostra organizzazione industriale: i Paesi industriali
devono tornare all’agricoltura, devono trovare i mezzi
più opportuni per combinarla con l’industria, e devono
farlo senza perdere tempo.
Interrogarci, in specifico, sulla possibilità di una tale
combinazione è lo scopo delle pagine che seguono. È
possibile da un punto di vista tecnico? È auspicabile?
Esistono, nell’attuale realtà industriale, caratteri tali
150
da garantirci che un cambiamento nella direzione
accennata potrebbe trovare gli elementi necessari alla
sua realizzazione? Sono queste le domande che ci si
pongono. E per rispondere non c’è, ritengo, altro mezzo
che studiare quell’immenso ma trascurato e sottovalutato
settore industriale che va sotto il nome di officine
rurali, lavorazioni a domicilio e artigianato, e studiarlo
non nelle opere degli economisti, troppo inclini a considerarlo
come una forma superata d’industria, ma nella
loro stessa esistenza, nelle loro lotte, nei loro fallimenti
e nelle loro conquiste.
Chi non ne ha fatto l’oggetto di uno studio specifico
difficilmente si rende conto della molteplicità di forme
organizzative riscontrabile nelle piccole industrie. Esistono,
innanzi tutto, due grandi categorie: le industrie
attive nei villaggi in connessione con l’agricoltura e
quelle attive nelle città o nei villaggi senza alcuna connessione
con la terra, nelle quali i lavoratori traggono
appunto i propri guadagni esclusivamente dall’attività
industriale.
In Russia, in Francia, in Germania, in Austria, ecc.,
milioni e milioni di lavoratori rientrano nella prima
categoria. Possiedono e lavorano la terra, allevano una
o due vacche, molto spesso dei cavalli, e coltivano i campi,
o i frutteti, o gli orti, considerando il lavoro industriale
come un’occupazione secondaria. Soprattutto in
quelle regioni in cui l’inverno dura a lungo e non è assolutamente
possibile lavorare la terra per parecchi mesi
l’anno, questa forma di piccola industria è largamente
diffusa. In Inghilterra, al contrario, ci imbattiamo
nell’estremo opposto. Sono poche infatti in questo Paese
le piccole industrie sopravvissute in connessione con
l’agricoltura; e tuttavia centinaia di botteghe e piccole
officine si rintracciano nei sobborghi e nei bassifondi
delle grandi città come Sheffield e Birmingham, dove
grandi masse di popolazione si procacciano da vivere
con una molteplicità di attività artigianali. Tra questi
due estremi abbiamo evidentemente una gran varietà
di forme intermedie, a seconda dei legami più o meno
151
stretti che continuano a sussistere con la terra. Vi sono
dunque grossi paesi e persino città popolate da lavoratori
occupati in piccole industrie, anche se la maggior
parte di loro coltiva un orticello, un frutteto o un campo,
oppure si avvale semplicemente di un qualche diritto
sui pascoli comuni, a differenza di quelli che vivono
esclusivamente dei propri redditi industriali.
Quanto alla commercializzazione dei prodotti, le piccole
industrie offrono la stessa varietà di organizzazione.
E anche qui abbiamo due grandi settori. Nel primo
il lavoratore vende il proprio prodotto direttamente al
grossista; è il caso degli ebanisti, dei tessitori e dei fabbricanti
di giocattoli. Nell’altra grande categoria il lavoratore
produce per un «padrone», e questi vende il prodotto
a un grossista o agisce semplicemente da intermediario
raccogliendo a sua volta le commissioni da qualche
grossa azienda. È questa «l’organizzazione del
sudore» propriamente detta, in cui troviamo una miriade
di piccole industrie. È il caso di parte dei fabbricanti
di giocattoli, dei sarti che lavorano per grandi ditte di
confezioni, molto spesso per quelle di Stato, delle donne
che cuciono e abbelliscono i gambali per i calzaturifici, e
che spesso trattano con la fabbrica come con un intermediario
del «sudore», ecc. In tale organizzazione per la
commercializzazione dei prodotti si riscontrano ovviamente
tutte le gradazioni possibili di feudalizzazione e
sottofeudalizzazione del lavoro.
E ancora, quando si considerano gli aspetti industriali
o, piuttosto, tecnici delle piccole industrie, si scopre
ben presto la stessa varietà di caratteri. Anche qui
abbiamo due grandi settori: da una parte le lavorazioni
a domicilio – vale a dire quelle esercitate in casa dal
lavoratore, con l’aiuto della famiglia o di un paio di
salariati – e quelle esercitate in officine distaccate. In
entrambi i settori, ci si imbatte in tutte le varietà appena
menzionate per quanto riguarda la connessione con
la terra e con i diversi modi di disporre del prodotto.
Tutte le attività possibili – la tessitura, la lavorazione
del legno, del metallo, dell’osso, della gomma, ecc. –
152
possiamo ritrovarle sotto la categoria delle lavorazioni
a domicilio, con tutte le possibili gradazioni tra la forma
prettamente «domestica» di produzione, l’officina e la
fabbrica.
Così, accanto alle attività industriali esercitate interamente
in casa da uno o più membri della famiglia, vi
sono le attività industriali in cui il proprietario tiene
una piccola officina annessa alla casa e vi lavora con
tutta la famiglia o con pochi «aiutanti», e cioè dei salariati.
In alcuni casi l’artigiano dispone invece di un’officina
a parte, dotata di energia idraulica, come nel caso
dei fabbricanti di coltelli di Sheffield. In altri, diversi
lavoratori si mettono insieme in una piccola fabbrica di
loro proprietà, o affittata in associazione, o dove possono
lavorare per un certo affitto settimanale. E in ognuno
di questi casi possono lavorare direttamente per il
commerciante, o per un piccolo padrone, o per un intermediario.
Uno stadio ulteriore di questo sistema è la grande
fabbrica, specialmente di abiti già confezionati, in cui
centinaia di donne pagano un tanto per la macchina da
cucire, il gas, i ferri a gas, ecc., e a loro volta ricevono
un tanto per ogni capo di abbigliamento che cuciono o
per ogni parte di esso. Immense fabbriche del genere
esistono in Inghilterra, e si è appreso dalle testimonianze
rese davanti alla «Commissione del sudore», che in
tali laboratori le donne vengono terribilmente sfruttate,
al punto che il prezzo completo di ogni capo di vestiario
leggermente rovinato viene dedotto dai loro bassissimi
salari a cottimo.
E, infine, c’è la piccola officina (spesso con presa
d’energia motrice a nolo) in cui il piccolo imprenditore
impiega da 3 a 10 lavoranti salariati, vendendo il prodotto
a un commerciante o a un imprenditore più grosso:
con tutte le possibili gradazioni tra un’officina del
genere e la fabbrica di piccole dimensioni, in cui a volte
alcuni salariati (tra i 5 e i 20) vengono impiegati da un
produttore indipendente. Nell’industria tessile, la tessitura
viene spesso fatta dal nucleo familiare o da un pic-
153
colo imprenditore che impiega talvolta solo un ragazzo
talvolta diversi tessitori. Questi, dopo avere avuto il
filato da un grosso imprenditore, paga un operaio specializzato
per metterlo sul telaio e crea quanto occorre
per tessere un determinato, e a volte molto sofisticato,
disegno; dopo avere tessuto la stoffa o i nastri con il suo
telaio, o con un telaio preso a nolo, viene pagato per
ogni pezzo di stoffa secondo una scala molto complicata
di compensi pattuiti tra padroni e lavoranti. Quest’ultima
forma, come vedremo tra poco, oggi è largamente
diffusa, soprattutto nelle industrie della lana e della
seta, e continua a esistere accanto alle grandi fabbriche
in cui 50, 100 o 5.000 salariati, a seconda dei casi, lavorano
con il macchinario dell’imprenditore e vengono
pagati a salari giornalieri o settimanali.
Le piccole industrie sono dunque un mondo che, in
modo abbastanza sorprendente, continua a esistere
anche nei Paesi più industrializzati, fianco a fianco con
le grandi fabbriche. E in questo mondo dobbiamo ora
penetrare per gettarvi un’occhiata: solo un’occhiata perché
occorrerebbero pagine e pagine per descriverne
l’infinita varietà non solo di attività e organizzazione
ma anche di interrelazione con l’agricoltura e con le
altre industrie.
La maggior parte delle attività artigianali, fatta
eccezione per alcune di quelle connesse con l’agricoltura,
si trovano, dobbiamo riconoscerlo, in posizione decisamente
precaria. I guadagni sono molto bassi e l’impiego
è spesso incerto. La giornata lavorativa è più lunga
di due, tre o quattro ore rispetto a quella delle fabbriche
ben organizzate, e in certe stagioni raggiunge
una durata quasi inverosimile. Le crisi sono frequenti e
si protraggono per anni. Inoltre, il lavoratore è molto
più alla mercé del commerciante o dell’imprenditore, e
l’imprenditore è alla mercé del grossista. Entrambi
rischiano di divenire schiavi di quest’ultimo, indebitandosi
con lui. In alcune delle attività artigianali, soprattutto
nella fabbricazione di tessuti comuni, i lavoratori
sopravvivono in condizioni spaventosamente misere.
154
Ma chi pretende che tale miseria costituisca la regola si
sbaglia del tutto. Chiunque abbia vissuto, ad esempio,
tra gli orologiai della Svizzera e ne conosca intimamente
il modo di vivere, ammetterà che le condizioni di questi
lavoratori sono di gran lunga superiori, sotto ogni
riguardo, morale e materiale, alle condizioni di milioni
di operai di fabbrica. Persino durante la crisi dell’orologeria,
che ebbe luogo tra il 1876 e il 1880, le loro condizioni
sono rimaste di gran lunga preferibili alle condizioni
degli operai di fabbrica durante una qualsiasi crisi
dell’industria laniera o cotoniera; e gli stessi lavoratori
ne erano ben coscienti.
Ogni volta che scoppia una crisi in qualche settore
artigianale, non manca chi profetizza che quel mestiere
si avvia a scomparire. Durante la crisi di cui, vivendo
tra gli orologiai svizzeri, io stesso fui testimone nel
1877, l’impossibilità di salvaguardare questa attività di
fronte alla concorrenza degli orologi fatti a macchina
era l’argomento principe della stampa. Le stesse cose
furono dette, nel 1882, a proposito dell’industria serica
di Lione, e di fatto ovunque si sia avuta una crisi
dell’artigianato. E tuttavia, nonostante le tetre profezie
e le ancor più tetre prospettive per i lavoratori, quella
forma d’industria non è ancora scomparsa. E anche
quando ne scompare qualche settore, qualcosa comunque
rimane: alcuni rami continuano ad esistere come
piccole industrie (orologeria di precisione, sete più raffinate,
velluti di prima qualità, ecc.), o al posto dei vecchi
nascono nuovi settori a essi connessi, o ancora la piccola
industria, avvantaggiandosi di un motore meccanico,
assume una nuova forma. La scopriamo quindi dotata
di straordinaria vitalità. Essa passa attraverso varie
modifiche, si adatta a nuove condizioni, lotta senza
abbandonare la speranza in tempi migliori. In ogni
caso, le sue non sono le caratteristiche di un’istituzione
in decadenza. In alcune attività industriali la fabbrica
ha senza dubbio la meglio, ma vi sono altri settori in
cui i laboratori artigianali mantengono le loro posizioni.
E nella stessa industria tessile che tanti vantaggi pre-
155
senta per il sistema industriale – specialmente in conseguenza
dell’ampio impiego lavorativo di donne e bambini
– il telaio a mano compete ancora con quello meccanico.
Nel complesso, la trasformazione dell’artigianato in
grande industria procede con una lentezza che non può
non sorprendere anche coloro che sono convinti della
sua necessità. Oltretutto, a volte assistiamo anche al
processo inverso: di tanto in tanto, ovviamente, e solo
per un certo periodo. Non dimenticherò mai il mio stupore
quando constatai a Verviers, una trentina di anni
fa, come la maggior parte delle fabbriche di stoffe di
lana – immensi edifici affacciati sulla strada con più di
cento finestre l’uno – fosse immersa nel silenzio e il loro
costoso macchinario lasciato ad arrugginire, mentre le
stoffe venivano tessute a mano nelle case dei tessitori
per i proprietari di quelle stesse fabbriche. Abbiamo
qui, naturalmente, solo un fatto occasionale, che si spiega
interamente col carattere spasmodico dell’industria
e con le gravi perdite sostenute dai proprietari delle
fabbriche allorché non sono in grado di farle funzionare
tutto l’anno. E tuttavia questo dimostra gli ostacoli con
cui la trasformazione deve fare i conti. Quanto all’industria
serica, essa continua a diffondersi per l’Europa
nella sua forma d’industria rurale, mentre centinaia di
nuove attività artigianali compaiono ogni anno, e non
trovando nessuno che le eserciti nei villaggi – come
avviene in questo Paese – trovano rifugio nei sobborghi
delle grandi città, come abbiamo appena appreso
dall’inchiesta sull’ «organizzazione del sudore».
Oggi, i vantaggi offerti dalla grande fabbrica in confronto
all’artigianato si presentano da sé per quanto
riguarda l’economia di lavoro e soprattutto – ed è questo
il punto principale – le possibilità sia di vendita sia di
rifornimento delle materie prime a prezzo inferiore.
Come possiamo allora spiegarci la persistenza dell’artigianato?
Molte cause, la maggior parte delle quali non è
possibile valutare in scellini, giocano a favore dell’artigianato,
e queste cause le coglieremo meglio dalle dimo-
156
strazioni che seguono. Devo dire, però, che una panoramica
anche breve delle innumerevoli attività industriali
esercitate su piccola scala in questo Paese e sul continente,
sconfinerebbe alquanto dallo scopo di questo
capitolo. Quando ho cominciato a studiare l’argomento,
una trentina di anni fa, non immaginavo neppure, dalla
scarsa attenzione prestatagli dagli economisti ortodossi,
quale vasta, complessa, importante e interessante
organizzazione sarebbe apparsa alla fine di un’indagine
più accurata. [...]
Gli artigiani rappresentano, dunque, un importante
fattore della vita industriale nella stessa Gran Bretagna,
anche se molti di loro si sono insediati in città. Ma
se troviamo in questo Paese così poche industrie rurali
rispetto al continente, non dobbiamo immaginare che la
loro scomparsa sia dovuta a una più intensa concorrenza
delle fabbriche: la causa principale è stata l’esodo
forzato dai villaggi.
Come tutti sanno dall’opera di Thorold Rogers, la
crescita della struttura industriale in Inghilterra è intimamente
connessa con quell’esodo forzato. Interi settori
industriali, che fino ad allora avevano prosperato,
sono stati stroncati dallo spopolamento forzato delle
campagne. Le officine, ancor più delle fabbriche, si moltiplicano
dovunque si trovi manodopera a basso costo, e
l’aspetto specifico di questo Paese è che la manodopera
più a buon mercato – vale a dire la gran massa dei
poveri – si trova nelle grandi città. [...]
In realtà, la diffusione delle officine artigiane a fianco
delle grandi fabbriche non ci deve affatto stupire:
essa rappresenta una necessità economica. L’assorbimento
delle piccole officine da parte delle aziende più
grandi è un fatto che aveva già colpito gli economisti
negli anni Quaranta dello scorso secolo, soprattutto nelle
industrie tessili. Questo processo va tuttora avanti in
molti altri settori e interessa soprattutto un certo
numero di aziende molto grandi impegnate nella metal-
157
lurgia e nelle forniture militari ai vari Stati. Ma c’è un
altro processo che va avanti parallelamente a questo e
che consiste nella creazione continua di nuove industrie,
di solito avviate su piccola scala. Ogni nuova fabbrica
chiama in vita una quantità di nuove piccole officine,
in parte per sopperire al proprio fabbisogno e in
parte per sottomettere il suo prodotto a una trasformazione
ulteriore. Così, per citare un solo esempio, i cotonifici
hanno creato un’enorme domanda di rocchetti di
legno e di bobine, e migliaia di uomini del Lake District
si sono messi a fabbricarli, prima a mano e più tardi
con l’aiuto di qualche semplice macchinario. Solo di
recente, dopo che sono stati spesi anni a inventare e
perfezionare i macchinari, si è cominciato a produrre i
rocchetti su scala industriale. E ancora oggi, essendo le
macchine molto costose, una gran quantità di rocchetti
viene comunque fabbricata in piccole officine, con un
modesto aiuto delle macchine, mentre le fabbriche stesse
sono relativamente piccole e raramente occupano più
di 50 operai, in maggioranza bambini. Quanto alle bobine
di forma irregolare, vengono ancora fatte a mano o,
in parte, con l’aiuto di piccole macchine continuamente
inventate dagli operai stessi. Perciò nuove industrie
sorgono a soppiantare le vecchie e ognuna passa per lo
stadio preliminare della piccola scala prima di raggiungere
quello della grande fabbrica; e tanto più è attivo lo
spirito creativo di una nazione, tanto più arriviamo a
questa fioritura di industrie. In proposito, abbiamo
l’esempio delle innumerevoli piccole fabbriche di biciclette
sorte recentemente in questo Paese e rifornite di
pezzi già pronti dalle fabbriche più grandi. Un altro
esempio comune è la produzione domestica o in piccole
officine di scatole per fiammiferi, stivali, cappelli, dolciumi,
generi di drogheria, ecc.
Inoltre, la grande fabbrica, generando nuovi bisogni,
stimola la nascita di nuove attività artigianali. Il basso
prezzo dei cotoni e delle lane, della carta e dell’ottone,
ha creato centinaia di nuove piccole industrie. Le nostre
case sono piene dei loro prodotti, per la maggior
158
parte oggetti di creazione abbastanza moderna. E mentre
alcuni di questi sono ora prodotti in serie nelle grandi
fabbriche, tutti sono passati per lo stadio della piccola
officina prima che la domanda fosse abbastanza alta
da richiedere l’organizzazione della grande fabbrica.
Quante più nuove invenzioni ci saranno, tante più piccole
industrie del genere si creeranno; e ancora, quanto
più se ne creeranno, tanto più si diffonderà lo spirito
creativo, la cui mancanza è così giustamente avvertita
in questo Paese (da W. Armstrong tra i tanti). Non dobbiamo
stupirci, perciò, se vediamo in questo Paese così
tante piccole industrie, dobbiamo piuttosto rimpiangere
che tanta gente abbia abbandonato i villaggi a causa
delle cattive condizioni della terra e che sia migrata in
massa nelle città, a scapito dell’agricoltura.
In Inghilterra, come dappertutto, le piccole industrie
rappresentano un fattore importante della vita industriale;
ed è soprattutto nell’infinita varietà delle piccole
industrie, dove si utilizzano i prodotti semilavorati
delle grandi industrie, che si sviluppa lo spirito creativo
e si elaborano i rudimenti delle future grandi industrie.
Le piccole officine di biciclette, con le centinaia di piccoli
perfezionamenti che hanno introdotto, hanno svolto,
sotto i nostri stessi occhi, la funzione di cellule originarie
per la grande industria automobilistica, e più tardi
per quella aeronautica. I piccoli produttori di marmellate
dei villaggi sono stati i precursori e i padri delle
grandi fabbriche di conserve che oggi impiegano centinaia
di lavoratori, e così via.
Di conseguenza, affermare che le piccole industrie
sono destinate a scomparire, mentre ne vediamo apparire
di nuove ogni giorno, significa semplicemente ripetere
l’affrettata generalizzazione di chi, all’inizio del XIX
secolo, stava assistendo alla sostituzione del lavoro
manuale con il lavoro meccanizzato nell’industria cotoniera:
una generalizzazione che, come abbiamo visto e
come vedremo ancora meglio nelle pagine che seguono,
non trova alcuna conferma nell’analisi delle industrie,
grandi e piccole, e che viene rovesciata dai censimenti
159
delle fabbriche e delle officine. Lungi dal manifestare
una tendenza a scomparire, le piccole industrie mostrano
al contrario la tendenza verso un ulteriore sviluppo,
dato che la fornitura municipale di energia elettrica –
come quella che c’è, ad esempio, a Manchester – permette
al proprietario di una piccola fabbrica di fruire di
energia motrice a basso costo, esattamente nella quantità
richiesta in ogni dato momento, e di pagare solo
quanto è stato effettivamente consumato.
La varietà di piccole industrie che s’incontra in Francia
è infinita e rappresenta un aspetto quanto mai
importante dell’economia nazionale. Si calcola, in effetti,
che metà della popolazione francese viva di agricoltura
e un terzo di industria, e che questo terzo si trovi
equamente distribuito tra grande e piccola industria. A
questo andrebbe aggiunto un numero considerevole di
contadini che si dedicano alla piccola industria senza
abbandonare l’agricoltura; e i guadagni supplementari
che questi contadini ne ricavano sono così importanti
che in diverse parti della Francia la proprietà contadina
non potrebbe essere mantenuta senza l’aiuto delle
industrie rurali.
I piccoli proprietari rurali sanno che cosa li aspetterebbe
il giorno in cui diventassero manodopera di fabbrica
in città, e finché gli usurai non riusciranno a spodestarli
delle loro terre e case, e il villaggio non perderà
i diritti sui pascoli o sui boschi comunali, si tengono ben
stretti a questa combinazione di industria e agricoltura.
Non possedendo, nella maggior parte dei casi, animali
per arare la terra, fanno ricorso a un espediente largamente
diffuso, se non universale, tra i piccoli proprietari
terrieri francesi, anche nei distretti puramente rurali.
Chi dei contadini possiede un aratro e un tiro di
cavalli, dissoda a turno tutti i campi. Nello stesso tempo,
grazie al perpetuarsi di uno spirito comunitario, del
quale ho parlato altrove, un ulteriore sostegno viene
trovato nel pascolare e nel torchiare il vino in comune o
in altri svariati modi di mutuo appoggio esistenti tra i
contadini. E dovunque si mantenga lo spirito comunita-
160
rio di villaggio, le piccole industrie persistono, mentre
non si risparmiano sforzi per coltivare intensamente i
piccoli poderi.
Orticoltura da mercato e frutticoltura spesso vanno
di pari passo con le piccole industrie. E dovunque si
ricavi un po’ di benessere da un suolo relativamente
improduttivo, lo si deve quasi sempre a una combinazione
delle due attività sorelle.
Nello stesso tempo, è possibile notare come le piccole
industrie si adattino straordinariamente ai nuovi bisogni
e a un sostanziale progresso tecnico dei metodi di
produzione. Nelle regioni boschive del Perche e del Maine
troviamo ogni genere di industrie del legno, le quali,
evidentemente, possono essere mantenute solo grazie
alla proprietà comunale dei boschi. Nei pressi della
foresta di Perseigne c’è un piccolo borgo, Fresnaye, interamente
popolato da lavoratori del legno.
A Thiers, dove si producono le posaterie più a buon
mercato, la divisione del lavoro, il basso affitto delle
piccole officine rifornite di forza motrice dal fiume
Durolle o da piccoli motori a gas, l’apporto di un’infinità
di attrezzi meccanici inventati all’occorrenza, e la combinazione
esistente tra lavoro meccanico e lavoro
manuale hanno condotto a una tale perfezione l’apparato
tecnico di questa attività industriale che ci si chiede
se l’organizzazione di fabbrica possa economizzare ulteriormente
il lavoro. Per dodici miglia attorno a Thiers,
in ogni direzione, tutti i ruscelli sono punteggiati di piccole
officine che danno lavoro ai contadini senza che
questi smettano di coltivare i campi.
La canestreria è anch’essa un’importante attività
artigianale in diverse parti della Francia, e precisamente
nell’Aisne e nell’Alta Marna. In quest’ultimo
dipartimento, a Villaines, sono tutti canestrai, «e ogni
canestraio fa parte di una società cooperativa», come
osserva Ardouin Dumazet. «Non ci sono imprenditori;
tutto il prodotto viene portato ogni quindici giorni ai
magazzini della cooperativa e lì venduto per conto
dell’associazione. A questa appartengono circa 150
161
famiglie, e ciascuna possiede una casa e dei vigneti». A
Fays-Billot, sempre nell’Alta Marna, 1.500 canestrai
fanno parte di un’altra associazione, mentre a Thiérache,
dove parecchie migliaia di uomini esercitano la
stessa attività, non è stata formata alcuna associazione
e di conseguenza i guadagni sono nettamente più bassi.
A Héricourt, un’infinità di piccole industrie è sorta
accanto alle grandi fabbriche di ferramenta. La città si
riversa nei villaggi, dove la popolazione fabbrica macinacaffè,
macinapepe, macchine per tritare il mangime
per il bestiame, così come selle, piccoli articoli di ferramenta,
o persino orologi. Altrove, dove la fabbricazione
dei vari pezzi dell’orologio è stata monopolizzata dalle
fabbriche, le officine hanno cominciato a fabbricare pezzi
di bicicletta, e più tardi di automobile. In breve, troviamo
qui tutto un mondo di industrie di tipo moderno
e, con esse, di invenzioni realizzate per semplificare il
lavoro manuale.
Ogni casa contadina, ogni fattoria e ogni métayerie
delle zone collinose del Beaujolais e del Forez era un
tempo una piccola officina, e si potevano vedere, come
ha scritto Reybaud nel 1863, ragazzi di vent’anni intenti
a ricamare delicate mussoline dopo aver finito di
pulire le stalle delle fattorie, senza che quel delicato
lavoro risentisse della combinazione di due occupazioni
così disparate. Al contrario, la delicatezza del lavoro e
l’estrema varietà dei disegni erano le caratteristiche
tipiche delle mussoline di Tarare e la ragione del loro
successo. Tutte le testimonianze concordavano nel riconoscere
che, quando l’agricoltura trovava sostegno
nell’industria, la popolazione agricola godeva di un certo
benessere.
Ciò che più merita la nostra ammirazione non è tanto
lo sviluppo delle grandi industrie – le quali, dopotutto,
qui come altrove, sono in gran parte di origine internazionale
– quanto le doti creative e inventive e le
capacità di adattamento della gran massa di queste
industriose popolazioni. A ogni passo, nei campi, negli
orti, nei frutteti, nei piccoli caseifici, nelle officine, nelle
162
centinaia di piccole invenzioni fatte per queste attività,
è possibile notare lo spirito creativo del popolo. In queste
regioni si capisce meglio perché la Francia, prendendo
la popolazione nel suo complesso, venga considerata
la più ricca nazione d’Europa.
Il centro principale dell’artigianato in Francia è tuttavia
Parigi. Lì troviamo, accanto alle grandi fabbriche,
un’impressionante varietà di officine per la fabbricazione
di merci di ogni genere, destinate sia al mercato
interno sia all’esportazione. Le officine artigianali di
Parigi prevalgono a tal punto sulle fabbriche che la
media degli operai occupati nelle 98.000 fabbriche e
officine parigine è inferiore alle sei unità, mentre il
numero di persone impiegate nelle officine con meno di
cinque operai è quasi il doppio del numero di persone
impiegate negli stabilimenti più grandi. In effetti, Parigi
è un grande alveare dove centinaia di migliaia di
uomini e donne fabbricano in piccole officine ogni possibile
genere di merci che richiedono abilità, gusto e creatività.
Queste piccole officine, di cui tanto si loda il
gusto artistico e la rapidità di lavorazione, stimolano
necessariamente la capacità mentale dei produttori; e
possiamo tranquillamente affermare che se gli operai di
Parigi sono generalmente considerati, e a ragione,
intellettualmente più sviluppati degli operai di qualsiasi
altra capitale europea, ciò lo si deve in gran parte al
tipo di lavoro che fanno: un lavoro che implica gusto
artistico, abilità e soprattutto un’inventiva sempre
pronta a creare nuovi tipi di merci e ad accrescere di
continuo e perfezionare le tecniche di produzione. Ed è
assai probabile che se incontriamo una popolazione
lavorativa molto evoluta anche a Vienna o Varsavia, di
nuovo ciò dipende in gran parte dal notevole sviluppo
delle piccole industrie dello stesso genere, le quali stimolano
l’inventiva contribuendo grandemente a sviluppare
l’intelligenza del lavoratore.
Le conclusioni da trarne sono state così formulate da
Lucien March: «In definitiva, durante gli ultimi cinquant’anni
si è avuta una notevole concentrazione di
163
fabbriche nei grandi agglomerati», ma «questa concentrazione
non impedisce la persistenza di una certa
quantità di piccole imprese, le cui dimensioni medie non
crescono che molto lentamente». Quest’ultimo fatto, in
realtà, lo abbiamo già rilevato dal nostro breve schizzo
sulla Gran Bretagna, e possiamo soltanto chiederci se –
così stando le cose – la parola «concentrazione» sia
indovinata. Ciò che vediamo in realtà è la comparsa, in
alcuni settori dell’industria, di un certo numero di
grandi stabilimenti, e soprattutto di fabbriche di media
grandezza. Ma questo non impedisce minimamente che
continui a esistere un gran numero di piccole fabbriche,
in settori diversi, o negli stessi settori dove sono comparse
le grandi fabbriche (tessili, metalmeccaniche), o
nei settori connessi e derivati da quelli principali, come
l’industria dell’abbigliamento che trae origine da quella
tessile. Quanto alle grandi deduzioni sulla «concentrazione
» effettuate da certi economisti, si tratta di semplici
ipotesi, utili naturalmente a stimolare la ricerca, ma
destinate a rivelarsi alquanto nocive quando vengono
presentate come leggi economiche, mentre in realtà non
sono affatto confermate da un’accurata osservazione dei
fatti.
Sfortunatamente, la discussione su questo importante
argomento ha spesso assunto in Germania un carattere
appassionato e persino di polemica personale. Da
un lato, gli elementi ultraconservatori della politica
tedesca hanno cercato, riuscendovi in certa misura, di
fare dell’artigianato e delle lavorazioni a domicilio
un’arma per assicurare il ritorno ai «bei tempi andati».
Hanno persino approvato una legge intesa a reintrodurre
le superate, chiuse e patriarcali corporazioni – da
assoggettare alla stretta supervisione e tutela dello
Stato – guardando a questa legge come a un’arma contro
la socialdemocrazia. Dall’altro lato, i socialdemocratici,
giustamente contrari a queste misure ma a loro
volta propensi a considerare astrattamente le questioni
economiche, attaccano ferocemente tutti coloro che non
si piegano a ripetere le stereotipate frasi a effetto come
164
«l’artigianato è in declino» e «prima scompare meglio è»
perché così darà spazio alla concentrazione capitalistica,
la quale, secondo il credo socialdemocratico, «farà
ben presto la sua stessa rovina». E in questa avversione
per le piccole industrie naturalmente concordano con
gli economisti della scuola ortodossa, contro i quali si
scagliano su quasi tutti gli altri punti.
Il fondamento di questo credo si trova in uno dei
capitoli conclusivi del Capitale di Marx (il penultimo),
in cui l’autore parlava della concentrazione del capitale
scorgendovi la «fatalità di una legge naturale». In quegli
anni Quaranta questa idea della «concentrazione del
capitale», originata da quanto avveniva nelle industrie
tessili, ricorreva di continuo negli scritti di tutti i socialisti
francesi, specialmente in Considérant, e nei loro
seguaci tedeschi, che se ne servivano come di un argomento
a favore della necessità di una rivoluzione sociale.
Ma Marx era un pensatore troppo grande per non
accorgersi dei susseguenti sviluppi della vita industriale,
imprevedibili nel 1848; e se fosse vissuto oggi, sicuramente
non avrebbe chiuso gli occhi davanti alla formidabile
fioritura di tanti piccoli imprenditori e ai
patrimoni della classe media realizzati in mille modi
all’ombra dei moderni «milionari». Molto probabilmente
avrebbe anche notato l’estrema lentezza con cui procede
la rovina delle piccole industrie: lentezza non prevedibile
cinquanta o quarant’anni fa, dal momento che nessuno
era in grado di immaginare allora le possibilità future
dei trasporti o la crescente varietà della domanda, né
l’attuale economicità della fornitura di piccole quantità
di energia motrice. Essendo un pensatore, avrebbe studiato
questi fatti, e molto probabilmente avrebbe mitigato
l’assolutezza delle sue formulazioni originarie,
come in realtà fece una volta a proposito delle comunità
di villaggio in Russia. Sarebbe quanto mai auspicabile
che i suoi seguaci facessero minore affidamento su formule
astratte – buone solo come parole d’ordine nelle
lotte politiche – e cercassero di imitare il loro maestro
nelle analisi dei fenomeni economici concreti.
165
È evidente che in Germania un certo numero di attività
artigianali sono oggi destinate a scomparire, ma ce
ne sono altre, al contrario, dotate di grande vitalità, e
tutte le probabilità depongono a favore della loro persistenza
e del loro ulteriore sviluppo per molti anni a
venire. Nella fabbricazione di certe stoffe tessute a
milioni di metri, e meglio producibili con l’aiuto di un
macchinario complicato, la concorrenza del telaio a
mano contro il telaio meccanico non rappresenta che
una semplice sopravvivenza, mantenibile per qualche
tempo in determinate condizioni locali, ma destinata a
scomparire.
Lo stesso si può dire di molti settori delle industrie
siderurgiche, della fabbricazione di ferramenta, terraglie,
ecc. Ma dovunque siano necessari l’intervento
diretto del gusto e dell’inventiva, dovunque debbano
essere di continuo introdotti nuovi generi di merci che
richiedono un rinnovamento continuo di macchine e
attrezzi allo scopo di soddisfare la domanda (come nel
caso di tutti i tessuti alla moda, anche se fabbricati per
rifornire le masse), dovunque vi sia una gran varietà di
merci e un’ininterrotta invenzione di nuovi prodotti
(come nel caso dei giocattoli, della fabbricazione di strumenti,
orologi, biciclette e così via), e infine dovunque
sia il senso artistico del singolo lavoratore a realizzare i
prodotti migliori (come è il caso in centinaia di settori
di piccoli articoli di lusso), là c’è ampio spazio per le
attività artigianali, le officine rurali, le lavorazioni a
domicilio, e simili. In queste industrie occorrono evidentemente
più aria fresca, più idee, più visioni generali e
più cooperazione. E dove lo spirito d’iniziativa è stato
destato in un modo o nell’altro, vediamo le industrie
marginali assumere nuovo sviluppo, proprio come
avviene in Germania o, l’abbiamo appena visto, in
Francia.
In Germania, in quasi tutte le attività marginali la
condizione dei lavoratori è unanimemente descritta
come la più miserabile, e i tanti ammiratori della centralizzazione
che troviamo in Germania insistono sem-
166
pre su tale miseria per predicare e auspicare la scomparsa
di «queste sopravvivenze medievali» che la «concentrazione
capitalistica» deve soppiantare per il bene
del lavoratore. La verità, tuttavia, è che quando confrontiamo
le miserabili condizioni dei lavoratori delle
industrie marginali con le condizioni dei salariati delle
fabbriche, nelle stesse regioni e nelle stesse attività,
notiamo come la stessa identica miseria domini tra i
lavoratori di fabbrica. Essi vivono, nei bassifondi delle
città invece che in campagna, di salari che vanno dai 9
agli 11 scellini la settimana, lavorano undici ore al giorno,
e sono oltretutto soggetti alla miseria straordinaria
in cui li precipitano le crisi ricorrenti. È solo dopo essere
passati attraverso sofferenze di ogni genere nelle lotte
contro i proprietari delle fabbriche che alcuni lavoratori
sono riusciti, più o meno, qua e là, a strappare ai
propri datori di lavoro un «salario che consenta di vivere
», e questo solo in certe attività.
Accogliere positivamente tutte queste sofferenze,
vedendo in esse l’azione di una «legge naturale» e il
cammino necessario verso la necessaria concentrazione
delle industrie, sarebbe semplicemente assurdo. Ma
sostenere che la pauperizzazione di tutti i lavoratori e
la rovina di tutte le industrie artigianali rappresentino
il cammino necessario verso una più elevata forma di
organizzazione industriale, significa non solo affermare
più di quanto si sia autorizzati ad affermare in base
all’imperfetto stato attuale della conoscenza economica,
ma anche dimostrare un’assoluta mancanza di comprensione
del senso delle leggi sia economiche sia naturali.
Al contrario, chiunque abbia studiato la questione
della crescita delle grandi industrie non può non concordare
con Thorold Rogers, che considerava le sofferenze
inflitte alle classi lavoratrici a quello scopo come
assolutamente non necessarie, anzi inflitte per favorire
gli interessi temporanei di pochi ma non certo quelli
della nazione.
Un fatto domina in tutte le indagini condotte sulla
condizione delle piccole industrie, e lo riscontriamo tan-
167
to in Germania quanto in Francia o in Russia. In un
enorme numero di attività a pesare contro la piccola
industria e a favore della grande fabbrica non sono la
superiorità dell’organizzazione tecnica o le economie
realizzate sul prezzo dell’energia, ma sono le più vantaggiose
condizioni di vendita del prodotto e di acquisto
delle materie prime di cui le grandi aziende dispongono.
Dovunque questa difficoltà sia stata superata – per
mezzo dell’associazione, o grazie ad un mercato certo
per la vendita dei prodotti – si è sempre scoperto, primo,
che le condizioni dei lavoratori o degli artigiani
migliorano immediatamente e, secondo, che si realizza
un rapido progresso nelle caratteristiche tecniche delle
rispettive industrie. Nuovi procedimenti sono stati
introdotti per migliorare il prodotto oppure per accelerarne
la fabbricazione; nuovi strumenti meccanici sono
stati inventati; si è fatto ricorso a nuove energie motrici;
l’attività è stata riorganizzata in modo da diminuire
i costi di produzione.
Al contrario, dovunque gli indifesi, isolati operai o
artigiani continuano a rimanere alla mercé dei grossisti
– che sempre, sin dai tempi di Adam Smith, «apertamente
o tacitamente» operano di concerto per abbassare
i prezzi a un livello quasi da fame, e tale è il caso per
la stragrande maggioranza delle piccole industrie e delle
attività artigiane – la loro condizione è così penosa
che solo l’aspirazione dei lavoratori a una relativa indipendenza,
e il fatto di sapere che cosa li aspetti in fabbrica,
impedisce loro di unirsi alle file degli operai di
fabbrica. Sapendo che nella maggioranza dei casi
l’avvento della fabbrica significherebbe la perdita completa
del lavoro per la maggior parte degli uomini e
l’assunzione in fabbrica di bambini e ragazze, essi fanno
l’impossibile per impedire che facciano la loro comparsa
nel villaggio.
Quanto alle associazioni di villaggio, alla cooperazione,
e simili, non bisogna mai dimenticare quanto gelosamente
i governi tedesco, francese, russo e austriaco
abbiano fino a oggi impedito ai lavoratori, e soprattutto
168
ai lavoratori rurali, di partecipare a qualsiasi associazione
con finalità economiche. In Francia i sindacati
contadini sono stati ammessi solo con la legge del 1884.
Tenere il contadino al livello più basso possibile, per
mezzo di tasse, servitù della gleba e simili, è stata ed è
ancora la politica della maggior parte degli Stati continentali.
È stato solo nel 1876 che la Germania ha permesso
una certa estensione dei diritti di associazione; e
ancor oggi, una semplice associazione cooperativa per
la vendita di prodotti artigianali viene subito considerata
una «associazione politica» e assoggettata di conseguenza
alle usuali limitazioni, come l’esclusione delle
donne e così via. Un impressionante resoconto della
politica relativa alle associazioni di villaggio è stato fatto
dal professor Issaieff, il quale ha pure parlato delle
severe misure prese dai grossisti del settore giocattoli
per impedire ai lavoratori di entrare in rapporto diretto
con i compratori stranieri.
Quando si prende in attenta considerazione la vita
delle piccole industrie e la loro lotta per la sopravvivenza,
ci si accorge che non è vero che esse periscano perché
«si può economizzare ricorrendo a un centinaio di
cavalli-vapore invece che a un centinaio di piccoli motori
». Questo inconveniente non si manca mai di citarlo,
benché sia stato facilmente eliminato a Sheffield, a
Parigi e in molti altri luoghi dove si affittano officine
dotate di volano, alimentato da una macchina centrale
o più spesso, come opportunamente osservato dal professor
W. Unwin, dalla trasmissione elettrica dell’energia.
Esse periscono non perché nella produzione di fabbrica
si può realizzare una notevole economia – in casi
molto più frequenti di quanto di solito si supponga
avviene persino il contrario – ma perché il capitalista
che impianta una fabbrica si emancipa dai grossisti e
dai dettaglianti di materie prime; e soprattutto si
emancipa dai compratori del suo prodotto trattando
direttamente con chi compra all’ingrosso e con l’esportatore;
o ancora, perché concentra in una sola azienda
le differenti fasi della fabbricazione di un dato prodotto.
169
A questo proposito sono quanto mai istruttive le pagine
che Schulze-Gäwernitz ha dedicato all’organizzazione
dell’industria cotoniera in Inghilterra, e alle difficoltà
con cui si sono dovuti confrontare i proprietari di cotonifici
tedeschi dal momento che dipendevano da Liverpool
per il cotone greggio. E ciò che caratterizza l’industria
del cotone, domina anche in tutti gli altri settori.
Se i posatieri di Sheffield che oggi lavorano nelle loro
minuscole officine, dotate del volano di cui si è detto,
fossero incorporati in una sola grande fabbrica, il principale
vantaggio che si realizzerebbe nella fabbrica non
sarebbe un’economia nei costi di produzione a pari qualità
di prodotto; anzi, in una società per azioni i costi
potrebbero persino aumentare. E tuttavia il prodotto
netto aziendale (salari inclusi) probabilmente sarebbe
superiore alla somma degli attuali redditi dei singoli
lavoratori grazie ad un minor costo nell’acquisto del ferro
e del carbone, e alle facilitazioni relative alla vendita
del prodotto. La grande azienda troverebbe perciò i suoi
vantaggi non in quei fattori imposti attualmente dalle
necessità tecniche dell’industria, ma negli stessi fattori
eliminabili da un’organizzazione cooperativa. Tutte queste
sono nozioni elementari per gli esperti del settore.
È quasi inutile aggiungere che un vantaggio ulteriore
per il grande imprenditore è che può trovare il modo
di vendere anche un prodotto di qualità assai inferiore,
purché ce ne sia da vendere una quantità considerevole.
Tutti quelli che hanno familiarità con il commercio
sanno, in verità, come un’enorme massa degli scambi
mondiali consista di scarti, di robaccia inviata in Paesi
lontani. Intere città, come abbiamo appena visto, non
producono altro che merce scadente.
Al contempo, va considerato come un fatto fondamentale
della vita economica europea che il fallimento di un
certo numero di piccole industrie, di attività artigianali
e di lavorazioni a domicilio, sia stato provocato dalla
loro incapacità di organizzare la vendita dei prodotti e
non la loro produzione. Lo stesso fenomeno ricorre in
ogni fase della storia economica. L’incapacità di orga-
170
nizzare la vendita senza cadere schiavi del mercante fu
un fenomeno determinante nelle città medievali, che a
poco a poco finirono sotto il giogo economico e politico
delle corporazioni commerciali semplicemente perché
non furono in grado di mantenere la vendita dei loro
prodotti nelle mani della comunità nel suo complesso, o
di organizzare la vendita di un nuovo prodotto nell’interesse
della comunità. Quando il mercato di tali prodotti
divenne da una parte l’Asia e dall’altra il Nuovo Mondo,
il destino non poteva che essere questo, e dal momento
che il commercio aveva cessato di essere comunale ed
era diventato individuale, le città divennero preda delle
rivalità tra le principali famiglie mercantili.
E ancor oggi, quando vediamo le società cooperative
avviate con successo sulla strada della produzione,
mentre cinquant’anni fa mostravano invariabilmente
scarse capacità produttive, possiamo concludere che la
causa dei passati fallimenti risiedeva non nella loro
incapacità di organizzare adeguatamente la produzione,
ma nella loro incapacità di operare come venditori
ed esportatori del prodotto fabbricato. I loro successi
attuali, al contrario, sono pienamente garantiti dalla
disponibilità di una rete di distribuzione. La vendita è
stata semplificata e la produzione resa possibile organizzando
prima di tutto il mercato.
Queste sono alcune delle conclusioni ricavabili da
uno studio delle piccole industrie in Germania e altrove.
E si può tranquillamente dire, riguardo alla Germania,
che se non verranno prese misure per sottrarre i
contadini alla terra, come purtroppo è avvenuto in questo
Paese, se al contrario il numero dei piccoli proprietari
terrieri si moltiplicherà, inevitabilmente questi si
rivolgeranno alle più svariate piccole industrie in
aggiunta all’agricoltura, come hanno fatto e ancora fanno
in Francia. Qualunque passo si faccia per risvegliare
la vita intellettuale nei villaggi, o per garantire i diritti
dei contadini e del contado sulla terra, porterà necessariamente
avanti la crescita industriale nei villaggi.
Se si vuol estendere questa ricerca ad altri Paesi, la
171
Svizzera offre un vasto campo per osservazioni quanto
mai interessanti. Vi si nota la stessa vitalità in una
molteplicità di piccole industrie; e va citato quanto è
stato fatto nei diversi cantoni per sostenere le piccole
industrie con tre diversi tipi di provvedimenti: la promozione
della cooperazione; un’ampia diffusione
dell’istruzione tecnica nelle scuole; l’introduzione di
nuovi settori di produzione artigianale in diverse parti
del Paese; e la fornitura di forza motrice a buon mercato
nelle case per mezzo di trasmissione idraulica o elettrica
dell’energia ricavata dalle cascate. Un altro libro
di grandissimo interesse e valore si potrebbe scrivere
su questo argomento, soprattutto sull’impulso dato a
una quantità di piccole industrie, vecchie e nuove, per
mezzo della fornitura a buon mercato di energia motrice.
Un tale libro sarebbe anche di grande interesse in
quanto mostrerebbe in quale misura la combinazione di
agricoltura e industria, da me descritta nella prima edizione
di questo libro come «la fabbrica tra i campi», sia
progredita ultimamente in Svizzera, cosa che non può
mancare di colpire anche il viaggiatore occasionale.
I fatti che abbiamo brevemente passato in rassegna
mostrano, in certo modo, i benefici che si potrebbero
trarre da una combinazione tra agricoltura e industria
se quest’ultima arrivasse al villaggio non nel suo aspetto
attuale di fabbrica capitalistica, ma in quello di produzione
industriale socialmente organizzata, con il pieno
supporto del macchinario e della preparazione tecnica.
In effetti, l’aspetto più evidente delle piccole industrie
è che un relativo benessere si riscontra solo dove
sono combinate con l’agricoltura, dove i lavoratori sono
rimasti proprietari del suolo e continuano a coltivarlo.
Anche tra i tessitori francesi o moscoviti, che pure devono
fare i conti con la concorrenza della fabbrica, domina
un relativo benessere grazie al fatto che non sono stati
costretti a separarsi dalla terra. Al contrario, non appena
le forti tasse o l’impoverimento dovuto a una crisi
hanno spinto il lavoratore a domicilio ad abbandonare
il suo ultimo pezzo di terra all’usuraio, la miseria ha
172
fatto il suo ingresso nella casa. Lo sfruttatore diviene
onnipotente, si fa ricorso a uno sfibrante superlavoro e
l’intera industria cade spesso in rovina.
Fatti del genere, come anche la pronunciata tendenza
di alcune fabbriche a spostarsi nelle aree rurali, che
si fa sempre più palese e che ha trovato ultimamente
espressione nel movimento delle «Città-giardino», sono
molto indicativi. Naturalmente, sarebbe un grosso errore
immaginare il ritorno dell’industria al suo stadio
manuale allo scopo di combinarsi con l’agricoltura.
Ogni volta che è possibile risparmiare lavoro umano
per mezzo di una macchina, la macchina è benvenuta e
va impiegata; e non c’è quasi settore dell’industria in
cui il lavoro meccanico non possa essere introdotto con
grande vantaggio, almeno in alcune fasi della produzione.
Nell’attuale stato caotico dell’industria, chiodi e
temperini a basso prezzo si possono ancora fare a mano,
e i cotoni comuni si possono ancora tessere col telaio
a mano. Ma una anomalia del genere non durerà: la
macchina prenderà il posto del lavoro manuale nella
fabbricazione delle merci comuni. Nello stesso tempo,
però, il lavoro manuale estenderà il proprio dominio
sulla rifinitura artigianale di molte merci che vengono
oggi interamente prodotte in fabbrica, e rimarrà sempre
un fattore importante per la nascita di migliaia di
nuove produzioni industriali.
Ma ecco sorgere alcuni quesiti: perché i cotoni, le
stoffe di lana e le sete, oggi tessuti a mano nei villaggi,
non dovrebbero essere tessuti a macchina negli stessi
villaggi senza che per questo si tralasci il lavoro nei
campi? Perché centinaia di industrie a domicilio, oggi
esercitate interamente a mano, non dovrebbero far
ricorso a macchine che risparmino il lavoro, come già
avviene nella fabbricazione delle maglie e in molti altri
campi? Non c’è ragione perché i piccoli motori non debbano
avere un uso molto più generalizzato di oggi,
dovunque non ci sia bisogno di una fabbrica; e non c’è
ragione perché il villaggio non debba avere la sua piccola
fabbrica, dovunque il lavoro di fabbrica sia preferibi-
173
le, come già si vede di tanto in tanto in certi villaggi
della Francia.
Ma c’è di più. Non c’è ragione per cui la fabbrica, con
la sua energia motrice e il suo macchinario, non debba
appartenere alla comunità, come già avviene per la forza
motrice nelle già menzionate officine e piccole fabbriche
della zona collinare francese del Giura. È evidente
che oggi, sotto il sistema capitalistico, la fabbrica è la
maledizione del villaggio dato che giunge a sottoporre i
bambini a un lavoro eccessivo e a impoverire i suoi abitanti
maschi; ed è del tutto naturale che essa incontri
l’ostilità assoluta dei lavoratori quando questi riescono
a mantenere l’organizzazione delle loro antiche attività
(come a Sheffield o a Solingen), o quando non sono stati
ridotti in completa miseria (come nel Giura). Ma con
un’organizzazione sociale più razionale, la fabbrica non
troverebbe ostacoli come questi: sarebbe un bene per il
villaggio. E abbiamo già un’inequivocabile prova che
dimostra come passi in questa direzione siano già stati
fatti in alcune comunità rurali.
I vantaggi fisici e morali che l’uomo trarrebbe dividendo
il suo lavoro tra il campo e l’officina si presentano
da sé. La difficoltà starebbe, ci dicono, nella necessaria
centralizzazione delle industrie moderne. Nell’industria,
come anche in politica, la centralizzazione vanta
molti ammiratori! Ma in entrambi i campi l’ideale dei
centralizzatori sfortunatamente ha bisogno di essere
riveduto. In effetti, se analizziamo le industrie moderne,
scopriamo ben presto che per alcune di esse la collaborazione
di centinaia, o persino di migliaia, di lavoratori
raggruppati nello stesso posto è realmente necessaria.
Le grandi fonderie e le imprese minerarie appartengono
decisamente a questa categoria: i transatlantici
non si possono costruire nelle officine di villaggio. Ma
moltissime grosse fabbriche non sono altro che agglomerati,
sotto un’amministrazione comune, di parecchie
industrie distinte, mentre altre sono semplici agglomerati
di centinaia di esemplari di un’identica macchina; e
tali appunto sono la maggior parte delle nostre gigante-
174
sche filande e tessiture.
Essendo la fabbrica un’impresa strettamente privata,
i suoi proprietari trovano vantaggioso tenere tutti i
settori di una determinata industria sotto la propria
amministrazione; in questo modo cumulano i profitti
delle successive trasformazioni della materia prima. E
quando diverse migliaia di telai meccanici si trovano
riuniti in una sola fabbrica, il proprietario realizza un
ulteriore vantaggio nella possibilità di controllare il
mercato. Ma dal punto di vista tecnico i vantaggi di una
simile accumulazione sono insignificanti e spesso incerti.
Anche un’industria così centralizzata come quella
cotoniera non ha risentito affatto dall’aver suddiviso le
varie fasi di lavorazione di una data produzione in fabbriche
distinte: lo si è visto a Manchester e nelle città
vicine. Quanto alle piccole industrie, non si è riscontrato
alcun inconveniente nella ulteriore suddivisione tra
le officine della fabbricazione di orologi e di moltissimi
altri prodotti.
Spesso sentiamo dire che un cavallo-vapore costa
tanto in un piccolo motore e nettamente meno in un
motore dieci volte più potente, o che una libbra di filato
di cotone costa molto meno quando la fabbrica raddoppia
il numero dei suoi fusi. Ma nell’opinione dei migliori
ingegneri meccanici, come il professor W. Unwin, la
distribuzione idraulica e soprattutto quella elettrica di
energia da parte di una stazione centrale elimina il primo
punto della questione. Quanto al secondo, calcoli del
genere valgono solo per quelle industrie che preparano
prodotti semilavorati per ulteriori trasformazioni. E
quanto alle innumerevoli specie di merci che si avvalgono
del lavoro specializzato, le si può meglio produrre in
piccole fabbriche che impiegano poche centinaia o persino
poche decine di operai. Ecco perché la «concentrazione
» di cui tanto si parla spesso non è altro che un’unione
di capitalisti allo scopo di controllare il mercato, non
a quello di ridurre il costo dei processi tecnici.
Anche nelle condizioni attuali le fabbriche gigantesche
presentano grandi inconvenienti dato che non sono
175
in grado di modificare rapidamente il proprio macchinario
in sintonia con le domande continuamente varianti
del consumatore. Quanti fallimenti di grandi
aziende, troppo note in questo Paese perché se ne faccia
il nome, si devono a questo motivo durante la crisi degli
anni tra il 1886 e il 1890! Quanto ai nuovi settori
dell’industria che ho menzionato prima, essi devono
sempre avviarsi su piccola scala, e possono prosperare
tanto nelle piccole città come nelle grandi se gli agglomerati
più piccoli dispongono di istituzioni che stimolino
il gusto artistico e lo spirito di inventiva. I progressi
raggiunti di recente nella fabbricazione dei giocattoli,
come anche l’elevato grado di perfezione raggiunto nella
fabbricazione di strumenti scientifici e ottici, di mobili,
di piccoli articoli di lusso, di terraglie, costituiscono
esempi significativi. L’arte e la scienza non sono più il
monopolio delle grandi città, e ulteriori progressi si raggiungeranno
diffondendole ovunque.
In buona parte, la distribuzione geografica delle
industrie in un dato Paese dipende, ovviamente, da un
complesso di condizioni naturali: è ovvio che certe località
sono meglio indicate per lo sviluppo di determinate
industrie. Le sponde del Clyde e del Tyne sono certamente
quanto mai indicate come cantieri navali, e i
cantieri navali devono essere circondati da una molteplicità
di officine e di fabbriche. Le industrie trarranno
sempre vantaggio dall’essere raggruppate, e raggruppate
in armonia con gli aspetti naturali delle singole
regioni. Ma dobbiamo ammettere che oggi esse non si
trovano affatto raggruppate in base a questi criteri.
Cause storiche – principalmente guerre di religione e
rivalità nazionali – hanno avuto molto peso nella loro
crescita e nella loro distribuzione attuale. Inoltre, i
datori di lavoro sono stati guidati dalla valutazione delle
possibilità di vendita e di esportazione: vale a dire,
da considerazioni che vanno perdendo importanza via
via che aumentano le possibilità di trasporto, e che
sempre più ne perderanno quando i produttori produrranno
per se stessi e non per clienti lontani.
176
Perché, in una società organizzata razionalmente,
Londra dovrebbe rimanere il grande centro dell’industria
conserviera e fabbricare ombrelli per quasi tutta
la Gran Bretagna? Perché le innumerevoli piccole industrie
di Whitechapel dovrebbero rimanere dove sono
invece di diffondersi per tutto il Paese? Non c’è ragione
alcuna per cui i mantelli indossati dalle signore inglesi
debbano essere cuciti a Berlino e a Whitechapel invece
che nel Devonshire o nel Derbyshire. Perché Parigi
dovrebbe raffinare lo zucchero per quasi l’intera Francia?
Perché metà degli stivali e delle scarpe che si usano
negli Stati Uniti dovrebbe essere fabbricata nei
1.500 laboratori del Massachusetts? Non c’è assolutamente
ragione per cui queste e altre anomalie del genere
continuino ad esistere. Le industrie devono disseminarsi
in tutto il mondo; e la disseminazione delle industrie
in tutte le nazioni civili sarà necessariamente
seguita da un’ulteriore disseminazione delle fabbriche
nei territori di ciascuna nazione.
Nel corso di questa evoluzione, i prodotti naturali di
ciascuna regione e le sue condizioni geografiche saranno
certamente uno dei fattori che determineranno il
tipo di industria destinata a svilupparsi in quell’area.
Ma quando vediamo che la Svizzera è divenuta una
grande esportatrice di locomotive e di navi a vapore,
benché non abbia miniere di ferro né carbone per ottenere
l’acciaio, e non abbia neppure porti per importarli;
quando vediamo che il Belgio è riuscito a diventare un
grande esportatore di uve, e che Manchester si è data
da fare per diventare un porto, comprendiamo che nella
distribuzione geografica delle industrie i due fattori del
prodotto locale e di una vantaggiosa vicinanza col mare
non costituiscono i fattori dominanti. Cominciamo a
capire che, tutto considerato, il fattore intellettuale – lo
spirito creativo, la capacità di adattamento, la libertà
politica, ecc. – è quello che conta più di tutti gli altri.
Che ciascuna attività industriale tragga vantaggio
dall’essere esercitata in stretto contatto con una gran
varietà di altre attività industriali, il lettore lo ha già
177
rilevato da numerosi esempi. Ogni industria richiede
un ambiente tecnologizzato. Ma la stessa cosa si può
dire anche dell’agricoltura.
L’agricoltura non si può sviluppare senza l’aiuto della
meccanica, e l’uso di macchinari avanzati non può
divenire generale senza un’industrializzazione diffusa:
senza officine meccaniche facilmente accessibili al coltivatore
del suolo, l’uso del macchinario agricolo non è
possibile. Il fabbro del villaggio non basterebbe. Se il
lavoro di una trebbiatrice dev’essere sospeso per una
settimana o più perché uno dei denti della ruota si è
rotto, e se per avere una nuova ruota bisogna mandare
un corriere particolare nella provincia vicina, allora
l’uso di una trebbiatrice diventa impossibile. Ma questo
è proprio quanto vidi durante la mia infanzia nella
Russia centrale; e abbastanza di recente ho trovato
l’identico fatto menzionato in un’autobiografia inglese
della prima metà del XIX secolo. Inoltre, in tutta la parte
settentrionale della zona temperata, chi coltiva il
suolo deve trovare una sorta di impiego industriale
durante i lunghi mesi invernali. Cosa che è stata
appunto realizzata con il grande sviluppo delle industrie
rurali, delle quali abbiamo appena visto esempi
così interessanti. Ma questo bisogno viene avvertito
anche nel clima più mite delle isole della Manica, nonostante
l’estensione raggiunta dall’orticoltura in serra.
«Abbiamo bisogno di tali industrie. Potreste suggerircene
qualcuna?», mi ha domandato uno dei miei corrispondenti
di Guernsey.
Ma non è tutto. L’agricoltura ha così bisogno dell’aiuto
di coloro che abitano nelle città che ogni estate
migliaia di uomini lasciano i loro bassifondi urbani e
vanno in campagna per la stagione dei raccolti. I poveri
di Londra si recano a migliaia nel Kent e nel Sussex
per la raccolta del fieno e del luppolo, giacché si valuta
che il solo Kent abbia bisogno di 80.000 uomini e donne
in più per raccogliere il solo luppolo; in Francia interi
villaggi, e il loro artigianato, vengono abbandonati in
estate perché i contadini si trasferiscono nelle parti più
178
fertili del Paese; centinaia di migliaia di esseri umani
vengono trasportati ogni estate nelle praterie del Manitoba
e del Dakota. E ogni estate, molte migliaia di
polacchi si riversano al tempo del raccolto nelle pianure
del Mecklenburg, della Westfalia e persino della Francia;
in Russia si verifica ogni anno un esodo di parecchie
migliaia di uomini che da nord si spostano verso le
praterie del sud per raccogliere le messi, tanto che molti
industriali di San Pietroburgo riducono in questa stagione
la produzione proprio perché gli operai ritornano
ai villaggi natali per coltivare i loro appezzamenti.
L’agricoltura non può andare avanti in estate senza
manodopera addizionale, ma essa necessita ancor di
più di aiuti temporanei per migliorare il terreno e per
decuplicarne la produttività. La dissodazione meccanica
del suolo, il prosciugamento e la concimazione farebbero
delle pesanti argille a nordovest di Londra un terreno
molto più ricco di quello delle praterie americane.
Per divenire fertili, quelle argille hanno bisogno solo del
semplice, comune, lavoro umano, quello necessario per
dissodare il suolo, collocare i tubi di drenaggio, polverizzare
le fosforiti, e così via; e quel lavoro sarebbe di
buon grado adempiuto dai lavoratori di fabbrica, a
beneficio dell’intera società, se fossero adeguatamente
organizzati in una libera comunità. Il suolo reclama un
aiuto del genere e lo avrebbe con un’organizzazione
adeguata, anche se per questo fosse necessario fermare
in estate molte fabbriche. Non c’è dubbio che gli attuali
proprietari di fabbrica considererebbero come una rovina
dover fermare le fabbriche parecchi mesi l’anno, poiché
il capitale investito in una fabbrica è destinato a
pompare denaro tutti i giorni e tutte le ore, se possibile.
Ma questo è il punto di vista dei capitalisti, non della
comunità.
Quanto ai lavoratori, che in realtà dovrebbero essere
coloro che gestiscono le industrie, sarà per loro salutare
non fare lo stesso monotono lavoro per tutto l’anno, e
abbandonarlo in estate, se davvero non si trovasse il modo
di tenere in funzione la fabbrica organizzando dei turni.
179
La disseminazione delle industrie per tutto il Paese –
in modo da portare la fabbrica tra i campi e da apportare
all’agricoltura tutti quei benefici che essa trae sempre
dalla combinazione con l’industria (come avviene
sulla costa orientale degli Stati Uniti) – è certamente il
primo passo da compiere, non appena si sia resa possibile
una riorganizzazione delle nostre condizioni attuali.
E questo passo – che viene già fatto qua e là, come
abbiamo visto nelle pagine precedenti – lo impone una
necessità che è tale per gli stessi produttori: lo impone
la necessità, per ogni uomo e donna sana, di passare
parte della vita nel lavoro manuale all’aria aperta; e
diventerà ancora più necessario quando i grandi sommovimenti
sociali, oggi divenuti inevitabili, verranno a
perturbare l’attuale scambio internazionale spingendo
ogni nazione a fare ricorso alle proprie risorse per mantenersi.
L’umanità intera, come ogni singolo individuo,
guadagneranno nel cambio, e il cambio sarà inevitabile.
Per noi, però, esso implica anche una completa modifica
dell’attuale sistema educativo. Implica una società
composta da uomini e donne capaci di lavorare con le
proprie mani ma anche con il proprio cervello, e di farlo
in più attività. È questa «integrazione di capacità», è
questa «istruzione integrale», che intendo ora analizzare.
180
VIII
Kropotkin svolge una critica radicale al collettivismo,
cioè a quel sistema che intende mantenere la remunerazione
individuale a fianco di una socializzazione dei
mezzi di produzione. Il collettivismo sia esso libertario o
autoritario, non attuando una trasformazione vera
dell’esistente, implica una conseguenza contraddittoria,
perché gli esiti della rivoluzione sociale risultano limitati
da forme più arretrate dell’opera demolitrice della
rivoluzione medesima; esso, in altri termini, dimostra i
suoi limiti rispetto al compito immane dell’emancipazione
integrale.
Si pensi, ad esempio, al superamento della divisione
gerarchica del lavoro sociale, vera base strutturale della
disuguaglianza. Il regime collettivista, infatti, se da un
lato intende socializzare i mezzi di produzione, dall’altro
lascia intatta la diversa remunerazione individuale
scaturita dalla differente qualità di lavoro erogata da
ciascun membro della società. In tal modo, secondo Kropotkin,
si costituisce la sanzione «socialista» della gerarchia
sociale, la santificazione del principale ostacolo
dell’obiettivo egualitario.
Come Bakunin, Kropotkin ritiene che il superamento
della divisione gerarchica del lavoro sia la via maestra
per l’abolizione delle classi. Ancora una volta, la norma
181
del dover essere si coniuga con la constatazione dell’oggettività
necessitante della sua utilità pratica. Ne deriva,
in questo caso, l’idea del perseguimento dell’«uomo
completo». L’integrazione del lavoro, infatti, mira a sviluppare
un essere sociale «completo», mentre nello stesso
tempo abolisce la gerarchia sociale che sta alla base di
ogni disuguaglianza.
Vi è qui una perfetta analogia con il rapporto cittàcampagna.
Infatti, come il lavoro intellettuale è dominante
rispetto a quello manuale, così la posizione della
città è dominante rispetto a quella della campagna: non
si può, insomma, integrare l’uno senza integrare l’altro.
Perciò l’integrazione fra lavoro manuale e intellettuale è
perfettamente complementare, in senso anarchico, a
quella fra centro e periferia.
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione
italiana di Campi, fabbriche officine del 19822,
nella traduzione (rivista) di Franco Marano.
182
L’INTEGRAZIONE DEL LAVORO
In passato gli scienziati, soprattutto quelli che maggiormente
hanno contribuito allo sviluppo delle scienze
naturali, non disdegnavano il lavoro e le attività
manuali. Galileo si costruiva i telescopi da sé. Newton
apprese da ragazzo l’arte di maneggiare gli utensili ed
esercitava la sua giovane mente ideando le macchine
più ingegnose; e quando intraprese le sue ricerche ottiche,
fu in grado di fabbricarsi da solo le lenti per i suoi
strumenti e di costruire, sempre da solo, il famoso telescopio,
che rappresentò, per quei tempi, un ottimo
esempio di abilità tecnica. Leibniz si dedicava con passione
all’invenzione di macchine: mulini a vento e carri
senza cavalli ne impegnavano la mente tanto quanto le
speculazioni matematiche e filosofiche. Linneo divenne
botanico aiutando suo padre, esperto giardiniere, nei
183
lavori di ogni giorno. In breve, per i grandi geni l’abilità
manuale non costituiva un ostacolo alle ricerche teoriche:
al contrario, le favoriva. D’altra parte, se in passato
gli operai avevano ben poche occasioni di esercitare
la scienza, molti di loro trovavano però uno stimolo
intellettuale nelle svariate occupazioni delle officine
non specializzate di allora; e alcuni ebbero la fortuna di
intrattenere rapporti amichevoli con uomini di scienza.
Watt e Rennie furono amici del professor Robinson; lo
stradino Brindley, malgrado il suo salario di 14 scellini
giornalieri, frequentava uomini istruiti ed ebbe così
modo di sviluppare le proprie notevoli doti ingegneristiche;
il rampollo di una famiglia benestante poteva «perder
tempo» nella bottega di un carradore, preparandosi
a divenire, più tardi, uno Smeaton o uno Stephenson.
Tutto questo è cambiato. Col pretesto della divisione
del lavoro, abbiamo nettamente separato il lavoratore
intellettuale dal lavoratore manuale. La massa degli
operai non riceve oggi maggiore istruzione scientifica di
quanta ne ricevessero le generazioni passate; anzi, è
stata privata persino dell’istruzione che può dare la piccola
officina, mentre i suoi figli e figlie, dai tredici anni
in poi, vengono avviati in miniera o in fabbrica, e lì
dimenticano ben presto quel poco che hanno potuto
imparare a scuola. Quanto agli uomini di scienza, essi
disprezzano il lavoro manuale. Pochi sarebbero in grado
di costruire un telescopio, o anche uno strumento
meno complesso! La maggior parte non sarebbe neppure
capace di disegnare uno strumento scientifico, e una
volta dato allo strumentista un vago suggerimento,
lascia a lui il compito di creare l’apparecchio di cui ha
bisogno. Per di più, hanno elevato il disprezzo per il
lavoro manuale a livello di teoria. «All’uomo di scienza»,
affermano, «scoprire le leggi della natura, all’ingegnere
applicarle, e all’operaio eseguire in acciaio o in legno, in
ferro o in pietra, i progetti ideati dall’ingegnere. Egli
deve lavorare con le macchine ideate per lui, ma non da
lui. Non importa che non le capisca e non sia in grado
di perfezionarle: lo scienziato e l’ingegnere penseranno
184
al progresso della scienza e dell’industria».
Si potrebbe obiettare che, ciononostante, esiste una
classe di uomini che non rientra in nessuna delle tre
categorie appena delineate. Da giovani sono stati lavoratori
manuali, e alcuni lo rimangono, ma grazie a fortunate
circostanze sono riusciti ad acquisire una certa
preparazione scientifica e hanno perciò combinato la
scienza con il mestiere. Uomini del genere esistono, e
siamo fortunati che sia rimasto un certo numero di individui
sfuggiti alla tanto decantata specializzazione del
lavoro perché è proprio a loro che l’industria deve le sue
principali e più recenti invenzioni. Ma nella vecchia
Europa rappresentano un’eccezione: sono gli irregolari,
i «cosacchi» che hanno rotto le righe e sfondato le barriere
tanto laboriosamente erette tra le classi. E sono così
poco numerosi, in confronto alle sempre crescenti esigenze
dell’industria – e della scienza – che tutto il mondo
lamenta proprio la scarsità di uomini del genere.
Come si spiega, in effetti, la pressante richiesta di
insegnamento professionale sorta simultaneamente in
Inghilterra, Francia, Germania, Stati Uniti e Russia, se
non come la conseguenza di un generale malcontento
verso l’attuale divisione tra scienziati, ingegneri e operai?
Prestate orecchio a coloro che conoscono l’industria
e sentirete che proprio questo è l’oggetto delle loro
lamentele: «L’operaio, le cui mansioni sono diventate
così specialistiche a causa della divisione permanente
del lavoro, ha perduto ogni interesse intellettuale nel
proprio lavoro, e ciò è avvenuto soprattutto nelle grandi
industrie: egli ha perso le sue capacità creative. Una
volta creava in continuazione. È ai lavoratori manuali –
e non agli uomini di scienza o agli esperti di ingegneria
– che si deve l’invenzione o il perfezionamento dei
motori e di tutta quella massa di macchinari che hanno
rivoluzionato l’industria negli ultimi cento anni. Ma da
quando è sorta la grande fabbrica, l’operaio, depresso
dalla monotonia del proprio lavoro, non crea più nulla.
Che cosa potrebbe inventare, infatti, un tessitore impegnato
soltanto a sorvegliare quattro telai, senza sapere
185
nulla dei loro complicati movimenti o del modo in cui
queste macchine sono state concepite? Che cosa potrebbe
creare un uomo condannato per tutta la vita ad
annodare alla massima velocità i capi di due fili e capace
soltanto di fare un nodo?
«All’inizio dell’industria moderna, tre generazioni di
operai sono stati capaci di inventare: oggi non lo fanno
più. Quanto alle invenzioni degli ingegneri particolarmente
esperti nella progettazione di macchine, o non
sono affatto geniali, o non sono abbastanza pratiche.
Mancano in tali invenzioni quei ‘nonnulla’ di cui parlava
una volta a Bath sir Frederick Bramwell – quei nonnulla
che si possono apprendere solo in officina e che
permisero a Murdoch e agli operai di Soho di ricavare
una macchina vera dai disegni di Watt. Solo chi conosce
la macchina, non soltanto nei progetti e nei modelli ma
nel respiro e nelle pulsazioni, solo chi inconsciamente la
pensa mentre le sta vicino, può veramente perfezionarla.
Smeaton e Newcomen erano certamente eccellenti
ingegneri, ma nei loro motori un ragazzo doveva aprire
la valvola del vapore a ogni colpo di pistone, e fu proprio
uno di questi ragazzi a scoprire un giorno il modo
di collegare la valvola al resto della macchina perché si
aprisse automaticamente, mentre egli si allontanava
per giocare con i compagni. Tuttavia, nei macchinari
moderni i perfezionamenti improvvisati come questi
non sono più possibili. E se per ulteriori invenzioni è
diventata necessaria l’istruzione scientifica su larga
scala, questa istruzione viene negata agli operai. E non
c’è verso di superare tale difficoltà, a meno che istruzione
scientifica e mestiere non vengano combinati; a
meno che l’integrazione delle conoscenze non sostituisca
le attuali specializzazioni».
Ecco la vera sostanza dell’attuale movimento a favore
dell’insegnamento professionale. Ma invece di chiarire
al pubblico le ragioni, forse incomprese, dell’attuale
malcontento, invece di allargare l’orizzonte degli scontenti
e discutere il problema in tutta la sua estensione,
i promotori del movimento non oltrepassano, in genere,
186
il punto di vista di un bottegaio. Alcuni si perdono in
chiacchiere sulla necessità di annientare la concorrenza
di tutte le industrie straniere; altri vedono nell’insegnamento
professionale solo uno strumento per perfezionare
leggermente la macchina di carne della fabbrica e
promuovere alcuni operai alla classe superiore degli
ingegneri.
Un simile ideale può bastare a loro, ma non certo a
quanti, tenendo ben presenti gli interessi comuni della
scienza e dell’industria, considerano entrambe come il
mezzo per elevare il livello dell’umanità. Noi sosteniamo
che, nell’interesse della scienza e dell’industria,
come anche della società nel suo complesso, ogni essere
umano, senza distinzione di nascita, dovrebbe ricevere
un’istruzione tale da permettergli di unire una solida
preparazione scientifica a una solida preparazione professionale.
Riconosciamo, certo, la necessità di una preparazione
specialistica, ma sosteniamo anche che la
specializzazione viene dopo l’istruzione generale e che
l’istruzione generale deve comprendere tanto la scienza
quanto il mestiere. Alla divisione della società tra lavoratori
intellettuali e lavoratori manuali contrapponiamo
l’unione di entrambi i tipi di attività; e invece che
per l’«insegnamento professionale», che sottintende il
mantenimento dell’attuale divisione tra lavoro intellettuale
e lavoro manuale, siamo per l’éducation intégrale,
l’istruzione integrale, che comporta la scomparsa di tale
nociva distinzione.
In parole povere, lo scopo della scuola in un simile
sistema dovrebbe essere il seguente: impartire un’istruzione
tale che, nel lasciare la scuola all’età di diciottovent’anni,
ragazzi e ragazze fossero provvisti di una
solida preparazione scientifica – una preparazione che
ne facesse dei validi lavoratori scientifici – e nello stesso
tempo avessero in pugno le basi della preparazione
professionale; inoltre, dovrebbero disporre di una particolare
specializzazione in grado di assicurare loro un
posto nel grande mondo della produzione manuale di
ricchezza. So che molti troveranno questo scopo troppo
187
ambizioso, o addirittura impossibile da raggiungere,
ma spero che, se avranno la pazienza di leggere le pagine
che seguono, si accorgano che non chiediamo nulla di
irrealizzabile. In effetti, tale scopo è già stato raggiunto,
e ciò che si è fatto in piccolo lo si potrebbe fare più in
grande se cause economiche e sociali non impedissero
l’attuazione di ogni seria riforma nella nostra società
così infelicemente organizzata.
Lo spreco di tempo è l’aspetto dominante della nostra
attuale istruzione. Non solo si insegnano un mucchio di
cose inutili, ma ciò che inutile non è ci viene comunque
insegnato in modo da farci sprecare su di esso quanto
più tempo possibile. I nostri attuali metodi di insegnamento
risalgono a un tempo in cui le doti richieste a
una persona istruita erano estremamente limitate, e
sono rimasti inalterati anche se la mole di nozioni da
indirizzare alla mente dello scolaro, dopo che la scienza
ha tanto esteso i suoi antichi confini, sia immensamente
cresciuta. Di qui l’oppressività delle scuole, e sempre
di qui l’urgenza di rivedere interamente sia gli argomenti
sia i metodi di insegnamento in base alle nuove
esigenze e agli esempi già forniti, qui e là, da singole
scuole e da singoli educatori.
È evidente che gli anni dell’infanzia non andrebbero
sprecati come oggi. I pedagoghi tedeschi hanno dimostrato
come gli stessi giochi infantili possano servire a
indirizzare alla mente dei bambini qualche nozione concreta
di geometria e di matematica. I bambini che hanno
realizzato i quadrati del teorema di Pitagora con dei
pezzi di cartone colorato non considereranno il teorema,
quando lo ritroveranno in geometria, come un semplice
strumento di tortura inventato dagli insegnanti; e ciò
sarà più vero se lo applicheranno come lo applicano i
carpentieri. I complicati problemi di aritmetica, che
hanno tanto tormentato la nostra infanzia, vengono
facilmente risolti da bambini di sette-otto anni se posti
sotto forma di interessanti giochi di pazienza. E se il
Kindergarten – che i pedagoghi tedeschi spesso trasformano
in una specie di caserma, dove ogni movimento
188
del bambino è regolato in anticipo – è spesso divenuto
una prigione per i piccoli, l’idea dalla quale è nato è ciononostante
valida. In effetti, è quasi impossibile immaginare,
senza averlo verificato, quante solide nozioni
naturali, quante abitudini alla classificazione e quanto
gusto per le scienze naturali possano essere indirizzati
alle menti dei bambini. E se l’idea di una serie di corsi
concentrici, adeguati alle diverse fasi di sviluppo
dell’essere umano, venisse generalmente accolta nell’istruzione,
il primo corso di ogni scienza, eccettuata la
sociologia, potrebbe essere insegnato prima dei diecidodici
anni, dando così una visione generale dell’universo,
della Terra e dei suoi abitanti, e dei principali fenomeni
fisici, chimici, zoologici e botanici, e lasciando la
scoperta delle leggi di tali fenomeni a corsi successivi
più approfonditi e specializzati.
D’altra parte, sappiamo tutti come i bambini amino
costruirsi da soli i giocattoli e come imitino spontaneamente
le occupazioni degli adulti quando li vedono al
lavoro in officina o nel cantiere. Ma i genitori talvolta
bloccano stupidamente questa passione, talvolta non
sanno come utilizzarla. La maggior parte disprezza il
lavoro manuale e preferisce far studiare ai bambini la
storia romana, o i precetti di Franklin sul risparmio,
anziché vederli al lavoro, buono «solo per le classi inferiori
». E in questo modo fanno del loro meglio per rendere
più difficile l’apprendimento successivo.
Poi arrivano gli anni della scuola, e il tempo viene di
nuovo incredibilmente sprecato. Prendiamo, ad esempio,
la matematica, che tutti dovrebbero conoscere in
quanto costituisce la base di ogni successiva istruzione,
e che pochi imparano veramente nelle nostre scuole. In
geometria il tempo viene scioccamente sprecato con
l’uso del metodo mnemonico. Nella maggioranza dei
casi, il ragazzo legge e rilegge più volte la dimostrazione
di un teorema, fino a quando non ha imparato a
memoria la successione dei ragionamenti. È per questo
che nove ragazzi su dieci, alla richiesta di dimostrare
un semplice teorema due anni dopo aver lasciato la
189
scuola, saranno incapaci di farlo, a meno che la matematica
non sia la loro specializzazione. Essi avranno
dimenticato le linee ausiliarie da tracciare non avendo
mai imparato a scoprire le prove da soli. Nessuna
meraviglia se più tardi, nell’applicare la geometria alla
fisica, incontreranno tante difficoltà, se il loro progresso
sarà disperatamente lento, e se pochi saranno in grado
di padroneggiare la matematica più complessa.
Esiste, tuttavia, un altro metodo, che consente
all’allievo di progredire, nel complesso, molto più velocemente
e con il quale chi ha imparato la geometria
non la dimenticherà più. Con questo sistema, ogni teorema
viene posto come un problema; la soluzione non
viene mai data in anticipo, ma l’allievo è costretto a trovarla
da solo. Così, se si sono fatti degli esercizi preliminari
con il regolo e il compasso, non c’è ragazzo o ragazza
che non riesca a tracciare un angolo uguale a un
altro dato angolo e a dimostrarne l’uguaglianza dietro
pochi suggerimenti dell’insegnante; e se i problemi
seguenti vengono dati in successione sistematica (esistono
testi eccellenti in materia) e l’insegnante non
costringe gli allievi ad andare più in fretta di quanto
all’inizio siano in grado, questi passeranno da un problema
all’altro con facilità sorprendente, una volta
superata la difficoltà iniziale di indurre l’allievo a risolvere
il primo e perciò ad acquistare fiducia nel suo stesso
ragionamento.
Inoltre, ogni verità geometrica astratta va impressa
nella mente anche nella sua forma concreta. Non appena
gli allievi avranno risolto dei problemi sulla carta, li
si spinga a risolverli anche sul campo da gioco con dei
bastoncini e uno spago, e ad applicare la propria conoscenza
in officina. Solo allora le linee geometriche assumeranno
un significato concreto nella mente dei bambini;
solo allora questi si accorgeranno che l’insegnante
non li prende in giro quando chiede loro di risolvere i
problemi con il regolo e il compasso senza ricorrere al
goniometro; solo allora conosceranno la geometria.
«Dagli occhi e dalla mano al cervello»: è questo il vero
190
modo per risparmiare tempo nell’insegnamento. Ricordo,
come fosse ieri, in che modo la geometria acquistasse
per me, improvvisamente, un nuovo significato, e
come questo nuovo significato mi facilitasse ogni studio
successivo. Fu mentre a scuola lavoravamo attorno a
una mongolfiera, e io osservai come l’angolo in cima a
ognuna delle venti strisce di carta che costituivano il
pallone dovesse coprire meno d’un quinto di angolo retto.
Ricordo poi come seni e tangenti cessassero di essere
semplici segni cabalistici quando ci permisero di calcolare
la lunghezza di un bastoncino nell’eseguire la sezione
di un fortino, e come la geometria dello spazio si
facesse semplice quando cominciammo a costruire un
piccolo bastione con feritoie e barbette: occupazione che
naturalmente ci fu subito proibita per lo stato in cui
riducemmo i nostri vestiti. «Sembrate degli sterratori»,
ci rimproverarono i nostri sapienti insegnanti, mentre
noi eravamo orgogliosi proprio di questo e di avere scoperto
l’uso della geometria.
Obbligando i nostri figli a studiare cose reali su semplici
rappresentazioni grafiche, invece di fargliele fare
direttamente, li costringiamo a sprecare un tempo prezioso;
ne impegniamo inutilmente le menti; li abituiamo
ai peggiori metodi di apprendimento; uccidiamo sul
nascere l’indipendenza del pensiero; e molto raramente
riusciamo a dar loro un’idea concreta di quanto insegniamo.
Superficialità, ripetizioni a pappagallo, schiavitù
e inerzia mentale: ecco i risultati del nostro metodo
di insegnamento. Ai nostri bambini non insegniamo ad
apprendere.
Anche l’insegnamento dei princìpi scientifici segue il
medesimo deleterio sistema. Nella maggior parte delle
scuole l’aritmetica viene insegnata in modo astratto,
imbottendo le povere testoline di semplici regole. In
questo Paese, negli Stati Uniti e in Russia, invece di
accettare il sistema metrico decimale, si torturano
ancora i bambini insegnando loro un sistema di pesi e
misure superato già da un pezzo.
Il tempo che si spreca per la fisica è semplicemente
191
indecente. Mentre i giovani comprendono molto facilmente
i princìpi della chimica e le sue formule non
appena passano a fare direttamente i primi esperimenti
con ampolle e provette, trovano infinitamente difficile
impadronirsi dell’introduzione meccanica alla fisica, in
parte perché non conoscono la geometria, ma soprattutto
perché vengono loro mostrate solo macchine costose
invece di essere indotti a costruire direttamente i semplici
apparecchi che illustrano i fenomeni studiati.
Invece di apprendere le leggi dell’energia per mezzo
di semplici strumenti che anche un ragazzo di quindici
anni sarebbe in grado di costruire, le imparano dai
disegni, in modo completamente astratto. Invece di
costruire direttamente una macchina di Atwood con un
manico di scopa e il bilanciere di un vecchio orologio, o
di verificare le leggi della caduta dei corpi facendo scivolare
una chiave su una cordicella inclinata, si mostra
loro un complicato apparecchio, e nella maggior parte
dei casi lo stesso insegnante non riesce a spiegare il
principio perdendosi in dettagli irrilevanti. In realtà,
ogni apparecchio che serva ad illustrare le leggi fondamentali
della fisica andrebbe costruito dagli stessi
ragazzi.
Lo spreco di tempo è la caratteristica non solo dei
nostri metodi di insegnamento scientifico, ma anche dei
metodi usati nell’insegnamento professionale. Sappiamo
bene quanti anni sprechi un ragazzo che fa tirocinio
in officina. Ma lo stesso rimprovero lo si può rivolgere a
maggior ragione a quelle scuole professionali che cercano
di insegnare, tutto in una volta, un qualche mestiere
particolare, invece di ricorrere ai metodi più completi e
sicuri dell’insegnamento sistematico.
Ogni macchina, per quanto complicata, la si può
ridurre a pochi elementi (piastre, cilindri, dischi, coni,
ecc.) e a pochi attrezzi (scalpelli, seghe, rulli, martelli
ecc.), e per quanto complicati siano i suoi movimenti, li
si può ricondurre a poche variazioni del moto, come la
trasformazione del moto circolare in rettilineo e simili,
con una quantità di fasi intermedie. Allo stesso modo,
192
ogni mestiere può essere scomposto in un certo numero
di elementi. In ogni mestiere si deve saper fare una piastra
a facce parallele, un cilindro, un disco, un foro quadrato
e uno rotondo; si deve saper maneggiare un
numero limitato di attrezzi, dato che tutti gli attrezzi
sono semplici modifiche di una decina di tipi; e si deve
saper trasformare un tipo di moto in un altro. È questa
la base di tutti i mestieri meccanici, sicché la capacità
di eseguire in legno quegli elementi primari e di trasformare
i vari tipi di moto andrebbe considerata la
vera base dell’ulteriore insegnamento di ogni mestiere
meccanico. L’allievo fornito di tali capacità conosce già
una buona metà di tutti i mestieri possibili.
Si tratti di un mestiere, di scienza o di arte, lo scopo
principale della scuola non è di trasformare il principiante
in uno specialista, ma di dargli una preparazione
e buoni metodi di lavoro, e soprattutto di infondergli
quella generale ispirazione che lo spingerà più tardi, in
qualsiasi cosa faccia, a una sincera ricerca della verità,
ad amare tutto ciò che è bello, sia nella forma sia nel
contenuto, a sentire il bisogno di rendersi utile insieme
a tutti gli altri uomini e portare così il suo cuore all’unisono
con il resto dell’umanità.
Quanto ad evitare all’allievo la monotonia di un lavoro
durante il quale non farebbe che cilindri e dischi, e
mai macchine complete o altri oggetti utili, vi sono
migliaia di mezzi per ovviare alla mancanza di interesse
e uno di essi, utilizzato a Mosca, è degno di menzione.
Si tratta di non attribuire un lavoro come semplice
esercizio, ma di utilizzare qualsiasi cosa l’allievo faccia
sin dalle prime lezioni. Ricordate con quale compiacimento,
da bambini, vedevate il vostro lavoro utilizzato,
anche solo come accessorio di qualcosa di utile? E così si
faceva alla Scuola Professionale di Mosca. Ogni asse
piallata dagli allievi veniva adoperata come accessorio
di una macchina in una qualche officina. Quando un
allievo, una volta ammesso al laboratorio di ingegneria,
veniva messo a eseguire un blocco quadrangolare di ferro
a lati paralleli e perpendicolari, quel blocco assume-
193
va ai suoi occhi un certo interesse visto che una volta
terminato, dopo aver verificato angoli e lati e corretto i
difetti, non finiva sotto il banco, ma veniva passato a
un altro allievo più esperto che vi aggiungeva una
maniglia, lo verniciava e lo mandava al negozio della
scuola come fermacarte. L’insegnamento sistematico
acquistava così le dovute attrattive. (La vendita dei
lavori eseguiti dagli allievi non era affatto trascurabile,
soprattutto per i corsi avanzati dove si costruivano
macchine a vapore. Proprio per questo la Scuola Professionale
di Mosca, al tempo in cui la conobbi, era una
delle più economiche del mondo. Pensione e insegnamento
costavano molto poco. Ma provate a immaginare
una scuola annessa a una fattoria dove si coltivassero e
scambiassero derrate a prezzo di costo: quanto costerebbe
in tal caso l’insegnamento?).
È evidente che la rapidità del lavoro è un fattore
importantissimo per la produzione. E dunque non possiamo
non chiederci se, con il sistema sopra accennato,
si raggiunga la necessaria rapidità. Ma vi sono due
generi di rapidità. C’è la rapidità che ebbi modo di
osservare in una fabbrica di merletti di Nottingham:
uomini maturi, mani e teste percorse da un tremito,
annodavano febbrilmente i capi di due fili di cotone
rimasti nelle bobine; a stento si riusciva a seguirne i
movimenti. Ma il fatto stesso che una fabbrica richieda
una rapidità di esecuzione come questa basta da solo a
condannarla. Che cosa è rimasto dell’essere umano in
quei corpi tremolanti? Quale sarà il loro futuro? Perché
questo spreco di energie umane quando le stesse
potrebbero produrre dieci volte il valore di quegli scarti?
Questo genere di rapidità dipende esclusivamente
dal basso costo degli schiavi di fabbrica; ci auguriamo
dunque che nessuna scuola tenti mai di esigerla. Ma c’è
anche la rapidità dell’operaio preparato che permette di
risparmiare tempo, e ad essa si può arrivare facilmente
con il tipo di istruzione da noi proposta. Per quanto
semplice sia il suo lavoro, l’operaio istruito lo svolge
meglio e più in fretta di quello non istruito. Osservia-
194
mo, ad esempio, i gesti di un bravo operaio quando
taglia qualcosa – diciamo un pezzo di cartone – e confrontiamoli
con quelli di un operaio poco esperto. Quest’ultimo
afferra il cartone, prende l’attrezzo così com’è,
traccia una linea a casaccio e comincia a tagliare; a
metà strada è già stanco e, quando ha finito, il suo lavoro
non serve a nulla; il primo, invece, esaminerà il suo
attrezzo e lo perfezionerà se necessario, traccerà la
linea con esattezza, fisserà regolo e cartone, terrà
l’attrezzo nel modo giusto, taglierà molto facilmente e
consegnerà un lavoro ben fatto.
Ecco la vera rapidità, quella che consente di risparmiare
tempo e lavoro; e il miglior modo d’arrivarci è
un’istruzione di tipo veramente superiore. I grandi
maestri dipingevano con rapidità prodigiosa, ma la loro
rapidità derivava da un grande sviluppo dell’intelligenza
e dell’immaginazione, da un profondo senso della
bellezza, da una sofisticata percezione dei colori. Ed è
proprio questo il genere di rapidità di lavoro di cui
l’umanità ha bisogno.
Vi sarebbero ancora molte cose da dire sui compiti
della scuola, ma mi limito ad aggiungere qualcosa
sull’auspicabilità del tipo di istruzione brevemente tratteggiato
nelle pagine precedenti. Certamente non mi
illudo sulla realizzazione di una riforma radicale, o
anche soltanto parziale, dell’istruzione finché le nazioni
civili rimarranno legate all’attuale sistema, meschino
ed egoistico, di produzione e di consumo. Tutto ciò che
possiamo aspettarci, fino a quando dureranno le condizioni
attuali, sono dei microscopici tentativi di riforma,
fatti qua e là e marginali; tentativi che si fermeranno,
ovviamente, molto lontano dai risultati auspicati, data
l’impossibilità di riforme anche marginali quando sussiste
un legame così stretto fra le molteplici funzioni di
una nazione civile. Ma la potenza del genio costruttore
della società dipende principalmente da quanto profonda
è la sua opinione riguardo a ciò che andrebbe fatto e
sul come realizzarlo. La necessità di rimodellare l’istruzione
è una di quelle universalmente riconosciute, la
195
più adatta a ispirare nella società quegli ideali senza i
quali il ristagno, o addirittura la decadenza, si presentano
inevitabili.
Supponiamo perciò che una comunità – una città, o
un territorio di almeno qualche milione di abitanti –
fornisca a tutti i suoi bambini, senza distinzione di
nascita (e siamo abbastanza ricchi da concedercene il
lusso), l’istruzione che abbiamo tratteggiato, senza
chiedere loro in cambio null’altro all’infuori di quello
che essi daranno una volta divenuti produttori di ricchezza.
Supponiamo che questa istruzione venga introdotta
e analizziamone le probabili conseguenze.
Non insisterò sull’aumento della ricchezza che risulterebbe
dalla disponibilità di un giovane esercito di
istruiti ed esperti produttori; e neppure mi dilungherò
sui benefici sociali che deriverebbero sia dall’annullamento
della distinzione attuale tra lavoratori intellettuali
e lavoratori manuali, sia dalla raggiunta comunanza
di interessi e dall’armonia tanto necessaria in
questi tempi di lotte sociali. Non mi dilungherò neanche
sull’esistenza più completa di cui ogni singolo individuo
godrebbe se gli si consentisse di servirsi appieno
delle proprie capacità intellettuali e fisiche, né sui vantaggi
che si ricaverebbero collocando il lavoro manuale
al posto di onore che gli spetta nella società (mentre
oggi rappresenta un marchio di inferiorità). E non insisterò
neppure sulla scomparsa dell’attuale miseria e
degradazione e delle loro conseguenze – immoralità,
crimine, carceri, delazione e simili – che necessariamente
seguirebbe. In breve, non entrerò adesso nella
grande questione sociale, sulla quale tanto è stato scritto
e tanto rimane ancora da scrivere. Voglio soltanto
mettere in rilievo, in queste pagine, i benefici che la
scienza stessa trarrebbe dal mutamento.
Alcuni diranno, naturalmente, che ridurre gli uomini
di scienza al ruolo di lavoratori manuali provocherebbe
il decadimento della scienza e del genio. Ma chi terrà
conto delle considerazioni che seguono si renderà conto
che è vero l’opposto, cioè che provocherebbe un tale
196
risveglio della scienza e dell’arte, e un tale progresso
dell’industria, che possiamo farcene solo una pallidissima
idea grazie anche a ciò che sappiamo dell’epoca
rinascimentale. È diventato un luogo comune magnificare
i progressi della società durante il XIX secolo, ed è
evidente che questo secolo, se confrontato ai precedenti,
ha molte ragioni di vanto. Ma se teniamo presente che
la maggior parte dei problemi che ha risolto erano già
stati evidenziati, e le loro soluzioni previste, un centinaio
di anni prima, dobbiamo riconoscere che il progresso
non è stato così rapido come si sarebbe voluto e
che qualcosa lo ha ostacolato.
La teoria meccanica del calore era stata perfettamente
prospettata nel secolo precedente da Rumford e da
Humphry Davy, e sostenuta anche in Russia da Lomonosoff.
Eppure, ben più di mezzo secolo è passato prima
che la teoria riapparisse nella scienza. Lamarck, ma
anche Linneo, Geoffroy Saint-Hilaire, Erasmo, Darwin
e parecchi altri si rendevano perfettamente conto della
mutabilità della specie e si avviavano ad aprire la strada
alla costruzione della biologia sui princìpi della
mutazione; ma anche qui si dovettero perdere altri cinquant’anni
prima che la mutazione tornasse alla ribalta.
Va anche ricordato come le idee di Darwin fossero
soprattutto portate avanti, e imposte all’attenzione del
mondo accademico, da persone che non erano scienziati
professionisti; e presso lo stesso Darwin la teoria
dell’evoluzione ha avuto limiti ristretti per l’importanza
preponderante attribuita a uno solo dei fattori dell’evoluzione.
In breve, non c’è una sola scienza che non risenta,
nel suo sviluppo, della mancanza di uomini e donne
dotati di una concezione filosofica dell’universo, pronti
ad applicare il proprio spirito di ricerca in un dato campo,
per quanto limitato, e sufficientemente provvisti di
tempo per votarsi al lavoro scientifico. In una comunità
come quella che noi immaginiamo, migliaia di lavoratori
sarebbero pronti a rispondere a qualsiasi appello in
nome della ricerca. Darwin spese quasi trent’anni della
197
sua vita a raccogliere e analizzare i fenomeni necessari
all’elaborazione della teoria sull’origine della specie. Se
fosse vissuto in una società come quella da noi ipotizzata,
gli sarebbe bastato fare appello a dei volontari che si
dedicassero alla ricerca dei fenomeni e alla sperimentazione
particolare, e migliaia di esploratori avrebbero
risposto al suo appello. Decine di associazioni sarebbero
sorte per dibattere e risolvere ciascuno dei problemi
particolari implicati dalla teoria, così che in dieci anni
se ne sarebbe avuta la verifica; e tutti i fattori dell’evoluzione,
ai quali soltanto oggi si comincia ad accordare
la necessaria attenzione, sarebbero apparsi in piena
luce. Il progresso scientifico sarebbe stato dieci volte
più rapido, e se pure il singolo non avrebbe gli stessi
diritti alla gratitudine dei posteri che ha oggi, la massa
sconosciuta avrebbe eseguito il lavoro più velocemente
e dischiuso al progresso futuro prospettive maggiori di
quante può aprirne il singolo in una vita intera.
Ma c’è un altro aspetto della scienza moderna che
depone ancora più imperiosamente a favore del cambiamento
che sosteniamo. Mentre l’industria, soprattutto
dalla fine del secolo scorso e durante la prima parte
dell’attuale, è andata moltiplicando le sue creazioni in
misura tale da rivoluzionare la faccia stessa della Terra,
la scienza è andata perdendo le sue capacità creative.
Gli uomini di scienza non creano più nulla, o creano
pochissimo. Non è sorprendente, in effetti, che la macchina
a vapore, anche nei suoi princìpi fondamentali, la
locomotiva, il battello a vapore, il telefono, il fonografo,
il telaio meccanico, la macchina per merletti, il faro, la
strada in macadam, la fotografia in bianco e nero e a
colori, e migliaia di altre cose meno importanti, non siano
state inventate da scienziati di professione? Eppure,
nessuno di loro avrebbe rifiutato di associare il proprio
nome a una qualsiasi di dette invenzioni. Uomini che
avevano ricevuto, a scuola un’istruzione rudimentale,
che avevano a malapena raccolto le briciole del sapere
dalla tavola dei ricchi, e che effettuavano i propri esperimenti
con i mezzi più primitivi – il commesso d’avvo-
198
cato Smeaton, l’attrezzista Watt, il frenatore Stephenson,
l’apprendista-gioielliere Fulton, il costruttore di
mulini Rennie, il muratore Telford, e centinaia di altri
di cui persino il nome rimane sconosciuto – sono stati,
come dice giustamente Smiles, «i veri creatori della
civiltà moderna». Al contrario, gli scienziati di professione,
provvisti di ogni mezzo necessario ad acquisire
conoscenze e a sperimentare, hanno avuto ben poca
parte nell’invenzione di quel formidabile complesso di
apparecchi, macchine e motori che ha permesso
all’umanità di utilizzare e di padroneggiare le forze della
natura. (La chimica rappresenta, in genere, un’eccezione
alla regola. Non sarà perché il chimico è in gran
parte un lavoratore manuale? Inoltre, negli ultimi dieci
anni si è notato un deciso risveglio della creatività
scientifica, soprattutto in fisica: vale a dire, in un campo
dove l’ingegnere e l’uomo di scienza hanno modo
d’incontrarsi spesso). Il fatto è sorprendente, ma la sua
ragione è molto semplice: quegli uomini – i Watt e gli
Stephenson – sapevano qualcosa che i savants non sanno:
sapevano servirsi delle mani; il loro ambiente ne
stimolava le capacità creative; conoscevano le macchine
nei loro princìpi fondamentali e nel loro funzionamento;
avevano respirato l’atmosfera dell’officina e del cantiere.
Ben sappiamo come gli uomini di scienza accoglieranno
il rimprovero. Diranno: «Noi scopriamo le leggi
della natura, lasciate che siano gli altri ad applicarle; si
tratta semplicemente di dividere il lavoro». Ma una tale
risposta è assolutamente falsa. La marcia del progresso
segue la direzione opposta, poiché in novantanove casi
su cento l’invenzione meccanica precede la scoperta della
legge scientifica. Non è stata la teoria dinamica del
calore a precedere la macchina a vapore, ma viceversa.
Quando già migliaia di macchine, da più di mezzo
secolo, trasformavano il calore in moto sotto gli occhi di
centinaia di professori; quando già migliaia di treni,
bloccati da freni potenti, approssimandosi alle stazioni
sprigionavano calore e spandevano sui binari fasci di
199
scintille; quando già in tutto il mondo civile magli e
perforatrici andavano rendendo incandescenti le masse
di ferro loro sottoposte, allora e soltanto allora, Séguin
in Francia e Mayer in Germania si arrischiarono a formulare
la teoria meccanica del calore con tutte le sue
conseguenze. Ma in aggiunta, gli uomini di scienza
ignorarono il lavoro di Séguin e quasi spinsero Mayer
alla pazzia aggrappandosi ostinatamente al loro misterioso
fluido calorico. Peggio ancora, definirono «non
scientifica» la prima enunciazione di Joule sull’equivalente
meccanico del calore.
Non fu la teoria dell’elettricità a darci il telegrafo.
Quando il telegrafo venne inventato, tutto ciò che sapevamo
sull’elettricità si riduceva a pochi fatti raccolti
alla meno peggio nei nostri libri; ancora oggi la teoria
dell’elettricità non è pronta ma aspetta sempre il suo
Newton, nonostante i brillanti tentativi degli ultimi
anni. Anche la conoscenza empirica sulle leggi della
corrente elettrica si trovava al suo stadio primitivo
quando pochi audaci stesero un cavo in fondo all’Atlantico,
malgrado lo scetticismo degli uomini di scienza
ufficiali.
Il termine «scienza applicata» è assolutamente scorretto,
poiché nella gran maggioranza dei casi le invenzioni,
lungi dall’essere un’applicazione della scienza,
creano al contrario un nuovo ramo di scienza. I ponti
americani non sono affatto stati un’applicazione della
teoria dell’elasticità: l’hanno preceduta, e tutto ciò che
possiamo dire a favore della scienza è che, in questo
particolare settore, teoria e pratica si sono sviluppate in
modo parallelo, aiutandosi reciprocamente. E ancora,
non è stata la teoria degli esplosivi a portare alla scoperta
della polvere da sparo: la polvere da sparo la si è
usata per secoli prima che l’azione dei gas in un fucile
fosse sottoposta ad analisi scientifica. E così via.
Naturalmente esiste un certo numero di casi in cui la
scoperta o l’invenzione ha coinciso con la semplice
applicazione di una legge scientifica (ad esempio con la
scoperta del pianeta Nettuno); ma nell’immensa mag-
200
gioranza dei casi la scoperta o l’invenzione hanno degli
inizi niente affatto scientifici. Esse rientrano molto più
nel dominio delle arti – in quanto le arti prevalgono
sulla scienza, come Helmholtz ha così bene dimostrato
in una delle sue famose conferenze – e solo dopo che
l’invenzione è stata fatta la scienza interviene a interpretarla.
È ovvio che ogni invenzione si avvale delle
cognizioni e delle idee accumulate in precedenza, ma
nella maggioranza dei casi è in anticipo sulla conoscenza
e balza nell’ignoto, aprendo così alla ricerca un insieme
del tutto nuovo di fenomeni. Questo carattere dell’invenzione,
che consiste nell’essere in anticipo sulle
cognizioni del proprio tempo e non nell’applicare semplicemente
una legge, la rende identica, nei processi
intellettuali, alla scoperta; ne consegue che chi è lento
nelle invenzioni lo è anche nelle scoperte.
Nella maggior parte dei casi l’inventore, per quanto
ispirato dallo stato generale della scienza in un dato
momento, parte con pochissimi punti fermi a disposizione.
I fenomeni scientifici che sono stati alla base
dell’invenzione della macchina a vapore, o del telegrafo,
o del fonografo, erano estremamente elementari. Sicché
possiamo affermare che quanto conosciamo attualmente
è già sufficiente per risolvere tutti i grandi problemi
all’ordine del giorno: motori non a vapore, immagazzinaggio
di energia, trasmissione di potenza, o macchine
volanti. Se questi problemi non sono stati ancora risolti,
lo si deve soltanto alla mancanza di spirito creativo,
alla scarsità di uomini istruiti che ne siano dotati, e
all’attuale separazione tra scienza e industria. [Lascio
di proposito queste righe come nella prima edizione:
tutte le invenzioni nominate sono già state realizzate].
Da un lato, abbiamo uomini dotati di capacità creative,
ma privi sia della necessaria preparazione scientifica
sia dei mezzi atti a una sperimentazione che duri lunghi
anni; dall’altro, abbiamo uomini preparati e in grado
di sperimentare, ma privi di spirito creativo a causa
della loro istruzione troppo astratta, troppo scolastica,
troppo libresca, e dell’ambiente in cui vivono (per non
201
parlare del sistema dei brevetti, che divide e disperde
gli sforzi degli inventori, anziché combinarli).
Lo slancio dell’ingegno, che ha caratterizzato gli operai
all’inizio della moderna era industriale, è mancato
ai nostri scienziati di professione. E continuerà a mancare
finché essi rimarranno estranei al mondo, perduti
tra le loro polverose librerie; finché non si trasformeranno
anch’essi in operai tra gli operai, alla vampa del
forno in fonderia, alla macchina in fabbrica, al tornio
nell’officina meccanica, marinai tra i marinai sul mare
e pescatori sui pescherecci, boscaioli nella foresta, zappatori
nei campi.
I nostri critici d’arte – Ruskin e la sua scuola – ci
hanno ripetuto di recente che è inutile aspettarci un
risveglio dell’arte finché il lavoro manuale rimarrà
quello che è; e ci hanno dimostrato come l’arte greca e
l’arte medievale fossero figlie del lavoro manuale, come
l’uno alimentasse l’altra. Altrettanto si può dire dei
rapporti tra il lavoro manuale e la scienza: separarli
significa farli decadere entrambi. Quanto alle grandi
ispirazioni, purtroppo tanto trascurate nella maggioranza
delle recenti discussioni sull’arte (e assenti anche
nella scienza), possiamo aspettarcele soltanto da
un’umanità che, spezzate le sue attuali catene, si avvii
verso gli alti princìpi della solidarietà, liberandosi
dell’attuale dualismo tra senso morale e filosofia.
È evidente, comunque, che non tutti gli uomini e le
donne potranno trarre uguale piacere dall’impegno
scientifico. La varietà delle inclinazioni è tale che alcuni
troveranno maggiore soddisfazione nella scienza,
altri nell’arte, e altri ancora in qualcuno degli innumerevoli
rami di produzione della ricchezza. Ma quali che
siano le sue occupazioni preferite, ciascuno sarà tanto
più utile nel proprio settore quanto più disporrà di una
seria preparazione scientifica. E di chiunque si tratti –
scienziato o artista, fisico o chirurgo, chimico o sociologo,
storico o poeta – molti benefici trarrebbe dal passare
parte della sua vita in officina o in fattoria (anzi, in officina
e in fattoria) a contatto con la quotidianità del
202
lavoro umano, soddisfatto e consapevole di adempiere
ai propri doveri di produttore non privilegiato di ricchezza.
Come comprenderebbero meglio l’umanità, lo storico
e il sociologo, se la conoscessero non soltanto dai libri,
non soltanto da un esiguo numero di suoi rappresentanti,
ma nel suo complesso, nella sua vita, nel suo
lavoro e nelle sue attività quotidiane! Come sarebbe più
efficace la medicina se, confidando più sull’igiene che
sulle ricette, i giovani dottori fossero gli infermieri dei
malati e gli infermieri ricevessero l’istruzione dei nostri
attuali dottori! E come percepirebbe meglio, il poeta, le
bellezze della natura, come conoscerebbe meglio il cuore
umano, se avesse modo di osservare la levata del
sole, contadino tra i contadini, o di lottare contro la
tempesta, marinaio tra i marinai, a bordo di una nave,
se conoscesse la poesia del lavoro e del riposo, del dolore
e della gioia, della lotta e della conquista!
La cosiddetta «divisione del lavoro» è nata in un
sistema che ha condannato le masse, tutto il giorno e
tutta la vita, alla dura fatica dello stesso gravoso genere
di lavoro. Ma se consideriamo l’esiguità dei veri produttori
di ricchezza della nostra attuale società, e come
il loro lavoro vada sprecato, dobbiamo dar ragione a
Franklin allorché diceva che in genere basterebbe lavorare
ognuno cinque ore al giorno per assicurare a tutti i
membri di una nazione civile quegli agi oggi accessibili
soltanto ai pochi.
Abbiamo fatto, però, qualche progresso dai tempi di
Franklin, e alcuni di tali progressi, realizzati nel settore
finora più arretrato della produzione – quello agricolo
– li abbiamo segnalati nelle pagine che precedono.
Anche in questo settore si può accrescere immensamente
la produttività del lavoro e rendere facile e piacevole
il lavoro stesso. Se ciascuno si accollasse la sua parte di
produzione e la produzione venisse socializzata (come
l’economia politica, se indirizzata al soddisfacimento
dei bisogni sempre crescenti di tutti, ci consiglierebbe
di fare), allora avremmo più di metà della giornata
203
lavorativa da dedicare all’arte, alla scienza o a qualsiasi
altra occupazione preferita; e il nostro lavoro in quegli
stessi settori sarebbe più proficuo se impiegassimo
l’altra metà della giornata in un lavoro produttivo; questo
se l’arte e la scienza fossero coltivate più per pura
inclinazione che non per scopi commerciali. Inoltre, una
società organizzata sul principio che tutti lavorano
sarebbe abbastanza ricca per sollevare uomini e donne
– una volta raggiunta una certa età, diciamo i quarant’anni
o poco più – dall’obbligo morale di partecipare
direttamente all’esecuzione del necessario lavoro
manuale, e per consentir loro di votarsi interamente
all’arte, alla scienza o a qualsiasi altra occupazione. In
questo modo sarebbero pienamente garantiti la libera
ricerca in nuovi rami dell’arte e del sapere, la libera
creazione e il libero sviluppo individuale. E una società
come questa non conoscerebbe miseria in seno all’abbondanza,
ignorerebbe la dualità di coscienza che permea
la nostra vita e paralizza ogni nobile sforzo, e volerebbe
libera verso le più alte regioni del progresso compatibile
con la natura umana.
204
IX
Il testo dove Kropotkin espone la sua concezione del
comunismo anarchico è La conquista del pane, opera
che vede la luce nel 1892. Kropotkin afferma che l’unico
regime privo di contraddizioni sociali è il comunismo.
Diversamente dal collettivismo e dal mutualismo, esso
supera tutte le disuguaglianze e le sperequazioni e rende
giustizia a tutti perché, esplicandosi integralmente
attraverso la semplice norma «da ognuno secondo le sue
forze, ad ognuno secondo i suoi bisogni», abolisce radicalmente
la schiavitù del salario e, con essa, la dipendenza
dal bisogno. Per la stretta e necessaria correlazione
posta da Kropotkin tra lo sviluppo delle forze produttive
e l’abolizione della proprietà privata, la ricchezza
sociale sfuggirebbe alle leggi dell’economia politica per
risultare una creazione collettiva rispondente alle necessità
funzionali della società, intesa, questa, nella sua
originaria esistenza spontanea di solidarismo naturalistico.
Questo comunismo è anarchico, nel senso che l’abolizione
del salariato è contemporanea all’abolizione dello
Stato. Il presupposto scientifico del comunismo non è
dato da una verità economica, sia essa di carattere
razionale, storico o culturale, ma dalla constatazione
della sua perfetta rispondenza alle leggi dell’evoluzione
205
naturale. Il comunismo è l’opposto dell’individualismo,
esattamente come il mutuo appoggio è il contrario della
lotta per l’esistenza. È attraverso il comunismo che la
natura ha la sua logica continuità nella storia, per cui
si deve dire che comunismo e mutuo appoggio sono due
definizioni di una stessa realtà: la logica intrinseca della
vita che preserva se stessa. Il presupposto solidaristico
costituisce dunque la vera premessa del comunismo
kropotkiniano, che pone la priorità etica rispetto a quella
economica.
In questo senso sarebbe forse più opportuno parlare
di comunalismo o comunitarismo, in quanto Kropotkin
è particolarmente interessato alla logica profonda della
vita comunitaria. Essa non si regge certo sul rapporto
dello scambio economico, misurabile quantitativamente
e razionalmente, ma sugli impulsi esistenziali che animano
gli individui; impulsi che per la loro natura vanno
al di là della prassi mercantile, che risulta sempre
riduttiva rispetto all’insieme dei valori, delle speranze,
delle fedi individuali e sociali.
In conclusione, il comunismo-comunitarismo non è
soltanto desiderabile, ma è pure lo sbocco inevitabile
della tendenza moderna dovuta all’incessante integrazione
dell’economia e della società in un tutto organico e
necessitante. Il comunismo quindi non è «il diritto al
lavoro», e nemmeno il diritto della ripartizione «secondo
le opere». È invece il superamento di ogni diritto, per la
diretta soddisfazione dei bisogni. Questo grande rivolgimento
sociale non può quindi essere l’esito di un’opera
legislativa, bensì il frutto dell’azione spontanea delle
grandi masse popolari. Kropotkin è convinto che sia
possibile arrivare all’agiatezza generale perché esiste
una ricchezza potenziale enorme, malamente utilizzata
a causa della proprietà privata e della irrazionalità
dell’assetto capitalistico.
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione
italiana di La conquista del pane del 1975, nella traduzione
(rivista) di Gabriella Gianfelici e Claudio Neri.
206
IL COMUNISMO ANARCHICO
Va riconosciuto e proclamato con forza che ognuno,
qualunque sia stata nel passato la sua funzione, qualunque
siano state la sua forza e la sua debolezza, le sue
attitudini o le sue incapacità, possiede innanzi tutto il
diritto alla vita; e la società deve spartire tra tutti, senza
eccezioni, i mezzi di sussistenza di cui dispone. Si deve
riconoscerlo, proclamarlo e agire di conseguenza! […]
I servizi resi alla società, tanto il lavoro nelle fabbriche
o nei campi quanto le attività intellettuali, non possono
essere valutati in termini monetari. Non si può
determinare in riferimento alla produzione l’esatta
misura di ciò che è stato impropriamente chiamato
valore di scambio, né del valore d’uso. Se si prendono
207
due individui che, anno dopo anno, lavorano entrambi
cinque ore al giorno per la comunità in differenti lavori
di cui sono entrambi soddisfatti, si può dire che, nel
complesso, il loro lavoro è più o meno equivalente. Ma
non si può frazionare il loro lavoro e dire che il prodotto
di ogni giornata, di ogni ora, di ogni minuto del primo
vale il prodotto di ogni giornata, di ogni ora, di ogni
minuto del secondo.
Si può dire, in termini generali, che l’uomo che
durante la sua vita si è privato della libertà per dieci
ore al giorno ha dato alla società molto più di quello che
se ne è privato per cinque ore al giorno o che non se ne
è privato affatto. Ma non si può prendere ciò che ha fatto
durante due ore e dire che quel prodotto vale due volte
più del prodotto di un’ora di un altro individuo, e
remunerarlo in proporzione. Questo vorrebbe dire
misconoscere tutta la complessità dell’industria,
dell’agricoltura, dell’intera esistenza della società
attuale; vorrebbe dire ignorare fino a che punto il lavoro
del singolo è il risultato dei lavori precedenti e attuali
della società nel suo insieme. Vorrebbe dire credersi
nell’età della pietra quando invece viviamo nell’età
dell’acciaio.
Se si entra in una miniera di carbone, si vede un
uomo addetto a una grande macchina che sovrintende
alla salita e alla discesa della gabbia. Questi tiene in
mano la leva che aziona nei due sensi la macchina;
quando l’abbassa, la gabbia torna indietro in un batter
d’occhio, ed egli la manda su e giù ad una velocità vertiginosa.
Con la massima attenzione segue sul muro un
indicatore che gli mostra, in scala, a quale altezza del
pozzo si trova la gabbia in ogni istante del suo percorso;
e quando l’indicatore ha raggiunto il livello voluto, ferma
la corsa della gabbia né un metro più in alto né uno
più in basso del punto desiderato. Non appena i vagoncini
pieni di carbone sono stati scaricati e quelli vuoti
agganciati, inverte la leva e rimanda la gabbia di nuovo
nel pozzo.
Per otto o dieci ore consecutive l’addetto deve mante-
208
nere gli stessi alti livelli di attenzione. Se la sua mente
dovesse distrarsi anche per un solo momento, la gabbia
andrebbe ad urtare contro l’argano fracassando le ruote,
strappando la corda, schiacciando gli uomini e bloccando
tutto il lavoro della miniera. Se perdesse tre
secondi ad ogni colpo di leva, l’estrazione nelle nostre
moderne e avanzate miniere verrebbe ridotta tra le
venti e le cinquanta tonnellate al giorno.
È dunque lui quello che fornisce il servizio più importante
della miniera? O è il ragazzo che aziona dal basso
il segnale per far risalire la gabbia? O il minatore, che
ad ogni istante rischia la sua vita in fondo al pozzo e
che forse un giorno sarà ucciso dal grisou? O l’ingegnere,
che se non individua la vena di carbone fa scavare
nella roccia per un semplice errore nei calcoli? O ancora
il proprietario, che ha messo tutto il suo patrimonio
nella miniera e che magari, contrariamente a tutte le
prospezioni, ha deciso di scavare proprio in quel luogo
per trovare il carbone migliore?
Tutti coloro che sono impegnati nella miniera contribuiscono,
secondo le loro forze, energie, conoscenze,
capacità e abilità, ad estrarre il carbone. E possiamo
affermare che tutti hanno il diritto alla vita, a soddisfare
i loro bisogni e anche le loro fantasie una volta che il
necessario sia assicurato per tutti.
Ma come possiamo valutare la loro opera? E poi, il
carbone che avranno estratto è interamente opera loro?
Non è anche opera di quegli uomini che hanno costruito
la ferrovia che conduce alla miniera e le strade che si
dipartono da tutte le stazioni? Non è anche opera di
coloro che hanno arato e seminato i campi, estratto il
ferro, abbattuto gli alberi della foresta, costruito le
macchine che bruciano il carbone, e così via?
Non è possibile distinguere tra i lavori di tutti questi
uomini. Misurarli in base ai risultati porta all’assurdo.
Frazionarli e misurarli in base alle ore impiegate porta
all’assurdo. Non resta che una cosa: mettere i bisogni al
di sopra del lavoro e riconoscere prima di ogni altra
cosa il diritto alla vita e poi il diritto al benessere per
209
tutti coloro che prendono parte alla produzione. […]
Ogni società che intende abolire la proprietà privata
sarà costretta, secondo noi, ad organizzarsi in modo
comunista anarchico. L’anarchia conduce al comunismo
e il comunismo all’anarchia essendo entrambi espressione
della tendenza predominante delle società moderne:
la ricerca dell’uguaglianza.
C’è stato un tempo in cui una famiglia di contadini
poteva considerare il grano che faceva crescere e gli abiti
di lana che tesseva nella capanna come prodotti del
proprio lavoro. Ma anche allora questo modo di vedere
non era affatto corretto. C’erano strade e ponti fatti in
comune, paludi prosciugate con il lavoro collettivo e
pascoli comuni recintati da siepi che tutti mantenevano.
Un miglioramento nei telai o nei tipi di tintura dei
tessuti giovava a tutti; in quell’epoca una famiglia di
contadini non poteva vivere da sola ma dipendeva in
mille modi dal villaggio o dalla comunità rurale.
Oggi, poi, nell’attuale sistema industriale dove tutto
è interdipendente, dove ogni ramo della produzione si
interseca con tutti gli altri, la pretesa di attribuire
un’origine individuale ai prodotti è assolutamente insostenibile.
Se le industrie tessili o metallurgiche hanno
raggiunto una sorprendente perfezione nei Paesi avanzati,
lo devono allo sviluppo simultaneo di mille altre
industrie, grandi e piccole; lo devono all’estensione della
rete ferroviaria, alla navigazione transoceanica,
all’abilità di milioni di lavoratori, ad un certo grado di
cultura generale di tutta la classe operaia; lo devono, in
definitiva, al lavoro umano eseguito da uno capo all’altro
del mondo.
Gli italiani colpiti da colera durante gli scavi del
canale di Suez o dall’anchilosi nelle gallerie del Gottardo,
gli americani falciati dalle granate nella guerra per
l’abolizione della schiavitù, hanno tutti contribuito allo
sviluppo dell’industria cotoniera in Francia e in Inghilterra,
non meno delle giovani ragazze che si sono con-
210
sumate nelle manifatture di Manchester e Rouen, o
dell’inventore che, ascoltando i suggerimenti di qualche
lavoratore, ha apportato miglioramenti al telaio.
Come stimare, allora, la quota di ognuno alla produzione
di quelle ricchezze che tutti contribuiamo ad
accumulare?
Considerando la produzione da questo punto di vista
generale e sintetico, a differenza dei collettivisti non
riteniamo che una rimunerazione proporzionata alle
ore di lavoro da ciascuno effettuate per la produzione
delle ricchezze possa costituire l’obiettivo ideale o anche
solo un passo avanti nella direzione giusta.
Senza qui entrare nel merito se il valore di scambio
delle merci nella società attuale è effettivamente commisurato
con la quantità di lavoro necessario per produrle
(così come hanno affermato Smith e Ricardo, sulle
cui tracce si è mosso Marx), ci basti dire al momento,
riservandoci di tornarvi più tardi, che l’ideale collettivista
ci sembra irrealizzabile in una società che considera
gli strumenti di produzione come un patrimonio comune.
Se è basata su questo principio, una tale società si
vedrebbe costretta ad abolire subito tutte le forme di
salariato.
L’individualismo moderato del sistema collettivista
non potrebbe coesistere con un comunismo parziale,
cioè con la socializzazione del suolo e degli strumenti di
produzione. Una nuova forma di proprietà necessita di
una nuova forma di rimunerazione. Una nuova forma
di produzione non può convivere con le vecchie forme di
consumo, non più di quanto possa adattarsi alle vecchie
forme di organizzazione politica.
Il salariato è figlio della proprietà privata del suolo e
degli strumenti di produzione, che è stata la condizione
necessaria per lo sviluppo del modo di produzione capitalista,
e che morirà con essa nonostante i tentativi di
travestirlo sotto forma di «buoni di lavoro». Il possesso
comune degli strumenti di produzione condurrà necessariamente
al godimento comune dei frutti di questo
lavoro comune.
211
Sosteniamo inoltre che il comunismo non solo è desiderabile
ma che le società attuali, fondate sull’individualismo,
sono comunque costrette a procedere verso il
comunismo. […]
È questa, in breve, l’organizzazione che i collettivisti
vorrebbero far nascere dalla rivoluzione sociale. Come
si vede, i loro princìpi sono: proprietà collettiva degli
strumenti di lavoro e rimunerazione di ognuno secondo
il tempo impiegato a produrre, tenendo conto della produttività
del suo lavoro. Quanto al regime politico, si
tratterebbe di un sistema parlamentare modificato dal
mandato imperativo per i rappresentanti eletti e dall’istituto
del referendum, cioè da una votazione basata
sull’opzione sì/no.
Diciamo subito che questo sistema ci sembra assolutamente
irrealizzabile.
I collettivisti cominciano con il proclamare un principio
rivoluzionario – l’abolizione della proprietà privata
– ma lo negano contestualmente in quanto si ripropongono
un’organizzazione della produzione e del consumo
che ha le sue origini nella proprietà privata.
Proclamano un principio rivoluzionario ma ignorano
le conseguenze che questo principio comporta. Dimenticano
che il fatto stesso di abolire la proprietà privata
degli strumenti di produzione – terra, fabbriche, vie di
comunicazione, capitali – deve lanciare la società verso
percorsi assolutamente inediti; deve sconvolgere completamente
il sistema di produzione, tanto nei mezzi
che nei fini; deve modificare tutte le relazioni quotidiane
tra gli individui nel momento stesso in cui la terra,
le macchine e tutto il resto vengono assunti come possesso
comune.
«Niente proprietà privata» proclamano, e subito si
affrettano a mantenerla nelle sue manifestazioni quotidiane.
«Sarete una Comune per quanto riguarda la produzione:
i campi, gli utensili, i macchinari, tutto ciò che
è stato creato fino ad oggi – manifatture, ferrovie, porti,
212
miniere ecc. – sarà vostro. E non si farà la minima
distinzione sulla partecipazione di ognuno a questa proprietà
collettiva. Ma già da domani comincerete a
discutere puntigliosamente sulla parte che vi spetta
nella creazione dei nuovi macchinari, nell’apertura delle
nuove miniere. Comincerete a soppesare al grammo
la quota di vostra spettanza in ogni nuova produzione.
Conterete i vostri minuti di lavoro controllando attentamente
che un minuto del vicino non abbia maggior
potere d’acquisto del vostro. E poiché l’ora non dà la
misura di niente, poiché in quella fabbrica un lavoratore
può sorvegliare sei telai alla volta, mentre nell’altra
non ne sorveglia che due, comincerete a misurare la forza
muscolare, l’energia cerebrale e l’energia nervosa
che avete speso. Calcolerete rigorosamente gli anni di
apprendistato per valutare la parte di ognuno nella
futura produzione. E tutto questo dopo aver dichiarato
che non va tenuta in alcun conto la parte avuta nella
produzione passata».
Ebbene, per noi è evidente che una società non può
organizzarsi su due princìpi assolutamente opposti, due
princìpi che si contraddicono continuamente. E la
nazione, o la Comune, che si desse una tale organizzazione
sarebbe costretta o a ritornare alla proprietà privata,
o a trasformarsi immediatamente in società
comunista.
Abbiamo già rilevato come alcuni pensatori collettivisti
auspichino che venga stabilita una distinzione tra
lavoro qualificato o professionale e lavoro semplice.
Essi pretendono che l’ora di lavoro dell’ingegnere,
dell’architetto o del medico venga contabilizzata come
due o tre ore di lavoro del fabbro, del muratore o dell’infermiere.
E la stessa distinzione, affermano, deve essere
fatta tra tutti i tipi di lavoro che esigono un apprendistato
più o meno lungo e il lavoro dei semplici braccianti.
Ebbene, stabilire questa distinzione equivale a man-
213
tenere tutte le disuguaglianze della società attuale.
Vuol dire tracciare sin dall’inizio una demarcazione tra
i lavoratori e coloro che pretendono di governarli. Significa
dividere la società in due classi ben distinte: l’aristocrazia
del sapere al di sopra della plebe dalle mani
callose, dove quest’ultima sarà costretta a servire la
prima e a lavorare con le proprie mani per nutrirla e
vestirla, mentre questa, approfittando della sua libertà,
imparerà a dominare chi la mantiene.
Non solo, vorrebbe dire riprendere un tratto distintivo
della società attuale e rilegittimarlo in nome della
rivoluzione sociale, erigendo così a principio un abuso
che oggi si condanna nella vecchia traballante società.
Conosciamo bene le risposte che ci daranno: ci parleranno
di «socialismo scientifico»; citeranno gli economisti
borghesi – e anche Marx – per dimostrare che la scala
salariale ha la sua ragion d’essere, poiché la «forza
lavoro» dell’ingegnere è costata alla società più della
«forza lavoro» dello sterratore. E infatti, gli economisti
non hanno forse cercato di convincerci che se l’ingegnere
viene pagato venti volte più dello sterratore è perché
le spese «necessarie» per preparare un ingegnere sono
più consistenti di quelle necessarie per preparare uno
sterratore? E Marx non ha forse asserito che la stessa
distinzione è altrettanto logica tra i diversi tipi di lavoro
manuale? Né poteva arrivare ad altra conclusione
avendo ripreso le teorie di Ricardo sul valore e avendo
sostenuto che i prodotti vengono scambiati in proporzione
alla quantità di lavoro socialmente necessario a produrli.
Ma noi abbiamo idee chiare a tal proposito. Sappiamo
che se l’ingegnere, lo scienziato e il dottore oggi sono
pagati dieci o cento volte più del lavoratore, e se il tessitore
guadagna tre volte più di un contadino e dieci volte
più di una operaia di una fabbrica di fiammiferi, questo
non avviene in ragione del loro «costo di produzione»,
ma in ragione di un monopolio dell’educazione, o di un
ruolo produttivo. L’ingegnere, lo scienziato e il dottore
sfruttano semplicemente un capitale – il loro diploma –
214
come l’imprenditore borghese sfrutta la fabbrica o come
il nobile sfruttava i titoli di nascita.
Quanto all’imprenditore che paga l’ingegnere venti
volte più del lavoratore, lo fa in ragione di un calcolo
molto semplice: se l’ingegnere può fargli risparmiare
4.000 sterline all’anno sui costi di produzione, questi in
cambio lo paga 800 sterline. E se l’imprenditore ha un
caporeparto che gli fa risparmiare 400 sterline sul lavoro
di un’abile e tartassata manodopera, è ben contento
di dargli tra le 80 e le 120 sterline l’anno. Ed è sempre
disposto a spartire un 40 sterline in più quando si
aspetta di guadagnarne 400 così facendo. È questa
l’essenza del sistema capitalista. E lo stesso accade per
le differenze tra i diversi mestieri manuali.
Che non ci si venga dunque a parlare di un «costo di
produzione» che farebbe aumentare il costo del lavoro
specializzato, e a sostenere di conseguenza che uno studente
– il quale ha allegramente trascorso la sua gioventù
all’università – ha diritto ad un salario dieci volte
più elevato dello smunto figlio del minatore che si consuma
in miniera fin dall’età di undici anni; o che un
tessitore ha diritto ad un salario tre o quattro volte più
elevato di quello di un bracciante agricolo. Le spese
necessarie per preparare un tessitore non sono quattro
volte più alte di quelle necessarie per preparare un contadino:
semplicemente, il tessitore beneficia dei vantaggi
che il suo ruolo produttivo matura nel commercio
internazionale rispetto ai Paesi non ancora industrializzati,
e come risultato dei privilegi accordati dallo Stato
all’industria a scapito della coltivazione della terra.
Nessuno, poi, ha mai calcolato il costo di produzione
di un produttore. E se un aristocratico nullafacente
costa alla società ben più di un lavoratore, rimane ancora
da sapere se – tutto compreso: mortalità infantile,
anemia dilagante e morti premature – un robusto bracciante
non costi alla società più di un esperto artigiano.
Ci si vorrebbe far credere, ad esempio, che il salario di
una sterlina e 3 scellini pagato all’operaia parigina, o i
tre scellini pagati alla ragazza alvergnate che si acceca
215
sui merletti, o il compenso di una sterlina e 8 scellini
dato al contadino rappresentano i loro «costi di produzione
». Sappiamo perfettamente bene che spesso si
lavora per meno di questo, ma sappiamo anche che lo si
fa esclusivamente perché, grazie alla nostra superba
organizzazione, si rischia di morire di fame senza questi
salari irrisori.
A nostro avviso la scala salariale è il complesso risultato
delle imposte, dei sistemi di sovvenzione, del
monopolio capitalista: in breve, dello Stato e del Capitale.
È per questo che sosteniamo che tutte le teorie sulla
scala salariale sono state inventate a posteriori per giustificare
le ingiustizie già esistenti, ragion per cui non
bisogna dar loro troppa importanza.
Non si asterranno nemmeno dal dirci che la scala
salariale collettivista sarebbe nondimeno un progresso:
«Vedere alcuni artigiani prendere una somma due o tre
volte superiore a quella percepita dai lavoratori non
specializzati», ci diranno, «è comunque meglio che vedere
dei ministri intascare in un sol giorno quello che il
lavoratore non riesce a guadagnare in un anno. Sarebbe
pur sempre un grosso passo verso l’equità».
Viceversa, per noi questo sarebbe un regresso. Reintrodurre
in una nuova società la distinzione tra lavoro
semplice e lavoro specializzato altro non sarebbe che
erigere a principio un fatto brutale, legittimato dalla
rivoluzione, che oggi già subiamo e che troviamo ingiusto.
Sarebbe come imitare quei signori dell’Assemblea
costituente francese che il 4 agosto 1789 proclamavano
l’abolizione dei diritti feudali, ma che l’8 agosto li reinstauravano
imponendo imposte ai contadini per risarcire
gli aristocratici, mettendo oltretutto queste imposte
sotto la salvaguardia della rivoluzione. Sarebbe come
imitare il governo russo che, al tempo della emancipazione
dei servi della gleba, proclamava che certe terre
sarebbero state d’ora in avanti appannaggio dell’aristocrazia,
mentre prima queste stesse terre venivano considerate
appannaggio dei servi della gleba.
O ancora, per citare un esempio più conosciuto,
216
sarebbe come imitare la Comune del 1871 quando decideva
di pagare i membri del Consiglio l’equivalente di
12 sterline e 6 scellini al giorno, mentre i Federati che
si battevano in prima linea percepivano solo una sterlina
e 3 scellini al giorno: una decisione peraltro acclamata
come un atto di avanzata democrazia egualitaria.
In realtà, la Comune non faceva che ratificare la vecchia
disuguaglianza tra funzionario e soldato, governante
e governato. Se si fosse trattato di una Camera
dei deputati opportunista, tale decisione avrebbe anche
potuto sembrare degna di ammirazione, ma trattandosi
della Comune, non mettendoli in pratica essa veniva
meno ai suoi princìpi rivoluzionari.
Nell’attuale sistema sociale, in cui un ministro percepisce
4.000 sterline all’anno, mentre il lavoratore deve
accontentarsi di 40 sterline, o meno ancora, in cui il
caporeparto è pagato due o tre volte più dell’operaio e
in cui tra gli operai stessi ci sono tutti i gradi, dalle 8
sterline al giorno giù fino ai 3 scellini della ragazza di
campagna, noi siamo contrari tanto all’elevato stipendio
del ministro quanto alla differenza tra le 8 sterline
dell’operaio e i 3 scellini della povera donna. E affermiamo:
«Abbasso i privilegi dell’educazione, così come
quelli della nascita». Siamo anarchici proprio perché
questi privilegi ci ripugnano. E se già ci ripugnano in
questa società autoritaria, come potremmo sopportarli
in una società che nasce proclamando l’uguaglianza?
Proprio per questo certi collettivisti, comprendendo
l’impossibilità di mantenere la scala salariale in una
società ispirata dal soffio della rivoluzione, si affrettano
a proclamare che i salari saranno uguali. Ma si scontrano
con nuove difficoltà e la loro uguaglianza salariale
diventa un’utopia irrealizzabile quanto le scale salariali
degli altri collettivisti.
Una società che avrà preso possesso di tutta la ricchezza
sociale e che avrà proclamato con forza il diritto
di tutti a questa ricchezza – qualunque sia stato il loro
contributo – sarà costretta ad abbandonare ogni sistema
salariale, tanto in moneta che in buoni. […]
217
Proprio come guardiamo alla società e alla sua organizzazione
politica da una prospettiva diversa da quella
di tutte le scuole autoritarie – in quanto partiamo dal
libero individuo per arrivare ad una libera società invece
di partire dallo Stato per arrivare all’individuo – così
ricorriamo allo stesso metodo per i problemi economici.
Ovvero, affrontiamo i bisogni dell’individuo ed i mezzi
ai quali ricorrere per soddisfarli prima di discutere di
produzione, tasso di scambio, imposte, governo, ecc. A
prima vista la differenza può sembrare minima, ma di
fatto sconvolge tutti i canoni dell’economia politica ufficiale.
Se si consulta l’opera di qualunque economista, si
può facilmente verificare come questa inizi con la PRODUZIONE,
cioè l’analisi dei mezzi attualmente impiegati
per creare la ricchezza: la divisione del lavoro, la struttura
industriale, i suoi macchinari, l’accumulazione del
capitale. Da Adam Smith a Karl Marx si sono tutti
attenuti a questo percorso. Solo nelle parti successive
del lavoro si affronta il CONSUMO, cioè i mezzi utilizzati
nell’attuale sistema per soddisfare i bisogni dell’individuo;
e anche così, ci si limita a spiegare come le ricchezze
vengano ripartite tra coloro che se ne disputano il
possesso.
Si dirà forse che tutto questo è logico, che prima di
soddisfare i bisogni occorre cercare ciò che può soddisfarli.
Ma prima di produrre alcunché, non bisogna sentirne
il bisogno? Non è stata la necessità che all’inizio
ha spinto l’uomo a cacciare, ad allevare il bestiame, a
coltivare la terra, a fare utensili e, più tardi, a inventare
le macchine? Non è l’analisi dei bisogni che dovrebbe
indirizzare la produzione? Sarebbe quantomeno logico
cominciare proprio dai bisogni e vedere poi come organizzare
la produzione in modo da sopperire a tali bisogni.
Ed è appunto quello che intendiamo fare.
Ma dal momento in cui la si guarda da questa prospettiva,
l’economia politica cambia totalmente. Cessa
di essere una semplice descrizione dei fatti e diventa
218
una scienza, che potremmo definire come lo studio dei
bisogni dell’umanità e dei mezzi per soddisfarli con il
minimo spreco possibile di forze umane. Ma la sua esatta
denominazione sarebbe fisiologia della società e
dovrebbe costituire una scienza parallela alla fisiologia
delle piante o degli animali, che è anch’essa lo studio
dei bisogni del mondo vegetale e animale e dei mezzi
più vantaggiosi per soddisfarli. Nell’ambito delle scienze
sociologiche, l’economia delle società umane deve
occupare il posto che nelle scienze biologiche è occupato
dalla fisiologia degli esseri organici.
Noi diciamo: ecco gli esseri umani riuniti in società.
Tutti sentono il bisogno di abitare in case salubri. La
capanna del selvaggio non li soddisfa più, chiedono un
riparo solido e più o meno confortevole. Si tratta dunque
di chiedersi se, tenuto conto della produttività del
lavoro umano, ognuno potrà effettivamente avere la
sua casa o se esiste qualcosa che può impedirlo. Non
appena fatta questa domanda, ci rendiamo subito conto
che ogni famiglia in Europa potrebbe perfettamente
avere una casa confortevole, come se ne costruiscono in
Inghilterra e in Belgio o negli insediamenti Pullman,
oppure un appartamento equivalente. Un certo numero
di giornate lavorative sarebbe sufficiente per ottenere
una casetta ben arieggiata, ben disposta e con l’illuminazione
a gas.
Invece, i nove decimi degli europei non hanno mai
posseduto una casa confortevole perché in quasi tutte le
epoche la gente comune ha dovuto lavorare giorno dopo
giorno per soddisfare i bisogni dei suoi governanti, senza
mai riuscire ad avere quel tanto in più, in tempo e in
denaro, necessario per costruire o far costruire la casa
sognata. E così non ha casa, e abiterà in catapecchie
fino a che le attuali condizioni non verranno modificate.
Come appare evidente, noi procediamo in senso inverso
rispetto agli economisti, i quali tendono a perpetuare
le pretese leggi della produzione e a dimostrare,
statistiche alla mano, che essendo il numero di abitazioni
effettivamente costruite ogni anno insufficiente a
219
soddisfare tutte le richieste i nove decimi degli europei
devono abitare in catapecchie.
Occupiamoci ora del nutrimento. Dopo aver enumerato
i vantaggi derivanti dalla divisione del lavoro, gli
economisti ci spiegano come questa divisione esiga che
gli uni si applichino all’agricoltura e gli altri all’industria,
che l’agricoltura produca tanto e tanto l’industria,
che lo scambio avvenga secondo queste modalità… e
continuano analizzando la vendita, i profitti, il prodotto
netto o plusvalore, i salari, le tasse, il sistema bancario
e così via.
Ma, dopo averli seguiti sin qui, non siamo per questo
diventati più saggi; e se domandiamo loro: «Com’è possibile
che così tanti milioni di esseri umani non hanno
abbastanza pane quando ogni famiglia potrebbe produrre
grano a sufficienza per nutrire dieci, venti e persino
cento persone all’anno?», ci rispondono sempre con
la stessa solfa – divisione del lavoro, salario, plusvalore,
capitale, ecc. – e arrivano alla stessa conclusione: che la
produzione è insufficiente per soddisfare tutti i bisogni.
Una conclusione che, anche se fosse vera, non risponde
alle domande se l’uomo che lavora può o no produrre il
pane che gli necessita e, se non può, cos’è che glielo
impedisce.
Ci sono 350 milioni di europei, e ogni anno hanno
bisogno di quel tanto di pane, carne, vino, latte, uova e
burro, di quel tanto di abitazioni e indumenti: di quel
minimo di loro bisogni. Sono in grado di produrlo? E se
lo sono, resterà loro abbastanza tempo libero per l’arte,
la scienza e il divertimento, in una parola per tutto ciò
che non rientra nella categoria dello stretto necessario?
Se la risposta è affermativa, cos’è che impedisce loro di
realizzarlo? Cosa devono fare per eliminare gli ostacoli?
È forse il tempo che gli manca? Che se lo prendano! Ma
non perdiamo di vista l’obiettivo della produzione: soddisfare
tutti i bisogni. Se i bisogni più impellenti
dell’uomo restano insoddisfatti, che bisogna fare per
aumentare la produttività del lavoro? O non sarà che
magari ci sono altre cause? Non sarà, forse, che la pro-
220
duzione, avendo perso di vista i bisogni dell’uomo, ha
preso una direzione assolutamente sbagliata e la sua
intera struttura ne è stata viziata? Poiché siamo in grado
di dimostrare che le cose stanno esattamente così,
vediamo allora come riorganizzare la produzione in
modo da soddisfare realmente tutti i bisogni.
Questo ci sembra il solo modo per affrontare correttamente
la questione, il solo modo che consenta all’economia
politica di diventare una scienza: la scienza della
fisiologia sociale.
È evidente che finché questa scienza si occuperà di
produzione così com’è espletata attualmente tanto nei
Paesi avanzati che nelle comunità indù o tra le tribù
primitive, difficilmente potrà esporre i fatti in modo
molto diverso da come lo fanno gli odierni economisti,
cioè come un trattato semplicemente descrittivo, analogo
a quelli della zoologia e della botanica. Ma se questo
trattato fosse scritto in modo da gettare luce sull’economia
delle energie necessarie a soddisfare i bisogni umani,
esso guadagnerebbe tanto in lucidità che in precisione.
E proverebbe in modo indiscutibile lo spreco spaventoso
di energie umane proprio al sistema attuale,
dimostrando altresì che finché esisterà questo sistema i
bisogni dell’umanità non saranno mai soddisfatti.
La prospettiva, come appare chiaro, cambia del tutto.
Dietro il telaio che tesse tanti metri di tela, dietro la
macchina che fora tante lastre d’acciaio e dietro la cassaforte
che ingurgita i dividendi, dobbiamo vedere
l’uomo, l’artigiano cui si deve la produzione, il più delle
volte escluso dal banchetto che ha preparato per altri.
Dobbiamo inoltre aver chiaro che le pretese «leggi» del
valore e dello scambio non sono altro che una falsa spiegazione
degli eventi così come si producono al giorno
d’oggi, ma che le cose avverranno in modo del tutto differente
quando la produzione verrà organizzata in
modo tale da provvedere a tutti i bisogni della società.
Non c’è un solo principio di economia politica che non
si modifichi totalmente se ci si pone nella nostra prospettiva.
221
Prendiamo, ad esempio, la sovrapproduzione, una
parola che risuona ogni giorno nelle nostre orecchie.
Non c’è infatti un solo economista, accademico o aspirante
tale, che non abbia portato argomenti a favore
della tesi che le crisi economiche sono dovute alla
sovrapproduzione, ovvero che in un dato momento si
arriva a produrre più cotone, stoffe e orologi di quanti
ne servano. E non abbiamo forse tuonato tutti contro la
rapacità dei capitalisti che si intestardiscono a produrre
più di quello che si può consumare?
Ebbene, non appena si approfondisce il problema tutti
questi ragionamenti appaiono errati. Infatti, è possibile
individuare anche una sola merce tra quelle di uso
universale di cui si produca più di quanto ne serva?
Prendete in esame una per una tutte le merci spedite
dai grandi Paesi esportatori e ben presto vi accorgerete
che quasi tutte sono prodotte in quantità insufficiente
per gli abitanti degli stessi Paesi esportatori. Non è
un’eccedenza di cereali quella che il contadino russo
invia in Europa: anche i migliori raccolti di grano e
segala della Russia europea danno appena ciò che serve
per la popolazione. E di norma, il contadino si priva del
necessario quando vende il suo grano o la sua segala
per poter pagare le tasse e l’affitto
Non è un’eccedenza di carbone quella che l’Inghilterra
invia ai quattro angoli del mondo, dato che non le
restano per il consumo domestico interno che 750 kg.
all’anno per abitante, tant’è che milioni di inglesi si privano
del fuoco in inverno o lo mantengono quel tanto
necessario a far bollire qualche verdura. In realtà, tralasciando
gli inutili oggetti di lusso, in Inghilterra,
ovvero nel maggior Paese esportatore, c’è solo una merce
di uso universale – il cotone – che ha una produzione
abbastanza alta tanto da eccedere, forse, i bisogni. Ma
quando si guardano gli stracci che costituiscono gli
indumenti di un buon terzo degli abitanti della Gran
Bretagna, non si può fare a meno di chiedersi se il cotone
esportato non sarebbe piuttosto utile per coprire i
bisogni reali della popolazione.
222
Generalmente non è un surplus quello che si esporta,
anche se in origine è verosimilmente stato così. La storia
del calzolaio scalzo è vera per le nazioni come lo era
un tempo per il singolo artigiano. Ciò che si esporta
sono i beni necessari, e questo avviene perché i lavoratori,
una volta pagato l’affitto e l’interesse del capitalista
e del banchiere, con il solo salario non possono comprare
quello che hanno prodotto.
Non solo dunque il bisogno sempre crescente di
benessere resta insoddisfatto, ma spesso manca anche
lo stretto necessario. Ragion per cui la sovrapproduzione
non esiste, almeno non nel senso che le viene attribuito
dai teorici dell’economia politica.
E passiamo ad un altra questione. Tutti gli economisti
ci dicono che c’è una legge assolutamente assodata:
«L’uomo produce più di quanto consumi». Dopo aver
ricavato di che vivere dal prodotto del suo lavoro, gli
resta sempre un’eccedenza, tanto che una famiglia di
coltivatori produce ciò di cui nutrire più famiglie, e così
via.
Per noi, questa frase così frequentemente ripetuta è
priva di senso. Se intendesse dire che ogni generazione
lascia qualche cosa alle generazioni future, la cosa
sarebbe vera. Un agricoltore, ad esempio, pianta un
albero che vivrà per trenta-quarant’anni, o forse un
secolo, e i cui frutti verranno ancora raccolti dai nipoti
di questo agricoltore. O magari dissoda qualche acro di
terreno vergine, incrementando così in proporzione
l’eredità delle generazioni a venire. Le strade, i ponti, i
canali, le case e il mobilio sono altrettante ricchezze
lasciate alle generazioni successive.
Ma non è questo che si intende. Quello che ci si dice è
che il coltivatore produce più grano di quanto non gli
serva per il consumo. Mentre bisognerebbe piuttosto
dire che essendogli stata sottratta una buona parte dei
suoi prodotti – dallo Stato sotto forma di tasse, dal prete
sotto forma di decime e dal proprietario terriero sotto
forma di affitto – si è andata creando una classe d’individui
che, se un tempo consumava quello che produceva
223
– ad eccezione della parte lasciata per gli imprevisti o le
spese per rimboschire o costruire strade – oggi è
costretta a vivere miseramente perché tutto il resto le è
stato preso dallo Stato, dal prete, dal proprietario terriero
e dall’usuraio.
Ci sembra quindi più corretto dire che il coltivatore
consuma meno di quanto produce, perché è costretto a
vendere la maggior parte del suo lavoro e a soddisfare i
suoi bisogni con la scarsa parte restante.
Ci sia inoltre consentito osservare che se si prendono
come punto di partenza per la nostra economia politica
i bisogni dell’individuo, si arriva necessariamente al
comunismo, cioè a un modo di organizzarsi che permette
di soddisfare tutti i bisogni nel modo più completo ed
economico. Mentre se partiamo dal modo attuale di produzione
e miriamo solo al guadagno e al plusvalore,
senza chiedersi se la produzione è in grado di soddisfare
i bisogni, si arriva al capitalismo, o tutt’al più al collettivismo,
ovvero a due forme diverse di salariato.