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IL TALLONE DI FERRO






Capitolo 1

LA MIA AQUILA

La brezza leggera dell'estate agita le sequoie e la Wild Water si frange con ritmiche cadenze contro le pietre muscose. Ci sono farfalle nel sole, e dovunque si leva il sonnolento ronzio delle api. C'è tanta pace e silenzio e io me ne sto qui, inquieta, a pensare. E' questa pace a rendermi inquieta: mi sembra irreale.

Una quiete profonda, ma è la quiete che precede la tempesta. Tendo dunque l'orecchio, e tutti i sensi, al primo segnale della tempesta imminente. Purché non sia prematura. Purché non scoppi troppo presto (1).

Sono inquieta con ragione. Penso, penso continuamente, è piú forte di me. Ho vissuto così a lungo nella mischia che la pace e la quiete mi opprimono e non posso impedirmi d'indugiare col pensiero su quel turbine di devastazione e morte che presto si scatenerà.

Già odo le grida delle vittime, già vedo, come nel passato, (2) tanta bella e preziosa carne falciata e mutilata, tante anime strappate a forza dai loro nobili corpi e lanciate verso Dio. E' così che noi povere creature umane raggiungiamo i nostri scopi; solo attraverso stragi e distruzioni riusciamo a portare pace e felicità durature sulla terra!

Sì, sono sola. Quando non penso a quel che sarà, penso a quel che è stato, a ciò che non è piú: alla mia Aquila, che batte l'aria con le ali instancabili, librandosi in eterno verso il suo sole, l'ideale radioso della libertà umana. Non saprei starmene inerte ad aspettare il grande avvenimento di cui lui è l'artefice, anche se non sarà presente al momento. Vi dedicò interi gli anni della sua vita, lo pagò con la vita. E' opera sua. Lo rese lui possibile (3).

Perciò, in simile ansiosa attesa, ho deciso di scrivere di mio marito. Io soltanto tra tutti potrò far luce sulla sua personalità, una personalità tanto nobile che tuttavia non sarà mai abbastanza nota. Era un'anima grande e, quanto il mio amore è scevro da ogni egoismo, il mio rammarico più grande è che lui non sia più qui ad assistere all'alba di domani. Non possiamo fallire: le basi che lui ha gettato sono troppo solide, troppo sicure.

Strapperemo via dal petto dell'umanità schiacciata il maledetto Tallone di Ferro. Al segnale della riscossa, le legioni dei lavoratori di tutto il mondo insorgeranno, e nella storia non si sarà mai visto nulla di simile. La solidarietà delle masse lavoratrici è assicurata, e per la prima volta scoppierà una rivoluzione internazionale, vasta quanto il mondo (4).

Sono, chiaramente, talmente presa da ciò che ci aspetta, che da tempo ormai vivo giorno e notte, sin nei minimi particolari, il grande avvenimento; anzi, non riesco a pensare a mio marito senza pensare a esso. Lui ne fu l'anima, come potrei separare le due cose nei miei pensieri?

Come ho detto, posso fare molta luce sulla sua personalità. Tutti sanno che ha lavorato molto, e penato ancor più, per la libertà; ma nessuno può saperlo meglio di me, che ho condiviso la sua vita in questi venti anni di ansia, e ho avuto modo di apprezzare la sua pazienza, il suo sforzo incessante, la sua totale dedizione alla causa per la quale, appena due mesi fa, è morto.

Cercherò di raccontare in tutta semplicità in che modo Ernest Everhard entrò nella mia vita: come lo conobbi, come finii col diventare parte di lui, quali profondi cambiamenti portò nella mia vita. In tal modo potrete guardarlo attraverso i miei occhi e apprendere di lui ciò che appresi io: tutto, salvo le cose troppo intime e dolci perché io possa ridirle.

Lo vidi per la prima volta nel febbraio del 1912. Era stato invitato a pranzo da mio padre (5), e devo dire che quando varcò la soglia di casa nostra a Berkeley, non mi fece un'impressione del tutto favorevole. Avevamo molta gente a pranzo e il suo ingresso nel salotto in cui aspettavamo l'arrivo degli ospiti fu abbastanza imbarazzante. Era la sera dei "predicatori", come diceva mio padre in famiglia, e Ernest non era certamente al suo posto tra quella gente di chiesa.

Tanto per cominciare, era mal vestito. Portava un completo di panno scuro, confezionato, che gli cascava addosso. In realtà, neppure in seguito riuscì mai a trovare un abito che gli andasse bene. Anche quella sera, come sempre, a ogni movimento che faceva i muscoli aggrinzivano la stoffa e, per via dell'ampio torace, dietro le spalle la giacca faceva una quantità di pieghe. Aveva il collo d'un campione di pugilato (6), grosso e robusto. E così questo è il filosofo sociale, ex maniscalco, scoperto da mio padre, mi dissi. Con quei bicipiti e quel collo, ne aveva tutta l'aria infatti. Lo giudicai immediatamente una specie di prodigio, un Blind Tom (7) della classe operaia.

Quando poi mi diede la mano, la sua fu una stretta forte e sicura.

I suoi occhi neri mi fissarono con ardire - un po' troppo ardire, mi parve. Ero nata e cresciuta in quell'ambiente, infatti, e a quel tempo avevo un istinto di classe molto sviluppato. Tanto ardire in un uomo del mio stesso livello sociale mi sarebbe risultato più o meno imperdonabile; fui dunque costretta ad abbassare gli occhi e fu con vero sollievo che tirai oltre per andare a salutare il vescovo Morehouse, uno dei miei prediletti, un uomo di mezza età, serio, dolce, dall'aspetto mite di un Cristo e, inoltre, un vero erudito.

Ma quell'ardire, che attribuii a presunzione, era quanto mai rivelatore della vera personalità di Ernest Everhard: era semplice, diretto, non aveva paura di niente e si rifiutava di perdere tempo con le convenzioni. "Mi piacesti subito", mi rivelò molto tempo dopo. "Perché dunque non avrei dovuto riempirmi gli occhi di ciò che mi piaceva?". Ho appena detto che non aveva paura di niente. Era un aristocratico autentico, anche se di fatto combatteva l'aristocrazia; un superuomo, l'essere biondo descritto da Nietzsche (8), e pur tuttavia un ardente democratico.

Impegnata a ricevere gli altri invitati, e forse anche per la cattiva impressione riportata, dimenticai quasi completamente il filosofo della classe operaia. In seguito, però, a tavola, attirò di nuovo un paio di volte la mia attenzione. Stava ascoltando i discorsi dei reverendi e nei suoi occhi notai un lampo divertito.

Ha il senso dell'umorismo, pensai, e quasi gli perdonai quel modo goffo di vestire. Intanto il tempo passava; il pranzo era inoltrato e lui non aveva aperto bocca neppure una volta mentre i reverendi discutevano animatamente della classe operaia e dei suoi rapporti con la chiesa e di ciò che questa aveva fatto e ancora faceva per essa. Notai che mio padre era seccato di quel suo silenzio e a un certo punto, profittando di un attimo di calma, gli chiese quale fosse la sua opinione. Ernest si limitò a scrollare le spalle e, dopo un secco "Non ho niente da dire", riattaccò a masticare mandorle salate.

Ma mio padre non si dava facilmente per vinto e, dopo qualche istante, disse: "Abbiamo tra noi un rappresentante della classe operaia. Sono sicuro che potrebbe presentarci le cose da un punto di vista nuovo e interessante. Alludo al Signor Everhard".

Tutti si mostrarono subito cortesemente interessati e sollecitarono Ernest a esporre le sue idee; ma il loro era un atteggiamento così chiaramente benevolo e tollerante da sembrar quasi condiscendenza. Mi accorsi che anche lui lo aveva notato, e ne era divertito. Girò lentamente lo sguardo sui convitati e in quei suoi occhi neri vidi un lampo di malizia.

"Non sono tagliato per le cortesi discussioni degli ecclesiastici", esordì poi, con tono modesto. Quindi esitò.

Si levarono alcune voci d'incoraggiamento: "Continui, continui". E il dottor Hammerfield aggiunse:

"Non temiamo la verità, da chiunque sia detta in buona fede".

"Lei dunque distingue tra verità e sincerità?" ribatté vivacemente Ernest con un sorriso.

Il dottor Hammerfield rimase un attimo perplesso, quindi balbettò:

"Anche il migliore di noi può sbagliare, giovanotto, anche il migliore".

All'improvviso, Ernest parve cambiare. In un attimo, sembrò un altro uomo.

"Bene, allora comincerò col dirvi che v'ingannate, tutti. Della classe operaia voi non sapete un bel niente. La vostra esperienza sociale è falsa e priva di valore come il vostro modo di ragionare".

Più che le parole mi colpì il tono con cui le pronunciò, e rimasi scossa già al solo suono della sua voce: uno squillo di tromba che mi fece fremere tutta. Anche tutti i presenti ne furono scossi, destati di colpo dal solito torpore e dalla solita monotonia.

"Cosa c'è di tanto falso e privo di valore nel nostro modo di ragionare, giovanotto?" chiese il dottor Hammerfield, con tono indispettito.

"Siete dei metafisici, e con la metafisica potete dimostrare qualunque cosa. Ma naturalmente, qualunque altro metafisico potrà a sua volta dimostrare, con non poca soddisfazione, che avete torto. Nel campo del pensiero siete degli anarchici e avete la passione delle costruzioni cosmiche. Ognuno di voi vive in un proprio universo, creato dalla sua fantasia e secondo i suoi desideri, ma dell'altro mondo, quello vero in cui abitate, non sapete niente, e il vostro pensiero non ha posto nella realtà se non come fenomeno di alienazione.

Sapete a cosa stavo pensando poco fa sentendovi parlare a vanvera?

A quegli scolastici del Medio Evo che con serietà e dottrina dibattevano il problema di quanti angeli possano danzare sulla punta di un ago. Voi, signori, siete lontani dalla vita intellettuale del ventesimo secolo quanto poteva esserlo diecimila anni fa uno stregone pellerossa impegnato a fare incantesimi in una foresta vergine".

A giudicare dal volto acceso, dalle sopracciglia aggrottate, dal lampeggiare degli occhi, dalle contrazioni del mento e della mascella, tutti segni di una natura aggressiva, sembrò che nel pronunciare quest'ultima frase fosse in preda all'ira. Era invece il suo modo di fare che, tuttavia, invariabilmente scuoteva la gente, esasperandola con quegli assalti impetuosi e improvvisi. I nostri invitati stavano già perdendo il loro contegno consueto. Il vescovo Morehouse ascoltava con attenzione, piegato in avanti; il dottor Hammerfield era rosso in viso per l'indignazione e anche gli altri erano sconvolti. Solo alcuni ancora sorridevano con aria divertita di superiorità. Quanto a me, trovavo la scena quanto mai divertente. Lanciai un'occhiata a mio padre e addirittura temetti che stesse per scoppiare a ridere per l'effetto prodotto da quella specie di bomba umana che aveva osato buttare in mezzo a noi.

"Lei si esprime in maniera abbastanza vaga", dichiarò infine il dottor Hammerfield. "Cosa intende dire esattamente chiamandoci metafisici?" "Vi definisco metafisici", riprese Ernest, "perché ragionate metafisicamente. Il vostro metodo è l'opposto di quello scientifico e le vostre conclusioni non hanno alcuna validità.

Dimostrate tutto e al tempo stesso niente, e neppure due tra voi riescono a mettersi d'accordo su un punto qualsiasi. Per spiegare l'universo e se stesso, ognuno di voi si tuffa nella propria coscienza, e pretendere di spiegare la coscienza con la coscienza è come pretendere di sollevarsi da terra tirandosi per i lacci delle scarpe".

"Non capisco", lo interruppe il vescovo Morehouse. "A me pare che tutte le cose dello spirito siano metafisiche. La stessa matematica, la più esatta e convincente delle scienze, è metafisica; ogni processo mentale di uno scienziato è già un atto di natura metafisica. Certamente sarà d'accordo su questo".

"Come lei stesso ha detto, non capisce", ribatté Ernest. "Il metafisico ragiona per deduzione partendo dalla sua stessa soggettività. Lo scienziato, invece, ragiona per induzione, basandosi sui fatti forniti dall'esperienza. Il metafisico procede dalla teoria ai fatti, lo scienziato dai fatti alla teoria. Il metafisico spiega l'universo secondo se stesso, lo scienziato spiega se stesso secondo l'universo".

"Ringraziamo Iddio di non essere scienziati", mormorò il dottor Hammerfield, con tono di compiacimento.

"E cosa siete, dunque?".

"Filosofi".

"Ci siamo", esclamò Ernest, ridendo. "Avete abbandonato il solito terreno della realtà per librarvi in aria con una parola, come se fosse una macchina volante. Per piacere, ritornate sulla terra e vogliate dirmi, a vostra volta, cosa intendete esattamente per filosofia".

"La filosofia è..." (il dottor Hammerfield si schiarì la voce) "è qualcosa che non si può definire in modo comprensibile se non a menti e spiriti filosofici. Lo scienziato che si limita a ficcare il naso tra le sue provette non potrà mai capire la filosofia".

La stoccata lasciò Ernest impassibile. Ma era abituato a ritorcere l'attacco contro l'avversario, e così fece, immediatamente, con volto e voce affatto benevoli.

"In tal caso, sarete certamente in grado di comprendere la definizione della filosofia che penso di proporvi. Prima, però, vi invito a rivelarne gli errori oppure a mantenere un silenzio metafisico. La filosofia non è altro che la più vasta di tutte le scienze. Il suo metodo non si distacca da quello di una qualunque scienza particolare o di tutte le scienze in generale. E appunto per questo suo meccanismo, questo suo metodo di ragionamento, il metodo induttivo, la filosofia fonde insieme tutte le scienze particolari, formando una sola, grande scienza. Come dice Spencer, i dati di ogni scienza particolare formano una conoscenza unificata solo in parte, mentre la filosofia sintetizza in sé la conoscenza offerta da tutte le scienze. E' cioè la scienza delle scienze, la scienza assoluta, se volete. Che ne dite di questa definizione?".

"Molto attendibile", mormorò il dottor Hammerfield.

Ma Ernest era senza pietà.

"Guardatevene", disse, "la mia definizione è fatale alla metafisica. Se, a partire da adesso, non riuscite a trovare in essa neppure un'incrinatura, sarete squalificati quando in seguito vorrete opporre argomenti metafisici. Passerete la vita intera a cercare quell'incrinatura e sarete costretti a restare metafisicamente muti fino a quando non l'avrete trovata".

Tacque, in attesa. Il silenzio divenne penoso. Il dottor Hammerfield era a disagio e insieme perplesso. Quell'attacco, dei veri e propri colpi di maglio, lo aveva sconcertato; non era abituato a quel modo di discutere semplice e diretto. Il suo sguardo implorante fece il giro della tavola, ma nessuno prese la parola per lui. Sorpresi mio padre che rideva dietro il tovagliolo.

"C'è un altro modo per squalificare i metafisici", riprese Ernest quando la sconfitta del dottore fu ben chiara, "giudicarli dalle loro opere. Cosa hanno fatto per l'umanità oltre a tessere fantasie aeree e scambiare per divinità la propria ombra?

Riconosco che hanno aggiunto nuovi motivi d'allegria per il genere umano, ma quale bene tangibile hanno mai apportato? Hanno filosofato, scusatemi la parola di cattivo gusto, sul cuore come sede delle emozioni, mentre intanto gli scienziati studiavano la circolazione del sangue. Hanno declamato sulla peste e sulla carestia, considerandole flagelli di Dio, mentre intanto gli scienziati costruivano silos e risanavano gli agglomerati urbani.

Descrivevano la terra come centro dell'universo, mentre gli scienziati scoprivano l'America e scrutavano lo spazio per scoprirvi le stelle e le leggi degli astri. Insomma, i metafisici non hanno fatto assolutamente niente per l'umanità. Hanno dovuto arretrare passo dopo passo davanti alle conquiste della scienza; ma appena i fatti scientificamente accertati rovesciavano le loro spiegazioni soggettive, ne fabbricavano altre su scala più vasta per spiegare appunto i fatti accertati. E così, senza dubbio, continueranno a fare sino alla fine dei secoli. Signori, i metafisici sono degli impostori. Fra voi e l'esquimese che immaginava dio come un mangiatore di grasso vestito di pelliccia, c'è solo una differenza di qualche migliaio d'anni di fatti accertati. Tutto qui".

"Eppure il pensiero di Aristotele ha dominato l'Europa per dodici secoli", intervenne il dottor Ballingford, pomposo, "e Aristotele era un metafisico".

Quindi il dottor Ballingford girò lo sguardo sui commensali, dai quali fu ricompensato con cenni e sorrisi di approvazione.

"Il suo esempio non è per niente felice", rispose Ernest. "Lei si riferisce a uno dei periodi più oscuri della storia dell'umanità.

Infatti lo chiamiamo periodo d'oscurantismo, un'epoca in cui la scienza era schiava della metafisica, la fisica si limitava alla ricerca della pietra filosofale, l'alchimia aveva preso il posto della chimica, e l'astrologia quello dell'astronomia. Triste dominio quello del pensiero di Aristotele!".

Il dottor Ballingford parve seccato, ma subito si riprese e ribatté:

"Anche accettando il quadro nero che lei ci ha dipinto, deve però riconoscere alla metafisica un grande valore intrinseco, perché è riuscita a liberare l'umanità dall'oscurantismo avviandola verso la luce dei secoli successivi".

"La metafisica non ne ebbe alcun merito", ribatté Ernest.

"Come!" esclamò il dottor Hammerfield, "non è stato forse il pensiero speculativo a condurre alle grandi scoperte?".

"Ah, caro reverendo", disse Ernest con un sorriso, "la credevo squalificato. Non ha ancora trovato una sola incrinatura, nella mia definizione della filosofia e ora è sospeso nel vuoto. Ma questa è un'abitudine dei metafisici e io la perdono. No, ripeto, la metafisica non ebbe alcun merito in tutto questo. Ai viaggi di scoperta spinse il bisogno di pane quotidiano, seta e gioielli, monete d'oro e metalli preziosi e, tra l'altro, la chiusura delle vie commerciali terrestri verso l'India. Quando cadde Costantinopoli nel 1453, i turchi chiusero le vie carovaniere per l'India, e i mercanti europei dovettero cercare altre strade.

Questa fu la vera causa di quelle esplorazioni. Cristoforo Colombo prese il mare per cercare una nuova via per le Indie, potete leggerlo su tutti i libri di storia. Si scoprirono così per caso fatti nuovi in natura, come la grandezza e la forma della terra, e il sistema tolemaico mandò i suoi ultimi bagliori".

Il dottor Hammerfield emise un grugnito.

"Non è d'accordo?" domandò Ernest. "Allora mi dica dove sbaglio".

"Posso soltanto riconfermare il mio punto di vista" replicò aspramente il dottor Hammerfield. "Sarebbe altrimenti un tema troppo vasto".

"Non esistono temi troppo vasti per uno scienziato", ribatté, in tono cortese, Ernest. "Per questo lo scienziato scopre e ottiene, per questo è arrivato in America".

Non ho intenzione di descrivere tutta la serata, sebbene sia per me una gioia ricordare ogni particolare di quel primo incontro, di quelle prime ore passate con Ernest Everhard.

La discussione si fece molto animata, e i reverendi avvampavano, quando Ernest li chiamava filosofi romantici, lanterne magiche e così via. Li interrompeva continuamente per richiamarli ai fatti.

"Il fatto, amico, il fatto inconfutabile", proclamava trionfante, ogni volta che assestava un colpo decisivo. Era irto di fatti e glieli lanciava fra i piedi, glieli drizzava davanti in improvvise imboscate, li bombardava con raffiche di fatti.

"A quanto pare lei sacrifica soltanto sull'altare del fatto", lo stuzzicò il dottor Hammerfield.

"Non c'è altro dio che il fatto, e il signor Everhard è il suo profeta", parafrasò il dottor Ballingford.

Ernest, sorridendo, approvò col capo.

"Io sono come i texani", disse. E, sollecitato, spiegò: "Quelli del Missouri dicono sempre: 'Bisogna farmelo vedere'; quelli del Texas, invece, dicono: 'Bisogna mettermelo in mano'. Chiaro quindi che non sono dei metafisici".

A un certo punto, avendo egli detto che i filosofi metafisici non potrebbero sopportare la prova della verità, il dottor Hammerfield tuonò:

"Qual è questa prova della verità, giovanotto? Vuole avere la bontà di spiegarci quello che a lungo ha imbarazzato menti più sagge della sua?".

"Volentieri", rispose Ernest, con quella sicurezza che li indispettiva. "Le menti sagge sono state a lungo imbarazzate dalla ricerca della verità perché la cercavano per aria, lassù! Se fossero rimaste sulla terra ferma, l'avrebbero trovata facilmente.

Come avrebbero certamente scoperto che con ogni azione e pensiero pratico della loro vita, essi stessi costituivano appunto la prova della verità".

"La prova, la prova", ripeté con impazienza il dottor Hammerfield.

"Lasci da parte i preamboli. Ci dia ciò che abbiamo cercato tanto a lungo: la prova della verità. Ce la dia e diventeremo degli dèi".

C'era in queste parole, e nel modo con cui furono pronunciate, lo scetticismo aggressivo e ironico che la maggioranza dei convitati provava; il vescovo Morehouse parve però colpito.

"Il dottor Jordan (9) l'ha stabilito in maniera chiarissima", disse Ernest. "Ecco il suo modo di verificare la verità: 'E' essa concreta, in atto? le affidereste la vostra vita?'".

"Figurarsi!" disse il dottor Hammerfield con un sorriso. "Non ha tenuto conto del vescovo Berkeley (10). In conclusione, non gli hanno mai risposto".

"Il più nobile metafisico della confraternita", replicò Ernest, ridendo, "ma scelto male come esempio. Come egli stesso ha dimostrato, la sua metafisica era campata in aria".

Il dottor Hammerfield s'indignò, punto sul vivo, come se avesse sorpreso Ernest nell'atto di rubare o mentire.

"Giovanotto", sbottò, "questa affermazione è degna di tutto quanto ha detto stasera. E' un'asserzione ignobile e assolutamente priva di fondamento".

"Eccomi bell'e sistemato", mormorò Ernest, con un'aria afflitta.

"Purtroppo non mi sento colpito. Bisognerebbe farmelo toccare con mano, reverendo".

"Benissimo, benissimo", balbettò il dottor Hammerfield. "Non potrà certo dire che il vescovo Berkeley non abbia dimostrato che la sua metafisica non fosse pratica. Non ne ha le prove, giovanotto, lei non ne sa niente. La metafisica di Berkeley ha sempre funzionato".

"Per me, la prova migliore che la metafisica di Berkeley era pura astrazione, sta nel fatto che lo stesso Berkeley", e a questo punto Ernest riprese tranquillamente fiato, "aveva la buona abitudine di passare per le porte e non attraverso i muri; perché per nutrire la propria vita s'affidava al pane e burro e al sostanzioso arrosto, e si faceva la barba con un rasoio bene affilato".

"Ma queste sono cose della vita fisica", esclamò il dottore, "mentre la metafisica appartiene allo spirito".

"E funziona anche in spirito?" chiese Ernest, calmissimo.

L'altro annuì.

"E, in spirito, una miriade di angeli può danzare sulla punta di un ago", continuò Ernest, con aria assorta. "E, in spirito, può esistere anche un dio impellicciato e mangiatore di grasso, perché non ci sono prove contrarie, in spirito. E immagino, reverendo, che lei viva anche in spirito, vero?".

"Il mio spirito è il mio regno", rispose l'altro.

"Cioè, vive nel vuoto. Ma sono sicuro che ritorna sulla terra all'ora dei pasti o alle prime scosse d'un terremoto. O forse mi obietta che in un simile malaugurato caso non avrebbe nessun timore che il suo corpo immateriale possa essere colpito da una tegola immateriale?".

Istintivamente, e con gesto inconsapevole, il dottor Hammerfield si toccò la testa, dove, nascosta tra i capelli, aveva una cicatrice. L'esempio di Ernest era stato quanto mai calzante:

durante il grande terremoto (11), infatti, il reverendo per poco non era stato schiacciato da un comignolo. Scoppiarono tutti a ridere.

"Ebbene", riprese Ernest quando l'ilarità si fu calmata, "aspetto sempre la prova del contrario". Poi, nel silenzio generale, aggiunse: "Passi pure questo suo ultimo argomento, ma non è ancora quello risolutivo".

Il dottor Hammerfield era ormai fuori combattimento; ma la battaglia si spostò in un'altra direzione. Punto per punto, Ernest confutò ogni loro asserzione. Quando sostenevano di conoscere la classe operaia, lui ribatteva esponendo delle verità fondamentali che quelli non conoscevano, e li sfidava a contraddirlo. Parlava di fatti, sempre fatti, frenava i loro slanci verso la luna e li riconduceva sul terreno solido dei fatti.

Ricordo benissimo la scena! Mi pare di udirlo ancora, con quel suo tono aggressivo, colpirli col fascio dei fatti, di cui ciascuno era una verga sferzante! Senza pietà: non chiedeva tregua e non ne accordava (12). Non dimenticherò mai la scudisciata finale che inflisse loro:

"Questa sera avete ammesso più volte, direttamente o con le vostre dichiarazioni d'incompetenti, di non conoscere la classe operaia.

Non vi biasimo per questo: come potreste conoscerla, infatti? Non vivete fra gli operai, pascolate con la classe capitalista. E perché dovreste agire diversamente? I capitalisti vi pagano, vi nutrono, vi danno gli abiti che portate questa sera. In cambio, voi predicate ai vostri padroni il tipo di metafisica che è loro particolarmente gradito e che essi accettano perché non minaccia l'ordine stabilito delle cose".

A queste parole, ci fu una protesta generale.

"Oh, non metto in dubbio la vostra sincerità", proseguì Ernest.

"Voi siete sinceri. Predicate ciò in cui credete. In questo consistono la vostra forza e il vostro valore agli occhi dei capitalisti. Ma se per caso cominciaste a credere in qualcosa che minaccia invece l'ordine stabilito, le vostre prediche diventerebbero inaccettabili per i vostri padroni, e voi sareste licenziati. Ogni tanto, non spesso, qualcuno di voi viene infatti congedato (13). Non è così?".

Questa volta non ci fu nessuna protesta: tutti se ne stettero umilmente in silenzio, tranne il dottor Hammerfield, che disse:

"Solo quando il loro modo di pensare è falso, vengono invitati a dimettersi".

"Vale a dire quando il loro modo di pensare è inaccettabile", ribatté Ernest, e aggiunse: "Per questo vi dico, continuate a predicare e a guadagnarvi il vostro soldo ma, per amor del cielo, lasciate in pace la classe operaia. Voi state dalla parte del nemico. Non avete nulla in comune con essa. Le vostre mani sono bianche perché altri lavorano per voi, e i vostri stomachi pieni per l'abbondanza di cibo". (A questo punto il dottor Hammerfield fece una smorfia e tutti sbirciarono verso il suo enorme pancione, grazie al quale, si diceva, da anni non vedeva più i propri piedi). "E le vostre menti sono infarcite di dottrine che servono a reggere l'ordine stabilito. Siete dei mercenari sinceri, mercenari sinceri, lo ammetto, ma come lo era la Guardia Svizzera (14). Siate fedeli a chi vi dà il pane, il sale e la paga; sostenete con le vostre prediche gli interessi dei vostri signori, ma non venite a offrirvi alla classe operaia come falsi condottieri! Non potreste vivere onestamente in due campi opposti.

La classe operaia ha fatto a meno di voi, e credetemi, continuerà a farne a meno. Inoltre se la sbrigherà meglio senza di voi che con voi".

NOTE:

1!Sebbene avesse collaborato, naturalmente, con i dirigenti europei, la Seconda Rivolta fu, in larga misura, opera di Ernest Everhard. Successivamente, il suo arresto e la sua esecuzione segreta, furono il grande avvenimento della primavera del 1932. E tuttavia aveva preparato così minuziosamente quella rivolta che i suoi compagni poterono mettere in atto i suoi piani senza confusione né indugio. Dopo l'esecuzione di Everhard, la vedova si ritirò a Wake Robin Lodge, un piccolo bungalow tra le Sonoma Hills, in California.

2) Certamente si riferisce alla Comune di Chicago.

3) Con tutto il rispetto per sua moglie Avis, va detto che Everhard fu soltanto uno dei tanti e abili dirigenti che progettarono la Seconda Rivolta. Oggi, a distanza di secoli, possiamo affermare che anche se lui fosse sopravvissuto, il risultato di quella rivolta non sarebbe stato meno disastroso .

4) La Seconda Rivolta fu effettivamente internazionale. Si trattava di un disegno troppo vasto per essere elaborato dal genio di un uomo solo. In tutte le oligarchie del mondo, i lavoratori erano pronti a sollevarsi al segnale convenuto. La Germania, l'Italia, la Francia e tutta l'Australasia erano paesi di lavoratori, stati socialisti pronti ad appoggiare la rivoluzione.
E lo fecero, coraggiosamente. Per questo, quando fu soffocata la Seconda Rivolta furono anch'essi soffocati, schiacciati, dall'alleanza mondiale delle oligarchie e i rispettivi governi socialisti sostituiti da governi oligarchici.

5) John Cunningham, padre di Avis Everhard, era professore alla State University di Berkeley, in California. Il suo campo era la fisica, svolgeva molte ricerche originali anche in altri campi, ed era molto stimato come scienziato. Suoi principali contributi alla scienza furono i suoi studi sugli elettroni e, soprattutto, la monumentale opera intitolata "Identità della materia e dell'energia", nella quale stabilì, in maniera inconfutabile, che l'unità ultima della materia e quella della forza sono la stessa cosa. Prima di lui, la stessa idea era stata avanzata, ma non dimostrata, da Sir Oliver Lodge e da altri studiosi del nuovo campo della radioattività.

6) A quel tempo gli uomini si battevano a pugni per vincere un premio. Quando uno dei due cadeva, privo di sensi o morto, l'altro guadagnava il premio.

7) Oscuro riferimento a un musicista negro, cieco, che verso la fine del diciannovesimo secolo ebbe un istante di notorietà negli Stati Uniti.

8) Friedrich Nietzsche, il filosofo pazzo del secolo diciannovesimo, che ebbe visioni fantastiche della verità ma la cui ragione, a furia di girare nel gran circolo del pensiero umano, sfuggì per la tangente.

9) Noto educatore della fine del diciannovesimo secolo e dell'inizio del ventesimo. Era rettore dell'Università di Stanford, università fondata per lascito privato.

10) Monista idealista che imbarazzò a lungo i filosofi del suo tempo, negando l'esistenza della materia; ma i suoi sottili ragionamenti finirono per crollare quando le nuove scoperte empiriche della scienza furono generalizzate in filosofia.

11) Quello che distrusse San Francisco, nel 1906.

12) Immagine, questa, ispirata alle abitudini di quel tempo. Quando, tra quelli che si battevano all'ultimo sangue in quella loro maniera bestiale, un vinto gettava via le sue armi, era facoltà del vincitore ucciderlo o risparmiarlo.

13) A quel tempo parecchi ministri furono espulsi dalla Chiesa per aver predicato dottrine inaccettabili. Ciò accadeva in particolare quando le loro prediche erano tinte di socialismo.

14) Guardie di palazzo straniere assoldate da Luigi sedicesimo, un re di Francia che fu decapitato dal popolo.

Capitolo 2

SFIDE

Quando gli invitati andarono via, mio padre si lasciò cadere su una sedia e s'abbandonò a una risata pantagruelica. Dalla morte di mia madre non lo avevo mai visto ridere così di cuore.

"Scommetto che il reverendo Hammerfield non s'è mai trovato in una situazione del genere in vita sua", disse fra le risa. "Il tono cortese delle dispute ecclesiastiche! Hai notato che sulle prime sembrava una pecorella, parlo di Everhard, per mutarsi subito dopo in un leone ruggente? Ha un notevole rigore intellettuale, quell'uomo; sarebbe diventato uno scienziato di prim'ordine se avesse indirizzato le sue energie in tal senso".

Non sarà necessario dire, a questo punto, che Ernest Everhard mi interessava molto: non soltanto per quanto aveva detto, e per il modo in cui l'aveva detto, ma per se stesso, come uomo. Non avevo mai incontrato uno come lui, e credo che per questo, a ventiquattro anni compiuti, non ero ancora sposata. Mi piaceva, dovetti ammetterlo, e questa mia simpatia era dovuta non alla sua intelligenza e alla sua dialettica, ma ad altro. Nonostante quei suoi muscoli e quel suo torace da pugile, mi aveva fatto l'impressione di un giovane dall'animo puro. Sentivo che sotto quell'apparenza del chiacchierone intellettuale, c'era un animo, uno spirito delicato e sensibile. Lo avvertivo, in modo che potevo attribuire soltanto al mio intuito femminile.

C'era nel suo dire tonante qualcosa che mi era andato a cuore, e mi sembrava sempre di udirlo. Desideravo udirlo ancora, vedere ancora nei suoi occhi quel lampo di gaiezza che smentiva l'impassibilità del resto del viso. E ancora altri sentimenti vaghi, indistinti, ma più profondi, si agitavano in me. Quasi lo amavo già, sebbene sia sicura che, se non lo avessi più rivisto, quel vago sentimento si sarebbe spento e, facilmente, avrei finito col dimenticarlo.

Ma non era nel mio destino non rivederlo più: il nuovo interesse che mio padre aveva preso a nutrire per la sociologia, e i pranzi che dava regolarmente, non lo avrebbero permesso. Mio padre non era un sociologo. Il suo matrimonio con mia madre era stato felice, e felice lo avevano reso le sue ricerche di fisica; ma dopo la morte di mia madre quelle ricerche non erano più riuscite a colmare l'orribile vuoto. Si era occupato di filosofia, con poco interesse agli inizi, poi con sempre maggiore impegno, finendo con l'occuparsi di economia politica e scienze sociali. Possedeva un vivo sentimento della giustizia, e così non tardò ad accendersi di passione per la riparazione dei torti. Dal canto mio, notavo con somma gioia questi segni di rinascente interesse per la vita, pur non immaginando quale sarebbe stato il risultato. Con l'entusiasmo di un ragazzo, s'immerse così in nuove ricerche, senza neppure chiedersi dove l'avrebbero portato.

Abituato da sempre al lavoro di laboratorio, aveva dunque trasformato la sala da pranzo in un laboratorio di sociologia: vi si trovava riunita gente di ogni tipo e condizione: scienziati, uomini politici, banchieri, commercianti, professori, sindacalisti, socialisti e anarchici. Lui li sollecitava alla discussione e analizzava le loro idee sulla vita e sulla società.

Aveva conosciuto Ernest poco tempo prima della "serata dei predicatori", e dopo che gli ospiti furono andati via seppi come l'aveva conosciuto. Una sera, per strada, si era fermato ad ascoltare un uomo che, in piedi su una cassetta di legno, parlava a un gruppo di operai. Era Ernest. Ma non era un oratore da strapazzo. Era molto apprezzato dalla direzione del partito socialista, considerato uno dei dirigenti e riconosciuto come tale dai dottrinari del socialismo. Aveva il dono di presentare in forma semplice e chiara anche i problemi ardui, era un educatore nato e non credeva di avvilirsi salendo su una cassetta di legno per spiegare l'economia politica ai lavoratori.

Mio padre s'era dunque fermato ad ascoltarlo ed era rimasto interessato. Aveva poi avvicinato l'oratore, s'era presentato e lo aveva invitato al pranzo dei reverendi. E solo dopo quel pranzo mi rivelò il poco che era riuscito a sapere. Era figlio di operai, sebbene discendesse da un'antica famiglia stabilitasi da più di duecento anni in America (1). A dieci anni aveva cominciato a lavorare in fabbrica e in seguito aveva imparato il mestiere di maniscalco. Era un autodidatta, aveva studiato il francese e il tedesco, e a quel tempo si guadagnava modestamente la vita traducendo opere scientifiche e filosofiche per una traballante casa editrice socialista di Chicago. Arrotondava poi il guadagno con i diritti ricavati dalla vendita, ristretta, delle proprie opere di economia e filosofia.

Questo appresi su di lui quella sera prima di andare a letto, dove stetti a lungo sveglia ascoltando ancora, nel ricordo, il suono della sua voce. Mi spaventai dei miei stessi pensieri. Somigliava così poco agli uomini della mia classe! Sembrava così estraneo, così forte! La sua padronanza di sé mi piaceva e insieme mi spaventava, e la mia fantasia galoppava tanto che mi sorpresi a considerarlo come amante e come marito. Avevo sempre sentito dire che la forza degli uomini è un'attrattiva irresistibile per le donne; ma Ernest era troppo forte. "No, no!" esclamai, "è impossibile, è assurdo!". E il giorno dopo, svegliandomi, provai il desiderio fortissimo di rivederlo, di assistere alla sua vittoria in una nuova discussione, di vibrare ancora al suono bellissimo della sua voce, di ammirarlo nella sua sicurezza e nella sua forza, quando spezzava la loro albagia e distoglieva il loro pensiero dal solito circolo vizioso. Che importavano le sue smargiassate? Come lui stesso aveva detto, "funzionavano", erano efficaci. Inoltre, erano belle a sentirsi, eccitanti come l'inizio di una battaglia.

Passarono parecchi giorni durante i quali lessi i libri di Ernest prestatimi da mio padre. Scritta, la sua parola era come quella parlata, chiara e convincente. La sua semplicità assoluta ti convinceva anche se il tuo dubbio continuava. Aveva il dono della lucidità, di esporre in maniera perfetta. E tuttavia, nonostante il suo stile, molte cose non mi piacevano. Dava troppa importanza a ciò che chiamava la lotta di classe, all'antagonismo fra lavoro e capitale, al conflitto degli interessi.

Mio padre, compiaciuto, mi riferì il giudizio del dottor Hammerfield su Ernest: "Un botolo insolente reso borioso da poca e inadeguata preparazione". Inoltre, il dottor Hammerfield si rifiutava di rivederlo.

Il vescovo Morehouse, invece, era rimasto molto colpito, ed era ansioso di incontrarlo di nuovo. "Un giovane forte", aveva dichiarato, "e vivace, molto vivace. Ma troppo sicuro di sé, troppo sicuro!".

Ernest ritornò un pomeriggio, in compagnia di mio padre. Il vescovo era già arrivato e stavamo prendendo il tè sulla veranda.

La prolungata presenza di Ernest a Berkeley, tra l'altro, era dovuta al fatto che seguiva dei corsi speciali di biologia all'università; in più, a quel tempo lavorava intensamente a una nuova opera intitolata: "Filosofia e Rivoluzione" (2).

Quando entrò, improvvisamente la veranda parve troppo piccola. Non perché lui fosse molto alto (era alto un metro e settantadue), ma perché sembrava irradiare un'atmosfera di grandezza. Nel salutarmi, tradì una lieve esitazione che contrastava stranamente con il suo sguardo ardito e la sua stretta di mano ferma e sicura.

I suoi occhi non erano meno sicuri, ma, questa volta, sembravano interrogare, mentre mi guardavano, come il primo giorno, indugiando un po' troppo.

"Ho letto il suo libro: 'Filosofia della classe lavoratrice'", dissi, e scorsi nei suoi occhi un lampo di compiacimento.

"Naturalmente", rispose, "avrà tenuto conto del pubblico al quale è rivolto".

"Sì, e appunto per questo non sono d'accordo con lei".

"Neppure io", disse il vescovo Morehouse, "sono d'accordo con lei".

Ernest scrollò le spalle con aria rassegnata, e accettò una tazza di tè.

Il vescovo mi cedette la parola con un inchino.

"Lei fomenta l'odio di classe", cominciai. "E a me pare un errore, un delitto, fare appello a tutto ciò che vi è di limitato e brutale nella classe operaia. L'odio di classe è anti-sociale".

"Proclamo la mia innocenza", rispose lui. "Non c'è odio di classe né nel testo né nello spirito di nessuna mia opera".

"Oh!" esclamai con aria di rimprovero. Presi il libro e lo aprii.

Lui sorseggiava il tè e mi sorrideva, mentre io sfogliavo le pagine.

"Pagina centotrentadue", dissi, e lessi ad alta voce: "'Pertanto, nell'attuale stadio dello sviluppo sociale, tra i datori di lavoro e i salariati esiste lotta sociale'!".

Lo guardai con aria di trionfo.

"Ma non vi si parla di odio di classe", rispose lui, sorridendo.

"Ma parla di 'lotta di classe'".

"Non sono certo la stessa cosa. Mi creda, noi non fomentiamo l'odio. Sosteniamo soltanto che la lotta di classe è una legge dell'evoluzione sociale. Non ne siamo responsabili. Non è una nostra invenzione. Ci limitiamo a spiegarla, come Newton spiegava la gravitazione. Noi esaminiamo la natura del conflitto d'interessi che provoca la lotta di classe".

"Ma non dovrebbe esserci nessun conflitto d'interessi!" esclamai.

"Sono perfettamente d'accordo con lei", rispose. "E noi socialisti tendiamo appunto all'abolizione di questo conflitto di interessi.

Scusi, mi lasci leggere un altro punto". Prese il libro e ne voltò alcuni fogli. "Pagina centoventisei: 'Il ciclo della lotta di classe, iniziato con la dissoluzione del comunismo primitivo della tribù e la nascita della proprietà privata, si concluderà con l'abolizione della proprietà individuale dei mezzi dell'esistenza sociale'".

"Non sono d'accordo con lei", lo interruppe il vescovo, tradendo con un lieve rossore nel volto ascetico l'intensità dei suoi sentimenti. "Le sue premesse sono false. Non esiste conflitto d'interessi fra lavoro e capitale, o, almeno, non dovrebbe esistere".

"La ringrazio", disse con aria grave Ernest, "di avermi restituito le mie premesse con questa sua affermazione".

Ma perché dovrebbe esserci conflitto?" incalzò il vescovo con calore.

Ernest si strinse nelle spalle.

"Perché siamo fatti così, immagino".

"Ma non siamo fatti così!" esclamò l'altro.

"Stiamo forse parlando dell'uomo ideale, divino, privo di egoismo?" ribatté Ernest. "Ce n'è tanto pochi che si possono considerare inesistenti. Oppure dell'uomo comune, ordinario?".

"Dell'uomo ordinario".

"Debole, fallibile e soggetto a errare?".

Il vescovo Morehouse annuì.

"E meschino, egoista?" Il prelato annuì ancora.

"Badi bene", avvertì Ernest. "Ho detto 'egoista'".

"L'uomo comune è egoista", affermò il vescovo con calore.

"Che vuole avere tutto ciò che può?".

"Vuole avere il più possibile. E' deplorevole, ma è vero".

"Allora ci è cascato". La mascella di Ernest scattò come una trappola. "Glielo dimostro. Prenda un uomo che lavora sui tram".

"Non potrebbe lavorare se non ci fosse il capitale", l'interruppe il vescovo.

"E' vero, ma ammetterà che il capitale perirebbe se non guadagnasse i suoi dividendi sulla mano d'opera".

Il vescovo non rispose.

"Non è d'accordo?" insistette Ernest.

Il prelato annuì.

"Allora le nostre due proposizioni si annullano reciprocamente, e ci troviamo al punto di partenza. Ricominciamo. I tranvieri forniscono la mano d'opera e gli azionisti il capitale. Da quest'unione del lavoro col capitale nasce il guadagno (3).

Entrambi si dividono questo guadagno: la parte che tocca al capitale si chiama dividendo, quella che tocca al lavoro si chiama salario".

"Benissimo", l'interruppe il vescovo. "Ma non c'è motivo perché questa divisione non avvenga amichevolmente".

"Ha già dimenticato le premesse", replicò Ernest. "Eravamo d'accordo nell'ammettere che l'uomo ordinario è egoista. L'uomo ordinario è quello che è. Ora invece lei parte per la tangente e vuol fare una distinzione fra quest'uomo e gli uomini come dovrebbero essere, ma come non sono in realtà. Ritorniamo sulla terra: il lavoratore, essendo egoista, vuole avere quanto più può nella divisione; il capitalista, essendo egoista, vuole, del pari, avere tutto ciò che può prendere. Quando una cosa esiste in quantità limitata, e due uomini vogliono averne ciascuno la parte maggiore, nasce un conflitto d'interessi. E' il conflitto che esiste fra capitale e lavoro, ed è uno scontro inconciliabile.

Finché esisteranno operai e capitalisti, litigheranno per la divisione del guadagno. Se fosse stato a San Francisco questo pomeriggio, sarebbe stato costretto ad andare a piedi, non circola neppure un tram".

"Un altro sciopero?" (4) domandò il vescovo, allarmato.

"Sì, litigano per l'equa divisione dei guadagni delle tranvie".

Il vescovo si irritò.

"Hanno torto!" esclamò. "Gli operai non vedono al di là del loro naso. Come possono sperare di conservare la nostra simpatia?...".

"Quando ci obbligano ad andare a piedi", disse maliziosamente Ernest.

E il vescovo concluse senza badargli:

"Il loro punto di vista è troppo meschino. Gli uomini devono agire da uomini e non da bestie. Ci saranno ancora violenze e uccisioni, e vedove e orfani addolorati. Capitale e lavoro dovrebbero essere uniti, dovrebbero procedere insieme, per il reciproco interesse".

"Ecco che parte di nuovo per la tangente", osservò freddamente Ernest. "Vediamo di ritornare sulla terra e di non perdere di vista la nostra asserzione: l'uomo è egoista".

Ma non dovrebbe esserlo!" esclamò il vescovo.

"Su questo punto sono d'accordo con lei. Non dovrebbe essere egoista, ma lo sarà sempre finché vivrà in un sistema sociale fondato su una morale meschina".

Il prelato parve spaventato; mio padre entro di sé rideva.

"Sì, una morale meschina", riprese Ernest, senza esitazioni. "Ed è l'ultima parola del vostro sistema capitalistico, è ciò che sostiene la vostra chiesa, ciò che voi predicate ogni volta che salite sul pulpito: meschina, non c'è altro nome".

Il vescovo si rivolse per aiuto a mio padre, il quale scosse il capo, ridendo.

"Credo che il signor Everhard abbia ragione", disse poi. "E' la politica del 'laissez-faire', dell'ognuno per sé e dio per tutti.

Come disse l'altra sera il signor Everhard, il compito di voi gente di chiesa consiste nel mantenere l'ordine stabilito e la società è fondata su questo principio!".

"Ma questo non è l'insegnamento di Cristo!" esclamò il vescovo.

"Oggi la chiesa non insegna la dottrina di Cristo", rispose Ernest. "Per questo gli operai non vogliono niente a che farci. La chiesa approva la terribile brutalità, la ferocia con la quale il capitalista tratta la classe lavoratrice".

"Non l'approva affatto", obiettò il vescovo.

"Ma non protesta neppure", replicò Ernest "e perciò approva, perché non bisogna dimenticare che la chiesa è sostenuta dalla classe capitalistica".

"Non avevo mai considerato la cosa da questo punto di vista", disse ingenuamente il vescovo. "Ma credo che sbagli. So che le tristezze e le brutture del mondo sono molte; so che la chiesa ha perduto il... quello che voi chiamate proletariato" (5).

"Non è mai stato con voi", esclamò Ernest. "Si è sviluppato fuori della chiesa e senza di essa".

"Non la seguo più", replicò debolmente il vescovo.

"Le spiego. Dopo l'introduzione della macchina e del sistema industriale, verso la fine del diciottesimo secolo, la grande massa dei lavoratori fu allontanata dalla terra e l'antico sistema di lavoro mutò. Tolti dai loro villaggi, i lavoratori si trovarono rinchiusi nelle città industriali; le madri e i fanciulli furono messi a lavorare alle nuove macchine; la vita di famiglia cessò e le condizioni divennero atroci. E' una pagina di storia scritta con sangue e lacrime".

"Lo so", l'interruppe il vescovo, con un'espressione d'angoscia in viso. "Fu terribile, ma ciò avvenne in Inghilterra, un secolo e mezzo fa".

"E lì, un secolo e mezzo fa, nacque il proletariato moderno", continuò Ernest. "Mentre il paese veniva trasformato dai capitalisti in un vero e proprio macello, la chiesa taceva, non protestò allora come non protesta oggi. Come dice Austin Lewis (6), parlando di quell'epoca, coloro che avevano ricevuto il comandamento: 'Pascete i miei agnelli', hanno assistito senza protestare alla vendita e al massacro di quegli agnelli (7). Prima di continuare la prego di dirmi sinceramente se è o no d'accordo.

La chiesa protestò a quel tempo?".

Il vescovo Morehouse esitò: come il dottor Hammerfield, non era abituato a quel violento "corpo a corpo", come lo chiamava Ernest.

"La storia del secolo diciottesimo è stata scritta", suggerì questi. "Se la chiesa tacque allora, non avrà taciuto anche nei libri".

"Purtroppo temo che sia rimasta muta", ammise il prelato.

"E rimane muta anche oggi".

"Su questo non sono d'accordo".

Ernest tacque, guardò attentamente il suo interlocutore e accettò la sfida.

"Benissimo", disse, "vedremo. Ci sono, a Chicago, donne che lavorano tutta la settimana per novanta centesimi. Protesta forse la chiesa?".

"E' una novità per me", fu la risposta. "Novanta centesimi? E' orribile!".

"La chiesa ha forse protestato?" insistette Ernest.

"La chiesa lo ignora". Il vescovo appariva penosamente agitato.

"Eppure la chiesa ha ricevuto il comandamento: 'Pasci i miei agnelli!'" disse Ernest, con amara ironia. Poi, riprendendosi:

"Perdoni la mia ironia, monsignore, ma c'è da meravigliarsi se perdiamo la pazienza con voi? Avete forse protestato presso le vostre congreghe capitalistiche per l'impiego dei fanciulli nelle filande di cotone del Sud? (8). Bimbi di sei o sette anni lavorano tutte le notti, in turni di dodici ore: non vedono mai la santa luce del giorno, e muoiono come mosche. I dividendi sono pagati con il loro sangue e con quel denaro si costruiscono chiese magnifiche nel New England, nelle quali voi predicate piacevoli banalità ai lustri e panciuti beneficiari di quei dividendi".

"Non sapevo", mormorò il vescovo, con un filo di voce e il viso pallido, come se soffrisse di nausea.

"E quindi non avete protestato, vero?".

Il vescovo fece un debole cenno di diniego.

"Così la chiesa tace oggi come tacque nel secolo diciottesimo".

Il vescovo non rispose e, per una volta tanto, Ernest non insistette oltre.

"E non dimentichi; ogni volta che un membro del clero protesta, lo si congeda".

"Questo non mi sembra giusto".

"Lei protesterebbe?".

"Fatemi vedere, nella vostra comunità, dei mali come quelli di cui ha parlato lei e io farò sentire la mia voce".

"Mi metto a sua disposizione per mostrarglieli", rispose tranquillamente Ernest. "Le farò fare un viaggio attraverso l'inferno".

"E io protesterò!". Il vescovo si era raddrizzato sulla sedia e il dolce viso gli si tese nella fiera durezza del guerriero. "La chiesa non rimarrà muta".

"Sarà congedato", lo avvertì Ernest.

"Le fornirò la prova del contrario", replicò l'altro. "Le dimostrerò che, se tutto ciò che dice è vero, la chiesa ha sbagliato per ignoranza; che tutto quanto c'è di orribile nella società industriale è dovuto all'ignoranza della classe capitalistica. Essa rimedierà al male appena riceverà il messaggio che la chiesa avrà il dovere di comunicarle".

Ernest scoppiò a ridere, una risata così brutale che mi sentii portata a prendere le difese del vescovo.

"Ricordi", dissi, "che lei vede un solo lato della medaglia. Anche se lei non ci crede capaci di bontà, sappia che c'è molto di buono in noi. Il vescovo Morehouse ha ragione. I mali dell'industria, per quanto terribili, sono dovuti all'ignoranza. Le diversità delle condizioni sociali sono troppo profonde".

"L'indiano selvaggio è meno crudele e meno implacabile della classe capitalistica", rispose lui, e in quel momento l'odiai.

"Lei non ci conosce, non siamo né crudeli né implacabili".

"Lo dimostri", disse lui, in tono di sfida.

"Come posso dimostrarlo... a lei?". Cominciavo a irritarmi.

Scosse il capo. "Non pretendo che lo dimostri a me; le chiedo di dimostrarlo a se stessa".

"So cosa pensare in proposito".

"Non sa proprio nulla", rispose lui, brutalmente.

"Andiamo, andiamo, figlioli", disse mio padre, conciliante.

"Me ne infischio..." cominciai, indignata; ma lui mi interruppe.

"Credo che lei abbia dei capitali investiti nelle filande Sierra; o che li abbia suo padre, il che è lo stesso".

"Cosa c'entra questo?" esclamai.

"Non molto", rispose lui, parlando lentamente, "solo che l'abito che indossa è macchiato di sangue. Le travi del tetto che vi ripara, gocciolano del sangue di fanciulli e di giovani validi e forti. Mi basta chiudere gli occhi per sentirlo colare goccia a goccia, intorno a me".

E accompagnando la parola con il gesto, si allungò nella poltrona e chiuse gli occhi.

Scoppiai in lacrime, per la mortificazione e la vanità ferita. Non ero mai stata trattata tanto brutalmente in vita mia. Anche il vescovo e mio padre erano a disagio e turbati. Cercarono di sviare la conversazione rivolgendola verso un argomento meno scottante, ma Ernest aprì gli occhi, mi guardò e volse altrove lo sguardo. La piega della sua bocca era severa, e il suo sguardo anche; non c'era nei suoi occhi il minimo lampo di gaiezza. Cosa stesse per dire, quale nuova crudeltà stesse per infliggermi, non l'avrei mai saputo, perché in quell'istante un uomo che passava sul marciapiede si fermò a guardarci. Era un giovane robusto, vestito poveramente, che portava sulla schiena un pesante carico di cavalletti, sedie e parafuochi di bambù e panno. Guardava la casa come se non osasse entrare per tentare di vendere la sua merce.

"Quell'uomo si chiama Jackson", disse Ernest.

"Robusto com'è," osservai seccamente, "dovrebbe lavorare, invece di fare il merciaio ambulante" (9).

"Osservi la sua manica sinistra", disse Ernest gentilmente.

Gettai uno sguardo e vidi che la manica del giovane era vuota .

"Anche da quel braccio scorre un po' del sangue che sentivo gocciolare dal vostro soffitto", continuò lui, con lo stesso tono dolce e triste. "Ha perduto il braccio nella filanda Sierra, e voi l'avete gettato sul lastrico a morire come un cavallo mutilato.

Dicendo voi, intendo il direttore e le altre persone impiegate da voi e gli altri azionisti che dirigono per voi le filande. Fu una disgrazia, dovuta allo zelo di quell'operaio per far risparmiare qualche dollaro all'azienda. Il braccio gli venne preso dal cilindro dentato della cardatrice. Avrebbe potuto lasciar passare il sassolino che aveva notato fra i denti della macchina, avrebbe spezzato una doppia fila di punte; volle invece toglierlo e il braccio gli si impigliò e fu sfracellato, dalla punta delle dita alla spalla. Era notte: nella filanda si facevano turni straordinari di lavoro. In quel trimestre fu pagato un forte dividendo. Quella notte Jackson lavorava da molte ore e i suoi muscoli avevano perduto la solita vivacità: per questo venne afferrato dalla macchina. Ha moglie e tre bambini".

"E che cosa fece la società per lui?" chiesi.

"Assolutamente niente. No, mi scusi, qualcosa ha fatto. E' riuscita a far respingere l'istanza per danni e interessi che l'operaio aveva presentato quando uscì dall'ospedale. La società ha degli avvocati abilissimi".

"Non ha detto tutto", feci con convinzione, "e forse non conoscete tutta la storia. Forse quell'uomo era un insolente".

"Insolente! Ah! Ah!". Quella sua risata era mefistofelica. "Gran dio, insolente col braccio sfracellato! Era un servitore dolce e umile, e non risulta che sia mai stato un insolente".

"Ma il tribunale", insistetti, "non avrebbe deciso in suo sfavore se non ci fosse sotto qualcos'altro".

"Il principale avvocato consulente della società è il colonnello Ingram, un uomo di legge, molto abile".

Mi guardò con aria grave per un momento, quindi continuò:

"Voglio darle un consiglio, signorina Cunnigham: fare un'inchiesta sul caso Jackson".

"Avevo già deciso di farlo", risposi, gelida.

"Benissimo", ribatté lui, allegro. "E le dirò dove potrà trovare il nostro uomo. Ma fremo al pensiero della conclusione alla quale arriverà grazie al braccio di Jackson".

E così il vescovo e io accettammo la sfida di Ernest. Poco dopo se ne andarono, insieme, lasciandomi scossa per l'ingiustizia fatta alla mia classe sociale e a me stessa. Quel giovanotto era un bruto. Lo odiavo, in quel momento, e mi consolavo al pensiero che la sua condotta era come bisognava aspettarsela da un membro della classe operaia.

NOTE:

1) A quei tempi, la distinzione fra le famiglie natie nel paese e quelle venute di fuori, era nettamente e gelosamente segnata.

2) Questo libro continuò a essere stampato clandestinamente durante i tre secoli del Tallone di Ferro. Parecchie copie delle sue diverse edizioni si trovano nella biblioteca nazionale di Ardis.

3) A quel tempo, gruppi di uomini rapaci controllavano tutti i mezzi di trasporto, per il cui uso imponevano tariffe al pubblico.

4) Queste manifestazioni erano molto diffuse in quei tempi di caos e anarchia. A volte gli operai rifiutavano di lavorare, altre volte i capitalisti rifiutavano di lasciare lavorare gli operai.
Nella violenza e nel disordine di questi dissidi, molta proprietà veniva distrutta e molte vite umane perivano. Tutto questo oggi ci sembra inconcepibile come inconcepibile ci risulterebbe l'altra abitudine di quel tempo, quella dei mariti di fracassare mobili quando litigavano con le mogli.

5) "Proletariato" - dal latino "proletarius", nome dato nel censimento di Servio Tullio a coloro che per lo stato contavano soltanto perché facevano figli ("proles"); in altre parole, non avevano alcuna importanza né per censo né per condizione sociale né per eccezionale abilità.

6) Candidato socialista al governatorato della California nelle elezioni dell'autunno del 1906. Inglese di nascita e autore di numerosi testi di economia politica e filosofia, era uno dei dirigenti socialisti del tempo.

7) Non esiste pagina della storia più orribile di quella del trattamento dei fanciulli e delle donne schiavi nelle fabbriche inglesi durante la seconda metà del secolo diciottesimo dell'era cristiana. E in quegli inferni industriali nacquero parecchie delle più offensive fortune dell'epoca.

8) Everhard avrebbe potuto trovare un esempio ancor più probante di esplicita difesa della schiavitù da parte della chiesa del Sud prima della cosiddetta "Guerra di secessione". Diamo qui alcuni di questi esempi tratti da documenti del tempo. Nell'A.D. 1835, l'Assemblea Generale della Chiesa Presbiteriana decise che "la schiavitù è riconosciuta nel Vecchio come nel Nuovo Testamento e non è condannata dall'autorità divina". La Charleston Baptist Association, nello stesso anno, affermava in un suo indirizzo che "Il diritto dei padroni di disporre del tempo dei propri schiavi fu chiaramente riconosciuto dal Creatore di tutte le cose, il quale è certamente libero di investire del diritto di proprietà su qualunque oggetto chiunque a Lui piaccia". ll reverendo E. D. Sirnon, dottore in teologia e professore al Collegio Metodistico di Randolph-Macon, in Virginia, scrisse: "Ci sono dei passi nelle Sacre Scritture che ribadiscono inequivocabilmente il diritto di proprietà degli schiavi, con tutte le conseguenze derivanti da tale diritto. E' chiaramente stabilito il diritto di acquistarne e di venderne. Nell'insieme, dunque, sia che si consulti la politica ebraica istituita da Dio stesso, o l'uniforme opinione e la pratica del genere umano in tutti i tempi, o i comandamenti del Nuovo Testamento e la legge morale, siamo portati a concludere che la schiavitù non è immorale. Stabilito il fatto che i primi schiavi africani furono legalmente condotti in schiavitù, ne consegue necessariamente il diritto di mantenere anche i loro figli in servitù. Pertanto, la schiavitù esistente in America è fondata sul diritto".

Nessuna meraviglia che un simile linguaggio sia stato tenuto dalla Chiesa, una o due generazioni dopo, in merito alla difesa della proprietà capitalistica. Nel grande museo di Asgard, esiste un libro intitolato "Saggi d'applicazione", opera di Henry Van Dyke.

Il libro venne pubblicato nell'anno 1905 dell'Era Cristiana, ed è un buon esempio di ciò che Everhard avrebbe chiamato mentalità borghese. Si noti la somiglianza tra l'affermazione della Charleston Baptist Association citata sopra, e la seguente di Van Dyke, settant'anni dopo: "La Bibbia insegna che Dio possiede il mondo. Distribuisce a tutti gli uomini secondo il suo piacere, conformemente alle leggi generali".

9) Esistevano, a quel tempo, migliaia di poveri merciai ambulanti, che offrivano di porta in porta la loro mercanzia. Era un vero spreco di energia. I sistemi di distribuzione erano confusi e irrazionali, come tutto l'insieme del sistema sociale.

Capitolo 3

IL BRACCIO DI JACKSON

Non immaginavo neppure la parte importante che il braccio di Jackson avrebbe avuto nella mia vita. Lui personalmente, quando riuscii a trovarlo, non mi fece una grande impressione. Lo scovai in una baracca (1) dalle parti della baia, al limite della palude.

Tutt'intorno, c'erano pozze d'acqua stagnante, la cui superficie era coperta da una schiuma verde e dall'aspetto putrido; e se ne levavano miasmi intollerabili.

Scoprii che era veramente la persona umile e mite che mi era stata descritta. Era tutto intento a un lavoro di impagliatura, e mentre parlavo con lui, lavorava senza smettere. Nonostante la sua rassegnazione, colsi nella sua voce come un senso di amarezza nascente, quando mi disse:

"Avrebbero potuto impiegarmi come guardiano notturno, almeno" (2).

Riuscii a cavar poco da lui: aveva un'aria ebete che contrastava con la destrezza mostrata nel lavorare con la sua unica mano.

Questo mi suggerì una domanda:

"Come le è successo di restare impigliato col braccio nella macchina?".

Mi guardò come trasognato. Rifletté, poi scosse il capo.

"Non so, non so come sia accaduto".

"Negligenza?".

"No, non la chiamerei negligenza: facevo delle ore supplementari ed ero un po' stanco. Ho lavorato diciassette anni in quella filanda, e ho notato che gli incidenti capitano proprio poco prima del fischio della sirena (3). Scommetterei che ne accadono più nell'ora che precede l'uscita, che nel resto della giornata. Dopo aver lavorato per parecchie ore senza interruzione, si è meno attenti. Lo so perché ne ho visti tanti fatti a pezzi, affettati o sfracellati".

"Molti?"

"Centinaia. E anche bambini".

Tranne alcuni particolari raccapriccianti, il racconto che Jackson mi fece dell'incidente fu lo stesso di quello che avevo già sentito. Quando gli chiesi se nella manovra della macchina non avesse per caso infranto qualche norma di sicurezza, scosse il capo.

"Staccai la cinghia con la destra", disse poi, "allungai quindi la sinistra per togliere la pietra senza verificare se la cinghia era staccata. Credevo di averlo fatto con la destra - invece no. Non del tutto, almeno; avevo agito troppo in fretta. E il braccio mi venne maciullato".

"Dovette sentire un dolore atroce", dissi, con simpatia.

"Lo stritolamento delle ossa non fu... piacevole", fu la sua risposta.

Quanto alla citazione e al giudizio per danni, aveva le idee un po' confuse. La sola cosa chiara, per lui, era che non aveva ottenuto nessun risarcimento. Secondo lui, la decisione contraria del tribunale era dovuta alla testimonianza dei capi-operai e del direttore che, come s'espresse lui, "non dissero quello che avrebbero dovuto dire". Decisi pertanto di rivolgermi anche a loro.

Una cosa era chiara, che Jackson era ridotto in condizioni pietose. Sua moglie era malata e quel mestiere di merciaio ambulante non gli faceva guadagnare abbastanza da sfamare la famiglia. Era in arretrato con la pigione, e il figlio maggiore, un ragazzo di undici anni, lavorava già nella filanda.

"Potevano darmi il posto di guardiano notturno", furono le sue ultime parole, mentre me ne andavo.

Dopo un colloquio con l'avvocato che aveva patrocinato la causa di Jackson, e con il direttore e i due capi-operai che avevano deposto come testimoni, cominciai a rendermi conto che dopotutto Ernest aveva ragione.

A prima vista giudicai l'avvocato un essere debole e inetto, e non mi stupii che Jackson avesse perso la causa. Il mio primo pensiero fu che in fondo aveva avuto ciò che si meritava per aver scelto un difensore simile. Poi mi ritornarono alla mente le affermazioni di Ernest: "La società ha degli avvocati abilissimi", e l'altra: "Il colonnello Ingram è un uomo di legge molto abile". Conclusi allora che, naturalmente, la società era in grado di pagarsi difensori migliori di quelli che poteva permettersi un povero diavolo di operaio come Jackson. Ma questo era un particolare secondario; a mio avviso, doveva esserci una ragione ben valida se Jackson aveva perso la partita.

"Come mai perse la causa?" domandai.

L'avvocato parve, per un attimo, perplesso e preoccupato; e provai pietà per quel disgraziato. Poi cominciò a lamentarsi. Penso che fosse un piagnone nato. Era un uomo sconfitto fin dalla culla. Si lamentò dei testimoni, la cui deposizione era stata favorevole solo alla parte avversa. Non era riuscito a strappargli una sola parola a favore di Jackson. Sapevano bene da quale parte stava la pagnotta. Quanto a Jackson, era uno stupido: si era lasciato intimidire e confondere dal colonnello Ingram, che era abilissimo nei controinterrogatori. Lo aveva confuso con le sue domande, e gli aveva strappato delle risposte rovinose.

"Intende dirmi forse che Jackson stava dalla parte della ragione e, ciò nonostante, perse?" gli domandai, esitando. "Vuole forse insinuare che non c'è giustizia alla corte del giudice Caldwell?".

Il piccolo avvocato mi guardò fisso per un istante; poi ogni traccia di bellicosità scomparve dal suo volto.

Riprese a lamentarsi. "Avevo poche possibilità. Si fecero beffe di Jackson, e di me con lui. Quale probabilità di riuscita avevo? Il colonnello Ingram è un grande avvocato. Se non fosse un giurista di prim'ordine, crede che avrebbe in mano le Filande Sierra, il Sindacato Fondiario di Erston, la Berkeley Consolidated, l'Oakland, la San Leandro e la Società Elettrica Pleasanton? E' un legale di società, e questi legali non sono pagati per essere stupidi. Perché mai le Filande Sierra, solo esse, gli danno ventimila dollari l'anno? Perché, capirà bene, agli occhi degli azionisti, egli vale quella somma. Io, non valgo tanto. Se valessi tanto non sarei uno spostato, un morto di fame, costretto ad accettare casi come quello di Jackson. Cosa crede che avrei guadagnato anche se avessi vinto il processo?".

"Penso che l'avrebbe spogliato (4), molto probabilmente".

"Naturalmente", esclamò, irritato. "Anch'io devo vivere" (5).

"Ma ha moglie e figli!" ribattei.

"Io pure ho moglie e figli. E non c'è nessuno al mondo, oltre me, che si preoccupi perché non muoiano di fame!".

Il viso gli si addolcì, improvvisamente. Aprì la cassa dell'orologio e mi mostrò le fotografie di una donna e due bambine.

"Guardi, eccole. Abbiamo avuto brutti momenti, brutti. Avevo intenzione di mandarle in campagna se avessi vinto quel processo.

Non stanno bene qui, ma non ho i mezzi per mandarle altrove".

Quando mi alzai per congedarmi, ricominciò il suo piagnisteo:

"Non ho avuto un briciolo di fortuna! Il colonnello Ingram e il giudice Caldwell sono amicissimi. Non dico che quell'amicizia avrebbe influito sulla causa, se avessi ottenuto una deposizione come si deve da parte dei testimoni, ma devo aggiungere, tuttavia, che il giudice Caldwell e il colonnello Ingram frequentano la stessa loggia, lo stesso circolo. Abitano nello stesso quartiere, dove io non posso vivere, le loro mogli sono sempre insieme. E fra loro è uno scambio continuo di partite di whist, e cose del genere".

"E tuttavia lei crede che Jackson avesse il diritto dalla parte sua?".

"Non lo credo: ne sono sicuro. In principio credetti persino che avesse probabilità di vincere, ma non lo dissi a mia moglie per non darle inutili speranze. Era ossessionata dall'idea di un soggiorno in campagna. E' stata abbastanza delusa anche così".

A Peter Donnelly, uno dei capi-operai che avevano deposto al processo, domandai: "Perché non richiamò l'attenzione sul fatto che Jackson era stato ferito perché aveva cercato di evitare un guasto alla macchina?".

Rifletté a lungo prima di rispondermi; poi si guardò attorno, con aria sospetta e disse:

"Perché ho una moglie e i tre più bei figli che si possa immaginare, per questo".

"Non capisco".

"In altre parole, perché sarebbe stato imprudente".

"Intende dire...".

M'interruppe con foga:

"Voglio dire quello che dico. Da molti anni lavoro come filatore.

Ho cominciato da bambino ai fusi, e da allora non ho più smesso di lavorare. Lavorando duro, sono giunto alla posizione attuale, privilegiata. Sono capo-operaio, e dubito che, se stessi affogando, un solo operaio della filanda mi porgerebbe una mano.

Un tempo facevo parte del sindacato, ma durante due scioperi mi schierai dalla parte del padrone, e così mi chiamarono 'crumiro'.

Non uno solo di loro berrebbe una birra con me se gliela offrissi.

Guardi le cicatrici che ho sulla testa: mi hanno colpito con dei mattoni. Non c'è apprendista che non maledica il mio nome. Il mio solo amico è la società. Non è mio dovere sostenerla, ma essa è il mio pane, il mio companatico e la vita dei miei bambini. Ecco perché non ho detto nulla".

"Jackson ebbe forse qualche colpa dell'incidente?" chiesi.

"Avrebbe dovuto ottenere il risarcimento dei danni. Era un buon operaio che non aveva mai dato noia a nessuno".

"Non era dunque libero di dire la verità?" aggiunsi, in tono solenne.

Scosse il capo.

"La verità, tutta la verità e nient'altro che la verità?" ripetei con tono solenne.

Il suo viso si contrasse ancora; lo sollevò, non verso di me, ma verso il cielo.

"Mi lascerei bruciare anima e corpo, a fuoco lento, nell'inferno eterno per amore dei miei figli", rispose.

Henry Dallas, il direttore, era un tipo dal viso volpino che mi squadrò con insolenza e si rifiutò di parlare. Non riuscii a cavargli una sola parola sul processo e la deposizione dei testimoni. Ebbi miglior fortuna con l'altro capo-operaio, James Smith. Era un uomo dall'espressione dura, e provai una stretta al cuore vedendolo. Anche lui mi diede l'impressione di non essere un uomo libero, e durante la nostra conversazione mi accorsi che la sua intelligenza era superiore a quella della media degli uomini della sua specie. D'accordo con Peter Donnelly, disse che a Jackson avrebbero dovuto pagare almeno i danni, si spinse anche oltre, definendo fredda e spietata la decisione di gettare sul lastrico quel povero operaio dopo che era stato menomato dall'incidente. Aggiunse anche che gli incidenti sul lavoro erano frequenti nelle filande e che le società si battevano fino all'ultimo per risparmiare il pagamento dei danni.

"Rappresentano migliaia di dollari l'anno per gli azionisti", disse, e mentre parlava mi ricordai dell'ultimo dividendo pagato a mio padre e che era servito per comprare un bell'abito per me e dei libri per lui. Ricordai che Ernest aveva detto che il mio vestito era macchiato di sangue, e sentii la mia carne fremere sotto gli abiti.

"Nella sua deposizione non fece rilevare che Jackson fu vittima di quell'incidente perché volle evitare un guasto alla macchina?".

"No", rispose, e strinse le labbra amaramente. "Dichiarai che Jackson era stato ferito per negligenza e noncuranza, e la società non era responsabile".

"Ci fu dunque negligenza da parte di Jackson?".

"Si può chiamarla come si vuole. Il fatto è che quando ha lavorato parecchie ore consecutive, un uomo è stanco".

Quell'uomo cominciava a interessarmi. Era certamente un tipo poco comune.

"Lei è più istruito della maggior parte degli operai", osservai.

"Ho frequentato la scuola superiore", rispose. "Mi pagavo gli studi lavorando come uomo delle pulizie. Volevo arrivare all'università, ma quando mio padre morì dovetti entrare a lavorare nella filanda. Volevo diventare naturalista", aggiunse, timidamente, come se avesse confessato una debolezza. "Adoro gli animali. Invece sono entrato in quella filanda. Promosso capo- operaio, mi sposai, poi ci fu la famiglia e... be', non fui più padrone di me stesso".

"Cosa intende dire?" domandai.

"Stavo spiegando perché al processo deposi a quel modo... seguii le istruzioni ricevute...".

"Da chi?".

"Dal colonnello Ingram... Fu lui a suggerire la deposizione che dovevo fare".

"E che fece perdere la causa a Jackson".

Annuì e il rossore invase il suo volto scuro.

"E Jackson aveva moglie e due bambini da mantenere".

"Lo so," disse, tranquillamente, ma il viso gli si oscurò ancor più.

"Dica", continuai, "fu facile per lei, da quello che era quando frequentava la scuola superiore, trasformarsi in un uomo capace di una cosa simile?".

La sua pronta collera mi spaventò. Vomitò (6) una bestemmia sconcertante, e strinse il pugno come per colpirmi.

"Mi scusi", disse subito dopo. "No, non è stato facile... E ora credo che farebbe meglio ad andarsene. Ha saputo tutto quello che voleva sapere. Ma lasci che l'avverta di una cosa. Non le servirà a niente ripetere ciò che le ho detto. Negherei tutto, visto che non ci sono stati testimoni. Negherei fino all'ultima parola, e se fosse necessario, negherei anche sul banco dei testimoni, sotto giuramento".

Dopo questo colloquio, andai a trovare mio padre nel suo studio presso l'Istituto di Chimica, dove incontrai Ernest. Fu una sorpresa; mi accolse con il suo sguardo ardito, la sua stretta di mano forte e sicura e quello strano miscuglio di sicurezza e goffaggine che era tipico di lui. Sembrava che avesse dimenticato il nostro ultimo incontro e la sua atmosfera burrascosa; ma io non ero disposta a dimenticare.

"Ho approfondito il caso Jackson", dissi, bruscamente.

Subito si mostrò attento e interessato, e attese che continuassi, benché leggessi nei suoi occhi la certezza che le mie convinzioni precedenti erano scosse.

"Credo che abbia subìto un duro torto", ammisi. "Io... io... credo che un po' del suo sangue goccioli effettivamente dal nostro soffitto".

"Naturalmente", rispose, "se Jackson e tutti i suoi compagni fossero trattati più umanamente, i dividendi sarebbero minori".

"Non sarà più un piacere per me mettermi un bel vestito", aggiunsi.

Mi sentivo umile e contrita, ma avvertivo anche come una dolce sensazione a immaginare Ernest come una specie di confessore. In quel momento, come sempre, la sua forza mi seduceva. Mi sembrava che risplendesse come una promessa di pace e protezione.

"Lo stesso proverebbe vestendosi di tela di sacco", disse, con aria grave. "Ci sono, come sa, filande di juta, dove succedono le stesse cose. Dappertutto è lo stesso. La vostra vantata civiltà è fondata sul sangue, imbevuta di sangue, e né voi né alcun altro può sfuggire alla macchia rossa. Con chi ha parlato?".

Gli raccontai tutto.

"Nessuno di loro è libero delle proprie azioni, tutti sono incatenati all'implacabile macchina industriale. E il più doloroso di questa tragedia è che sono vincolati da legami sentimentali: i figli, quelle giovani vite che per istinto essi proteggono; e questo istinto è più forte della loro morale. Anche mio padre ha mentito, rubato, commesso ogni sorta di azioni disonorevoli per darci un pezzo di pane, a me e ai miei fratelli e sorelle. Era uno schiavo della macchina, che gli spezzò la vita, stremandolo fino alla morte".

"Ma lei almeno", lo interruppi, "è un uomo libero".

"Non completamente", replicò. "Non sono vincolato da legami sentimentali. Ringrazio il cielo di non avere bambini, anche se li amo molto. Se però mi sposassi, non oserei averne".

"E' certo una pessima tesi", esclamai.

"Lo so", disse lui triste. "Ma è una tesi opportunista. Sono rivoluzionario, e la mia è una vocazione pericolosa".

Risi, incredula.

"Se tentassi di penetrare di notte in casa di suo padre per rubargli i dividendi della Sierra, che farebbe?".

"Di notte ha una rivoltella sul comodino accanto al letto.

Probabilmente le sparerebbe addosso".

"E se io e qualche altro guidassimo un milione e mezzo di uomini (7) nelle case di tutti i ricchi, ci sarebbe una bella sparatoria, vero?".

"Sì, ma non lo farete".

"E' esattamente quello che vogliamo fare. E la nostra intenzione è di impossessarci non solo delle ricchezze che sono nella case, ma anche delle fonti di quelle ricchezze, tutte le miniere, le ferrovie, le officine, le banche e i negozi. Questa è la vera rivoluzione. E' una cosa molto pericolosa. E temo che il massacro sarà più grande di quanto immaginiamo. Ma, come dicevo, oggi nessuno è completamente libero. Siamo tutti presi nell'ingranaggio della macchina industriale. Ha scoperto infatti di essere presa anche lei nell'ingranaggio, come tutti quelli con cui ha parlato.

Ne interroghi altri, vada dal colonnello Ingram, perseguiti i giornalisti che non vollero parlare del caso Jackson sui giornali, e i direttori stessi dei giornali, e scoprirà che tutti sono schiavi della macchina industriale".

Poco più tardi, parlando con lui, gli feci appena una domanda sui rischi corsi dagli operai, e in cambio lui mi tenne una vera e propria lezione di statistica.

"Ma lo trova in tutti i libri", concluse. "Sono state raccolte le cifre, ed è definitivamente provato che gli infortuni, relativamente rari nelle prime ore del mattino, si moltiplicano rapidamente man mano che gli operai si stancano e perdono le loro energie muscolari e mentali.

Può darsi che lei ignori che suo padre ha una probabilità tre volte maggiore di un operaio di conservare la propria vita e i propri arti intatti. Ma le società di assicurazione lo sanno (8).

Esse chiedono a suo padre quattro dollari e rotti di premio annuale per una polizza di mille dollari, per la quale chiedono invece quindici dollari a un operaio".

"E lei?" domandai. E nel momento stesso in cui gli rivolgevo questa domanda, mi resi conto che provavo per lui abbastanza interesse.

"Oh, io! " fece con noncuranza. "Come rivoluzionario ho circa otto probabilità su una di essere ucciso o ferito. Ai chimici esperti che manipolano gli esplosivi, le società di assicurazione chiedono otto volte più di quanto chiedono agli operai. Credo che non vorrebbero assicurarmi affatto. Perché me lo chiede?".

Battei le palpebre e sentii una vampata salirmi al viso, non perché lui s'era accorto della mia ansia, ma perché io stessa l'avevo avvertita.

Proprio in quel momento entrò mio padre e si preparò per uscire con me. Ernest gli restituì dei libri che aveva preso in prestito e uscì per primo. Sulla soglia si voltò e mi disse:

"A proposito, intanto che sta turbando la sua tranquillità di spirito, e io faccio altrettanto col vescovo, potrebbe andare a trovare le signore Wickson e Pertonwaithe. Sa, credo, che i loro mariti sono i due principali azionisti della filanda. Come tutto il resto dell'umanità, quelle due donne sono vincolate alla macchina, ma al punto da starvi appollaiate sopra".

NOTE:

1) Termine con il quale venivano indicate certe case in rovina, cadenti, nelle quali gran parte dei lavoratori trovava ricovero a quel tempo. Pagando, invariabilmente, un affitto enorme, considerato il valore di quella casa, ai proprietari.

2) A quei tempi le ruberie erano incredibilmente comuni.

Tutti rubavano la proprietà agli altri. I dirigenti della Società rubavano legalmente o facevano legalizzare le loro ruberie, mentre le classi più povere rubavano illegalmente. Nulla, che non fosse custodito, era sicuro. Un numero enorme di uomini era impiegato come guardiano per proteggere la proprietà. Le case dei benestanti erano depositi di sicurezza, sotterranei e fortezze insieme.

L'appropriarsi di cose personali altrui, che osserviamo oggi nei nostri figli, è considerato come un retaggio istintivo del caratteristico furto comunissimo in quei tempi.

3) I lavoratori erano chiamati al lavoro e rimessi in libertà da fischi laceranti e snervanti di sirene a vapore.

4) La funzione dei legali delle società anonime era di servire, con metodi corrotti, le tendenze di queste a arraffare denaro a ogni costo. E' noto che Theodore Roosevelt, a quel tempo presidente degli Stati Uniti disse, nell'A. D. 1905, nel discorso d'apertura dell'anno accademico all'Università di Harvard: "Tutti noi sappiamo che, come stanno attualmente le cose, molti dei più influenti e meglio retribuiti membri del foro, in ogni centro di ricchezza, si dedicano particolarmente alla ricerca del modo più audace e ingegnoso che permetta ai loro ricchi clienti, individui o società, di aggirare le leggi fatte per regolare, nell'interesse pubblico, l'uso delle grandi ricchezze".

5) Esempio tipico della lotta cruenta che investiva l'intera società. Gli uomini si depredavano a vicenda, come lupi voraci. I più grandi divoravano i più piccoli, e nel branco sociale Jackson era uno dei lupi più trascurabili e piccoli.

6) Diciamo, per spiegare non la bestemmia di Smith ma il verbo energico adoperato da Avis, che quella brutalità di linguaggio, comune a quell'epoca, esprimeva perfettamente la bestialità della vita che si conduceva allora, vita di "bruti" invece che di essere umani.

7) Allusione al totale di voti ottenuti dalla lista socialista nelle elezioni del 1910. L'aumento progressivo di questo totale indica la rapida crescita del partito della rivoluzione negli Stati Uniti: 2068 voti nel 1888; 127713 nel 1902; 435040 nel 1904; 1108427 nel 1908 e 1688211 nel 1910.

8) In quella lotta costante, nessuno, per quanto ricco, poteva essere sicuro del futuro. Appunto per assicurare il benessere della famiglia, gli uomini inventarono le assicurazioni.

Questo sistema che nel nostro tempo illuminato sembra assurdo e ridicolo, era allora una cosa seria. La cosa più buffa è che i fondi delle compagnie di assicurazioni erano di frequente svaligiati e dissipati dalle persone stesse incaricate di amministrarli.

Capitolo 4

GLI SCHIAVI DELLA MACCHINA

Più pensavo al braccio di Jackson, più ero scossa. Ero stata messa di fronte alla realtà; per la prima volta vedevo la vita. Gli anni universitari, lo studio e l'educazione che avevo ricevuto, restavano fuori della vera vita. Avevo imparato solo delle teorie sulla vita e la società, cose che fanno un bellissimo effetto sulla carta, ma solo ora vedevo la vita come essa è realmente. Il braccio di Jackson era un fatto, e nella mia coscienza risuonavano ancora le parole di Ernest: "E' un fatto, amico, un fatto inconfutabile".

Ma che tutta la nostra società fosse fondata sul sangue, mi sembrava mostruoso, impossibile. E tuttavia c'era Jackson, e non potevo cancellarlo. Il mio pensiero ritornava continuamente a lui, come la calamita verso il polo. Era stato trattato in modo abominevole. Non gli avevano pagato il suo sangue onde ricavarne un più grosso interesse. Conoscevo almeno una ventina di famiglie agiate e soddisfatte, che incassando i loro dividendi prosperavano, per la loro parte, sul sangue di Jackson. Ma se la società poteva seguire il suo corso senza curarsi dell'orribile trattamento inflitto a un uomo, non era dunque probabile che molti altri fossero stati trattati allo stesso modo? Ricordavo ciò che Ernest aveva detto delle donne di Chicago, che lavoravano per novanta centesimi di dollaro la settimana, e dei bambini schiavi nelle filande di cotone nel Sud. E mi sembrava di vedere le loro povere mani scarne, dissanguate, che tessevano la stoffa di cui era fatto il mio abito; poi, ritornando col pensiero alle filande Sierra e ai dividendi pagati, vedevo il sangue di Jackson sulle mie mani. Non potevo sfuggire a quell'uomo: ormai era oggetto di tutte le mie meditazioni...

In fondo all'animo, avevo l'impressione di essere sull'orlo di un precipizio; mi aspettavo qualche nuova terribile rivelazione della vita. E non ero la sola: tutti i miei familiari stavano per rimanerne sconvolti; prima di tutti, mio padre. L'influsso di Ernest su di lui era per me evidentissimo. Poi, il vescovo Morehouse, che l'ultima volta che l'avevo visto mi era parso un uomo malato: era in uno stato di estrema tensione nervosa e nei suoi occhi c'era un orrore indefinibile. Da quel poco che appresi capii che Ernest aveva mantenuto la promessa di fargli fare un viaggio attraverso l'inferno; ma non riuscii a sapere quali scene diaboliche gli fossero passate davanti agli occhi, perché era troppo agitato per parlarne.

A un certo punto, colpita dallo sconvolgimento del mio piccolo mondo e dell'universo intero, conclusi che Ernest ne era la causa e pensai: "Eravamo così felici e tranquilli prima della sua comparsa!". Ma subito dopo capii che tale pensiero era un tradimento della realtà e Ernest mi apparve trasfigurato in apostolo della verità: con gli occhi scintillanti e la fronte intrepida d'un arcangelo che si batte per il trionfo della luce e della giustizia, per la difesa dei poveri, dei derelitti e degli oppressi. E davanti a me si presentò un'altra visione: quella di Cristo. Anche Lui aveva preso le difese dell'umile e dell'oppresso contro i poteri stabiliti dei sacerdoti e dei farisei. Ricordai la Sua morte sulla croce, e il cuore mi si strinse di angoscia al pensiero di Ernest. Era anche lui destinato al martirio, lui con quel suo accento di lotta, la sua bella virilità?

E, immediatamente, capii che l'amavo. Mi struggevo dal desiderio di consolarlo. Pensavo alla sua vita triste, meschina e dura.

Pensai a suo padre, che per lui aveva mentito e rubato e si era consumato di lavoro sino alla morte. E a lui che cominciava a dieci anni a lavorare nella filanda. Il cuore mi si gonfiava del desiderio di prenderlo fra le braccia, di posare la sua testa sul mio petto, la sua testa stanca di tanti pensieri, e di dargli un istante di riposo, un po' di conforto e di oblìo, un attimo di tenerezza.

Incontrai il colonnello Ingram a un ricevimento di ecclesiastici.

Lo conoscevo da anni e feci dunque in modo di attirarlo dietro alcune alte palme e altre piante in vaso, in un angolo, dove, senza che potesse sospettare, si trovò come preso in una trappola.

Cominciò col dispensarmi le solite galanterie e spiritosaggini; era sempre stato un uomo dai modi piacevoli, pieno di diplomazia, tatto, riguardo, e formalmente la persona più distinta della nostra società. Accanto a lui, persino il venerabile preside dell'università risultava goffo e impacciato.

Nonostante queste sue qualità, scoprii tuttavia che il colonnello Ingram era nelle stesse condizioni dei meccanici analfabeti, con i quali avevo parlato. Non era un uomo libero: anche lui era legato alla ruota. Non dimenticherò mai la trasformazione che avvenne in lui quando avviai il discorso sul caso Jackson. Il suo sorriso gaio svanì come per incanto, e un'espressione spaventosa sfigurò all'istante i suoi lineamenti d'uomo ben educato. Provai lo stesso timore provato davanti all'accesso di collera di James Smith. Non bestemmiò: questa l'unica differenza fra lui e l'operaio. Godeva la fama di uomo di spirito, ma per il momento il suo spirito era in rotta. Inconsciamente, cercava a destra e a sinistra una via d'uscita, ma io lo tenevo come in una trappola.

Oh, quel nome, Jackson, lo faceva soffrire! Perché avevo avviato un simile discorso? Lo scherzo gli sembrava privo di spirito, segno di cattivo gusto e di mancanza di tatto da parte mia. Non sapevo forse che nella sua professione i sentimenti personali non hanno alcun valore? Lui li lasciava a casa, quando andava in ufficio, dove non ammetteva che i sentimenti professionali.

"A Jackson spettava un'indennità?" gli chiesi.

"Certamente... almeno, il mio parere personale è che ne aveva diritto. Ma ciò non ha nessun rapporto con l'aspetto legale della cosa".

Cominciava a ritrovare il suo spirito smarrito.

"Mi dica, colonnello, la legge non ha alcun rapporto col diritto, la giustizia, il dovere?".

"Il dovere... il dovere... Bisognerebbe cambiare la prima sillaba della parola", rispose, con un sorriso.

"Il potere?".

Annuì. "E tuttavia è con la legge che dovremmo ottenere giustizia?".

"E il paradosso è che ce la rende".

"Questa è un'opinione professionale, vero?".

Avvampò; avvampò letteralmente e di nuovo cercò una via di scampo; ma io gli bloccavo la strada e non mostravo intenzione di muovermi.

"Mi dica", continuai, "quando si abbandonano i propri sentimenti personali per quelli professionali, non si compie quello che potrebbe essere definito una specie di autolesionismo spirituale?".

Non ebbi risposta. Il colonnello era fuggito, ingloriosamente, rovesciando una palma nella fuga.

In seguito provai con i giornali. Scrissi un resoconto spassionato e obiettivo del caso Jackson. Mi astenni dall'esporre le persone con cui avevo parlato, anzi, non feci neppure alcun cenno a esse.

Raccontai i fatti come erano accaduti, ricordai i lunghi anni durante i quali Jackson aveva lavorato alla filanda, il suo tentativo di evitare un guasto alla macchina, l'incidente e la sua attuale e miserabile condizione. Con solidarietà perfetta, i tre quotidiani e i due settimanali locali respinsero il mio scritto.

Riuscii ad avvicinare Percy Layton, un giovane laureato che s'era dato al giornalismo e a quel tempo stava facendo il suo apprendistato presso il più autorevole dei tre quotidiani. Sorrise quando gli domandai perché i giornali avessero soppresso ogni notizia riguardante Jackson e il suo processo.

"Politica editoriale", disse poi. "Non ne sappiamo nulla noi, sono affari del direttore".

"Ma perché questa politica?" insistetti.

"Siamo tutt'uno con le industrie. Anche pagando il prezzo di un annuncio, anche pagando dieci volte la tariffa ordinaria, non si riuscirebbe a fare pubblicare quella informazione su nessun giornale, chi volesse farla passare di nascosto perderebbe il posto".

"E che dice della vostra politica? Mi sembra che la vostra funzione sia di deformare la verità, secondo gli ordini dei padroni, che a loro volta obbediscono ai capricci delle industrie".

"Io non c'entro in tutto questo". Per un attimo parve a disagio, poi il viso gli si rischiarò: aveva trovato una scappatoia.

"Personalmente, non scrivo mai nulla che non sia vero. Sono in regola con la coscienza. Certo avvengono molte cose ripugnanti nel corso di una giornata di lavoro, ma, capirà, questo fa parte della routine quotidiana", concluse con logica infantile.

"Però, lei spera di occupare un giorno il posto del direttore e di fare anche lei la sua politica, non è così?".

"Sarò già stato incallito dal tempo".

"Allora, visto che ancora non è del tutto incallito, mi dica cosa pensa, ora, della politica editoriale in generale".

"Non penso nulla", rispose, con vivacità. "Se si vuol fare strada nel giornalismo, non bisogna scalpitare eccessivamente. Questo, almeno, l'ho imparato". E scosse quel suo giovane capo.

"E la giustizia?".

"Lei non conosce il gioco. Tutto, naturalmente, è giusto, perché tutto finisce sempre bene, capisce?".

"Deliziosamente vago", mormorai, ma il cuore mi sanguinava per la sua giovanile sprovvedutezza, e avrei voluto invocare soccorso e scoppiare in lacrime.

Cominciavo a vedere al di là delle apparenze della società nella quale ero sempre vissuta, e scoprivo la terribile realtà nascosta.

Contro Jackson era stato ordito un tacito complotto, e cominciai ad avvertire un fremito di comprensione per l'avvocato piagnucolone che aveva sostenuto la causa in modo tanto miserevole. Ma quel complotto s'allargava sempre più e non era più diretto solo contro Jackson: era diretto contro tutti gli operai mutilati della filanda. E, se così era, perché non contro tutti gli operai di tutte le officine e delle industrie?

Se le cose stavano così, la società era bugiarda. Mi ritraevo inorridita davanti alle mie stesse conclusioni. Era troppo abominevole, troppo orribile, per essere vero. Eppure Jackson e il suo braccio, e quel sangue che colava dal nostro soffitto e mi macchiava l'abito, erano veri. I Jackson erano molti, ce n'erano centinaia nella sola filanda, come lui stesso aveva detto. Il suo ricordo, tutti questi pensieri, mi perseguitavano.

Andai a trovare il signor Wickson e il signor Pertonwaithe, i due maggiori azionisti delle Filande Sierra; ma, come gli operai al loro servizio, non riuscii a commuoverli. Scoprii che seguivano una morale superiore a quella del resto della società e che potrei chiamare la morale aristocratica, la morale dei padroni (1).

S'espressero in termini vaghi sulla loro politica, sulle loro capacità, che identificavano con la probità, e mi si rivolsero con tono paterno, condiscendenti di fronte alla mia giovinezza e inesperienza. Erano più irrecuperabili di tutti coloro che avevo avvicinato nel corso della mia inchiesta, convintissimi della rettitudine della loro condotta; al riguardo non potevano esserci né dubbio né discussione. Si credevano i salvatori della società, artefici della felicità delle masse, e fecero un quadro patetico delle sofferenze che la classe operaia avrebbe subìto senza il lavoro che loro e loro soltanto, con la propria saggezza, le procuravano.

Reduce dall'incontro con quei due saggi, vidi Ernest e gli raccontai della mia esperienza. Mi guardò con un'aria soddisfatta.

"Benissimo", disse. "Comincia a scoprire la verità da sola. La sua empirica generalizzazione è esatta. Nella macchina industriale nessuno è libero delle proprie azioni, tranne il grosso capitalista, e neppure lui lo è, se mi consente questo irlandesismo (2). I padroni, vede, sono del tutto certi di agire in modo giusto. Questa è l'assurdità che corona tutto l'edificio.

Sono così legati dalla loro natura umana, che non possono fare una cosa senza crederla buona. Hanno bisogno di una sanzione per le loro azioni. Quando vogliono intraprendere qualcosa, negli affari, s'intende, devono aspettare che nasca nel loro cervello una specie di concezione religiosa, filosofica o morale, della bontà di questa cosa. Dopodiché la realizzano senza accorgersi che il desiderio è padre del pensiero avuto. Qualsiasi cosa si prefiggano di fare, la sanzione non manca mai. Sono dei casuidici superficiali, dei gesuiti. Si sentono perfino autorizzati a fare il male purché ne risulti un bene. Una delle immagini più ridicole e assiomatiche create da loro è quella della loro superiorità, in saggezza ed efficienza, rispetto al resto dell'umanità. Partendo da questo punto di vista, si arrogano il diritto di ripartire pane e companatico a tutto il genere umano. Hanno perfino risuscitato la teoria del diritto divino dei re, dei re mercantili, nel loro caso (3).

Il punto debole della loro posizione sta nel fatto che sono semplicemente uomini d'affari. Non sono filosofi, non sono dei biologi o dei sociologi: se lo fossero, tutto procederebbe meglio, naturalmente. Un uomo d'affari che fosse nello stesso tempo versato in queste scienze, saprebbe più o meno cosa occorre all'umanità. Ma anche tolti dal loro dominio commerciale, questi signori sono stolti. S'intendono solo di affari. Non comprendono né il genere umano né il mondo, e tuttavia si erigono ad arbitri della sorte di milioni di affamati e di tutta la massa umana. La storia, un giorno gli farà una gran risata in faccia".

Preparata com'ero ad affrontare la signora Wickson e la signora Pertonwaithe, la conversazione che ebbi con loro non mi serbò alcuna sorpresa. Erano signore della migliore società (4).

Abitavano in sontuosi palazzi e avevano parecchie altre residenze, un po' dappertutto: in campagna, in montagna, sulle rive dei laghi e del mare. Una vera folla di servitori si affaccendava attorno a loro, e la loro attività sociale era straordinaria. Patrocinavano le università e le Chiese, e i pastori, in particolare, erano pronti a piegare le ginocchia davanti a loro (5). Erano due vere potenze, con tutto quel denaro a disposizione. Disponevano del potere di sovvenzionare il pensiero, come ben presto mi sarei resa conto, grazie agli insegnamenti di Ernest.

Imitavano i loro mariti, e si esprimevano con gli stessi termini vaghi intorno alla politica, ai doveri e alle responsabilità dei ricchi. Erano sviate dalla stessa morale dei loro mariti, la morale della loro classe, e ripetevano frasi sensazionali che non capivano neppure.

In più, quando dipinsi loro la deplorevole condizione della famiglia di Jackson, s'irritarono; e siccome mi stupivo perché non avevano offerto nessun aiuto volontario, dichiararono che non avevano bisogno di lezioni in fatto di doveri sociali. Quando chiesi loro, apertamente, di soccorrerlo, rifiutarono non meno apertamente. Lo strano è che espressero il loro rifiuto con parole quasi identiche, benché fossi andata da loro separatamente e l'una ignorasse che ero andata dall'altra. La loro comune risposta fu che erano ben felici di avere l'occasione di dimostrare, una volta per tutte, che non avrebbero mai premiato la negligenza e che non volevano, pagando per l'incidente, spingere i poveri a ferirsi volontariamente (6).

Ed erano sincere, quelle signore. Il doppio convincimento della loro superiorità di classe e della loro autorità personale, le inebriava. Trovavano nella loro morale di casta una sanzione per tutte le azioni che compivano. Nell'allontanarmi dallo splendido palazzo della Pertonwaithe, mi voltai a guardarlo ancora una volta e ricordai la frase di Ernest: che anche quelle donne erano legate alla macchina, ma in modo da esservi sedute proprio in cima.

NOTE:

1) Prima della nascita di Avis Everhard, John Stuart Mill scriveva nel suo saggio "Sulla Libertà": "Ovunque esiste una classe dominante, dagli interessi di questa classe e dai suoi sentimenti classisti ha origine gran parte della morale pubblica".

2) Le contraddizioni verbali, chiamate "bulls", furono per molto tempo un piacevole vizio degli antichi irlandesi.

3) I giornali del 1902 di quell'era cristiana, attribuiscono a George F. Baer, presidente dell'Anthracite Coal Trust, l'enunciazione di questo principio: "I diritti e gli interessi delle classi lavoratrici saranno protetti dai cristiani ai quali Dio, nella sua infinita sapienza, ha confidato gli interessi della proprietà in questo paese".

4) La parola "società" è qui usata in senso ristretto, secondo l'abitudine del tempo, per indicare i farfalloni dorati, i quali senza lavorare si concedevano tutti i godimenti. Gli uomini di affari e i lavoratori non avevano né il tempo né l'occasione per quel gioco di società, privilegio dei ricchi e dei fannulloni.

5) "Portate il vostro denaro infetto", era il sentimento esplicito della chiesa durante quel periodo.

6) Sulle colonne dell'"Outlook", rivista critica settimanale di quegli anni, alla data del 18 agosto 1906, è riferita la storia di un operaio che perse un braccio nelle stesse circostanze di Jackson.

Capitolo 5

GLI AMICI DELLO STUDIO

Ernest veniva spesso a casa nostra, attirato non solo da mio padre e dalle discussioni a tavola. Sin d'allora, mi lusingavo di avere anch'io una piccola parte in quelle sue visite, e non tardai molto a esserne certa. Perché non ci fu mai al mondo un innamorato come Ernest Everhard. Di giorno in giorno, il suo sguardo e la sua stretta di mano andarono facendosi più fermi e sicuri, se possibile, e la domanda che avevo visto spuntare nei suoi occhi diventò sempre più imperativa.

La mia prima impressione era stata sfavorevole, poi mi ero sentita attratta da lui. Quindi era seguito un moto di repulsione il giorno in cui aveva insultato la mia classe e me stessa, ma ben presto mi ero resa conto che non aveva per niente calunniato il mondo in cui vivevo, che tutto quanto aveva detto di duro e di amaro era vero; e più che mai mi avvicinai a lui. Divenne il mio oracolo. Ai miei occhi, strappava la maschera della società e mi lasciava intravedere certe verità incontestabili quanto spiacevoli.

No, non ci fu mai innamorato come lui. Una ragazza non vive fino a ventiquattro anni in una città universitaria senza avere esperienze d'amore. Ero stata infatti corteggiata da imberbi matricole, da professori attempati e da campioni di atletica e di foot-ball. Ma nessuno aveva condotto l'assalto come Ernest. Mi strinse fra le braccia prima che me ne accorgessi, e le sue labbra si posarono sulle mie prima che avessi avuto il tempo di protestare o resistere. Davanti alla sincerità del suo ardore, la dignità convenzionale e la riservatezza verginale risultavano ridicole. Persi l'equilibrio davanti al suo splendido impeto invincibile. Non mi fece nessuna dichiarazione: mi prese fra le braccia e diedi per scontato che ci saremmo sposati. In proposito non ci fu nessuna discussione. L'unica che ci fu sorse più tardi: sulla data di matrimonio.

Era inaudito, inverosimile, e tuttavia, come la sua famosa prova della verità, funzionò. Gli affidai la mia vita, e quella fiducia fu ben riposta. Tuttavia, durante i primi giorni del nostro amore, quando pensavo all'irruenza e all'impeto del suo amore, ero presa dal timore del futuro. Ma erano timori infondati; nessuna donna ebbe mai la fortuna di avere un uomo più dolce e più tenero.

Dolcezza e violenza si fondevano stranamente nella sua passione, sicurezza e goffaggine nel suo modo di fare. Da quel velo di goffaggine non si liberò mai, ed era deliziosa! Si comportava nel nostro salotto come un elefante che s'aggira tra porcellane (1).

Fu a quel tempo che gli ultimi miei dubbi sulla profondità del mio amore per lui svanirono (dubbi incoscienti per lo più). Al Circolo degli "Amici dello Studio", in una magnifica notte di battaglia in cui Ernest affrontò i padroni nel loro rifugio, ebbi la rivelazione del mio amore in tutta la sua pienezza. Il Circolo degli "Amici dello Studio" era il più raffinato di tutta la costa del Pacifico. Era stato fondato da Miss Brentwood, una vecchia zitella favolosamente ricca, che ne aveva fatto il proprio marito, la propria famiglia, il proprio giocattolo. I soci erano i più ricchi membri della società e le menti più capaci fra i ricchi, compreso, naturalmente, un numero esiguo di uomini di scienza, per dare all'insieme un tono intellettuale.

Il Circolo degli "Amici dello Studio" non disponeva di una propria sede: era un circolo speciale i cui membri si riunivano una volta al mese, in casa di uno di loro, per ascoltare una conferenza. Gli oratori erano di solito pagati, ma non sempre. Se un chimico di New York faceva una scoperta sul radium, per esempio, gli rimborsavano le spese del viaggio attraverso il continente americano e gli davano inoltre una forte somma per indennizzarlo del tempo perduto; e così facevano con l'esploratore di ritorno dalle regioni artiche o con i nuovi astri della letteratura e dell'arte. Nessun estraneo era ammesso a quelle riunioni, e "Gli Amici dello Studio" si erano proposti di non lasciar trasparire nulla delle loro discussioni sulla stampa, di modo che anche gli uomini di stato, se fossero intervenuti, e ce n'erano stati, e dei più grandi, avrebbero potuto esporre liberamente il proprio pensiero.

Ho qui davanti a me la lettera sgualcita che Ernest mi scrisse vent'anni fa, dalla quale trascrivo il brano seguente:

"Tuo padre è membro degli 'Amici dello Studio' quindi puoi partecipare. Vieni martedì sera. Ti assicuro che trascorrerai uno dei momenti migliori della tua vita. Nei tuoi recenti incontri con i padroni non sei riuscita a smuoverli; io li scuoterò per te. Li farò latrare come lupi. Tu hai messo in dubbio la loro moralità, e quando la loro onestà è contestata, diventano ancor più presuntuosi e compiacenti. Io invece li minaccerò nella borsa, e ne rimarranno scossi sin nelle radici più profonde della loro vera natura. Se vieni, vedrai l'uomo delle caverne, in abito di società, difendere coi denti, ringhiando, il suo osso. Ti prometto un vero pandemonio, e la vista edificante della natura della bestia.

Mi hanno invitato per demolirmi. L'idea è stata di Miss Brentwood, ma ha commesso la dabbenaggine di farmelo capire quando mi ha invitato. Ha già loro offerto altre volte questo tipo di divertimento: la presenza fra loro di qualche riformatore dall'animo dolce e fidente. Miss Brentwood crede che io sia mite come un gattino e buono e stupido come un bovino. Devo confessare che ho fatto del mio meglio per convincerla in questo senso. Dopo aver prudentemente tastato il terreno, ha finito per indovinare il mio carattere innocuo. Avrò un buon compenso: duecentocinquanta dollari, quanto si addice a colui che, sebbene radicale, una volta fu candidato al seggio di governatore. Inoltre, dovrò indossare l'abito da sera: in vita mia non mi sono mai camuffato così, e bisognerà che ne prenda uno a nolo. Ma farei anche di più pur di entrare fra gli 'Amici dello Studio'".

Quella sera il circolo si riuniva nientemeno che in casa dei Pertonwaithe. Avevano aggiunto altre sedie nella grande sala, e c'erano di sicuro duecento "Amici" convenuti a sentire Ernest. I veri principi della buona società. Mi divertii a calcolare mentalmente il totale delle ricchezze che rappresentavano:

centinaia di milioni. E non si trattava di ricchi fannulloni ma di uomini d'affari che avevano parte importantissima e attiva nella vita industriale e politica.

Stavamo tutti seduti, quando Miss Brentwood presentò Ernest. Si spostarono subito in fondo alla sala dove lui avrebbe parlato. Era in abito da sera, e appariva meraviglioso, con quelle sue larghe spalle e la testa regale e, sempre, quell'inimitabile tocco di goffaggine nei suoi movimenti. Credo che l'avrei amato anche solo per quello, e guardandolo provai un'immensa gioia. Mi sembrava di sentire il battito del suo polso nel mio, il contatto delle sue labbra sulle mie. Ero così orgogliosa di lui, che provai il desiderio di alzarmi e gridare a tutta l'assemblea: "E' mio, mi ha stretta fra le sue braccia, e occupo quella mente agitata da così alti pensieri".

In fondo alla sala, Miss Brentwood lo presentò al colonnello Van Gilbert al quale sapevo che era assegnata la presidenza della riunione. Il colonnello era un grande avvocato di società anonime; inoltre era immensamente ricco. Il più piccolo onorario che si degnava di accettare era di centomila dollari. Era un maestro del diritto. La legge era per lui un burattino di cui reggeva tutti i fili; e la plasmava come argilla; la torceva e la deformava con un gioco di pazienza cinese, secondo i propri disegni. I suoi modi e il suo eloquio erano un po' vecchio stile, ma l'immaginazione, l'informazione, le risorse, erano aggiornatissime. La sua celebrità datava dal giorno in cui aveva fatto invalidare il testamento Skardwell (2). Solo per questo aveva ricevuto cinquecentomila dollari, e da quel tempo la sua ascesa era stata rapida come quella di un razzo. Era considerato da molti il primo legale del paese, legale di società anonime, naturalmente: tale da non poter essere escluso da una classifica dei tre più grandi legali degli Stati Uniti.

Questi si alzò e cominciò col presentare Ernest, con frasi scelte che lasciavano intravedere una leggera ironia sottintesa. Fu sottilmente sarcastico nella sua presentazione di quel riformatore sociale membro della classe operaia, e parecchi presenti sorrisero. Ne fui urtata e guardai Ernest, sentendo crescere la mia irritazione: sembrava che non provasse risentimento alcuno per quelle frecciate, anzi, peggio, pareva non accorgersene neppure.

Stava seduto tranquillo, calmo, mezzo assonnato. Sembrava davvero uno sciocco. Un'idea rapida mi attraversò la mente: si lasciava forse intimidire da quello sfoggio di prestigio economico e intellettuale? Poi sorrisi. Non mi avrebbe ingannata, no:

ingannava gli altri, come aveva ingannato Miss Brentwood. La quale stava seduta in una poltrona in prima fila, e più volte aveva voltato la testa verso l'una o l'altra delle sue conoscenze per confermare, con un sorriso, le allusioni dell'oratore.

Quando il colonnello ebbe finito, Ernest si alzò e cominciò a parlare. Iniziò a voce bassa, con frasi semplici e staccate, inframmezzate da lunghe pause, con evidente disagio. Narrò della sua nascita nella classe operaia, della sua infanzia trascorsa in un ambiente misero, dove lo spirito e la carne erano ugualmente affamati e tormentati. Descrisse le ambizioni e l'ideale della sua giovinezza, e la sua concezione del paradiso, dove vivevano solo gli uomini delle classi superiori.

"Sapevo", disse, "che più in alto di me regnavano l'altruismo del pensiero puro e nobile, una vita altamente intellettuale. Sapevo tutto questo perché avevo letto romanzi rosa (3), in cui tutti gli uomini e le donne, tranne l'impostore e l'avventuriera, pensano cose nobili, parlano un raffinato linguaggio, e compiono atti gloriosi. In breve, come accettavo il sorgere del sole accettavo anche il fatto che più in alto di me stava quanto di più bello, nobile e generoso è al mondo, insomma, tutto ciò che conferiva onore e dignità alla vita, tutto ciò che la rendeva degna di essere vissuta, che compensava gli uomini di tanto lavoro e di tanta miseria".

Parlò in seguito della sua vita alla filanda, del suo apprendistato come maniscalco e del suo incontro, infine, coi socialisti. Aveva trovato tra loro menti e intelletti superiori e numerosi ministri del Vangelo, destituiti perché il loro cristianesimo era troppo generoso in una società di adoratori di feticci; vi aveva trovato professori fiaccati dalla crudele servitù universitaria alle classi dominanti. Definì i socialisti dei rivoluzionari che lottano per rovesciare la società nazionale odierna, per costruire sulle rovine la società nazionale dell'avvenire. E disse tante e tante cose che sarebbe troppo lungo trascrivere; ma non dimenticherò mai il modo col quale descrisse la sua vita fra i rivoluzionari. Dal suo eloquio era sparita ogni titubanza: la voce si elevava forte e sicura, si affermava, splendeva come lui stesso, come i pensieri che versava fuori a fiotti.

"In quei rivoluzionari trovai pure una fede ardente nell'umanità, un caldo idealismo, la voluttà dell'altruismo, della rinuncia e del martirio; tutte le splendide realtà dello spirito, insomma. E la loro vita era pura, nobile, e sentita. Ero in contatto con anime grandi che esaltavano la carne e lo spirito al di sopra dei dollari e dei centesimi, e per le quali il debole lamento del bimbo sofferente nei tuguri ha maggiore importanza di tutto il pomposo armamentario dell'espansione commerciale e dell'impero del mondo. Vedevo dovunque, intorno a me, la nobiltà dell'ideale e l'eroismo della lotta, e le mie giornate erano piene di sole e le notti stellate. Vivevo nel fuoco e nella rugiada, e davanti ai miei occhi fiammeggiava incessantemente il Santo Graal, il sangue palpitante e umano di Cristo, pegno di soccorso e di salvezza, dopo lunga sofferenza e maltrattamenti".

L'avevo già visto trasfigurato, ma questa volta come non mai. La fronte gli splendeva della divinità interiore, e gli occhi lucevano ancor più in mezzo all'aureola radiosa da cui sembrava avvolto. Gli altri però non vedevano questa luce, cosicché attribuii la mia visione alle lacrime di gioia e d'amore che mi riempivano gli occhi. In ogni modo, il signor Wickson, che sedeva dietro di me, non appariva certo commosso, perché gli sentii lanciare, con tono ironico, l'epiteto di: "utopista" (4).

Ma Ernest passò a raccontare di come si era innalzato nella società, sinché alla fine era entrato in contatto con le classi superiori e aveva conosciuto uomini che occupavano posti chiave.

Era così sopravvenuta in lui la delusione, che espresse con termini poco lusinghieri per gli ascoltatori. La vita non gli era sembrata più nobile e generosa; era spaventato dall'egoismo che incontrava dappertutto. Ciò che lo stupiva ancor più era l'assenza di vitalità intellettuale. Lui, che aveva fresco il ricordo dei suoi amici rivoluzionari, si sentiva colpito dalla stupidità della classe dominante. Inoltre aveva scoperto che nonostante le loro magnifiche chiese e i loro predicatori generosamente pagati, quei padroni, uomini e donne, erano esseri volgarmente materialisti.

Parlavano bene del loro piccolo ideale, della loro cara piccola morale, ma tolta questa vuota verbosità, il male fondamentale delle loro idee era materialista. Erano privi della moralità vera, della moralità che Cristo aveva predicato e che ormai non si insegna più.

"Ho conosciuto persone che nelle loro diatribe contro la guerra invocavano il nome del dio della pace, mentre distribuivano fucili ai Pinkerton (5) per abbattere quelli che scioperavano nelle loro stesse fabbriche. Ho conosciuto tipi che inveivano contro la brutalità del pugilato ma che erano complici di frodi alimentari per le quali muoiono, ogni anno, più innocenti di quanti non ne massacrò Erode dalle mani insanguinate. Ho visto gente autorevole, colonne della Chiesa, che sottoscrivevano somme ingenti a favore delle missioni straniere, ma che facevano lavorare dieci ore al giorno nelle loro fabbriche le ragazzine, compensandole con salari di fame e incoraggiando in tal modo la prostituzione.

Certi rispettabili signori dai lineamenti aristocratici non erano che fantocci che davano il loro nome a società il cui scopo segreto era di spogliare la vedova e l'orfano; certi altri, che parlavano seriamente e posatamente della bellezza dell'idealismo e della bontà di Dio, avevano trascinato e tradito i loro soci in un grosso affare. Altri ancora, che dotavano di nuove cattedre le università e contribuivano alla costruzione di magnifiche cappelle votive, non esitavano a giurare il falso davanti ai tribunali per motivi di denaro. Un tale, magnate delle ferrovie, rinnegava senza vergogna la parola data come cittadino, uomo d'onore e cristiano, concedendo storni segreti... e ne concedeva spesso! Il direttore di un giornale che pubblicava l'annuncio di medicine brevettate, mi definì demagogo perchè lo sfidai a pubblicare un articolo che dicesse la verità su quel ritrovato (6). Un collezionista di belle edizioni che prendeva a cuore le sorti della letteratura pagava intere botti di vino al reggitore brutale e illetterato di un'amministrazione municipale. Un senatore (7) era lo strumento, lo schiavo, il burattino di un politicante dalle folte sopracciglia e dalla bocca enorme; lo stesso accadeva del governatore Caio, e del giudice Tizio alla Corte Suprema. Tutti e tre usufruivano di viaggi gratuiti in ferrovia; inoltre, quel tale capitalista dalla pelle lucida, untuosa, era il vero padrone della macchina politica, perché padrone del padrone della macchina politica e delle ferrovie che concedevano i biglietti di favore.

In questo modo, invece di un paradiso, scoprii l'arido deserto del commercialismo. Non vi trovai che stupidaggine, tranne in ciò che riguarda gli affari. Non incontrai una persona onesta, nobile, attiva, ma ne trovai parecchi che grufolavano nel marciume. Non trovai altro che egoismo smisurato di gente spietata, e un materialismo meschino e ingordo, praticato e pratico".

Disse loro molte altre verità su di essi e sulle proprie delusioni. Intellettualmente l'avevano annoiato; moralmente e spiritualmente, disgustato a tal punto che era ritornato con gioia ai suoi rivoluzionari che almeno erano retti, nobili, sensibili, tutto ciò che i capitalisti non sono.

"E ora", aggiunse, "lasciate che vi parli della rivoluzione".

Prima, devo però dire che questa mortificante requisitoria li aveva lasciati freddi. Scrutai i loro volti e vidi che conservavano un'aria di condiscendente superiorità. Ricordai quello che Ernest mi aveva detto: "Qualunque accusa contro la loro morale non riuscirà a scuoterli". Osservai però che l'ardire del suo linguaggio aveva colpito Miss Brentwood, che appariva seccata e inquieta.

Ernest cominciò col descrivere l'esercito della rivoluzione, e quando espose in cifre la sua forza (secondo i risultati elettorali nei diversi paesi), l'assemblea cominciò ad agitarsi.

Un'espressione di viva attenzione comparve sui loro volti e le loro labbra si strinsero. Il guanto di sfida era stato gettato.

Descrisse l'organizzazione internazionale che univa il milione e mezzo di socialisti negli Stati Uniti ai ventitre milioni e mezzo di socialisti sparsi nel resto del mondo.

"Questo esercito della rivoluzione, forte di ventitre milioni di uomini, fa riflettere le classi dominanti. Il grido di questo esercito è: nessuna tregua. Dobbiamo avere ciò che voi possedete.

Non ci accontenteremo di meno. Vogliamo le redini del potere, e avere in mano il destino del genere umano. Ecco le nostre mani, le nostre forti mani. Vi toglieremo il potere, i palazzi e tutti i vostri agi dorati, e verrà il giorno in cui dovrete lavorare per guadagnarvi il pane, come fa il contadino nei campi, o il commesso nelle vostre metropoli. Ecco le nostre mani; sono forti".

E mentre parlava, protendeva le sue forti spalle e allungava le sue grandi braccia, e i suoi pugni di fabbro fendevano l'aria come artigli d'aquila. Sembrava il simbolo del lavoro trionfante, con le mani tese per schiacciare e distruggere i suoi sfruttatori.

Scorsi nell'uditorio un fremito quasi impercettibile, davanti a quel quadro della rivoluzione, evidente, possente e minaccioso.

Certo le donne sussultarono, e la paura comparve sui loro volti.

Per gli uomini non fu la stessa cosa: uscì dalle loro gole un grugnito profondo, che vibrò nell'aria un istante, poi tacque. Era la premessa del ringhio che avrei sentito più volte quella sera, la manifestazione del bruto che si svegliava nell'uomo e dell'uomo stesso nella sincerità delle sue passioni primitive. E non avevano coscienza di questo loro mormorio, era il ringhio del branco, dell'orda, l'espressione e la dimostrazione riflessa del loro istinto. In quel momento, vedendo i loro volti irrigidirsi e il lampo di stizza nei loro occhi, capii che non si sarebbero lasciati strappare facilmente il dominio del mondo.

Ernest continuò il suo attacco; attribuì l'esistenza d'un milione e mezzo di rivoluzionari negli Stati Uniti al cattivo governo della società esercitato dalla classe capitalistica. Dopo aver accennato alle condizioni economiche dell'uomo primitivo e dei popoli selvaggi dei nostri giorni, che non dispongono di utensili né di macchine ma solo dei mezzi naturali di produzione, illustrò brevemente lo sviluppo dell'industria e dell'organizzazione sociale fino al giorno d'oggi, in cui la capacità produttiva dell'individuo evoluto è mille volte superiore a quella del selvaggio.

"Bastano cinque uomini, oggi, per produrre pane per un migliaio di persone. Un uomo solo può produrre tessuti di cotone per duecentocinquanta persone, maglierie per trecento, calzature per mille. Si potrebbe quindi concludere che con una buona amministrazione della società, l'uomo civile moderno dovrebbe essere in condizioni molto migliori dell'uomo preistorico. Ma lo è? Vediamo. Oggi negli Stati Uniti esistono quindici milioni di uomini (8) che vivono in povertà, e per povertà intendo quella condizione in cui, per mancanza di nutrimento e di ricovero conveniente, non può essere raggiunta una certa efficienza nel lavoro. Oggi, negli Stati Uniti, nonostante la vostra cosiddetta legislazione del lavoro, esistono tre milioni di bambini che lavorano come operai (9). Il loro numero è raddoppiato in dodici anni. A questo proposito, mi chiedo: perché voi, padroni della società, non avete pubblicato le cifre del censimento del 1910? E rispondo per voi: perché quelle cifre vi hanno spaventati. La miseria in cifre avrebbe potuto affrettare la rivoluzione che va preparandosi.

Ma ritorno alla mia accusa: se le capacità produttive dell'uomo moderno sono mille volte superiori a quelle dell'uomo primitivo, perché mai ci sono attualmente negli Stati Uniti quindici milioni di persone che non sono nutrite e alloggiate convenientemente, e tre milioni di bambini che lavorano? E' un'accusa seria. La classe capitalistica si è resa colpevole di una cattiva amministrazione.

Di fronte al fatto che l'uomo moderno vive più miseramente del suo antenato selvaggio, mentre la sua capacità produttiva è mille volte maggiore, non è possibile altra conclusione che questa: la classe capitalistica ha mal governato; voi siete cattivi amministratori, cattivi padroni, e la vostra cattiva gestione è imputabile al vostro egoismo. E su questo, qui, stasera, faccia a faccia, non siete in grado di rispondermi, non più che sull'esistenza di un milione e mezzo di rivoluzionari negli Stati Uniti. Non potete smentirmi. Anzi, vi sfido a farlo. Di più, oso dire che non risponderete neppure quando avrò finito di parlare.

Su questo argomento la vostra lingua è legata, per quanto agile possa essere quando si tratta di altri argomenti.

Avete dato prova d'essere incapaci di amministrare; avete mandato alla malora la civiltà. Nei consessi legislativi vi siete levati (come ancor oggi vi levate) a parlare dell'impossibilità di raccogliere profitti senza il lavoro dei minorenni e dei bambini.

Ma non state soltanto alla mia parola: tutto questo è scritto e registrato. Avete addormentato la vostra coscienza con chiacchiere sull'ideale, secondo la vostra cara morale. Ed eccovi lì, gonfi di potenza e ricchezza, inebriati dal successo! Ebbene, contro di noi non avete speranza di vittoria maggiore di quanta ne abbiano i fuchi riuniti intorno all'alveare, quando le api operaie gli si lanciano addosso per porre fine alla loro facile esistenza. Siete falliti nell'amministrazione della società, che vi sarà tolta di mano. Un milione e mezzo di uomini della classe operaia sono sicuri di attirare alla loro causa il resto delle masse lavoratrici e di strapparvi il dominio del mondo. Ecco la rivoluzione, signori: fermatela se potete!".

Per un po', l'eco della sua voce risuonò ancora nella gran sala; poi il profondo mormorio, già sentito prima, si gonfiò, e una dozzina di loro si alzarono, urlando e gesticolando per attrarre l'attenzione del colonnello Van Gilbert. Notai che Miss Brentwood agitava convulsamente le spalle, e provai un attimo di irritazione, convinta che ridesse di Ernest. Poi capii che non si trattava di un accesso di riso ma di nervi. Era terrorizzata di ciò che aveva fatto gettando quella torcia ardente in mezzo al suo caro circolo degli "Amici dello Studio".

Il colonnello Van Gilbert non si curò della dozzina di presenti che, stravolti dalla collera, chiedevano a gran voce la parola; lui per primo si rodeva dalla rabbia. Si alzò di scatto agitando un braccio, e per un po' riuscì a mandare solo suoni inarticolati; poi un fiume di parole si riversò fuori dalla sua bocca. Ma non era il linguaggio dell'avvocato da centomila dollari, dalla retorica un po' antiquata.

"Errori su errori", esclamò. "In vita mia non ho mai sentito tanti errori in così poco tempo. Inoltre, giovanotto, non ha detto niente di nuovo. Tutto questo l'avevo già appreso a scuola prima che lei nascesse. E sono trascorsi già quasi due secoli da quando Rousseau ha enunciato la vostra teoria socialista. Il ritorno alla terra? Balle! Revisione? La biologia ne dimostra l'assurdità. E' proprio vero che la semi-ignoranza è nociva, e lei ne ha dato prova questa sera con le sue teorie sballate! Errori su errori! In vita mia non ho mai provato tanto disgusto come di fronte a un simile rigurgito di errori! Ecco, guardi come considero le sue affrettate generalizzazioni e i suoi discorsi infantili". Fece schioccare le dita in segno di disprezzo e accennò a sedersi.

L'approvazione delle donne si manifestò in esclamazioni acute, e quella degli uomini in suoni rauchi. Quanto a quelli che avevano chiesto la parola, metà di essi si misero a parlare tutti insieme.

Una confusione indescrivibile, una vera Babilonia. Il vasto appartamento dei Pertonwaithe non aveva mai ospitato un tale spettacolo. Questi, dunque, erano i capitani dell'industria, i padroni del mondo, questi selvaggi ringhiosi e stizzosi in abito da sera? In verità, Ernest li aveva scossi stendendo le mani verso i loro portafogli, quelle mani che, ai loro occhi, rappresentavano gli artigli di un milione e mezzo di rivoluzionari.

Ma lui non perdeva mai la testa in nessuna circostanza. Prima che il colonnello riuscisse a sedersi, Ernest fu in piedi e fece un balzo avanti.

"Uno per volta!" ruggì con tutte le sue forze.

Il grido dei suoi ampi polmoni dominò la tempesta umana, e la semplice forza della sua personalità impose il silenzio.

"Uno per volta", ripeté con tono più calmo. "Lasciatemi rispondere al colonnello Van Gilbert. Dopo, altri potranno attaccarmi, ma uno per volta, ricordate. Non siamo a una partita di pallone".

"Quanto a lei", continuò rivolgendosi al colonnello, non ha confutato nulla di ciò che ho detto. Ha semplicemente espresso alcuni apprezzamenti eccitati e dogmatici sul mio equilibrio mentale. E' una tattica che potrà risultare utile negli affari, ma con me non vale. Non sono un operaio venuto a implorare, col cappello in mano, un aumento di salario o protezione contro la macchina alla quale lavora. Finché avrete a che fare con me, non potrete assumere arie dogmatiche per smentire la verità.

Conservatele per i rapporti coi vostri schiavi salariati che non osano rispondervi perché avete in mano il loro pane, la loro vita.

Quanto al ritorno alla natura di cui lei sostiene di aver sentito parlare a scuola prima che io nascessi, mi permetta di farle osservare che, a quanto pare, da allora in poi non ha imparato più niente. Il socialismo non ha nulla in comune con lo stato di natura, come il calcolo differenziale non ha rapporti col catechismo! Avevo denunciato la mancanza d'intelligenza della vostra classe, tranne nella trattazione degli affari; lei mi ha fornito, signore, un edificante esempio a sostegno della mia tesi".

Questa terribile stoccata al caro avvocato da centomila dollari, fu il colmo per i nervi di Miss Brentwood. Il suo accesso isterico raddoppiò di violenza, tanto che dovettero trascinarla fuori della sala, mentre piangeva e rideva contemporaneamente. E non era tutto, il peggio doveva ancora arrivare.

"Non credete alla mia parola", riprese Ernest dopo questa interruzione. "Le vostre stesse autorità, con voce unanime, riconosceranno la vostra assoluta mancanza d'intelligenza. Gli stessi vostri fornitori di scienza vi diranno che siete in errore.

Consultate il più modesto dei vostri sociologi e chiedetegli quale differenza passa fra la teoria di Rousseau e quella del socialismo. Interrogate i vostri più ortodossi economisti borghesi, cercate in qualsiasi testo dimenticato negli scaffali delle vostre biblioteche sovvenzionate, e da ogni parte vi verrà risposto che non c'è nessun nesso fra il ritorno alla natura e il socialismo, ma che, al contrario, le due teorie sono diametralmente opposte. Vi ripeto, non credete alla mia parola! La prova della vostra mancanza d'intelligenza è là, nei libri, in quei libri che voi non leggete mai. E quanto a mancanza di intelligenza, lei, avvocato, è un campione della sua classe.

Lei è un esperto di diritto e di affari, colonnello Van Gilbert.

Lei sa servire bene le società anonime e ne aumenta i dividendi interpretando a modo suo la legge. Benissimo, si accontenti di questo. Lei è un ottimo avvocato ma un pessimo storico. Della sociologia non sa niente del tutto e, in fatto di biologia, sembra contemporaneo di Plinio il Vecchio".

Il colonnello si dimenava sulla poltrona; nella sala regnava un silenzio assoluto: tutti i presenti erano affascinati, paralizzati. Trattare in quel modo il famoso colonnello Van Gilbert era inaudito, inimmaginabile; il colonnello davanti al quale persino i giudici tremavano quando si alzava a parlare in tribunale. Ma Ernest non dava mai tregua al nemico.

"Questo, naturalmente, non è un biasimo per lei", aggiunse. "A ciascuno il suo mestiere. Lei fa il suo e io il mio. Lei è uno specialista in fatto di leggi, soprattutto quando si tratta di trovare il mezzo migliore per sfuggire a esse o di farne di nuove, a vantaggio delle classi privilegiate, m'inchino davanti a lei. Ma quando si tratta di sociologia, che è materia mia, tocca a lei inchinarsi davanti a me. Non lo dimentichi. E non dimentichi neppure che la legge è effimera, e che lei non s'intende di cose non effimere. Di conseguenza, le sue affermazioni dogmatiche e le sue imprudenti generalizzazioni su argomenti storici e sociologici, non valgono il fiato che spreca per enunciarle".

Fece una pausa, e osservò con aria assorta quel viso oscurato e stravolto dalla collera, quel petto ansante, quel corpo che si agitava, quelle mani che si aprivano e chiudevano convulsamente.

"Ma visto che ha fiato da sprecare, le offro l'occasione di sprecarlo. Ho incolpato la sua classe: mi dimostri che la mia accusa è falsa. Le ho fatto osservare la condizione disperata dell'uomo moderno - tre milioni di bambini schiavi negli Stati Uniti, senza il cui lavoro ogni profitto sarebbe impossibile; e quindici milioni di persone mal nutrite, mal vestite e peggio alloggiate - le ho fatto osservare come, con l'organizzazione moderna e l'organizzazione sociale e l'impiego delle macchine, le capacità produttive dell'uomo civile d'oggi sono mille volte superiori a quelle dell'uomo delle caverne; e ho affermato che da questa duplice circostanza non si può trarre altra conclusione che questa: il malgoverno della classe capitalistica. Questa era la mia accusa, e chiaramente, e a più riprese, l'ho sfidata a rispondermi. Ho detto anzi di più. Le ho predetto che non avrebbe risposto. Avrebbe potuto usare il fiato per smentire la mia profezia. Ha invece definito il mio discorso una somma di errori.

Me ne dimostri la falsità, colonnello Van Gilbert; risponda all'accusa che io e un milione e mezzo di miei compagni abbiamo lanciato contro la vostra classe e contro di lei".

Il colonnello dimenticò completamente che la carica di presidente gli imponeva di dare la parola a coloro che la chiedevano, si alzò di scatto e, agitando in tutte le direzioni le braccia, smarrendosi in sfoghi di retorica e perdendo del tutto la calma, malmenò Ernest per la sua giovinezza e la sua demagogia, attaccando istericamente la classe operaia, che definì come priva di ogni capacità e valore.

Finita quella tirata, Ernest replicò:

"Come uomo di legge, lei è certo il più irragionevole fra quanti abbia mai conosciuto. La mia giovinezza non ha niente a che fare con quanto ho detto, e così pure la mancanza di valore della classe operaia. Ho accusato la classe capitalistica di aver retto male la società. Non mi ha ancora risposto. Non ha neppure tentato di rispondere. Non sa cosa dire? Lei è il campione fra tutti i presenti. Tutti qui, eccettuato me, pendono dalle sue labbra.

Aspettano da lei la risposta che essi non sanno dare.

Quanto a me, le ho già detto, so che non soltanto non potrà rispondere, ma che non tenterà neppure di farlo".

"Questo è intollerabile!" esclamò il colonnello. "E' un insulto!".

"E' intollerabile il fatto che lei non risponde", replicò gravemente Ernest. "Nessuno può essere insultato intellettualmente. L'insulto per se stesso è un fatto emotivo. Si riprenda, dia una risposta intellettuale alla mia accusa intellettuale, che cioè la classe capitalistica ha mal governato la società". Il colonnello rimase muto, e un'espressione di accigliata superiorità gli apparve sul viso, come in chi non voglia compromettersi discutendo con un cialtrone.

"Non si avvilisca", continuò Ernest. "Si consoli pensando che mai nessuno della sua classe è stato in grado di rispondere a questa accusa".

Poi si volse verso gli altri, impazienti di prendere la parola.

"Ecco ora l'occasione per voi. Avanti, e non dimenticate che vi ho sfidati tutti, qui presenti, a darmi la risposta che il colonnello Van Gilbert non ha saputo dare".

Mi sarebbe impossibile ripetere tutto ciò che fu detto durante quella discussione. Non avrei mai immaginato la quantità di parole che si possono dire nel breve spazio di tre ore. In ogni modo, fu uno spettacolo meraviglioso. Più i suoi avversari si infiammavano, più Ernest gettava olio sul fuoco. Conosceva a fondo l'argomento, e li pungeva con una parola o con una frase, come con un ago adoperato con arte. Sottolineava e correggeva i loro errori di ragionamento. Questo sillogismo era falso, questa conclusione non aveva alcun rapporto con le premesse; questa premessa era un'impostura, perché sviluppata ad arte in vista della conclusione. Questa era un'inesattezza, quella una presunzione e quest'altra ancora un'asserzione contraria alla verità sperimentale stampata su tutti i libri.

A volte lasciava la spada per la mazza, e sbaragliava i loro pensieri a destra e a manca. Pretendeva sempre fatti e rifiutava di discutere le teorie. E i fatti, che citava lui stesso, erano disastrosi per loro. Appena attaccavano la classe operaia, replicava: "Il bue chiama cornuto l'asino, ma questo non vi libera dalle corna". E a ognuno e a tutti diceva: "Perché non avete risposto all'accusa che ho lanciato contro la vostra classe? Avete parlato d'altro, e d'altro ancora riguardante altre cose, ma non mi avete risposto. Forse perché non sapete cosa rispondere?".

Solo alla fine della discussione il signor Wickson prese la parola. Era l'unico rimasto calmo, e Ernest lo trattò con un riguardo che non aveva concesso agli altri.

"Non è necessaria alcuna risposta", disse il signor Wickson, con voluta lentezza. "Ho seguito tutta la discussione con stupore e ripugnanza. Sì, signori, voi membri della mia stessa classe, mi avete disgustato. Vi siete comportati come sciocchi scolari.

L'idea d'introdurre in una simile discussione i vostri precetti di morale è il fulmine, passato di moda, del politicante volgare. Non vi siete comportati né come persone mondane né come esseri umani.

Vi siete lasciati calpestare e malmenare. Siete stati rumorosi e prolissi, ma avete soltanto ronzato come le zanzare attorno a un orso. Signori, l'orso è là" (e additò Ernest) "ritto innanzi a voi, e il vostro ronzìo gli ha solo solleticato le orecchie.

Credetemi, la situazione è seria. L'orso ha mostrato le zanne, pronto a schiacciarvi. Ha detto che vi sono negli Stati Uniti un milione e mezzo di rivoluzionari, ed è vero. Ha detto che hanno intenzione di toglierci il potere, i palazzi, e tutto il dorato benessere, ed è vero. E' pure vero che un cambiamento, un grande cambiamento, si prepara nella società, ma fortunatamente potrebbe anche non essere il cambiamento previsto dall'orso. L'orso ha detto che ci schiaccerà. Ebbene, signori, e se schiacciassimo noi l'orso?".

Nella vasta sala si levò un roco mormorio. Furono scambiati cenni di approvazione, di incoraggiamento. Sui volti apparve un'espressione ferma, decisa.

Con freddezza, senza passione, il signor Wickson continuò:

"Ma non è con un brontolìo che schiacceremo l'orso: all'orso bisogna dare la caccia. All'orso non si risponde con le parole.

Gli risponderemo col piombo. Siamo al potere, nessuno può negarlo.

In virtù di questo potere, noi rimarremo al nostro posto".

E si voltò verso Ernest. Il momento era drammatico.

"Ecco dunque la nostra risposta. Non abbiamo parole da sprecare con voi. Quando allungherete le mani, di cui vantate la forza, per afferrare i nostri palazzi, il nostro benessere dorato, vi faremo vedere che cos'è la forza. La nostra risposta sarà costituita dal rombo degli obici, dagli scoppi delle granate, dai crepitii delle mitragliatrici (10). Noi schiacceremo i vostri rivoluzionari sotto i piedi e calpesteremo il loro viso. Il mondo è nostro, ne siamo padroni, e resterà nostro. Quanto all'esercito del lavoro, è stato nel fango dagli inizi della storia, e io, che interpreto la storia come si deve, dico che rimarrà nel fango, finché io e i miei, e coloro che verranno dopo di noi, resteremo al potere. Ecco la grande parola, la regina delle parole: 'Potere'! Né Dio, né Mammona, ma 'il Potere'! Riempitevi la bocca di questa parola: 'il Potere'!".

"Lei mi ha dato una risposta", disse tranquillamente Ernest, "ed era la sola che potesse essere data. Il Potere! E' quanto predichiamo noi alla classe operaia! Sappiamo, e lo sappiamo a prezzo di un'amara esperienza, che nessun appello al diritto, alla giustizia, all'umanità, potrà commuovervi. I vostri cuori sono duri come i talloni con i quali calpestate i poveri. Perciò miriamo alla conquista del potere. E col potere dei nostri voti, il giorno delle elezioni, vi toglieremo il governo..." "E quand'anche otteneste la maggioranza, una maggioranza schiacciante nelle elezioni?" lo interruppe il signor Wickson. "E se rifiutassimo di cedervi il potere, dopo che l'avrete carpito con le urne?".

"Abbiamo previsto anche questo", replicò Ernest. "Vi risponderemmo col piombo. Il Potere! Siete voi che avete proclamata questa la regina delle parole! Benissimo. Sarà questione di forza. E il giorno in cui riporteremo la vittoria nelle elezioni, se vi rifiuterete di rimettere nelle nostre mani il governo di cui ci saremo impadroniti costituzionalmente e pacificamente, ebbene, vi risponderemo allo stesso modo, e la nostra risposta sarà costituita dal rombo degli obici, dagli scoppi delle granate e dai crepitii delle mitragliatrici.

In un modo o nell'altro, non potrete sfuggirci. E' vero che avete interpretato bene la storia. E' vero che dagli inizi della storia il lavoro è umiliato nel fango; è ugualmente vero che resterà sempre nel fango finché voi e i vostri avrete il potere, voi, i vostri e coloro che verranno dopo di voi. Siamo d'accordo. Il potere sarà l'arbitro. E' sempre stato l'arbitro: la lotta di classe è una questione di forza. Ora, come la vostra classe ha abbattuto la vecchia nobiltà feudale, così sarà abbattuta dalla mia classe, dalla classe dei lavoratori. E se interpretate la biologia e la sociologia con la stessa correttezza con cui avete interpretato la storia, vi convincerete che questa fine è inevitabile. Non importa che sia fra un anno, fra dieci o fra mille: la vostra classe sarà abbattuta. E sarà rovesciata dal potere. Noi dell'esercito del lavoro abbiamo ruminato questa parola al punto che ne siamo inebriati. Il Potere! E' veramente la regina delle parole, l'ultima parola!".

Così ebbe termine la serata degli Amici dello Studio.

NOTE:

1) A quel tempo non si era ancora scoperta la vita semplice, e c'era l'abitudine di riempire le case di ninnoli. Le stanze erano veri e propri musei la cui pulizia richiedeva un lavoro continuo. Il diavolo della polvere era il padrone di casa: c'erano mille modi per attirare la polvere e pochi per liberarsene.

2) L'invalidazione dei testamenti era una delle caratteristiche del tempo. Coloro che accumulavano grosse fortune non sapevano in che modo disporne alla loro morte. La redazione e l'invalidazione dei testamenti erano specializzazioni complementari come quelle delle corazze e degli obici, e così si ricorreva a uomini di legge finissimi per redigere testamenti che non fossero invalidabili. Ma fatalmente questi finivano poi con l'essere invalidati dagli stessi legali che li avevano redatti.

Ciò nonostante, i ricchi persistevano nell'idea che fosse possibile fare un testamento inattaccabile, e quest'illusione fu mantenuta per generazioni intere dagli uomini di legge, nei loro clienti. Insomma, una ricerca analoga a quella del dissolvimento universale fatta dagli alchimisti del Medio Evo.

3) Una strana letteratura, d'un genere particolare, destinata a diffondere nei lavoratori idee false sulla vera natura delle classi privilegiate.

4) Gli uomini di quel tempo erano schiavi di alcune formule, e l'abiezione di questo servilismo è incomprensibile per noi.

C'era, nelle parole, una magia più forte di quella dei giocatori di bussolotti. Le menti erano così confuse, che una semplice parola aveva il potere di annientare le conclusioni di tutta una vita di pensiero e di ricerche. La parola "utopista" era fra queste e bastava pronunciarla per condannare i disegni meglio concepiti di miglioramento e di rigenerazione economica. Popoli interi erano presi da una specie di follia alla semplice enunciazione di espressioni come "un dollaro onesto" o "un sacco pieno di mangime", la cui invenzione era considerata un tratto di genio.

5) In origine erano dei detective privati; ma divennero ben presto sostenitori salariati dei capitalisti e poi finirono per essere i mercenari dell'oligarchia.

6) Le medicine brevettate erano veri e propri imbrogli, ma la gente ci credeva come alle grazie e alle indulgenze del Medio Evo.

La sola differenza era che i farmaci brevettati costavano di più ed erano nocivi.

7) Fin verso il 1912 la maggior parte del popolo conservò l'illusione di governare il paese attraverso le elezioni. In realtà, il paese era governato dal cosiddetto meccanismo politico.

In principio, i capi o imprenditori di questi meccanismi estorcevano ai capitalisti grosse somme per influire sulla legislatura; ma i grossi capitalisti non tardarono a capire che sarebbe stato più economico per loro avere direttamente nelle loro mani quel meccanismo, e pagare essi stessi i capi.

8) Robert Hunter, in un libro intitolato "Poverty", pubblicato nel 1906, affermava che a quel tempo negli Stati Uniti dieci milioni di individui vivevano in povertà.

9) Secondo il censimento del 1900 (l'ultimo le cui cifre siano state pubblicate), negli Stati Uniti il numero dei minorenni che lavoravano era di 1752187.

10) La sostanza di questo pensiero trova dimostrazione nella seguente definizione tolta da un'opera intitolata "The Cynic's Word Book", pubblicata nell'A. D. 1906 e scritta da un certo Ambrose Bierce, noto misantropo dell'epoca: "Grape - shot (shrapnel): Argomento che l'avvenire prepara in risposta alle richieste del socialismo americano".

Capitolo 6

SEGNI PREMONITORI

Fu verso quell'epoca che cominciarono a piovere intorno a noi, fitti e rapidi, gli avvertimenti del futuro. Ernest aveva già espresso alcuni dubbi sul grado di prudenza di cui mio padre dava prova, ricevendo in casa sua socialisti e sindacalisti noti, e frequentando apertamente le loro riunioni; ma mio padre aveva riso di quelle preoccupazioni. Quanto a me, imparavo molte cose conversando con i dirigenti e i pensatori della classe operaia.

Vedevo il rovescio della medaglia. Ero sedotta dall'altruismo e dal nobile idealismo che vedevo in loro e, nello stesso tempo, ero spaventata dall'immensità del nuovo orizzonte letterario, filosofico, scientifico e sociale che mi si apriva davanti.

Imparavo rapidamente, ma non abbastanza in fretta per capire sin da allora il pericolo della nostra posizione.

Gli avvertimenti non mancarono, ma non vi davo importanza. Così seppi che la signora Pertonwaithe e la signora Wickson, la cui influenza era formidabile nella nostra città universitaria, avevano espresso l'opinione che giovane com'ero, mi mostravo troppo premurosa e decisa con una pericolosa tendenza a volermi intromettere negli affari degli altri. Le loro osservazioni mi sembrarono naturali, data la parte avuta nell'inchiesta sull'affare Jackson, ma non immaginavo affatto la portata e l'importanza d'un giudizio del genere, emesso da arbitri di così grande influenza sociale.

Osservai, infatti, un certo riserbo nella solita cerchia delle mie conoscenze, ma l'attribuii alla disapprovazione che sollevava il mio progetto di matrimonio con Ernest. Solo molto tempo dopo, Ernest mi dimostrò che l'atteggiamento della gente fra la quale vivevo era tutt'altro che spontaneo, ma concertato e diretto da forze occulte. "Hai ospitato in casa un nemico della tua classe", mi disse. "Non soltanto gli hai dato asilo, ma gli hai concesso il tuo amore e affidato la tua persona. E' un tradimento verso la tua classe e non sperare di sfuggire alla punizione".

Ma prima di questo, un pomeriggio che Ernest era da me, mio padre ritornò tardi a casa e ci accorgemmo che era adirato o, perlomeno, filosoficamente arrabbiato. Raramente dava in escandescenze, ma si permetteva, ogni tanto, un certo sdegno misurato, che lui chiamava il suo "tonico". Lo vedemmo, dunque, appena entrato, con la sua dose di collera tonificante.

"Cosa ne pensate?" annunciò. "Sono stato a colazione con Wilcox".

Wilcox era il rettore a riposo dell'università, la cui mente ristretta era un deposito di luoghi comuni in voga nel 1870 e che non si era mai sognato di aggiornare.

"Mi ha invitato, mi ha mandato a chiamare".

S'interruppe. Noi aspettavamo ansiosi.

"Oh! è stato pieno di tatto, lo riconosco, ma sono stato rimproverato! Da quel vecchio fossile!".

"Credo di sapere perché l'ha rimproverato", disse Ernest.

"Non l'immagina neppure", rispose mio padre.

"Invece sì", ribatté Ernest. "E non si tratta di una congettura, ma di una deduzione. Ha biasimato la sua vita privata".

"E' vero", esclamò mio padre. "Come ha fatto a indovinare?".

"Sapevo che sarebbe accaduto, l'avevo avvertita".

"E' vero", rispose mio padre, riflettendo. "Ma non riuscivo a crederlo. In ogni modo, sarà una prova di più, e convincente, da inserire nel mio libro".

"Non è nulla in confronto a ciò che l'aspetta se insiste nel ricevere tutti quei socialisti e radicali, compreso me".

"E' precisamente quello che mi ha rimproverato il vecchio Wilcox, con un mucchio di commenti senza logica. Mi ha detto che davo prova di dubbio gusto, che andavo contro la tradizione e la dignità dell'università, e che, comunque, impiegavo male il mio tempo. Ha poi aggiunto altre cose non meno vaghe. Non sono riuscito a fargli dire qualcosa di più definito, ma l'ho messo in una condizione molto imbarazzante: si ripeteva continuamente, dicendo quanto grande fosse la sua considerazione per me e come tutti mi rispettassero come scienziato. Non è stato un compito piacevole per lui; ho capito benissimo che lo imbarazzava".

"Non è un uomo libero. Non si trascina sempre con piacere la propria catena" (1).

"Gliel'ho fatto confessare. Mi ha dichiarato che quest'anno l'università ha bisogno di più fondi di quanto lo Stato è disposto a concedere, e che possono essere forniti da ricchi personaggi che non vedrebbero certo con piacere l'università allontanarsi dai suoi ideali elevati, deviando dalla ricerca imparziale della pura verità. Quando ho cercato di metterlo con le spalle al muro, chiedendogli come la mia vita privata potesse nuocere agli ideali dell'università, mi ha offerto una vacanza di due anni, durante i quali avrei ricevuto lo stipendio intero, per un viaggio di piacere e di studio in Europa. Naturalmente non potevo accettare una simile proposta".

"Sarebbe stato meglio se avesse accettato", disse Ernest, grave.

"Ma era un tentativo di corruzione", protestò mio padre; e Ernest approvò con un cenno del capo.

Quel vecchio fossile mi ha anche detto che nei salotti si chiacchiera, si critica mia figlia perché si fa vedere in pubblico in compagnia di una persona nota come lei, e che questo è in contrasto col decoro e la dignità dell'università. Lui personalmente non ci vede nulla di male, ma se ne parla, e io dovrei rendermene conto!".

Ernest rifletté un attimo. Il suo viso si oscurò. Era grave e corrucciato. Dopo un po' dichiarò:

"C'è dell'altro sotto, oltre agli ideali universitari. Qualcuno ha fatto pressione su Wilcox".

"Crede?" esclamò mio padre, con un'espressione che rivelava più una grande curiosità che paura.

"Vorrei tentare di spiegarle un'idea che mi si va formando lentamente", disse Ernest. "Mai, nella storia del mondo, la società è stata trascinata da una corrente tanto furiosa come oggi. I rapidi mutamenti del nostro sistema industriale ne provocano altri, non meno rapidi, in tutte le strutture religiose, politiche e sociali. Una rivoluzione invisibile e formidabile si sta preparando nelle intime fibre della nostra società. Queste cose si avvertono solo vagamente, ma sono nell'aria, oggi, ora. Si sente incombere qualcosa di vasto, vago, pauroso. La mia mente si rifiuta di prevedere la forma in cui questa minaccia diventerà realtà. Avete ascoltato Wickson l'altra sera; c'era lo stesso qualcosa, informe e indefinibile, nelle sue parole, dettate da un'inconsapevole cognizione proprio di quel qualcosa".

"Vuol dire..." cominciò mio padre, ma s'interruppe, esitante.

"Voglio dire che un'ombra gigantesca e minacciosa comincia a proiettarsi sul paese. La chiami anche ombra dell'oligarchia, se vuole, che sarebbe la definizione piu approssimativa che oso dare, ma non saprei dire quale ne sia la natura (2). Ma ecco cosa voglio dire soprattutto: lei è in una situazione pericolosa, un pericolo che il mio timore forse esagera, dato che non posso misurarlo.

Segua il mio consiglio, accetti le vacanze che le offrono".

"Ma sarebbe una vigliaccheria", replicò mio padre.

"Niente affatto! Lei è un uomo di una certa età; ha già svolto il suo compito, un bel compito per giunta; lasci la presente lotta a chi è giovane e forte. E' compito nostro, della nuova generazione.

La nostra cara Avis sarà accanto a me, qualunque cosa accada, e la rappresenterà sul campo di battaglia".

"Ma non possono nuocermi" obiettò mio padre. "Grazie a dio, sono indipendente. Oh, la prego di credere che mi rendo conto delle terribili persecuzioni che potrebbero infliggere a un professore la cui vita dipendesse esclusivamente dall'università. Ma io sono indipendente. Non sono entrato nell'insegnamento per lo stipendio.

Posso vivere bene con le mie rendite: loro possono togliermi solo lo stipendio".

"Non vede le cose abbastanza a fondo", rispose Ernest. "Se accade ciò che temo, possono privarla delle sue rendite e perfino del capitale, oltre che dello stipendio".

Mio padre rimase in silenzio per qualche attimo. Rifletteva profondamente, e una profonda ruga, segno di decisione, gli comparve sulla fronte. Infine, con tono deciso, disse:

"Non accetterò questa vacanza". S'interruppe di nuovo. Continuerò a scrivere il mio libro (3). Può darsi che lei sbagli. Ma, torto o ragione, resterò al mio posto".

"Benissimo. Lei sta avviandosi sulla stessa strada del vescovo Morehouse: andrà incontro alla stessa catastrofe. Sarete tutti e due ridotti allo stato di proletari prima di raggiungere lo scopo".

Il discorso si spostò sul prelato, e noi chiedemmo a Ernest di raccontarci ciò che sapeva di lui.

"E' rimasto colpito fin nel profondo dell'animo dal viaggio in cui l'ho trascinato attraverso l'inferno. Gli ho fatto visitare le baracche dei nostri operai, gli ho fatto vedere i rifiuti umani rigettati dalla macchina industriale, che gli hanno raccontato la loro vita. L'ho condotto nei bassifondi di San Francisco, e ha potuto constatare che l'alcolismo, la prostituzione, la criminalità, hanno una causa più profonda che non la corruzione naturale. Ne è rimasto profondamente colpito, peggio, si è appassionato alla causa. Il colpo è stato troppo duro per quel fanatico della morale che, come spesso accade, non ha il minimo senso pratico. Si agita nel vuoto, fra ogni sorta di illusioni umanitarie e disegni di interventi presso le classi colte. Sente che è suo dovere ineluttabile far rivivere l'antico spirito della chiesa e render noto il suo messaggio ai padroni. Si è entusiasmato; presto o tardi scoppierà, ma non posso predire quale forma assumerà la catastrofe . E' un animo puro ed entusiasta, ma così poco pratico! Si spinge più lontano di me, non riesco a tenerlo sulla terra; vola verso il suo orto degli ulivi e poi verso il suo calvario. Perché le anime così nobili sono nate per essere crocifisse".

"E tu?" domandai con un sorriso che nascondeva l'ansia tormentosa del mio amore.

"Io no", rispose, pure sorridendo. "Potrò essere giustiziato o assassinato, ma non sarò mai crocifisso. Sono piantato troppo solidamente e ostinatamente sulla terra".

"Ma perché preparare la crocifissione del vescovo? Non negherai d'esserne la causa".

"Perché dovrei lasciare uno a vivere tranquillamente nel lusso, mentre milioni di lavoratori vivono nella miseria?".

"Allora perché consigli a mio padre di accettare quella vacanza?".

"Perché non sono un'anima pura ed entusiasta. Perché sono solido, ostinato ed egoista, perché vi amo e dico, come Ruth: 'La tua gente è la mia gente'. Il vescovo, poi, non ha una figlia. Inoltre per quanto minimo sia il risultato, per quanto debole e insufficiente si riveli il tentativo, produrrà qualche beneficio per la rivoluzione; e tutte le briciole contano".

Non potevo condividere il suo parere. Conoscevo bene la nobile natura del vescovo Morehouse, e non riuscivo a immaginare che la sua voce, sorgendo in favore della giustizia, non fosse altro che un vagito debole e impotente. Non conoscevo ancora, effettivamente, come Ernest, la dura vita. Lui vedeva con chiarezza la futilità di quella grande anima, che gli avvenimenti prossimi mi avrebbero rivelato con maggiore chiarezza.

Dopo alcuni giorni, Ernest mi raccontò, come una cosa molto strana, l'offerta che aveva ricevuto dal governo. Gli proponevano il posto di segretario al ministero del lavoro. Ne fui felice. Lo stipendio era relativamente alto, avrebbe costituito una solida base per il nostro matrimonio. Quel genere di lavoro doveva certo piacere a Ernest, e il fiero orgoglio che provavo per lui mi fece considerare quella proposta come un giusto riconoscimento delle sue capacità. Improvvisamente, osservai nei suoi occhi il lampo che gli era tipico: si prendeva gioco di me. "Non... rifiuterai, vero?" domandai con voce tremante.

"E' un tentativo di corruzione", disse. "C'è sotto l'abile intervento di Wickson e, dietro il suo, quello di gente ancora più in alto. E' un vecchio trucco, come la lotta di classe, che consiste nello scegliere i propri capitani togliendoli all'esercito del nemico. Poveri lavoratori eternamente traditi!

Sapessi quanti sindacalisti, in passato sono stati comprati così!

Costa meno, molto meno assoldare un generale, che non affrontarlo con il suo esercito e combatterlo. C'è stato... ma non voglio nominare nessuno! Sono già abbastanza indignato. Cara e tenera amica mia, sono un capitano del lavoro, non posso vendermi. Se non avessi altri motivi, la sola memoria del mio povero e vecchio padre estenuato sino alla morte basterebbe a impedirmelo".

Aveva le lacrime agli occhi, quell'eroe, il mio grande eroe. Non avrebbe mai perdonato l'ingiustizia fatta a suo padre, le sordide bugie e i furti meschini ai quali era stato spinto per dare il pane ai suoi figli.

"Mio padre era un brav'uomo", mi disse un giorno. "Era un'anima buona, mutilata, scorticata dalla miseria della vita. I suoi padroni, bruti, due volte bruti, ne fecero una bestia vinta.

Dovrebbe essere ancora vivo, come tuo padre, era forte, ma fu preso nella macchina e logorato a morte, per accrescere il profitto altrui. Pensa, per produrre dividendi, il sangue delle sue vene fu mutato in un pranzo innaffiato da vini prelibati in una ridda di ori o in un'orgia dei sensi per ricchi oziosi e parassiti, i suoi padroni. Due volte bruti!".

NOTE:

1) Gli schiavi africani e i criminali avevano attaccata alla gamba una catena di ferro. Soltanto dopo l'avvento della fratellanza dell'uomo, simili usi barbari furono abbandonati.

2) C'erano stati, prima di Everhard, uomini che avevano presentito quell'ombra, sebbene, come lui, fossero stati incapaci di precisarne la natura. John C. Calhoun diceva: "Un potere superiore a quello dello stesso popolo è sorto nel governo. E' un insieme d'interessi molteplici, diversi e potenti, combinati in una massa unica e mantenuti dalla forza di coesione dell'enorme riserva che esiste nelle banche". E il grande umanista Abraham Lincoln dichiarava, qualche giorno prima del suo assassinio:

"Prevedo nel prossimo avvenire una crisi che mi fa tremare per la sicurezza del mio paese... Le società anonime sono state innalzate al trono: ne seguirà un'era di corruzione nelle classi elevate, e il potere capitalista del paese si sforzerà di prolungare il suo regno appoggiandosi sui pregiudizi del popolo, sinché la ricchezza non sia condensata in poche mani e la repubblica distrutta".

3) Il libro: "Economia ed educazione" fu pubblicato quell'anno. Ne esistono tre esemplari: due ad Ardis e uno ad Asgard. Trattava diffusamente d'uno dei fattori di conservazione dell'ordine, cioè della tendenza al capitalismo delle università e delle scuole inferiori. Era un atto di accusa logico e schiacciante contro tutto un sistema di educazione che sviluppava nella mente degli studiosi solo idee favorevoli al regime, escludendo ogni idea contraria o sovversiva. Il libro fece scalpore e fu immediatamente soppresso dall'oligarchia.

Capitolo 7

LA VISIONE DEL VESCOVO

"Il vescovo ha rotto i freni", mi scrisse Ernest. "Si libra nel vuoto assoluto. Oggi vuol cominciare a rimettere in piedi il nostro miserabile mondo, annunciandogli il proprio messaggio. Mi ha avvertito, e non sono riuscito a dissuaderlo. Questa sera presiede l'I.P.H. (1) e includerà il messaggio nell'allocuzione di apertura.

Posso passare a prenderti per andare a sentirlo? Naturalmente il suo sforzo è condannato in partenza a fallire. Ti spezzerà il cuore... e spezzerà anche il suo, ma per te sarà un'ottima lezione. Sai, mia cara e tenera amica, quanto sia fiero del tuo amore e come vorrei meritare la tua più alta stima, per compensare ai tuoi occhi, in un certo qual modo, la mia indegnità a questo onore. Il mio orgoglio desidera persuaderti che il mio pensiero è corretto e giusto. Le mie idee, al riguardo, sono amare; la futilità di quell'animo, che pure è nobile, ti dimostrerà che la mia asprezza è necessaria. Vieni alla riunione di questa sera. Per quanto tristi possano essere gli incidenti, sento che ti terranno più stretta a me".

L'I.P.H. aveva convocato per quella sera, a San Francisco, un'assemblea per esaminare lo sviluppo dell'immoralità pubblica, e per studiare i rimedi. Presiedeva il vescovo Morehouse che, come osservai subito, era in uno stato di grande eccitazione nervosa.

Ai suoi lati sedevano il vescovo Dickinson, H. H. Jones, capo della facoltà di etica dell'università di California, la signora W. W. Hurd, grande organizzatrice di opere di carità, Philip Ward, altro grande filantropo, e altri astri di minore grandezza nel campo della morale e della carità. Il vescovo Morehouse si alzò e esordì, senza preamboli:

"Attraversavo le strade in carrozza: era notte. Ogni tanto guardavo fuori dal finestrino. A un tratto i miei occhi parvero aprirsi e vidi le cose come sono. Il mio primo gesto fu di portarmi una mano alla fronte, per nascondermi l'orribile realtà, e nell'oscurità mi rivolsi questa domanda: Che cosa si può fare?

Un attimo dopo, la domanda assunse quest'altra forma: Che cosa avrebbe fatto il mio divino Maestro? A questo punto, una luce improvvisa sembrò riempire lo spazio, e il mio dovere, mi parve chiaro, della chiarezza del sole, come Saul aveva visto il suo, sulla strada di Damasco. Feci fermare, scesi e dopo qualche parola scambiata con due donne pubbliche, le indussi a salire nella mia vettura, con me. Se Gesù ha detto il vero, quelle due infelici erano due mie sorelle, e la sola possibilità di purificazione stava nel mio affetto e nella mia tenerezza per loro. Vivo in uno dei quartieri più belli di San Francisco. La casa in cui abito è costata mille dollari, l'arredamento e i libri, e le opere d'arte altrettanto. La mia casa è un castello dove abitano anche numerosi domestici. Ignoravo sinora a che cosa possano servire i manieri, credevo che fossero fatti per viverci. Ora lo so. Condussi le due ragazze di strada nel mio palazzo e ora rimarranno con me. E di sorelle mie, di questa specie, spero di riempire le vaste camere della mia dimora".

Gli ascoltatori andavano agitandosi sempre più e i visi di quelli seduti sulla pedana, manifestavano uno spavento e una costernazione crescente.

All'improvviso, il vescovo Dickinson si alzò e, con un'espressione di disgusto, abbandonò la pedana e la sala. Ma il vescovo Morehouse, dimentico di tutto, gli occhi pieni della sua visione, continuò:

"O sorelle e fratelli, in questo modo di agire trovo la soluzione di tutte le difficoltà. Non mi rendevo conto dell'utilità delle carrozze. Ora so. Sono fatte per trasportare i deboli, gli ammalati e i vecchi, non per rendere onore a quelli che hanno perduto persino il senso della vergogna.

Non sapevo perché i palazzi fossero costruiti, ma oggi l'ho scoperto: le residenze ecclesiastiche dovrebbero essere convertite in ospedali e asili per chi è caduto lungo la via, e che sta per morirvi".

Fece una lunga pausa, dominato evidentemente dall'intensità del suo pensiero, e incerto sul modo migliore di esprimerlo.

"Sono indegno, cari fratelli, di dirvi alcunché in fatto di moralità. Ho vissuto troppo a lungo in un'ipocrisia vergognosa per essere in grado d'aiutare gli altri, ma il mio atto verso quelle donne, verso quelle sorelle, mi mostra che la migliore via è facile a trovare. Per coloro che credono in Gesù e nel suo Vangelo, non possono esserci fra gli uomini altri rapporti che quelli di affetto. L'amore solo è più forte del peccato, più forte della morte.

Dichiaro dunque ai ricchi fra voi che il loro dovere è di fare ciò che ho fatto e faccio io. Tutti quelli che vivono nell'agiatezza prendano in casa un ladro e lo trattino come un fratello; prendano un'infelice e la trattino come una sorella, e San Francisco non avrà più bisogno di polizia e magistrati. Le prigioni saranno sostituite da ospedali, e il delinquente sparirà, insieme al delitto.

Non dobbiamo dedicarci solo a far denaro: dobbiamo dare noi stessi, come faceva Cristo. Questo oggi è il messaggio della Chiesa. Ci siamo allontanati molto, smarrendoci, dall'insegnamento del Maestro. Ci siamo consumati nel nostro lusso. Abbiamo innalzato il vitello d'oro sull'altare. Ho qui una poesia che riassume tutto questo in pochi versi. Ve la leggerò. Fu scritta da un'anima smarrita, che però vedeva le cose chiaramente (2). Non bisogna interpretarla come un attacco contro la chiesa, ma contro gli agi e la pompa del clero, che si è allontanato dal sentiero tracciato dal Maestro e ha abbandonato le sue pecorelle. Eccola:

Trombe d'argento nella Cattedrale squillarono sul popolo inchinato, e sulle spalle io vidi sollevato, re di Roma, il Divino Mortale.

Prete nella sua veste liliale, re, di regale porpora ammantato, tre volte cinto di serto regale, il Papa andò, illuminando il creato.

Pel deserto dei secoli il mio cuore pervenne sino a un solitario mare e a un viandante in cerca di sua pace.

Uccello in nido e volpe in tana giace; invano io solo cerco di posare, ferisco i piedi e bevo il mio dolore".

Il pubblico era agitato, ma non commosso. Il vescovo Morehouse non se ne accorgeva, seguiva la sua via con cuore fermo.

"Ecco perché dico ai ricchi fra voi, e a tutti i ricchi: 'Voi avete crudelmente oppresso le pecore del Maestro, voi avete indurito i vostri cuori, avete indurito i vostri orecchi alle voci che gridano sulla via, voci di sofferenza e di dolore che non volete sentire ma che saranno esaudite un giorno! Ecco perché io predico...'".

Ma a questo punto H. H. Jones e Philip Ward, che da un po' si erano alzati dai loro scanni, presero il vescovo per un braccio e lo trascinarono giù dalla pedana, mentre la sala rimaneva oppressa dallo scandalo.

Appena in strada, Ernest scoppiò in una risata che mi sconvolse.

Il cuore stava per scoppiarmi, le lacrime per scorrere.

"Ha annunciato loro il suo messaggio!" esclamò Ernest. "La forza umana e la natura mite del vescovo si sono rivelate agli occhi dei suoi affezionati seguaci cristiani, i quali hanno concluso che non aveva la testa a posto. Hai visto con che rapidità gli hanno fatto abbandonare la pedana? In verità, l'inferno deve aver riso di questo spettacolo".

"Eppure, ciò che il vescovo ha detto questa sera creerà una forte impressione", osservai.

"Credi?" fece Ernest, ironico.

"Farà molta sensazione", affermai. "Ho visto i cronisti scrivere come matti, mentre lui parlava".

"Neppure una parola di quanto ha detto apparirà domani sui giornali".

"Non posso crederlo", esclamai.

"Aspetta e vedrai, neppure una parola, neppure un pensiero. La stampa quotidiana? Un trucco continuo".

"Ma i cronisti? Li ho visti con i miei occhi".

"Neppure una parola di quanto ha detto verrà stampata. Dimentichi i direttori dei giornali. Il loro stipendio dipende dalla loro linea di condotta, e la loro linea di condotta segue questo criterio: non pubblicare nulla che costituisca una seria minaccia per l'ordine costituito. Le dichiarazioni del vescovo rappresentano un assalto violento alla morale corrente. Sono considerate eresia. Gli hanno fatto abbandonare la pedana per impedirgli di dire di più. I giornali puniranno la sua eresia col silenzio e l'oblio.

La stampa degli Stati Uniti? E' un'escrescenza capitalistica. La sua funzione è di servire lo stato attuale delle cose, manipolando l'opinione pubblica; e l'esegue a meraviglia. Lascia che ti predica ciò che avverrà. I giornali domani racconteranno semplicemente che il vescovo non sta bene, che ha lavorato troppo e che questa sera ha avuto un collasso. Fra qualche giorno, un altro annuncio: che è in uno stato di prostrazione nervosa, e che le sue pecorelle riconoscenti hanno fatto una sottoscrizione affinché gli sia concessa una vacanza. Quindi potrà accadere una di queste due cose: o il vescovo riconoscerà l'errore commesso e ritornerà dalle vacanze perfettamente guarito, senza più visioni; oppure persisterà nel suo delirio e in questo caso i giornali ci informeranno con frasi patetiche, di profonda simpatia, che è diventato matto. Infine, gli lasceranno raccontare le sue visioni davanti a pareti imbottite".

"Ora esageri!" esclamai.

"Agli occhi della società sarà veramente impazzito", rispose Ernest. "Quale onest'uomo, sano di mente, prenderebbe in casa dei ladri e delle prostitute per vivere con loro come fratelli e sorelle? E' vero che Cristo è morto fra due ladroni, ma è un'altra storia. Pazzia? Ma il ragionamento di un uomo col quale non si è d'accordo sembra sempre falso, e naturalmente la mente del vescovo è sconvolta. Dov'è la linea di separazione fra una mente falsa e una mente pazza? E' inconcepibile che un individuo di buon senso possa essere in disaccordo radicale con le nostre più sane conclusioni.

Ne troverai un bell'esempio nei giornali di questa sera. Mary MacKenna abita nella parte meridionale di Market Street. Benché povera, è perfettamente onesta. E' perfino buona patriota. Solo che si è fatta delle idee false circa la bandiera americana e la protezione di cui dovrebbe essere il simbolo. Ed ecco che cosa le è capitato: suo marito, vittima di un infortunio, è rimasto per tre mesi all'ospedale. Lei ha cercato di guadagnare facendo la lavandaia ma ciò nonostante è rimasta arretrata nel pagamento del fitto di casa. Ieri l'hanno messa sul lastrico. Prima, aveva sventolato la bandiera nazionale davanti alla sua porta e, riparandosi dietro di essa, aveva proclamato che in virtù di quella protezione non avevano il diritto di buttarla sulla strada.

Che cosa hanno fatto? L'hanno arrestata e dichiarata pazza! Oggi è stata sottoposta all'esame medico dei periti ufficiali, che l'hanno riconosciuta pazza e l'hanno rinchiusa nella casa di salute di Napa".

"Il tuo esempio non calza. Supponi che io sia in disaccordo con tutti, sul valore, mettiamo, di un'opera letteraria. Non mi manderebbero per questo al manicomio".

"Verissimo", replicò Ernest. "La tua diversità di opinione non costituirebbe una minaccia per la società. Questa è la differenza.

Le opinioni anormali di Mary MacKenna e del vescovo sono invece un pericolo per l'ordine costituito. Che succederebbe se tutti i poveri si rifiutassero di pagare l'affitto rifugiandosi sotto la protezione della bandiera americana? La prosperità sarebbe distrutta. Le convinzioni del vescovo non sono meno pericolose per l'attuale società. Dunque, lo aspetta il manicomio".

"Non posso crederci." "Aspetta e vedrai", disse Ernest. E aspettai.

La mattina dopo, mandai a comprare tutti i giornali: non riportavano neppure una parola di quanto il vescovo Morehouse aveva detto. Uno o due riferivano che si era lasciato vincere dalla commozione. Le stupidaggini degli oratori che avevano parlato dopo di lui erano invece interamente riprodotte.

Parecchi giorni dopo, un breve annuncio informava che il prelato era partito in vacanza per ragioni di salute, in seguito a un eccesso di lavoro. Fin qui Ernest aveva ragione. Ma non si parlava ancora di pazzia, neppure di esaurimento nervoso. Non immaginavo neppure la via dolorosa che il dignitario della chiesa era destinato a percorrere, quella via dall'orto di Getsemani al Calvario, che Ernest aveva intravisto per lui.

NOTE:

1) Non esiste indizio che possa illuminarci sull'organizzazione rappresentata da queste iniziali.

2) Oscar Wilde, uno dei maestri della letteratura del secolo diciannovesimo dell'era cristiana.

Capitolo 8

I DISTRUTTORI DELLA MACCHINA

Poco tempo prima che Ernest si presentasse come candidato al Congresso, nella lista socialista, mio padre diede quello che, in privato, chiamò il pranzo dei "Profitti e perdite". Ernest lo chiamò invece il pranzo dei Distruttori della macchina.

In realtà, fu un pranzo di uomini d'affari, piccoli uomini d'affari, naturalmente. Credo che nessuno fra loro fosse interessato in un'impresa il cui capitale superasse i duecentomila dollari. Erano dunque i veri rappresentanti degli uomini d'affari medio-borghesi. C'era Owen, della Silverberg, Owen e C., un'importante ditta grossista di drogheria, con numerose succursali, di cui noi eravamo clienti. C'erano i soci della grande casa farmaceutica Kowalt e Washburn; c'era il signor Asmunsen, proprietario d'un'importante cava di granito nella Contea di Contra Costa, e parecchi altri dello stesso livello, proprietari o soci di piccole industrie, piccoli commerci e piccole imprese: in una parola, piccoli capitalisti.

Erano persone abbastanza interessanti, dall'aria intelligente e con un linguaggio semplice e chiaro. Si lamentavano, all'unanimità, dei consorzi e la loro parola d'ordine era:

"Aboliamo i trust!". Secondo loro erano all'origine di tutte le oppressioni; e tutti, senza eccezione, ripetevano la stessa lagnanza. Sostenevano la nazionalizzazione delle grandi imprese, come le ferrovie e le poste, nonché l'inasprimento fiscale contro i grossi profitti per distruggere le grandi concentrazioni di capitali. Lodavano anche, come un possibile rimedio alle miserie locali, la municipalizzazione delle imprese di pubblica utilità, come l'acqua, il gas, i telefoni e i trasporti pubblici.

Particolarmente interessante fu il racconto del signor Asmunsen sulle sue vicissitudini di proprietario di cava. Confessò che questa sua cava non gli aveva dato mai nessun utile, nonostante il grande quantitativo di ordinazioni che gli aveva procurato il grande terremoto di San Francisco. La ricostruzione della città era durata sei anni, durante i quali il volume dei suoi affari si era quadruplicato, ma non per questo lui si era arricchito.

"La compagnia delle ferrovie è al corrente dei miei affari meglio di me", spiegò. "Conosce al centesimo le spese di gestione e i termini dei miei contratti. Come mai sia così bene informata posso solo immaginarlo. Deve avere delle spie fra i miei impiegati e delle conoscenze tra i firmatari dei contratti. Perché, badate, appena ho firmato un grosso contratto vantaggioso che mi assicura un buon guadagno, i prezzi di trasporto aumentano come per incanto. Non mi si danno spiegazioni, ma le ferrovie si prendono il mio guadagno. In questi casi non sono mai riuscito a convincere la compagnia a rivedere le sue tariffe, mentre, in seguito a incidenti o aumenti di spese di gestione, o dopo la firma di contratti meno vantaggiosi per me, sono sempre riuscito a ottenere un ribasso. Insomma, le ferrovie si prendono tutti i miei guadagni, grandi o piccoli".

Ernest l'interruppe per chiedergli:

"Ciò che le rimane, in fin dei conti, equivale pressappoco allo stipendio che la compagnia ferroviaria le darebbe come direttore, qualora fosse proprietaria della cava?".

"Esattamente", rispose il signor Asmunsen. "Non molto tempo fa, feci eseguire un controllo dei miei libri in questi ultimi due anni, e ho constatato che i miei guadagni equivalgono pari pari allo stipendio di un direttore. Tanto varrebbe allora che le ferrovie possedessero la cava e l'affidassero a me in gestione".

"Con questa differenza, però", disse Ernest, ridendo. "Che la compagnia ferroviaria si sarebbe caricata dei rischi che lei ha avuto invece la bontà di addossarsi".

"E' vero", ammise il signor Asmunsen, con tristezza.

Quando tutti ebbero detto la loro, Ernest rivolse varie domande.

Cominciò dal signor Owen.

"Sei mesi fa avete aperto una succursale, qui a Berkeley?".

"Sì", rispose il signor Owen.

"Da allora, infatti, ho notato che tre piccole drogherie hanno dovuto chiudere. La vostra succursale ne è la causa?".

"Non avevano nessuna probabilità contro di noi", rispose il signor Owen, con soddisfazione.

"Perché no?".

"Avevamo un capitale più forte. Nel commercio all'ingrosso la perdita è sempre minima e il guadagno maggiore".

"Cosicché il vostro negozio assorbiva i guadagni delle tre piccole botteghe. Capisco. Ma mi dica: che ne è dei proprietari delle tre piccole deogherie?".

"Uno conduce il nostro furgone per le consegne. Non so cosa facciano gli altri".

Ernest si voltò improvvisamente verso il signor Kowalt.

"Lei vende spesso a prezzo di costo, a volte perfino sottocosto (l). Che ne è dei proprietari delle piccole farmacie che ha messo con le spalle al muro?".

"Uno di essi, il signor Haasfurther, è attualmente capo del nostro servizio ordinazioni".

"E lei ha assorbito i guadagni realizzati prima da loro?".

"Certamente: per questo siamo negli affari".

"E lei", disse Ernest rivolgendosi bruscamente al signor Asmunsen.

"Lei è disgustato perché le ferrovie le sottraggono i suoi guadagni, vero?".

Il signor Asmunsen annuì.

"Lei invece vorrebbe tenersi per sé i suoi profitti, vero?".

Il signor Asmunsen annuì di nuovo.

"A spese degli altri?" Nessuna risposta. Ernest insistette:

"A spese degli altri?".

"E' così che si guadagna" replicò seccamente il signor Asmunsen.

"Dunque, il gioco degli affari consiste nel guadagnare a scapito degli altri, e nell'impedire agli altri di guadagnare a spese nostre. E' così, vero?".

Dovette ripetere la domanda e il signor Asmunsen alla fine rispose:

"Sì, è così. Però noi non ci opponiamo a che gli altri facciano i loro guadagni, purché non siano esorbitanti".

"Per esorbitanti intende, senza dubbio, grossi guadagni. Però non vede nessun inconveniente nel fare grossi guadagni per suo conto... vero?".

Il signor Asmunsen confessò la propria debolezza in materia.

Allora Ernest si rivolse a un altro, un certo signor Calvin, una volta grosso proprietario di latterie.

"Qualche tempo fa, lei combatteva il trust del latte", disse. "Ora partecipa alla politica agricola (2). Come mai questo cambiamento?".

"Oh, non ho abbandonato la lotta", rispose il signor Calvin, che aveva infatti un'aria aggressiva. "Io combatto il trust sull'unico terreno sul quale è possibile combatterlo, quello politico. Le spiego: fino a qualche anno fa, noi produttori di latte facevamo ciò che volevamo".

"Ma vi facevate concorrenza fra voi?" l'interruppe Ernest.

"Sì, e questo abbassava i profitti. Allora tentammo di organizzarci, ma c'erano sempre alcuni produttori indipendenti che guastavano i nostri disegni. Poi venne il trust del latte".

"Sovvenzionato dal capitale della Standard Oil" (3) disse Ernest.

"E' vero", ammise il signor Calvin. "Ma non lo sapevamo a quel tempo. I suoi agenti ci affrontarono senza mezzi termini e ci posero questa alternativa: o entrare nella lega e ingrassarci, o star fuori, e perire. La maggior parte di noi entrò nel trust, gli altri creparono di fame. Oh, all'inizio quanto denaro...! Il latte fu aumentato di un centesimo al litro, e un quarto di quel centesimo era nostro. Gli altri tre quarti andavano al trust. Poi il latte fu aumentato di un altro centesimo, ma di questo non toccò nulla a noi. Le nostre lamentele furono inutili. Il trust era diventato il padrone. Ci rendemmo conto di essere delle semplici pedine. Infine, anche il quarto di centesimo addizionale ci fu tolto. Poi il trust cominciò a stringere la vite. Che cosa potevamo fare? Fummo spremuti. Non c'erano più produttori, solo un trust del latte".

"Ma col latte aumentato di due centesimi, mi pare che avreste potuto sostenere la concorrenza", suggerì Ernest con malizia.

"Lo credevamo anche noi. Abbiamo tentato". Il signor Calvin fece una pausa. "E fu la nostra rovina. Il trust poteva lanciare il latte sul mercato a un prezzo inferiore al nostro. Poteva ancora avere un piccolo guadagno quando noi eravamo in pura perdita. Ci ho rimesso cinquantamila dollari in quell'affare. La maggior parte di noi dichiarò fallimento (4). I produttori di latte furono spazzati via".

"Cosicché", disse Ernest, "visto che il trust s'era preso i suoi guadagni, lei s'è dato alla politica, affinché una nuova legislazione distrugga a sua volta il trust e le permetta di riprendere i suoi guadagni?".

Il viso del signor Calvin si rischiarò.

"E' proprio quello che ho detto nelle mie conferenze ai mezzadri.

Questo è, in sintesi, il programma".

"Però il trust dà il latte a migliori condizioni dei lattai indipendenti".

"Perbacco, può ben farlo, con l'organizzazione e le nuove macchine che può procurarsi con i suoi capitali".

"Questo è fuori discussione. Può certamente farlo e, ciò che più conta, lo fa", concluse Ernest.

Il signor Calvin si lanciò allora in un'arringa politica per spiegare il suo punto di vista. Parecchi altri lo imitarono con calore, e il loro grido unanime fu che bisognava abolire i trust.

"Poveri di spirito!" mi bisbigliò Ernest. "Ciò che vedono, lo vedono bene; solamente, non vedono più in là del loro naso".

Dopo un po' riprese il controllo della discussione e, com'era sua abitudine, lo tenne per tutta la sera.

"Vi ho ascoltati con attenzione", cominciò, "e vedo perfettamente che seguite il gioco degli affari in maniera ortodossa. Per voi, la vita si riassume nel guadagno. Avete la convinzione ferma e tenace di essere stati creati e messi al mondo con l'unico scopo di accumulare denaro. Soltanto, c'è un ostacolo: sul più bello della vostra proficua attività, ecco che il trust vi taglia i guadagni. Eccovi in un dilemma apparentemente contrario agli scopi della creazione; e voi non vedete altro mezzo di salvezza che l'annientamento di questo disastroso intervento.

Ho seguito attentamente le vostre parole, e c'è un solo modo per definirvi: siete dei distruttori della macchina. Sapete che vuol dire? Ve lo spiego subito. Nel diciottesimo secolo, in Inghilterra, uomini e donne tessevano il panno su telai a mano, a casa loro. Era un procedimento lento e costoso, quel sistema di manifattura a domicilio. Poi venne la macchina a vapore, con tutti i congegni per guadagnare tempo. Un migliaio di telai riuniti in una grande officina e messi in moto da una macchina centrale, tessevano il panno a molto minor prezzo dei tessitori che possedevano telai a mano. Nella filanda si affermava l'associazione, davanti alla quale si cancella la concorrenza. Gli uomini e le donne che avevano lavorato da soli, con telai a mano, andavano ora nelle fabbriche e lavoravano ai telai a vapore, non più per se stessi ma per i proprietari, i capitalisti. Ben presto anche i bambini si misero ai telai meccanici, in cambio di salari ridotti, e sostituirono gli uomini. I tempi si fecero duri. Il livello di benessere si abbassò rapidamente. Morivano di fame, e dicevano che tutto il male veniva dalle macchine. Allora, vollero rompere le macchine. Non vi riuscirono; erano dei poveri illusi.

Voi non avete ancora capito questa lezione; ed ecco, dopo un secolo e mezzo, volete anche voi distruggere le macchine. Avete ammesso voi stessi che le macchine del trust compiono un lavoro più efficace e a minor prezzo del vostro, per questo non potete combatterle, e tuttavia vorreste distruggerle. Siete ancora più illusi degli sprovveduti operai inglesi. E mentre voi ripetete che bisogna ristabilire la concorrenza, i trust continuano a distruggervi.

Dal primo all'ultimo, raccontate la stessa storia, la scomparsa della rivalità e l'avvento dell'associazione. Lei stesso, signor Owen, ha distrutto la concorrenza, qui a Berkeley, quando la vostra succursale ha fatto chiudere bottega a tre piccoli droghieri, perché la vostra associazione era più efficiente. Ma appena sentite sulle vostre spalle il peso di altre associazioni più forti, quelle dei trust, vi mettete a urlare.

Questo, perché non siete una società forte, ecco tutto. Se formaste un trust di prodotti alimentari per tutti gli Stati Uniti, cantereste un'altra canzone, e la vostra antifona sarebbe:

'Siano benedetti i trust!'. Eppure, non soltanto la vostra piccola associazione non è un trust, ma voi stesso avete coscienza della sua poca forza. Cominciate ad avvertire la fine. Vi accorgete che, nonostante tutte le vostre succursali, non rappresentate che un gettone sul tavolo da gioco. Vedete interessi enormi crescere di giorno in giorno; sentite le mani guantate di ferro dei profittatori impadronirsi dei vostri guadagni, e prendervi un pizzico qui, un pizzico là: così il trust delle ferrovie, il trust del petrolio, il trust dell'acciaio, il trust del carbone; e sapete che alla fine vi distruggeranno, vi prenderanno fino all'ultimo centesimo i vostri mediocri guadagni.

Ciò prova, signore, che lei è un cattivo giocatore. Quando ha strozzato i tre piccoli droghieri, si è sentito orgoglioso, ha vantato l'efficacia e lo spirito dell'impresa, ha mandato sua moglie in Europa, con i guadagni fatti divorando quei poveri negozietti. E' la legge del pesce più grosso, e lei ha mangiato in un sol boccone i suoi rivali.

Ma ecco che a sua volta è morsicato da pesci più grossi ancora, e urla come una cornacchia. E quanto dico di lei, vale per tutti i presenti. Urlate pure. State giocando una partita e la perdete.

Questo vi manda in bestia.

Soltanto, lamentandovi, non siete sinceri; non confessate che vi piace sfruttare gli altri mungendoli, e che fate tutto questo chiasso perché altri tentano di fare lo stesso con voi. No, siete troppo scaltri per questo, e dite tutt'altro. Fate i discorsi politici dei piccoli borghesi, come il signor Calvin poco fa. Che cosa diceva? Ricordo alcune sue frasi: 'I nostri princìpi originari sono solidi'. 'Questo paese deve ritornare ai princìpi americani fondamentali, e ognuno sia libero di approfittare delle occasioni con uguali probabilità...'. 'Lo spirito di libertà sul quale si basa questa nazione... Ritorniamo ai princìpi dei nostri avi!...'.

Quando parlava dell'uguaglianza delle probabilità per tutti, alludeva alla facoltà di spremere guadagni, facoltà che gli è ora tolta dai grandi trust. E la cosa illogica è questa: che, a furia di ripetere queste frasi, avete finito col credere in esse.

Desiderate l'occasione per spogliare i vostri simili uno per volta e vi suggestionate al punto di credere che volete la libertà.

Siete ingordi e insaziabili, ma persuasi dalla magia delle vostre frasi di fare, invece, opera di patriottismo. Trasformate il desiderio di guadagno, che è puro e semplice egoismo, in sollecitudine altruistica per l'umanità sofferente. Avanti, su, una volta tanto, qui fra noi siate sinceri, guardate la realtà in faccia e chiamatela col suo vero nome".

Tutt'intorno alla tavola c'erano visi congestionati che esprimevano una grande irritazione, mista a una certa inquietudine. Erano tutti un po' spaventati da quel giovanotto dal viso glabro, e dal suo modo di parlare, nonché dalla sua terribile maniera di chiamare le cose col loro nome. Il signor Calvin si affrettò a rispondere:

"E perché no?" chiese. "Perché non potremmo ritornare alle tradizioni dei nostri padri che hanno fondato questa repubblica?

Lei ha detto molte cose vere, signor Everhard, per quanto duro possa esserci stato ingoiarle. Ma qui, fra noi, possiamo parlarci chiaro. Togliamo la maschera e accettiamo la verità come il signor Everhard l'ha chiaramente detta.

E' vero che noi piccoli capitalisti diamo la caccia al guadagno, e che il trust ce lo toglie. E' vero che vogliamo distruggere i trust per poter conservare i nostri profitti. E perché non dovremmo farlo? Mi dica perché non dovremmo farlo".

"Ah, eccoci al nocciolo della questione", disse Ernest, con aria soddisfatta. "Perché no? Cercherò di dirvelo, per quanto non sia facile. Voialtri, vedete, avete studiato gli affari nella vostra cerchia ristretta, ma non avete affatto approfondito la questione dell'evoluzione sociale. Siete in pieno periodo di transizione nell'evoluzione economica, ma non ci capite nulla, e da questo deriva tutto il caos. Mi domandate perché non potete ritornare indietro. Per il semplice motivo che non è possibile.

Non potete far risalire un fiume verso la sorgente. Giosuè fermò il sole sopra Gebeone, ma voi vorreste fare di più; voi sognate di far tornare indietro il sole. Vorreste fare andare il tempo all'indietro, dal mezzogiorno all'aurora.

Davanti alle macchine per risparmiare lavoro, alla produzione organizzata, all'efficacia crescente delle società, vorreste fermare il sole dell'economia di una o più generazioni, farlo ritornare a un'epoca in cui non c'erano né grandi ricchezze, né grandi macchine, né strade ferrate: in cui le legioni di piccoli capitalisti lottavano l'una contro l'altra, nell'anarchia industriale; in cui la produzione era primitiva, dispendiosa e disorganizzata. Credetemi: il compito di Giosuè fu più facile, aveva inoltre l'aiuto di Geova. Ma voi, piccoli borghesi, siete stati abbandonati da dio. Il vostro sole declina, e non risorgerà mai più, e non è neppure in vostro potere fermarlo ora nel suo corso. Siete perduti, condannati a sparire completamente dalla faccia della terra.

"E' il fiat dell'evoluzione, il comando divino. L'associazione è più forte della rivalità. Gli uomini primitivi erano poveri schiavi che si nascondevano nelle grotte tra le rocce, ma un giorno si unirono per lottare contro i loro nemici carnivori. Le fiere avevano il solo istinto della rivalità, mentre l'uomo era dotato di un istinto di cooperazione; perciò stabilì la sua supremazia su tutti gli altri animali. E da allora non ha fatto che creare associazioni sempre più vaste. La lotta dell'organizzazione contro la concorrenza data da un migliaio di secoli, e sempre ha trionfato l'organizzazione. Quelli che si arruolano nel campo della concorrenza sono destinati a perire".

"Però gli stessi trust sono nati dalla concorrenza", interruppe il signor Calvin.

"Giustissimo!" rispose Ernest. "E i trust, infatti, l'hanno distrutta. Per questo, come avete voi stessi confessato, è finito il tempo delle vacche grasse".

Alcune risate corsero per la tavola, le prime in tutta la sera, e il signor Calvin non fu l'ultimo a partecipare all'ilarità provocata da lui stesso.

"E ora, visto che parliamo di trust, cerchiamo di chiarire un certo numero di punti", riprese Ernest. "Voglio esporvi alcuni assiomi; se non vi vanno, avrete solo da dirlo. Se tacete, vorrà dire che siete d'accordo. Non è forse vero che un telaio meccanico tesse il panno in maggiore quantità e a minor prezzo di un telaio a mano?". Fece una pausa, ma nessuno prese la parola. "Di conseguenza, non è del tutto folle, forse, distruggere i telai meccanici per ritornare al processo grossolano e costoso della tessitura a mano?". Molte teste si agitarono in segno di assenso.

"Non è vero che l'associazione d'interessi conosciuta sotto il nome di trust produce, in maniera più pratica e più economica, quanto non producano un migliaio di piccole imprese rivali?". Non si levò nessuna obiezione. "Dunque, non è irragionevole distruggere questa associazione d'interessi economici e pratici?".

Nuovo silenzio, che durò a lungo. Infine, il signor Kowalt domandò:

"Che fare allora? Distruggere i trust è la nostra sola via per sfuggire al loro dominio".

Ernest parve accendersi immediatamente, animato da una fiamma ardente.

"Gliene indico un'altra", esclamò. "Invece di distruggere quelle macchine meravigliose, controlliamole. Approfittiamo dell'efficienza e dell'economia che ci offrono. Soppiantiamo gli attuali padroni e facciamole funzionare noi stessi. Questo, signori, è il socialismo; un'associazione più vasta di trust, un'organizzazione sociale e economica più grande di quante ne sono esistite finora sul nostro pianeta. Ed è al passo con l'evoluzione. Affrontiamo le associazioni con un'associazione superiore. Abbiamo buone carte in mano. Schieratevi con noi e sarete dalla parte vincente".

Ci furono delle proteste. Scuotimenti di testa e mormorii.

"Va bene, preferite essere anacronistici", disse Ernest ridendo.

"Preferite svolgere la parte atavica; scomparirete come ogni atavismo. Vi siete mai chiesti cosa vi capiterà quando nasceranno associazioni d'interessi più formidabili degli attuali trust? Vi siete mai preoccupati di ciò che diventerete quando i consorzi si fonderanno nel trust dei trust, in un trust sociale, economico e politico?".

E voltosi improvvisamente verso il signor Calvin:

"Dica lei se non ho ragione. Sarete obbligati a formare un nuovo partito politico, perché i vecchi partiti sono nelle mani dei trust. Questi costituiscono il principale ostacolo alla vostra propaganda agricola. Ogni ostacolo che incontrate, ogni colpo che ricevete, ogni sconfitta che subite, deriva dai trust. Non è forse vero?".

Il signor Calvin taceva imbarazzato.

"Risponda", insistette Ernest con tono incoraggiante.

"E' vero", confessò il signor Calvin. "Ci eravamo impadroniti del potere legislativo nello stato dell'Oregon e avevamo fatto approvare ottime leggi protezioniste, ma il governatore, che è una creatura dei trust, s'è opposto. Invece nel Colorado, avevamo eletto un governatore che non poté entrare in azione per l'opposizione del potere legislativo.

Due volte abbiamo fatto approvare un'imposta nazionale sul reddito, e due volte la Corte Suprema l'ha rigettata come contraria alla costituzione. Le corti sono nelle mani dei trust, noi, il popolo, non paghiamo i nostri giudici abbastanza bene. Ma verrà un giorno...".

"In cui il cartello dei trust controllerà la legislatura", interruppe Ernest, "in cui il cartello dei trust sarà al governo".

"Mai! Mai!" esclamarono i presenti, eccitati e bellicosi.

"Mi volete dire cosa farete, quando verrà quel giorno?" chiese Ernest.

"Ci solleveremo con tutte le nostre forze", esclamò il signor Asmunsen, la cui risolutezza fu salutata da calorose approvazioni.

"Sarà la guerra civile " osservò Ernest.

"E sia la guerra civile!" rispose Asmunsen, appoggiato da nuove acclamazioni. "Non abbiamo dimenticato le gesta dei nostri antenati. Per la nostra libertà siamo pronti a combattere e a morire".

Ernest, sorridendo, disse:

"Non dimenticate, signori, che poco fa eravamo tacitamente d'accordo che la parola libertà, nel caso vostro, significa ricavare profitti dagli altri".

Tutti i convitati erano infuriati, animati da uno spirito bellicoso. Ma la voce di Ernest dominò il tumulto:

"Ancora una domanda: dite che vi solleverete con tutte le vostre forze quando il governo fosse strumento dei trust; di conseguenza, il governo ricorrerebbe contro la vostra forza all'esercito regolare, la marina, la milizia, la polizia, in una parola a tutta la grande e organizzata macchina bellica degli Stati Uniti. Che fine farebbe allora la vostra forza?".

Sui loro volti apparve una profonda costernazione.

Senza lasciar loro il tempo di riflettere, Ernest partì per un nuovo attacco:

"Non molto tempo fa, ricordate, il nostro esercito regolare era di soli cinquantamila uomini. I suoi effettivi sono stati aumentati da un anno: ora conta trecentomila uomini".

E rinnovò il suo attacco:

"Non basta: mentre vi lanciavate all'inseguimento del vostro fantasma favorito, il guadagno, e improvvisavate omelie sul vostro caro feticcio, la concorrenza, conquiste ancora più penose e crudeli sono state realizzate dai trust: c'è la milizia".

"E' la nostra forza", esclamò il signor Kowalt. "Con essa respingeremo l'attacco dell'esercito regolare".

"Cioè, farete parte voi stessi della milizia", replicò Ernest, "e sarete mandati nel Maine o nella Florida, nelle Filippine o in altro luogo, per domare i vostri compagni in rivolta, in nome della libertà. Nello stesso tempo, i vostri compagni del Kansas, del Wisconsin o di un altro stato, faranno parte anch'essi della milizia e verranno in California, per soffocare nel sangue la vostra stessa guerra civile".

Questa volta i presenti rimasero addirittura scandalizzati e muti.

Alla fine il signor Owen mormorò:

"Non ci arruoleremo nella milizia. E' semplicissimo: non saremo così ingenui".

Ernest scoppiò in una risata.

"Non vi siete resi conto dell'associazione che è stata formata.

Non potete difendervi: sarete arruolati a forza nella milizia".

"Esiste una cosa che si chiama diritto civile", insistette il signor Owen.

"Ma non quando il governo proclama la legge marziale. Il giorno in cui parlaste di sollevarvi in massa, la vostra stessa massa si leverebbe contro di voi. Sareste arruolati nella milizia, volenti e nolenti. Sento già qualcuno pronunciare le parole: detenzione arbitraria. Invece di questa avreste l'autopsia. Se rifiutaste di entrare nella milizia o di obbedire, una volta arruolati, sareste trascinati davanti a una corte marziale e abbattuti come cani. E' la legge".

"Non è la legge", affermò con autorità il signor Calvin. "Non esiste una legge simile. Tutto questo lei se l'è sognato, giovanotto. Ma come? Parla di mandare la milizia nelle Filippine?

Sarebbe contro la costituzione. La costituzione dice chiaramente che la milizia non potrà mai essere mandata all'estero".

"Cosa c'entra la costituzione?" ribatté Ernest. "La costituzione è interpretata dalle corti e queste, come ha detto il signor Asmunsen, sono strumento dei trust. Inoltre, come ho affermato, la legge vuole così. E' legge, da anni, da nove anni, signori".

"E' legge", chiese il signor Calvin, con aria incredula, "che si possa essere arruolati a forza nella milizia... e condannati da una corte marziale se ci rifiutiamo?".

"Precisamente", rispose Ernest.

"Come mai allora non abbiamo mai sentito parlare di questa legge?" domandò mio padre; e capii benissimo che anche a lui la cosa riusciva nuova.

"Per due motivi", rispose Ernest. "Primo, perché non si è mai presentata l'occasione di applicarla: se fosse stato necessario, ne avreste già sentito parlare. Secondo, perché questa legge è stata approvata in fretta dal Congresso e in segreto dal Senato:

praticamente senza nessun dibattito. Naturalmente i giornali non ne hanno mai fatto cenno. Noi socialisti lo sapevamo e l'abbiamo pubblicato nei nostri giornali. Ma voi non leggete mai i nostri giornali".

"Io sostengo che lei sogna", disse il signor Calvin, con ostinazione. "Il paese non avrebbe mai permesso una cosa simile".

"Eppure, il paese l'ha permessa, di fatto", replicò Ernest. "E quanto al sognare, mi dica se questo le sembra un sogno".

E, tratto di tasca un opuscolo, l'aprì e si mise a leggere:

"'Sezione Prima. E' decretato, eccetera eccetera, che la milizia si componga di tutti i cittadini validi di età superiore ai diciotto anni e inferiore ai quarantacinque, abitanti i diversi Stati, territori e il distretto di Columbia...

Sezione Settima. Che ogni ufficiale o graduato arruolato nella milizia' - ricordate, signori, che, secondo la Sezione Prima, siete tutti arruolati - 'che rifiuterà e non si presenterà all'ufficiale di reclutamento, dopo essere stato chiamato com'è prescritto, sarà tradotto davanti a una corte marziale e passibile di pene secondo la sentenza di detta corte...

Sezione Nona. Che la milizia, quando sarà chiamata in servizio attivo negli Stati Uniti, sarà soggetta alle stesse leggi di guerra dell'esercito regolare degli Stati Uniti'.

Ecco a che punto siamo, signori, cittadini americani e compagni di milizia. Nove anni fa, noi socialisti pensavamo che questa legge fosse rivolta contro i lavoratori, ma sembra che sia rivolta anche contro voialtri. Il deputato Wiley, nel breve dibattito che fu consentito, dichiarò che la legge 'mirava a creare una forza di riserva per prendere il popolo alla gola'. Il popolo siete voi, signori, 'e per proteggere ad ogni costo la vita, la proprietà, la libertà'. E in avvenire, quando vi solleverete con tutta la vostra forza, ricordate che vi rivolterete contro la proprietà dei trust e contro la libertà, legalmente accordata ai trust, di sfruttarvi.

Signori, vi hanno strappato i denti, vi hanno tagliato le unghie, il giorno in cui insorgerete, armati solo della forza della vostra virilità, ma sprovvisti di unghie e di denti, sarete inoffensivi come una legione di molluschi".

"Non credo a una sola parola di questo", esclamò il signor Kowalt.

"Una simile legge non esiste. E' una storia inventata da voialtri socialisti".

"Il disegno di legge è stato presentato alla Camera il 30 luglio del 1902 dal rappresentante dell'Ohio. E' stato discusso rapidamente e approvato dal Senato il 14 gennaio del 1903. E esattamente sette giorni dopo, la legge è stata approvata dal Presidente degli Stati Uniti".

NOTE:

1) Cioè abbassando i prezzi di vendita sino alla pari del costo della merce e, talvolta, anche al disotto. Una grossa società poteva vendere in perdita più a lungo di una piccola, e questo era un mezzo usato spesso per battere la concorrenza.

2) Numerosi tentativi furono fatti a quel tempo per organizzare la classe decadente dei mezzadri in un partito politico, allo scopo di distruggere i trust con severe misure legislative. Ma tutti gli sforzi fallirono.

3) Il primo gran trust, che precedette di circa una generazione gli altri.

4) Fallimento, o bancarotta: istituto speciale che permetteva all'industriale che non era riuscito a vincere la concorrenza, di non pagare i suoi debiti. L'effetto era di mitigare le condizioni feroci di quella lotta all'ultimo sangue.

5) Everhard diceva il vero. Sbagliava soltanto sulla data della presentazione del disegno di legge, che era il 30 giugno e non il 30 luglio. Esistono, a Ardis, gli Annali dd Congresso, nei quali si parla di questa legge con le seguenti date: 30 giugno; 9, 15, 16 e 17 dicembre 1902, 7 e 14 gennaio 1903. L'ignoranza manifestata a quel pranzo dagli uomini d'affari non era affatto eccezionale. Pochissimi conoscevano l'esistenza di quella legge.

Nel luglio 1903, un rivoluzionario, E. Untermann, aveva pubblicato a Girard, nel Kansas, un opuscolo che trattava della legge sulla milizia. L'opuscolo fu venduto fra i lavoratori ma, data la separazione delle classi, non si diffuse fra la borghesia, che ne ignorò l'esistenza, restando nell'ignoranza.

Capitolo 9

LA MATEMATICA DI UN SOGNO

Fra la costernazione provocata dalla sua rivelazione, Ernest riprese la parola:

"Parecchi di voi, questa sera, hanno dichiarato che il socialismo è impossibile. Poiché avete parlato di ciò che è inattuabile, permettetemi ora di dimostrarvi ciò che è inevitabile: ossia, la scomparsa non solo di voi piccoli capitalisti, ma anche di grossi capitalisti e persino, a un certo momento, dei trust. Ricordate che l'ondata del progresso non si ritrae mai. Senza riflusso, essa procede dalla concorrenza all'associazione, dalla piccola fusione alla grande, dalle grandi fusioni ai grandi e potenti cartelli, sino al socialismo, che è la più gigantesca di tutte le organizzazioni.

Voi mi dite che sogno. Benissimo. Vi esporrò i dati matematici del mio sogno. Anzi, vi sfido in anticipo a dimostrare la falsità dei miei calcoli. Voglio esporvi l'inevitabilità del crollo del sistema capitalistico, e dedurre, matematicamente, la causa della sua fatale decadenza. Abbiate pazienza se il punto di partenza sembra un po' lontano dall'argomento.

Esaminiamo, dapprima, il funzionamento di un'industria privata, e non esitate a interrompermi se dico qualcosa su cui non siete d'accordo. Prendiamo, per esempio, una fabbrica di scarpe. Questa fabbrica compra il cuoio e lo trasforma in scarpe. Ecco che del cuoio per cento dollari, entra in fabbrica e ne esce sotto forma di scarpe, per un valore, mettiamo, di duecento dollari. Che cos'è avvenuto? E' stato aggiunto al valore del cuoio un altro valore di cento dollari. Come mai? Il capitale e il lavoro hanno aumentato il valore iniziale.

Il capitale ha fornito la fabbrica, la macchina e ha pagato le spese. La mano d'opera ha dato il lavoro, lo sforzo combinato del capitale e del lavoro ha aggiunto un valore di cento dollari al valore della materia prima. Fin qui siete d'accordo?".

Ci fu un grande annuire di teste.

"Il lavoro e il capitale, avendo prodotto cento dollari, devono ora ripartire la somma. Le statistiche su divisioni di questo genere sono frazionarie, quindi, per convenienza, ci accontenteremo di una certa approssimazione, ammettendo che il capitale prenda per sé cinquanta dollari e che il lavoro riceva, sotto forma di salario, gli altri cinquanta dollari. Non staremo a cavillare su questa divisione (1), quali che siano i contratti si finisce sempre col mettersi d'accordo, a un prezzo o a un altro. E non dimenticate che ciò che io dico per un'industria si applica a tutte. Chiaro fin qui?".

I convitati assentirono.

"Ora supponiamo che il lavoro, avendo ricevuto la sua quota di cinquanta dollari, voglia ricomprare delle scarpe. Potrà comprarne solo per cinquanta dollari, non è così?

Passiamo adesso da questo caso particolare a quello di tutte le imprese industriali degli Stati Uniti, non soltanto del cuoio, ma di tutte le materie prime, dei trasporti e del commercio in generale. Diciamo, in cifra tonda, che la produzione annuale delle ricchezze, negli Stati Uniti, è di quattro miliardi di dollari. Il lavoro riceve dunque, come salario, una somma di due miliardi l'anno. Dei quattro miliardi prodotti, il lavoro può riscattarne due. Non ci sono dubbi al riguardo, anzi la mia valutazione è già molto larga. A causa di mille trucchi da parte del capitale, infatti, il lavoro non ottiene mai la metà del prodotto totale.

Ma sorvoliamo su questo, e ammettiamo che il lavoro ottenga i due miliardi. E' evidente, allora, che il lavoro può consumare solo due miliardi, mentre bisogna tener presenti gli altri due miliardi che il lavoro non può né riscattare né consumare".

"Il lavoro non consuma neppure i suoi due miliardi", dichiarò il signor Kowalt. " Se li spendesse, non avrebbe depositi nelle banche".

"I depositi di risparmio sono una specie di fondo di riserva, che può essere speso in fretta, come in fretta è stato accumulato.

Sono le economie messe da parte per la vecchiaia, le malattie, gli incidenti e le spese dei funerali. Sono il boccone di pane conservato nella credenza per il domani. No, il lavoro assorbe la totalità del prodotto che può comprare con i suoi guadagni.

Al capitale, dunque, restano due miliardi. Dopo aver pagate le spese, consuma il resto. Il capitale, insomma, brucia i suoi due miliardi?".

S'interruppe e rivolse apertamente la domanda a parecchi dei presenti, che scossero il capo.

"Non lo so", ammise francamente uno di loro.

"Invece lo sa", rispose Ernest. "Rifletta un istante. Se il capitale consumasse la sua parte, la somma totale del capitale non potrebbe aumentare, resterebbe costante. Invece se dà un'occhiata alla storia economica degli Stati Uniti, vedrà che il capitale aumenta continuamente. Dunque, il capitale non brucia la sua parte. Ricordate quando l'Inghilterra possedeva le azioni di molte delle nostre ferrovie? Con l'andar degli anni le abbiamo riscattate. Che cosa si deve concludere, se non che la parte del capitale impiegato ha permesso questo? Oggi i capitalisti degli Stati Uniti possiedono centinaia e centinaia di milioni di dollari in azioni messicane, russe, italiane e greche: che cosa sono se non un po' di quella parte che i capitalisti non hanno consumato?

Fin dalle origini del sistema capitalistico, il capitale non ha mai consumato tutta la sua parte della ripartizione.

E veniamo al punto: negli Stati Uniti ogni anno viene prodotta ricchezza per quattro miliardi di dollari. Il lavoro ne riscatta e ne consuma due, il capitale trattiene gli altri due. Resta pertanto una forte quota che non viene consumata. Che cosa si può fare? Il lavoro non può sottrarne perché ha già consumato i suoi guadagni. Il capitale non se ne serve, perché già, secondo la sua natura, ha assorbito tutto quanto poteva. L'eccesso rimane. Che cosa se ne può fare? Che cosa se ne fa?".

"Si vende all'estero", azzardò il signor Kowalt.

"Precisamente", convenne Ernest. "Da questo eccesso nasce il nostro bisogno d'uno sbocco esterno. Si vende all'estero, si è costretti a venderlo all'estero: non c'è altra scelta. E questo eccesso venduto all'estero costituisce ciò che noi chiamiamo: la bilancia commerciale in nostro favore. Tutti d'accordo fin qui?".

"Stiamo certamente perdendo tempo con questo abbiccì dell'economia", intervenne il signor Calvin, seccato. "Lo conosciamo tutti".

"Se sono stato tanto pignolo nell'esposizione di questo abbiccì è appunto per confondervi", replicò Ernest. "E' questo il bello della faccenda. E vi confonderò subito.

Gli Stati Uniti sono un paese capitalistico che ha sviluppato le proprie risorse. Grazie al suo sistema industriale, dispone di un eccesso di prodotti di cui deve liberarsi all'estero (2).

Ciò che è vero per gli Stati Uniti vale anche per tutti i paesi capitalistici le cui risorse sono sviluppate. Ognuno di questi paesi dispone di un surplus ancora intatto. Non dimenticate che hanno già trafficato tra loro e che, ciò nonostante, c'è ancora un surplus disponibile. In tutti questi paesi il lavoro ha speso i suoi guadagni e non può più comprare nulla; in tutti, il capitale ha consumato solo ciò che gli permette la sua natura. Il rimanente è un peso morto, perché non possono scambiarselo fra loro. Come se ne libereranno?".

"Vendendolo ai paesi sottosviluppati", suggerì il signor Kowalt.

"Precisamente. Vedete dunque che il mio ragionamento è chiaro e semplice, tanto che voi stessi potete completarlo. Passiamo ora al punto successivo. Supponiamo che gli Stati Uniti riversino il loro surplus in un paese le cui risorse non siano sviluppate; nel Brasile, per esempio. Ricordate che questo surplus è fuori e al di sopra del commercio, essendo gli articoli di scambio già consumati. Che cosa potrà dunque dare il Brasile, in cambio, agli Stati Uniti?".

"Dell'oro" disse il signor Kowalt.

"Ma nel mondo c'è una quantità limitata di oro", obiettò Ernest.

"Dell'oro in forma di titoli, obbligazioni e simili", rettificò il signor Kowalt.

"Ora sì che ha colto nel segno. Gli Stati Uniti riceveranno dal Brasile in cambio del loro surplus, azioni e altre garanzie. Che cosa vuol dire questo, se non che gli Stati Uniti entreranno in possesso di ferrovie, fabbriche, miniere e terreni nel Brasile? E che cosa ne risulterà?".

Il signor Kowalt rifletté e scosse il capo.

"Ve lo dico subito", continuò Ernest. "Risulterà questo: che le risorse del Brasile verranno sviluppate. Bene, passiamo ancora al punto successivo. Quando il Brasile, per impulso del sistema capitalistico, avrà sviluppato le sue risorse, possiederà anch'esso un surplus non consumato. Potrà sbarazzarsene negli Stati Uniti? No, perché questi hanno già il loro. Gli Stati Uniti, a loro volta, potranno continuare ancora a riversare il loro surplus nel Brasile? No, perché questo paese ha già il suo.

Che cosa succederà? Ormai Stati Uniti e Brasile devono cercare tutti e due i loro sbocchi in paesi le cui risorse non siano ancora sfruttate. Ma scaricando i loro surplus in nuovi paesi, questi si svilupperanno a loro volta e non tarderanno a disporre anch'essi di surplus. Quindi cercheranno altri paesi in cui scaricarli. Ora, state bene attenti, signori, il nostro pianeta non è così grande; c'è un numero limitato di paesi sulla terra.

Quando tutti i paesi del mondo, dal primo all'ultimo, avranno del surplus da impiegare e troveranno gli altri paesi nelle stesse condizioni, che cosa accadrà?".

Fece una pausa e osservò i suoi ascoltatori. La perplessità sui loro volti era uno spettacolo divertente. Ma a essa s'accompagnava anche una profonda inquietudine. Fra tante astrazioni, Ernest aveva evocato una visione chiara. Ormai tutti la distinguevano chiaramente e ne avevano paura.

"Abbiamo cominciato dall'abbiccì, signor Calvin", disse maliziosamente Ernest, "ora vi ho esposto il resto dell'alfabeto.

E' semplicissimo; è questo il bello. Certamente lei avrà pronta una risposta. Ebbene, che cosa accadrà quando tutti i paesi del mondo avranno della ricchezza superflua non consumata? Dove andrà a finire il vostro sistema capitalistico?".

Il signor Calvin scosse il capo, preoccupato. Evidentemente cercava un errore nel ragionamento di Ernest.

"Rifacciamo insieme il cammino già percorso," riassunse Ernest.

"Siamo partiti prendendo in considerazione un'industria particolare, quella delle calzature, e abbiamo stabilito che la divisione del prodotto ottenuto dalla collaborazione fra capitale e lavoro in questa industria è la stessa che in tutte le altre.

Abbiamo visto che il lavoro può ricomprare, col suo salario, solo una parte del prodotto, e che il capitale non consuma il resto.

Abbiamo visto, come, dopo che il lavoro ha consumato tutto ciò di cui ha bisogno, rimane ancora un eccesso disponibile. Abbiamo riconosciuto che si può disporre di questo eccesso solo riversandolo all'estero. Abbiamo convenuto che il trapasso di questa ricchezza in un paese nuovo ha l'effetto di sviluppare le risorse di questo, di modo ché in poco tempo quel paese finisce col disporre a sua volta di un surplus. Abbiamo esteso questo processo a tutti i paesi del nostro pianeta, fino a giungere alla conclusione che ogni paese, di anno in anno, di giorno in giorno, viene a disporre di un surplus non consumato. Ora torno a chiedervi: che cosa ne faremo di questa ricchezza in eccesso?".

Anche questa volta nessuno rispose.

"Sentiamo, signor Calvin" sollecitò Ernest. "Non ci arrivo", ammise il signor Calvin.

"Non ci ho mai pensato", dichiarò il signor Asmunsen. "Eppure è chiaro come un libro stampato".

Per la prima volta sentivo esporre la teoria di Karl Marx (3) sul plusvalore, e Ernest l'aveva esposta in maniera così semplice che anch'io rimanevo stupita, incapace di rispondere.

"Vi proporrò un mezzo per liberarvi del surplus", disse Ernest.

"Gettatelo in mare. Gettatevi ogni anno le centinaia di milioni di doliari che valgono le calzature, gli abiti, il grano, e tutte le ricchezze commerciali. La faccenda sarebbe risolta?".

"Lo sarebbe certamente", rispose Mister Calvin, ma è assurdo pensarlo".

Ernest gli fu addosso come un fulmine.

"E' forse meno assurdo, lei, signor distruttore di macchine, quando consiglia il ritorno ai sistemi antidiluviani dei nostri nonni? Che cosa propone di fare per liberarci dall'eccesso di ricchezza? Risolverebbe il problema cessando di produrre quell'eccesso. E come eviterebbe di produrlo? Ritornando a un metodo di produzione primitivo, così disordinato e irragionevole che diventerebbe impossibile ottenere la minima eccedenza".

Il signor Calvin deglutì: il colpo era riuscito. Deglutì di nuovo, poi tossì per schiarirsi la gola.

"Ha ragione", disse. "Mi ha convinto: è assurdo. Ma bisogna pur fare qualcosa, è questione di vita o di morte per noi medi borghesi. Non vogliamo certo morire. Preferiamo essere illogici e ritornare ai metodi dei nostri padri, anche se dispendiosi e grossolani. Riporteremo l'industria allo stato in cui era prima dei trust. Romperemo le macchine. E voi, cosa farete?".

"Non potete distruggere le macchine", replicò Ernest. "Non potete fermare l'evoluzione. Avete contro due grandi forze, una delle quali è più potente della media borghesia. I grandi capitalisti, i trust, in altre parole, non vi lasceranno tornare indietro. Non vogliono la distruzione delle macchine. E più potente del trust è la forza del lavoro. Essa non vi permetterà mai di distruggere le macchine. La proprietà del mondo, comprese le macchine, sta tra i trust e il lavoro. Questo è lo schieramento in campo. Nessuno dei due avversari vuole la distruzione delle macchine, ma ciascuno ne vuole il possesso. In questa lotta non c'è posto per la media borghesia, vero pigmeo fra due titani. Non capite, voi poveri medi borghesi, che siete presi fra due macine che hanno già cominciato a girare.

Vi ho dimostrato matematicamente l'inevitabile crollo del sistema capitalistico. Quando ogni paese si troverà in possesso di beni in eccedenza inconsumabili e invendibili, il sistema capitalistico crollerà sotto l'enorme peso dei profitti che ha accumulato, e quel giorno non ci sarà nessuna distruzione di macchine, bensì la lotta per il loro impossessamento. Se il lavoro ne uscirà vincitore, il vostro cammino sarà facile. Gli Stati Uniti, anzi il mondo intero entreranno in un'era nuova e prodigiosa. La vita, anziché essere schiacciata dalle macchine, sarà resa da esse più bella, più felice e più nobile. Come membri della media borghesia abolita, insieme con la classe dei lavoratori, la sola che sopravviverà, parteciperete all'equa ripartizione dei prodotti di quelle macchine meravigliose. E noi, noi tutti, ne costruiremo di più meravigliose ancora. Non ci sarà più ricchezza non consumata, perché non esisteranno più profitti".

"Ma se la battaglia per il possesso delle macchine fosse vinta dai trust?" intervenne il signor Kowalt.

"In questo caso", rispose Ernest, "voi e il lavoro, e noi tutti, saremmo schiacciati sotto il tallone di ferro di un dispotismo implacabile e terribile come ogni dispotismo che ha insanguinato le pagine della storia dell'uomo. Ci sarà allora un solo nome per indicare quel dispotismo: il Tallone di Ferro!" (4) "Ma il vostro socialismo è un sogno", disse infine il signor Calvin, e ripeté: "Un sogno!".

"Allora vi parlerò di qualcosa che non è un sogno", rispose Ernest, "qualcosa che chiamerò Oligarchia e voi chiamate Plutocrazia. Entrambi, però, intendiamo la stessa cosa: il grande capitale, ossia i trust. Vediamo chi ha in mano il potere, oggi.

Per fare questo, esaminiamo la società nella sua divisione di classe.

La società è divisa in tre grandi classi. Prima fra tutte è la plutocrazia, composta dai ricchi banchieri, dai magnati delle ferrovie, dai direttori delle grandi società e dai magnati dei trust; la seconda, la borghesia, la vostra, signori, comprende i grandi professionisti. Infine, la terza e ultima, la mia classe, il proletariato, formata dai lavoratori salariati (5).

Non potete negare che il possesso della ricchezza forma attualmente l'essenza del potere negli Stati Uniti. In quale proporzione, però, questa ricchezza è divisa tra le tre classi?

Ecco le cifre: la plutocrazia dispone di sessantasette miliardi.

Sul numero totale delle persone che esercitano una professione negli Stati Uniti, soltanto lo zero nove per cento appartiene alla plutocrazia; eppure la plutocrazia possiede il settanta per cento della ricchezza totale. La borghesia dispone di ventiquattro miliardi; il ventinove per cento di persone che esercitano una professione appartengono alla borghesia e godono del venticinque per cento della ricchezza totale. Resta il proletariato. Esso dispone di quattro miliardi. Di tutte le persone che svolgono un lavoro, il settanta per cento appartiene al proletariato, che possiede solo il quattro per cento della ricchezza totale. Da quale parte è il potere, signori?".

"Stando alle vostre cifre, noi, della classe media, siamo più potenti dei lavoratori", osservò il signor Asmunsen.

"Ma definendoci deboli voi non migliorate affatto la vostra condizione rispetto alla forza della plutocrazia", rispose Ernest.

"D'altronde, non ho finito. C'è una forza superiore alla ricchezza, superiore nel senso che non può esserci strappata. La nostra forza, la forza del proletariato, sta nei nostri muscoli, nelle nostre mani che votano, nelle nostre dita che possono premere un grilletto. E' la forza primitiva, alleata della vita, superiore alla ricchezza, e che la ricchezza non può cancellare.

La vostra forza, invece, è caduca: vi può essere tolta. In questo stesso momento, la plutocrazia sta per togliervela, e finirà per strapparvela tutta. E allora cesserete d'essere la classe media, verrete a noi, diventerete proletari. E, ciò che più importa, aggiungerete forza alla nostra forza. Vi accoglieremo come fratelli e combatteremo fianco a fianco per la causa dell'umanità.

I lavoratori non hanno niente di concreto da perdere: la loro parte di ricchezza nazionale è fatta di abiti, mobili e in casi rarissimi, una casa libera da ipoteche. Voi invece disponete di una ricchezza concreta, ne avete per ventiquattro miliardi, e la plutocrazia ve la porterà via. Naturalmente, è più probabile che sia il proletariato a portarvela via per primo. Non capite la vostra posizione, signori? La vostra media borghesia è la pecorella tremante fra il leone e la tigre. Se non sarete dell'uno, sarete dell'altra. E se la plutocrazia vi avrà prima, il proletariato avrà in seguito la plutocrazia: è soltanto questione di tempo.

Anche la vostra ricchezza attuale non dà la vera misura della vostra potenza. In questo momento, la forza della vostra ricchezza è un guscio vuoto. Per questo lanciate il vostro debole grido di guerra: 'Ritorniamo ai metodi dei nostri padri'. Avvertite la vostra impotenza e il vuoto del vostro guscio. Vi dimostrerò ora questo vuoto:

Qual è il potere degli agricoltori? Più del cinquanta per cento sono schiavi perché semplici fittavoli o perché oppressi da ipoteche. Sono schiavi, ancora, per il fatto che i trust possiedono o controllano - che è poi la stessa cosa - tutti i mezzi necessari per la distribuzione dei prodotti agricoli sul mercato, come i frigoriferi, i silos, le ferrovie e le linee di navigazione. Inoltre, i trust controllano i mercati. In tutto questo, gli agricoltori non dispongono del minimo potere. Quanto al loro potere politico, me ne occuperò parlando di quello della borghesia.

Di giorno in giorno, i trust schiacciano gli agricoltori come hanno strozzato il signor Calvin e tutti i produttori di latte; e di giorno in giorno i commercianti sono schiacciati allo stesso modo. Ricordate come, in sei mesi, il trust del tabacco è riuscito a distruggere più di quattrocento negozi di tabacchi nella sola Nuova York. Dove sono gli antichi padroni delle miniere di carbon fossile? Saprete certamente, senza che debba ripetervelo, che oggi il trust delle ferrovie possiede o controlla tutte le cave di antracite e di bitume. Lo Standard Oil Trust non possiede forse una ventina di linee marittime? Non controlla anche le miniere di rame? Per non parlare poi del trust degli altiforni, che ha organizzato come impresa secondaria. Ci sono diecimila città negli Stati Uniti, illuminate, questa sera, da società controllate o di proprietà della Standard Oil, e altrettante dove i trasporti elettrici, urbani, periferici o interurbani, sono in mano a quel trust. I piccoli capitalisti, una volta cointeressati in queste migliaia di imprese, sono spariti. E questo voi lo sapete, e vi state avviando per la stessa strada.

Ai piccoli industriali succede quel che succede agli agricoltori; tutto sommato, gli uni e gli altri sono oggi ridotti a un vassallaggio feudale. Lo stesso si può dire dei professionisti e degli artisti che oggi, salvo il nome, sono dei servi mentre gli uomini politici sono dei lacché.

Perché mai lei, signor Calvin, passa i giorni e le notti a organizzare gli agricoltori, come il resto della borghesia, in un nuovo partito politico? Perché i politicanti dei vecchi partiti non vogliono saperne delle vostre idee antiquate, perché sono, come ho detto, i servi, i lacché della plutocrazia.

Ho definito anche i professionisti e artisti servi del regime attuale. Che altro sono infatti? Dal primo all'ultimo, professori, predicatori, editori, sbrigano il loro lavoro servendo la plutocrazia, il loro ufficio consiste nel propagare solo idee inoffensive o elogiative sui ricchi. Tutte le volte che tentano di propagare idee minacciose per la plutocrazia, perdono il posto; in questo caso, se non hanno messo nulla da parte per i tempi difficili, si riducono al livello del proletariato e vegetano nella miseria o diventano agitatori. E non dimenticate che la stampa, il pulpito e l'università manipolano l'opinione pubblica, stabiliscono il clima mentale del paese. Quanto agli artisti, non hanno che da piegarsi al gusto più o meno ignobile della plutocrazia.

Ma, in sostanza, la ricchezza da sola non costituisce il vero potere; è un mezzo per raggiungere il potere, e il potere lo esercita il governo. Ma chi è al governo oggi? Forse il proletariato, con i suoi venti milioni di individui che svolgono vari lavori e mestieri? L'idea fa ridere persino voi. Forse la borghesia, con i suoi otto milioni di vari professionisti?

Neppure. Chi dunque detiene il potere del governo? La plutocrazia, con appena un quarto di milione di membri attivi. Eppure non è questo quarto di milione di uomini che lo detiene realmente, benché ne siano tutti i custodi. Il cervello della plutocrazia che controlla il governo si compone di sette piccoli e possenti gruppi. E non dimenticate che, oggi, questi gruppi agiscono praticamente all'unisono (6).

Lasciate che vi accenni alla potenza di uno solo di questi gruppi, quello delle ferrovie. Impiega quarantamila avvocati, per vincere le cause in tribunale; distribuisce migliaia di tessere gratuite ai giudici, ai banchieri, ai direttori di giornali, ai pastori, ai membri delle università, delle legislature di stato e del Congresso. Mantiene ricchissimi e lussuosi focolai di intrigo, le 'lobby' (7) nelle capitali di ogni stato, nella capitale della nazione e tutte le grandi e piccole città del paese; s'avvale di un immenso esercito di azzeccagarbugli e di politicanti, che hanno il compito di partecipare ai comitati elettorali e alle assemblee di partito, di circuire i giurati, di subornare i giudici e di adoperarsi con tutte le loro forze a favore degli interessi del gruppo (8).

Signori, ho solo accennato alla potenza di uno dei sette gruppi che costituiscono il cervello della plutocrazia (9). I vostri ventiquattro miliardi di ricchezza non vi danno il venticinque per cento del potere governativo. Sono un guscio vuoto, e presto anche questo guscio vi sarà tolto. Oggi la plutocrazia ha tutto il potere nelle sue mani. E' lei che crea le leggi, perché controlla il Senato, il Congresso, la magistratura, e il potere legislativo in ogni stato. E non è tutto qui. Dietro la legge deve esserci la forza che la renda esecutiva. E oggi la plutocrazia, fatte le leggi, ha a sua disposizione la polizia, l'esercito, la marina, e infine la milizia, ossia voi, io e noi tutti".

Quando ebbe finito non ci furono discussioni: i convitati si alzarono subito da tavola. Silenziosi e afflitti, si congedarono tutti a bassa voce. Sembravano ancora spaventati dalla prospettiva dell'avvenire che gli era stata fatta intravedere.

"La situazione è seria", disse il signor Calvin a Ernest. "Ho poche obiezioni da fare a quanto lei ha detto. Solo non sono d'accordo sulla sua condanna della media borghesia. Noi sopravvivremo, e distruggeremo i trust".

"E ritornerete ai metodi dei vostri padri", concluse Ernest.

"Giustissimo! So bene che, in un certo senso, siamo dei distruttori di macchine, e che questo è un assurdo. Ma oggi tutta la vita è illogica, con tutti gli intrighi della plutocrazia.

Comunque, il nostro modo di distruggere le macchine è almeno pratico e possibile, mentre il vostro sogno non lo è. Il vostro sogno socialista non è... che un sogno. Noi non possiamo seguirvi".

"Vorrei solo che lei e i suoi v'intendeste un po' di sociologia e evoluzione", rispose Ernest con aria assorta stringendogli la mano. "Ci risparmieremmo una quantità di fastidi".

NOTE:

1) Everhard espone qui chiaramente la causa di tutti i disordini sindacali del tempo. Nella divisione del frutto della collaborazione fra capitale e lavoro, il capitale esigeva il più possibile, e altrettanto pretendeva il lavoro. Il dissidio su questa divisione era inconciliabile. In regime di produzione capitalistica, lavoro e capitale continuarono a litigare per questa ripartizione. Ai nostri occhi, oggi, è uno spettacolo vergognoso, ma non dobbiamo dimenticare che sono trascorsi sette secoli da quel tempo.

2) Theodore Roosevelt, presidente degli Stati Uniti, qualche anno prima del tempo di cui si tratta, fece in pubblico questa dichiarazione: "Occorre una reciprocità più estesa, più liberale, nella compera e vendita delle merci, in modo che si possa disporre in maniera soddisfacente, nei paesi stranieri, della sovrapproduzione degli Stati Uniti". Naturalmente la sovrapproduzione eccessiva a cui accennava, era costituita dal guadagno dei capitalisti eccedente la loro capacità di consumo.

Contemporaneamente, il senatore Mark Hanna dichiarava: "La produzione della ricchezza negli Stati Uniti è annualmente superiore di un terzo al consumo". Un altro senatore, Chauncey Depew, aggiungeva: "Il popolo americano produce annualmente due miliardi di dollari di ricchezza in più di quanto consuma".

3) Karl Marx, il grande eroe intellettuale del socialismo, era un ebreo tedesco del secolo diciannovesimo, contemporaneo di John Stuart Mill. Stentiamo a credere oggi, dopo l'enunciazione delle teorie economiche di Marx, che durante molte generazioni egli possa essere stato deriso da pensatori e scienziati. A causa delle sue teorie fu bandito dal suo paese natale e morì in esilio, in Inghilterra.

4) E' questa la prima volta in cui per designare l'Oligarchia viene usata questa espressione.

5) Questa divisione della società fatta da Everhard è conforme a quella di Lucien Sanial, una delle autorità del tempo in fatto di statistica. Secondo i suoi calcoli, basati sul censimento del 1900, negli Stati Uniti il numero degli appartenenti alle tre classi, secondo la professione, era il seguente: Plutocrazia: 250251. Borghesia: 8429845. Proletariato: 20393137.

6) Sino al 1907, si considerava il paese dominato da undici gruppi, questo numero fu ridotto in seguito alla fusione dei cinque gruppi delle ferrovie in un unico gruppo. I cinque gruppi fusi insieme, e gli altri loro alleati, economici e politici, erano: a) James J. Hill, che controllava il Nord-Ovest. b) Il gruppo delle ferrovie della Pennsylvania, con a capo Schiff, direttore finanziario, insieme con alcune grosse banche di Filadelfia e di New York. c) Harrimann, con Frick, avvocato consulente, e Odell, luogotenente politico, che controllava le linee di trasporto al centro del continente del Sud-Ovest e del Sud Pacifico. d) Gli interessi ferroviari della famiglia Gould. e) Moore, Reid e Leeds, conosciuti come "Quelli di Rock Island".

Queste potenti oligarchie, nate dal conflitto della concorrenza, dovevano seguire inevitabilmente il cammino che conduce al cartello.

7) Lobby, istituzione speciale che aveva lo scopo di intimidire e corrompere i legislatori che avrebbeto dovuto rappresentare gli interessi del popolo .

8) Una decina d'anni prima di questo discorso di Everhard, la Camera di Commercio di New York aveva pubblicato un rapporto dal quale riportiamo quanto segue: "Le ferrovie controllano decisamente il potere legislativo della maggioranza degli Stati dell'Unione: fanno e disfanno a loro piacimento i senatori, i deputati, i governatori, e sono i veri ispiratori della politica governativa".

9) Rockefeller proveniva dal proletariato, e a forza di risparmio e di scaltrezza riuscì a organizzare il primo trust perfetto, quello che è conosciuto col nome di Standard Oil. Non possiamo esimerci dal citare una pagina notevole della storia di quel tempo per dimostrare come la Standard Oil per il bisogno di impiegare i capitali in eccesso, abbia schiacciato i piccoli capitalisti, affrettando il crollo del sistema capitalistico.

David Graham Phillips era uno scrittore radicale del tempo, e questa citazione è tolta da un suo articolo nel "Saturday Evening Post" del 4 Ottobre 1902. Abbiamo questo solo esemplare del giornale, dalla forma e dalla tiratura del quale dobbiamo però concludere che era uno dei periodici più diffusi: "Circa dieci anni fa, il reddito di Rockefeller era valutato da un'autorità competente in trenta milioni di dollari. Aveva raggiunto il limite del proficuo investimento di profitti nell'industria petrolifera.

In questa, infatti, si riversavano somme enormi in contanti, più di due milioni di dollari al mese, per il solo John Davidson Rockefeller. Il problema dell'impiego di questo denaro diventava serio. Il reddito del petrolio ingrossava, cresceva sempre, e il numero dei possibili impieghi sicuri era limitato, più di quanto sia adesso. Tuttavia, non fu l'avidità di nuovi guadagni a spingere i Rockefeller verso altri campi oltre al petrolio: vi furono costretti dal flusso di ricchezza, che la calamita del loro monopolio attirava irresistibilmente. Dovettero persino ingaggiare una schiera di analisti e ricercatori di investimento. Si dice che il capo di questo personale riceveva uno stipendio annuo di 125000 dollari.

La prima escursione, o incursione, cospicua dei Rockefeller, avvenne nel campo delle ferrovie. Nel 1895 controllavano un quinto di tutta la rete ferroviaria del paese. Che cosa possiedono o, attraverso maggioranze azionarie, controllano oggi? Sono padroni di tutte le grandi ferrovie di New York, a nord, est e ovest, eccetto una, nella quale la loro quota è di pochi milioni. Hanno interessi nella maggior parte delle grandi linee ferroviarie che s'irradiano da Chicago: dominano parecchie reti che si estendono fino al Pacifico. I loro voti formano la potenza del signor Morgan, ora, ma bisogna aggiungere, però, che essi hanno bisogno del suo cervello più che non lui dei loro voti, così che questa combinazione risulta, in larga misura, da comunità d'interessi. Ma le sole ferrovie non bastavano ad assorbire rapidamente quelle enormi ricchezze. I 2500000 dollari di J. D. Rockefeller non tardarono a diventare cinque, sei milioni al mese, fino a 75000000 dollari l'anno. I petroli si mutavano in continuo guadagno, e i guadagni, a loro volta impiegati in altre imprese, davano nuovi milioni ogni anno.

I Rockefeller s'interessarono allora del gas e dell'elettricità quando queste industrie raggiunsero un livello di investimento sicuro. E ora gran parte del popolo americano, qualunque sia il tipo di illuminazione che impiega, comincia a dare il suo contributo alla ricchezza dei Rockefeller non appena il sole tramonta. Quindi si lanciarono nell'impresa del prestito agrario.

Si racconta che qualche anno fa, quando la prosperità aveva permesso agli agricoltori di liberarsi dalle ipoteche, J. D.

Rockefeller ne fosse addolorato fino alle lacrime, otto milioni di dollari che credeva bene impiegati, a un buon interesse, per anni, gli venivano rigettati in braccio e richiedevano un nuovo impiego.

Questo aggravio inatteso del suo perpetuo cruccio di trovare un impiego a favore della progenie del petrolio e della progenie della progenie, fu più di quanto potesse sopportare un uomo afflitto da cattive digestioni...

I Rockefeller passarono quindi alle miniere: ferro, carbone, rame e piombo; poi ad altre società industriali, alle tranvie, alle obbligazioni di stato e municipali, alle linee marittime, alle imprese armatoriali, ai telegrafi, alla proprietà immobiliare, ai grattacieli, alle case, agli alberghi e agli edifici commerciali e amministrativi, alle assicurazioni sulla vita e alle banche. Ben presto, non ci fu un solo campo dell'industria dove i loro milioni non fossero al lavoro...

La banca dei Rockefeller - la National City Bank - è la più importante degli Stati Uniti. E' superata solo dalla Banca d'Inghilterra e dalla Banca di Francia. I depositi oltrepassano, in media, i cento milioni di dollari al giorno; essa domina il mercato dei valori di Wall Street come la borsa. Ma non è sola:

costituisce il primo anello di una catena di Banche Rockefeller che comprende quattordici banche e consorzi nella città di New York, oltre alle banche fortissime e influentissime in tutti i grand centri economici del paese.

J. D. Rockefeller possiede azioni della Standard Oil, per un valore di quattro o cinque milioni di dollari. Ha cento milioni di dollari nel trust dell'acciaio, quasi altrettanto in un altro, e così via, al punto che la mente si stanca ad elencarli. Le sue entrate furono l'anno scorso di cento milioni di dollari circa, ed è dubbio che i redditi di tutti i Rothschild messi insieme raggiungano una cifra superiore. E continuano ad aumentare a gran balzi".

Capitolo 10

IL VORTICE

Dopo quel pranzo di uomini d'affari, avvenimenti di straordinaria importanza si succedettero come lampi; e nel mio piccolo, io che avevo sempre vissuto i miei giorni placidi nella calma della nostra città universitaria, fui trascinata, con tutte le mie vicende personali, nel vasto vortice delle vicende mondiali.

Che fosse il mio amore per Ernest a far di me una rivoluzionaria, o la chiara visione da lui offertami della società in cui vivevo, non saprei dire. Ma rivoluzionaria divenni, e fui travolta da un turbine di avvenimenti che appena tre mesi prima mi sarebbero sembrati impossibili.

La crisi del mio destino coincise con grandi crisi sociali.

Innanzi tutto mio padre fu congedato dall'università. Oh, non fu congedato nel vero senso della parola: gli chiesero di dare le dimissioni, ecco tutto. La cosa in se stessa non aveva grande importanza. In realtà, mio padre ne fu divertito. Il suo congedo, accelerato dalla pubblicazione del suo libro "Economia ed educazione", confermava la sua tesi. Poteva esistere prova migliore del fatto che il sistema educativo era dominato dalla classe capitalistica?

Ma questa conferma non servì a nulla: nessuno seppe che era stato costretto a dimettersi dall'università. Era uno scienziato così famoso che una notizia del genere insieme con la spiegazione del motivo delle dimissioni forzate, avrebbe creato grande indignazione in tutto il mondo. I giornali furono invece generosi di elogi, congratulandosi con lui per aver rinunciato alla fatica delle lezioni, così da consacrare il suo tempo alla ricerca scientifica.

Sulle prime mio padre rise, poi si indignò: la sua rabbia "tonica". Poi gli soppressero il libro; glielo soppressero in maniera così cauta che sulle prime non ci capimmo niente.

La pubblicazione dell'opera aveva immediatamente causato parecchio scalpore nel paese. Il libro era stato cortesemente criticato dalla stampa capitalistica; critica espressa come dispiacere che un così grande scienziato avesse abbandonato il suo campo per avventurarsi in quello della sociologia, che gli era del tutto sconosciuto, e dove non aveva tardato a smarrirsi. Questo durò una settimana, durante la quale mio padre scherzò dicendo che aveva toccato un punto debole del capitalismo. Poi, improvvisamente, giornali e riviste non parlarono più del volume; e in modo non meno improvviso, esso sparì dalla circolazione. Impossibile trovarne una copia presso tutti i librai. Mio padre scrisse agli editori e gli fu risposto che i piombi s'erano rovinati in seguito a un incidente. Ne seguì una corrispondenza confusa. Messi con le spalle al muro, gli editori finirono col dichiarare che non vedevano la possibilità di ristampare l'opera, ma che erano dispostissimi a cedere ogni diritto su di essa.

"E in tutto il paese non troverà un'altra casa editrice disposta a pubblicare il suo libro", disse Ernest. "Se fossi in lei, mi metterei subito al sicuro. Perché questo è solo un saggio di quanto le riserva il Tallone di Ferro".

Mio padre era prima di tutto uno scienziato e non traeva mai conclusioni affrettate. Per lui un esperimento di laboratorio non era tale finché non era stato eseguito fin nei minimi particolari.

Intraprese così un giro paziente di tutti gli editori. Gli trovarono una quantità di pretesti, ma nessuno volle occuparsi del libro.

Quando fu ben convinto che la sua opera era stata soppressa, mio padre tentò d'informarne il pubblico, ma i suoi comunicati alla stampa vennero ignorati. Credette allora di trovare la sua occasione a una riunione politica socialista alla quale assistevano numerosi giornalisti, si alzò e raccontò la storia di questo sopruso. Il giorno dopo, leggendo i giornali, prima ne rise, poi si infuriò oltre ogni dose "tonica". Nessuno parlava del suo libro, ma travisavano la sua condotta in modo spiacevole.

Avevano storpiato le sue parole e le sue frasi, trasformando le sue sobrie e misurate osservazioni in un discorso da anarchico sbraitante. Tutto ciò con molta abilità. Ricordo in particolare un esempio: mio padre aveva usato l'espressione "rivoluzione sociale", e il cronista aveva tranquillamente eliminato l'aggettivo "sociale". La dichiarazione venne quindi diffusa in tutto il paese dall'Associated Press, e da ogni parte si levarono grida d'allarme. Mio padre fu bollato come anarchico e nichilista, e in una vignetta, che venne ampiamente riprodotta, fu ritratto nell'atto di agitare una bandiera rossa, alla testa di una torma irsuta e selvaggia, armata di torce, coltelli e bombe alla dinamite.

Venne aspramente attaccato da tutta la stampa, in lunghi e spietati articoli, per la sua anarchia, e furono fatte allusioni a una sua incipiente follia. Questa tattica, come ci informò Ernest, non era una novità da parte della stampa capitalistica, che inviava di solito i suoi cronisti a tutte le riunioni socialiste, con l'ordine di alterare e travisare ciò che veniva detto, per spaventare la borghesia e distoglierla da ogni idea di una possibile unione col proletariato. Ernest insistette molto perché papà abbandonasse la lotta e si mettesse al riparo.

La stampa socialista, invece, raccolse il guanto, e tutti gli operai che leggevano i giornali seppero che il libro era stato soppresso; ma quest'informazione non oltrepassò la cerchia dei lavoratori. In seguito, una grande casa editrice socialista, "Il richiamo alla ragione", si accordò con mio padre per pubblicare il suo libro. Mio padre ne fu entusiasta, Ernest invece ne fu allarmato.

"Le dico che siamo alle soglie dell'ignoto. Avvengono intorno a noi, in segreto, grandi cose. Le sentiamo, infatti; non ne conosciamo la natura, ma la loro presenza è certa. Tutta la compagine sociale ne freme. Non mi chieda di cosa si tratti perché non ne so niente. Ma in questo movimento, c'è una realtà concreta che sta prendendo forma, sta cristallizzandosi. La soppressione del suo libro ne è una prova. Quanti altri sono stati soppressi?

Lo ignoriamo e non potremo mai saperlo; siamo nel buio. Bisogna aspettarsi la soppressione della stampa e delle case editrici socialiste. Temo anzi che sia imminente. Stiamo per essere soffocati".

Meglio degli altri, sentiva il corso degli avvenimenti: infatti, meno di due giorni dopo, fu sferrato il primo assalto. "Il richiamo alla ragione" era un settimanale diffuso fra il proletariato con una tiratura di settecentocinquantamila copie; inoltre, pubblicava spesso delle edizioni speciali, da due a cinque milioni di copie pagate e distribuite dal piccolo esercito volontario dei lavoratori raggruppati attorno al "Richiamo". Il primo colpo fu diretto contro queste edizioni e fu una brutta mazzata. L'Amministrazione delle poste stabilì, con una decisione arbitraria, che quelle edizioni non facevano parte della solita circolazione del giornale, e con questo pretesto rifiutò di accettarle nei suoi treni postali.

Una settimana dopo, il Ministero delle poste decretò che il giornale stesso era sedizioso e lo escluse definitivamente dai suoi trasporti. Era un terribile attacco alla propaganda socialista: il "Richiamo" era in condizioni disperate, e pensò di raggiungere i suoi abbonati avvalendosi dei corrieri espressi, ma questi rifiutarono il loro aiuto. Era il colpo di grazia; non quello definitivo però. Il "Richiamo" era deciso a continuare la pubblicazione dei libri. Ventimila copie di quello di mio padre erano in rilegatura e altre ancora erano in stampa. Poi, improvvisamente, una sera, una folla di teppisti agitando una bandiera americana e cantando inni patriottici, appiccò il fuoco ai vasti locali della tipografia del "Richiamo" distruggendola completamente.

E' da notare che la piccola città di Girard, nel Kansas, era una località assolutamente tranquilla dove non erano mai avvenuti disordini operai. Il "Richiamo" rispettava i salari stabiliti dai sindacati e, di fatto costituiva l'ossatura della città, perché occupava centinaia di uomini e di donne. La teppaglia che aveva distrutto la tipografia non era formata da abitanti di Girard; era sbucata fuori dal nulla per scomparirvi di nuovo immediatamente a fatto compiuto. Ernest vide in quell'episodio una sinistra minaccia.

"Stanno organizzando le Centurie Nere (1) anche negli Stati Uniti", disse. "Questo è solo l'inizio. Vedremo ben altro. Il Tallone di Ferro prende coraggio".

E così il libro di mio padre fu tolto di mezzo. In seguito, con il passare del tempo, avremmo sentito parlare molto delle Centurie Nere. Di settimana in settimana, altri giornali socialisti venivano respinti dalle poste e, in parecchi casi accadde, le Centurie Nere distrussero le tipografie. Naturalmente, la stampa nazionale sosteneva la politica delle classi dominanti, e i giornali soppressi furono calunniati e denigrati, mentre le Centurie Nere venivano presentate come i veri patrioti e salvatori della società. Queste calunnie erano così convincenti, che alcuni ministri del culto fecero, dal pulpito, l'elogio delle Centurie Nere, pur deplorando la necessità della violenza.

La storia incalzava. Le elezioni di autunno si avvicinavano, e Ernest fu scelto dal partito socialista come candidato al Congresso. Le sue probabilità di riuscita erano quanto mai favorevoli. Lo sciopero dei trasporti pubblici di San Francisco era fallito, come era fallito quello, conseguenza del primo, dei carrettieri. Queste due sconfitte erano state disastrose per l'organizzazione sindacale. La Federazione dei Lavoratori Portuali, con i suoi alleati, gli operai dei cantieri, aveva sostenuto i carrettieri, e tutto l'edificio eretto a fatica era crollato senza vantaggio né gloria. Lo sciopero fu cruento. La polizia ferì a colpi di manganello moltissimi lavoratori, e l'elenco dei morti aumentò in seguito al ricorso che essa fece di una mitragliatrice.

Di conseguenza, gli uomini erano furiosi, ebbri di sangue e di vendetta. Battuti sul terreno da essi stessi scelto, erano pronti a dare una risposta sul terreno politico. Mantenevano la loro organizzazione sindacale; ciò che dava loro forza e coraggio per la lotta in corso.

Le probabilità di Ernest diventavano sempre più forti. Ogni giorno nuovi sindacati decidevano di sostenere i socialisti, e lui stesso non poté fare a meno di ridere quando seppe che anche gli Ausiliari delle Pompe Funebri e gli Spennatori di Volatili si erano schierati dalla loro parte.

I lavoratori erano ormai ostinati. Mentre si affollavano con vero entusiasmo nelle riunioni socialiste, restavano insensibili alle trovate dei vecchi politicanti. Costoro si trovavano di solito davanti a sale vuote, che solo ogni tanto si affollavano di gente che riservava loro una tale accoglienza che, più di una volta, era stato necessario l'intervento della polizia.

La storia incalzava; l'aria vibrava di avvenimenti attuali e imminenti. Il paese era sull'orlo della crisi (2), dovuta a una serie di anni prosperosi durante i quali era diventato sempre più difficile collocare all'esterno l'eccesso di produzione. Le industrie lavoravano a orario ridotto, molte grandi fabbriche avevano addirittura smesso la produzione, in attesa di smerciare l'eccesso di quella precedente, e dappertutto i salari venivano ridotti.

Un altro grande sciopero falliva. Duecentomila lavoratori metalmeccanici, coi loro cinquecentomila alleati metallurgici, erano stati vinti nella lotta più sanguinosa che avesse mai sconvolto gli Stati Uniti. Vere e proprie battaglie erano state combattute contro piccoli eserciti di crumiri (3) armati, messi in campo dalle associazioni padronali. Le Centurie Nere avevano fatto la loro comparsa nelle località più distanti fra loro, recando grandi danni alle proprietà; di conseguenza, erano stati mandati centomila uomini dell'esercito regolare degli Stati Uniti per porre cruentemente fine alla cosa.

Un gran numero di capi operai furono giustiziati, molti altri imprigionati e migliaia di scioperanti rinchiusi nei recinti e trattati in modo esecrabile dai soldati.

Si stavano scontando gli anni della passata prosperità. Tutti i mercati crollavano e, nel crollo generale dei prezzi, quello del lavoro crollava più rapidamente degli altri. Il paese era scosso da una crisi industriale. Dappertutto gli operai scioperavano e se non entravano in sciopero erano scacciati dagli stessi padroni. I giornali riferivano numerosi fatti di violenza e di sangue, e in tutto le Centurie Nere avevano la loro parte. Sommosse, incendi, distruzioni a catena, questo il compito che esse assolvevano con diligenza. L'esercito regolare scendeva anch'esso in campo, richiamato dalle violenze delle Centurie Nere (5). Tutte le città e i villaggi sembravano accampamenti militari; gli operai erano fucilati come cani. I crumiri venivano reclutati fra la massa dei disoccupati, e quando avevano la peggio coi membri dei sindacati, comparivano le truppe regolari, sempre in tempo per difenderli e schiacciare gli altri. Inoltre, c'era la milizia. Fino allora non era stato necessario ricorrere alla legge segreta sulla milizia; solo la sua parte regolarmente organizzata entrava in azione, e operava dappertutto. In ultimo, in quei tempi di terrore, l'esercito regolare fu aumentato di centomila uomini dal governo.

Mai il mondo del lavoro aveva ricevuto una lezione tanto severa.

Questa volta i grandi capitani dell'industria, gli oligarchi, avevano gettato tutte le loro forze nella breccia aperta dalle associazioni padronali. Si trattava, in realtà, di associazioni borghesi che, stimolate dalla crisi, dalla durezza dei tempi, dal crollo dei mercati, e sostenute dall'alta finanza, inflissero all'organizzazione del lavoro una terribile e decisiva sconfitta.

Un'alleanza, dunque, potentissima, ma al tempo stesso una specie di alleanza fra leone e agnello; e la borghesia non avrebbe tardato ad accorgersene.

La classe lavoratrice era agitata da idee sanguinose di vendetta, ma era anche annientata. Eppure la sua sconfitta non pose fine alla crisi. Le banche che già costituivano una forza non indifferente per l'oligarchia, continuavano ad accettare i risparmi dei lavoratori. Il gruppo di Wall Street (6) trasformò la borsa in un turbine che spazzò via tutti i beni del paese. E sui disastri e sulle rovine, s'innalzò la forza della nascente oligarchia: imperturbabile, indifferente e sicura di sé. Questa serenità e sicurezza erano terrificanti. Per ottenere lo scopo, essa non ricorreva soltanto a tutta la propria potenza, ma anche a quella del Tesoro degli Stati Uniti. I capitani dell'industria si erano poi volti contro la media borghesia. Le associazioni padronali, che li avevano aiutati a sconfiggere l'organizzazione del lavoro, erano a loro volta sconfitte dai loro antichi alleati.

In mezzo al crollo dei piccoli finanzieri e industriali, i trust resistevano magnificamente. Non solo erano solidi, ma anche attivi. Seminavano vento, senza paura né esitazioni, perché essi soli sapevano il modo di raccogliere tempesta e trarne profitto. E quale profitto! Quali immensi raccolti! Abbastanza forti per tener testa all'uragano che avevano contribuito largamente a scatenare, si scatenavano essi pure e saccheggiavano ciò che turbinava intorno a loro. I valori di borsa erano pietosamente e incredibilmente crollati e i trust allargavano la loro sfera d'azione in proporzioni non meno incredibili: le loro imprese si estendevano in numerosi campi nuovi, e sempre a spese della media borghesia.

Così, l'estate del 1912 conobbe l'assassinio della classe media borghese. Lo stesso Ernest rimase colpito dalla rapidità con la quale fu inferto il colpo di grazia. Scosse il capo, pieno di cattivi presagi, e cominciò a guardare senza speranza alle elezioni d'autunno.

"E' inutile", diceva Ernest, "siamo stati già sconfitti. Il Tallone di Ferro è un fatto. Avevo posto tutte le mie speranze in una vittoria tranquilla alle urne. Ho avuto torto. Wickson aveva ragione, saremo spogliati delle poche libertà che ci rimangono. Il Tallone di Ferro ci calpesterà; non rimane altro, a questo punto, che una rivoluzione sanguinosa della classe operaia. Naturalmente avremo la vittoria, ma fremo al pensiero di quello che ci costerà".

Da allora Ernest ripose tutta la sua speranza nella rivoluzione.

Su questo punto, anzi, andava più in là del suo partito. I suoi compagni di partito non erano d'accordo con lui. Continuavano a credere che la vittoria poteva essere ottenuta con le elezioni.

Non che fossero storditi dal colpo ricevuto; erano troppo padroni di sé e troppo coraggiosi per questo: erano soltanto increduli.

Ernest non riusciva a ispirare loro un vero timore dell'oligarchia, riusciva a commuoverli, ma erano sempre troppo sicuri della loro forza. Non c'era posto per l'oligarchia nella loro teorica evoluzione sociale; di conseguenza, l'oligarchia non poteva esistere.

"Ti manderemo al Congresso, e tutto si sistemerà", gli dissero in una delle nostre riunioni segrete.

"E quando mi avranno sbattuto fuori dal Congresso, messo con le spalle contro un muro e fatto saltar il cervello", chiese freddamente, "che cosa farete dopo?".

"Ci solleveremo con tutta la nostra forza", risposero una dozzina di voci, immediatamente.

"Allora sguazzerete nel vostro stesso sangue", fu la sua risposta.

"Conosco questo motivo; l'ho sentito cantare dalla borghesia, e dov'è ora la sua forza?".

NOTE:

1) Le Centurie Nere erano bande reazionarie organizzate dall'autocrazia agonizzante durante la Rivoluzione russa. Questi gruppi reazionari attaccavano i gruppi rivoluzionari; inoltre, al momento opportuno provocavano disordini e distruggevano le proprietà per fornire all'autocrazia il pretesto per ricorrere ai Cosacchi.

2) In regime capitalistico questi periodi di crisi erano tanto inevitabili quanto assurdi. La proprietà era sempre causa di calamità. Il fatto era dovuto, naturalmente, all'eccesso di profitti che si accumulavano.

3) In teoria e in pratica, in tutto, fuorché nel nome, i crumiri rappresentavano l'esercito privato dei capitalisti.

Perfettamente organizzati e armati, erano sempre pronti a essere caricati su treni speciali e trasportati sui luoghi degli scioperi, oppure erano tenuti di riserva dai padroni. Solo tempi così strani potevano offrire lo spettacolo di un certo Farley, noto capo dei crumiri, che nel 1906 attraversò gli Stati Uniti su treni speciali da New York a San Francisco, alla testa di un esercito di 2500 uomini armati ed equipaggiati per rompere lo sciopero dei carrettieri di quest'ultima città. Un'infrazione vera e propria alle leggi del paese. Ma il fatto che la cosa rimase impunita, come migliaia di altri episodi del genere, mostra fino a che punto la magistratura fosse creatura della plutocrazia.

4) Durante uno sciopero dei minatori dell'Idaho, nella seconda metà del diciannovesimo secolo, molti scioperanti furono rinchiusi dalla truppa, in un recinto per buoi. La cosa, e il nome, si perpetuarono nel ventesimo secolo.

5) Il solo nome, non il concetto, era stato importato dalla Russia. Le Centurie Nere rappresentavano un'evoluzione degli agenti segreti del capitalismo e comparvero la prima volta nelle lotte dei lavoratori del secolo diciannovesimo. Non vi sono dubbi al riguardo. E questo è stato ammesso addirittura dal Commissario del lavoro degli Stati Uniti del tempo, Carrol D. Wright. Nel suo libro intitolato "Le battaglie del lavoro", troviamo questa sua dichiarazione: "In alcuni grandi scioperi storici, gli impiegati stessi hanno incitato alla violenza"; e aggiunge che gli industriali provocarono di proposito gli scioperi per sbarazzarsi dell'eccedenza della loro merce, e che molti treni furono bruciati dagli agenti dei padroni durante gli scioperi delle ferrovie, per accrescere il disordine. Da simili agenti nacquero le Centurie Nere, che diventarono poi l'arma terribile dell'oligarchia, gli agenti provocatori.

6) Nome di una strada della vecchia New York, dove era la Borsa e dove l'irrazionale ordinamento della società permetteva la manipolazione segreta di tutte le industrie del paese.

Capitolo 11

LA GRANDE AVVENTURA

Il signor Wickson non aveva fatto nulla per vedere mio padre.

S'incontrarono per caso sul traghetto per San Francisco; e quindi l'avvertimento che gli diede non fu premeditato. Se il caso non li avesse fatti incontrare non ci sarebbe stato nessun avvertimento.

Del resto, niente sarebbe cambiato. Mio padre discendeva dall'antico e solido ceppo del "Mayflower" (1) e il buon sangue non mente mai.

"Ernest aveva ragione", mi disse appena tornato a casa, "Ernest è un giovane straordinario, al punto che preferirei vederti sua moglie piuttosto che sposa del re d'Inghilterra, o dello stesso Rockefeller".

"Cos'è successo?" chiesi allarmata.

"L'oligarchia sta per schiacciarci. Wickson me l'ha fatto chiaramente capire. E' stato molto gentile, per essere un oligarca. Mi ha offerto di riprendermi all'università. Che te ne pare? Wickson, quel sordido strozzino, ha il potere di decidere se insegnerò o no all'università dello Stato? Ma mi ha offerto di meglio ancora: mi ha proposto di farmi nominare rettore di un grande istituto di scienze fisiche che hanno in progetto di creare. L'oligarchia deve pur liberarsi in qualche modo della sua ricchezza in eccesso, capisci?

'Ricorda quel che dissi a quel socialista innamorato di sua figlia?' ha detto. 'Gli dissi che avremmo schiacciato la classe operaia. Orbene, lo faremo. Quanto a lei, lei sa che, come scienziato, l'ho in gran rispetto, ma se unisce la sua sorte a quella del proletariato, ebbene stia attento. Non posso dirle altro!'. Quindi mi ha voltato le spalle e se ne è andato".

"Segno che dovremo sposarci prima del previsto", fu il commento di Ernest, quando gli riferimmo la cosa.

Non afferrai allora quel suo ragionamento, ma non tardai a capirlo. A quel tempo fu pagato il dividendo trimestrale delle filande Sierra..., o meglio avrebbe dovuto essere pagato, perché mio padre non ricevette il suo. Dopo parecchi giorni di attesa, scrisse al segretario e ottenne immediatamente risposta: gli si comunicava che dai libri della società non risultava che mio padre possedesse azioni e gli si chiedevano gentilmente maggiori delucidazioni. "Gliele darò io le delucidazioni a quel villano", dichiarò mio padre avviandosi alla banca per ritirare le azioni in questione dalla cassetta di deposito.

"Ernest è un uomo eccezionale", disse al ritorno, mentre l'aiutavo a togliersi il soprabito. "Lo ripeto, figlia mia; il tuo fidanzato è un uomo eccezionale".

Sapevo, sentendolo parlare così, che dovevo prepararmi a qualche nuova sventura.

"Mi hanno già schiacciato. Non ci sono più titoli, la cassetta è vuota. Dovete sposarvi al più presto".

Sempre fedele ai suoi metodi di laboratorio, citò le Filande Sierra in tribunale, ma non riuscì a farvi comparire i libri dei conti. La Sierra, non lui, controllava i giudici: questo spiegava tutto. Non solo la sua istanza fu rigettata, ma la legge sanzionò quello spudorato furto.

Ripensandoci, ora, mi pare quasi ridicolo il modo in cui fu battuto. Incontrò per caso Wickson per strada a San Francisco, gli diede del furfante. Per questo fu arrestato per diffamazione, condannato dal tribunale di polizia a pagare un'ammenda, e dovette promettere, previa cauzione, di starsene quieto. Un fatto così ridicolo che lui stesso non poté fare a meno di ridere. Ma che scandalo sulla stampa locale! Si parlava allora con gravità del bacillo della violenza che infestava tutti quelli che abbracciavano la causa del socialismo, e mio padre, nonostante la sua lunga vita pacifica, fu citato come un esempio illuminante dello sviluppo di quel microbo della violenza. Più di un giornale insinuò che per i troppi studi scientifici doveva avergli dato di volta il cervello, lasciando intendere che si sarebbe dovuto rinchiuderlo in manicomio. E non si trattava di semplici chiacchiere. Il pericolo incombeva seriamente. Ma mio padre fu abbastanza saggio da capirlo. L'esperienza del vescovo Morehouse gli era servita di lezione. Se ne stette buono sotto quel diluvio di ingiustizie, e credo che la sua pazienza sorprese gli stessi nemici.

In seguito, toccò alla casa, la nostra casa. Improvvisamente, saltò fuori un'ipoteca, e dovemmo abbandonarla. Naturalmente non c'era nessuna ipoteca, non c'era mai stata: il terreno era stato acquistato e la casa pagata appena costruita. Casa e terreno erano sempre stati liberi da ogni vincolo. Ciò nonostante, saltò fuori una falsa ipoteca, redatta e firmata legalmente e regolarmente, con le ricevute degli interessi versati durante un certo numero di anni. Mio padre non reagì. Come gli avevano rubato il denaro, ora gli rubavano la casa; non era possibile far ricorso. Il meccanismo della società era nelle mani di coloro che avevano giurato di rovinare mio padre. Ma poiché in fondo era un filosofo, mio padre, ormai, non s'indignava.

"Sono condannato a essere schiacciato", mi diceva, "ma questa non è una buona ragione per non cercare di essere calpestato il meno possibile. Le mie vecchie ossa sono fragili e ho imparato la lezione. Sa dio se ci tengo a passare i miei ultimi giorni in un manicomio".

Questo mi fa ricordare che non ho ancora raccontato la storia del vescovo. Ma prima devo dire del mio matrimonio. Nel vortice degli avvenimenti, la sua importanza si perde, lo so, e dunque ne farò appena menzione.

"Ora diventeremo veri proletari", disse mio padre quando fummo scacciati dalla vecchia casa: "Ho spesso invidiato al tuo futuro marito la perfetta conoscenza del proletariato; ora potrò provare e imparare personalmente".

Doveva avere nel sangue il desiderio dell'avventura, perché considerava la nostra catastrofe alla stregua dell'avventura. Non si lasciò prendere né dalla collera né dall'amarezza; era troppo filosofo e troppo semplice per essere vendicativo, e viveva troppo nel mondo dello spirito per rimpiangere gli agi materiali che avevamo dovuto abbandonare. Quando ci trasferimmo a San Francisco, in quattro miserabili camere, nel ghetto a sud di Market Street, s'imbarcò in quell'avventura con la gioia e l'entusiasmo di un bimbo, ma insieme con la chiara visione e la comprensione di una mente superiore. In realtà, non si ridusse mai alla cristallizzazione mentale e ai falsi apprezzamenti dei valori, perché quelli non avevano alcun senso per lui; i soli valori che riconosceva erano i fatti matematici e scientifici. Era, devo dire, un essere eccezionale: aveva la mente e l'anima dei grandi uomini. A volte superava persino Ernest che era il più grande uomo che avessi mai conosciuto.

E tuttavia provai qualche conforto in quel cambiamento di vita, e cioè la gioia di sfuggire all'ostracismo metodico e progressivo al quale eravamo sottoposti nella nostra città universitaria con l'inimicizia della nascente oligarchia. E anche a me quella nuova vita finì col sembrare un'avventura, e la più grande di tutte, perché era un'avventura d'amore. La nostra crisi finanziaria aveva affrettato il nostro matrimonio; cosicché andai ad abitare come sposa il piccolo appartamento di Pell Street nel ghetto di San Francisco.

Ma di tutto rimane soltanto questo: ho fatto felice Ernest. Sono entrata nella sua vita tempestosa non come un elemento di disordine, ma come un elemento di pace e riposo. Gli ho portato la calma: fu il mio dono d'amore a lui, e il segno infallibile di non essere venuta meno. Riuscire a far dimenticare, suscitare la luce della gioia in quei poveri occhi stanchi: ecco la mia gioia. E poteva essermene riservata una maggiore?

Quei cari occhi stanchi! Si prodigò sempre come pochi hanno mai fatto, tutta la sua vita si prodigò per gli altri. Tale fu la misura della sua umanità. Era un umanitario, una creatura d'amore.

Col suo spirito battagliero, il suo corpo di gladiatore e il suo genio d'aquila, era dolce e tenero con me, come un poeta, ma un poeta che viveva i suoi canti nell'azione. Sino alla morte cantò la canzone umana, la cantò per puro amore di questa umanità per la quale diede la sua vita e fu crocifisso.

E tutto questo, senza la minima speranza d'un premio futuro. Nella sua concezione del mondo non esisteva vita futura. Lui, che fiammeggiava d'immortalità, la negava a se stesso; e questo era il più gran paradosso della natura. Quello spirito ardente era dominato dalla filosofia fredda e incresciosa del monismo materialistico. Quando tentavo di confutare le sue idee, dicendogli che misuravo la sua immortalità dal volo della sua anima, e che mi sarebbero occorsi secoli per conoscerla a fondo, rideva, e le sue braccia si tendevano a me; mi chiamava la sua dolce metafisica, e ogni stanchezza spariva dai suoi occhi; io vi intravedevo quella fiamma d'amore che, da sola, era una nuova e sufficiente affermazione della sua immortalità.

Altre volte mi chiamava la sua cara dualista e mi spiegava come Kant, per mezzo della ragion pura, aveva abolito la ragione al fine di adorare Dio. Stabiliva un parallelo, e mi accusava di macchiarmi della stessa colpa. E quando io, colpevole, difendevo quel modo di pensare perché profondamente razionale, lui si limitava a stringermi più forte e rideva come soltanto potrebbe farlo un amante di Dio. Ero, personalmente, portata a negare che eredità e ambiente spiegassero la sua originalità e il suo genio non più che gli aridi tentativi della scienza di afferrare, analizzare e classificare la fuggevole essenza che si nasconde nella formazione stessa della vita.

Sostenevo che lo spazio è un'apparizione di Dio, e l'anima una proiezione della sua essenza; e quando lui mi chiamava la sua dolce metafisica, io lo chiamavo il mio immortale materialista; e ci amavamo ed eravamo felici. Io gli perdonavo il suo materialismo in virtù dell'opera sconfinata compiuta nel mondo senza darsi pensiero del progresso personale; in virtù anche di quell'eccessiva modestia spirituale che gli impediva di inorgoglirsi e perfino di avere coscienza e regale fierezza del suo animo veramente eccezionale.

Ma orgoglio ne aveva. Come potrebbe non averne un'aquila?

Sosteneva che era più bello per un'infima molecola mortale sentirsi divina che per un dio sentirsi, appunto, divino, e in tal modo esaltava quella che lui considerava la propria mortalità. Gli piaceva citare i versi di un certo poema. Non lo aveva mai conosciuto per intero e aveva cercato invano di scoprirne l'autore. Riporto qui i versi non solo perché li prediligeva, ma perché esprimono il paradosso che era nel suo spirito. Perché come può uno, con fremito, ardore ed esaltazione, recitare questi versi e restare insieme mortale, creatura effimera e forma evanescente?

Eccoli: Gioia su gioia e conquista su conquista sono i diritti destinatimi per nascita, e grido la lode dei miei giorni infiniti all'echeggiante limite della terra.

Dovessi soffrire ogni morte umana sino alla fine ultima del tempo, il calice delle mie gioie l'avrò alfine vuotato, in ogni tempo e luogo.

Schiuma dell'Orgoglio, sapere del Potere, dolce gusto della Femminilità!

Scolo sino alla feccia, in ginocchio, perché sì, dà gusto questo bere:

brindo alla Vita, brindo alla Morte e schiocco le labbra col canto, perché quando morrò un altro "Io" porgerà oltre la coppa.

Colui che scacciasti dall'Eden ero io, Signore, io, e là tornerò ancora quando terra e aria saran squarciate dal mare al cielo; perché quello è il mio mondo, il mio mondo stupendo degli affanni miei più cari, dal primo lieve vagito di neonato al tormento delle doglie di femmina.

Carico dell'energia di una razza increata, combattuto da un desiderio mondano, l'irruente flusso del mio giovane sangue scatenato spegnerebbe il fuoco del Giudizio.

Io sono l'Uomo, I'Uomo, dalla carne fremente alla polvere della mia terrena aspirazione, dal covante buio del grembo pregno allo splendore dell'anima mia nuda.

Ossa delle mie ossa, carne della mia carne, il mondo tutto s'apprende al mio desiderio, e la sete insaziata di un Eden maledetto tormenterà la terra affinché sia esaudito.

Onnipossente Dio, quando vuoto il calice della vita di tutti i raggi luminosi del suo arcobaleno, l'ingrato impegno della notte eterna non sarà troppo lungo per i miei sogni.

Colui che scacciasti dall'Eden ero io, Signore, io, e là tornerò ancora quando terra e aria saran squarciate dal mare al cielo; perché quello è il mio mondo, il mio mondo stupendo degli affanni miei più cari, dal luminoso bagliore della corrente artica al buio della mia notte amorosa.

Ernest lavorò sempre troppo. Era sostenuto solo dalla robusta costituzione, che però non cancellava la stanchezza nello sguardo.

I suoi cari occhi stanchi! Non dormiva più di quattro ore e mezzo per notte, e nonostante questo, non trovava mai il tempo di fare tutto quello che avrebbe voluto. Neppure un istante interruppe la sua attività di propagandista, ed era sempre impegnato, con molto anticipo, per conferenze a organizzazioni operaie. Poi ci fu la campagna elettorale, alla quale si dedicò fino al limite del possibile. La soppressione delle case editrici socialiste lo privò dei suoi diritti d'autore, e fu costretto a lavorare duro per procurarsi da vivere, perché oltre a tutti gli altri lavori, doveva anche darsi da fare per guadagnarsi la vita. Traduceva molto per riviste scientifiche e filosofiche; rincasava tardi la sera, già stanco per la lotta elettorale, e si dedicava a quell'occupazione fino alle prime ore del mattino. E soprattutto coltivava i suoi studi! Li continuò fino alla morte; e studiava follemente.

Nonostante questo, trovava il tempo per amarmi e rendermi felice.

Io fondevo tutta la mia vita con la sua. Imparai la stenografia e la dattilografia e diventai la sua segretaria. Mi diceva spesso che ero riuscita ad alleggerirlo di metà del lavoro, e così imparai a capire le sue opere. I nostri interessi divennero comuni, lavoravamo insieme e ci distraevamo insieme.

I minuti di tenerezza rubati al lavoro: una semplice parola, una rapida carezza, uno sguardo d'amore; e questi minuti erano tanto dolci, quanto più furtivi. Vivevamo sulle vette, dove l'aria è pura e frizzante, dove ci si impegna per l'umanità, dove il sordido egoismo non potrebbe respirare. Amavamo l'amore che per noi si coloriva delle tinte più belle. E, di tutto, questo rimane:

non fallii il mio scopo. Gli diedi un po' di riposo, a lui che si prodigava per gli altri, al mio caro mortale dagli occhi stanchi!

NOTE:

1) Una delle prime navi che trasportarono coloni in America, dopo la scoperta del Nuovo Mondo. Per lungo tempo, i discendenti di costoro andarono straordinariamente orgogliosi della loro origine; poi, quel sangue prezioso si diffuse a tal punto, che ormai praticamente circola nelle vene di tutti gli americani.

Capitolo 12

IL VESCOVO

Fu dopo il mio matrimonio che ebbi occasione di rivedere il vescovo Morehouse. Bisogna, però, che racconti con ordine i fatti.

Dopo il suo sfogo al convegno dell'I.P.H. il vescovo, anima dolce e mite, cedendo alle insistenze dei suoi amici, era partito per una vacanza, dalla quale era tornato più deciso che mai a predicare il messaggio della Chiesa. Con grande costernazione dei fedeli, la sua prima predica fu in tutto e per tutto simile al discorso che aveva pronunciato lì al convegno. Ripeté, citando numerosi esempi e sconvolgenti particolari, che la chiesa si era allontanata dagli insegnamenti del Maestro, e che al posto di Cristo era stato innalzato il dio Mammona. Il risultato fu che, di prepotenza, venne rinchiuso in una clinica per malattie nervose, mentre i giornali pubblicavano articoli patetici sul suo collasso nervoso, lodando al tempo stesso la santità della sua figura.

Entrato in clinica, fu tenuto prigioniero. Mi presentai più volte, ma mi fu sempre rifiutata la possibilità di vederlo. Rimasi dunque terribilmente impressionata dalla sorte di quel sant'uomo, assolutamente sano di corpo e di mente, schiacciato dalla volontà brutale della società. Perché il vescovo era sano di mente, quanto puro e nobile di cuore. Come diceva Ernest, la sua sola debolezza era l'erronea conoscenza della biologia e della sociologia, per cui aveva scelto male il modo di tentare di cambiare le cose.

Ciò che mi esasperava, era l'impotenza a difendersi di quel prelato. Se continuava a proclamare la verità così come la vedeva, era condannato all'internamento perpetuo; e ciò senza poter protestare. Il suo patrimonio, la sua posizione, la sua cultura non potevano salvarlo. Le sue idee costituivano un pericolo per la società, che non poteva concepire come conclusioni tanto pericolose potessero provenire da uno spirito sano; almeno, a me questo sembra che fosse l'atteggiamento generale.

Ma il vescovo, che, sebbene mite e d'animo puro non mancava di acume, capì chiaramente il pericolo della situazione, si vide preso in una rete, e cercò di scappare. Non potendo contare sull'aiuto dei suoi amici, come quello che mio padre, Ernest e io gli avremmo volentieri dato, era costretto a battersi da solo.

Nella solitudine forzata della clinica, guarì, recuperò l'equilibrio. I suoi occhi cessarono di contemplare visioni; la sua mente si purgò della fantastica idea che il dovere della società fosse quello di nutrire le pecorelle del signore.

Come ho già detto, guarì completamente, e i giornali e la gente di chiesa salutarono il suo ritorno con gioia. Mi recai immediatamente nella sua chiesa. La predica fu dello stesso tenore di quelle tenute un tempo, prima del suo accesso di visionario. Ne fui delusa e scossa. La lezione inflittagli l'aveva forse ridotto all'obbedienza? Era dunque un vile? Aveva abiurato per paura?

Oppure la pressione era stata troppo forte, ed egli si era lasciato schiacciare dal carro di Juggernaut (1) dell'ordine stabilito?

Andai a fargli visita nella sua bella dimora. Lo trovai tristemente mutato, dimagrito, col volto solcato da rughe, come non lo avevo mai visto. Fu chiaramente sconcertato della mia visita. Parlando, si tirava nervosamente le maniche della veste; i suoi occhi inquieti giravano da ogni parte per evitare i miei; la sua mente sembrava preoccupata. La nostra conversazione, interrotta da pause strane, da bruschi cambiamenti d'argomento, fu così incoerente, da imbarazzare. Era costui l'uomo calmo e sicuro di sé che avevo un tempo paragonato a Cristo, con i puri occhi limpidi, lo sguardo diritto, senza debolezza, come la sua anima?

Era stato malmenato e domato. Il suo spirito era troppo mite; non era abbastanza forte per far fronte alla società organizzata.

Mi sentii invasa da una tristezza indicibile. Le sue spiegazioni erano ambigue, paventava in maniera così evidente ciò che avrei potuto dire, che non ebbi cuore di rivolgergli la minima domanda.

Mi parlò della sua malattia con abbandono; parlammo apertamente della chiesa, della riparazione dell'organo, e delle scarse opere di carità. Alla fine, mi vide partire con tale piacere che ne avrei riso se il mio cuore non fosse stato gonfio di lacrime.

Povero debole eroe. Se avessi saputo, però! Lui combatteva come un gigante e io non lo sospettai nemmeno. Solo, interamente solo in mezzo a milioni di suoi simili, combatteva a modo suo. Sospeso fra l'orrore del manicomio e la sua fedeltà alla verità e alla giustizia, si aggrappava disperatamente a quest'ultima, ma era così solo che non aveva neppure osato fidarsi di me. Aveva imparato troppo bene la lezione!

Non passò molto, che rimasi invece edificata. Un bel giorno il vescovo sparì, senza aver avvertito nessuno della sua partenza. Le settimane passavano senza che tornasse: circolarono molte voci sul suo conto; si disse persino che si era ucciso in un accesso di pazzia. Ma queste voci tacquero quando si seppe che aveva venduto tutto quello che aveva, la casa in città, quella di campagna, a Menlo Park, i quadri, le raccolte d'arte e perfino la sua cara biblioteca. Aveva liquidato tutto in segreto, prima di partire.

Questo accadde quando anche su di noi si era abbattuta la sorte avversa. Solo quando ci fummo stabiliti nella nuova casa, avemmo il tempo di chiedere di lui. Improvvisamente tutto si chiarì. Una sera presto, verso l'imbrunire, corsi all'angolo a comprare delle costolette per la cena di Ernest. Perché, nel nostro nuovo ambiente, chiamavamo cena l'ultimo pasto del giorno.

Proprio mentre uscivo dal macellaio, un uomo varcava la soglia della drogheria vicina, che faceva angolo con la strada. Una strana impressione di familiarità mi spinse a guardarlo meglio. Ma aveva già voltato l'angolo, e camminava a passo svelto. C'era, nell'insieme delle spalle e nella corona dei capelli argentati che si intravedevano fra il colletto e il cappello dall'ala rialzata, un non so che che mi risvegliò vaghi ricordi. Invece di riattraversare la strada, seguii quell'uomo. Affrettai il passo, cercando di controllare le idee che si affollavano in testa. No, impossibile, non poteva essere lui, vestito a quel modo, con un vecchio vestito di tela, con i calzoni troppo lunghi, sfilacciati in fondo.

Mi fermai, ridendo di me stessa, e stavo per abbandonare quel folle inseguimento. Ma quella schiena e quei capelli d'argento mi erano troppo noti. Lo raggiunsi e, sorpassandolo, gettai uno sguardo di sbieco al suo viso, poi mi voltai bruscamente, e mi trovai a faccia a faccia con il... vescovo.

Anche lui si fermò, altrettanto bruscamente, sorpreso. Un grosso pacco di carta che aveva in mano gli cadde a terra squarciandosi e spargendo sul marciapiede una grande quantità di patate. Mi guardò con stupore e spavento, poi sembrò vinto; le spalle gli si abbassarono e trasse un profondo sospiro.

Gli tesi la mano. La prese; la sua era madida. Tossì con aria imbarazzata, e la fronte gli si imperlò di grosse gocce di sudore.

Evidentemente, era molto turbato.

"Le patate", mormorò con voce spenta, "sono preziose!". Le raccogliemmo e le rimettemmo nella busta lacerata, che lui teneva ora con cura nel cavo del gomito.

Cercai di esprimergli la mia gioia nel vederlo, e l'invitai a venire subito in casa nostra.

"Mio padre sarà contento di rivederla", dissi. "Abitiamo a due passi da qui".

"Impossibile", rispose. "Devo andare, arrivederci". Si guardò intorno con aria inquieta, come se temesse di essere riconosciuto, e fece l'atto d'incamminarsi. Poi, vedendomi decisa a seguirlo, a non perderlo di vista, aggiunse:

"Mi dia il suo indirizzo, verrò a trovarvi più in là".

"No", risposi con fermezza. "Deve venire subito".

Guardò il sacchetto delle patate che gli dondolava dal braccio e i pacchetti che aveva nell'altra mano.

"E' impossibile, davvero", disse. "Scusi la scortesia, se avessi saputo".

Mi guardò come se fosse sul punto di commuoversi, ma un attimo dopo si riprese. "E poi ho questa roba con me", proseguì. "E' proprio un caso pietoso, terribile. Si tratta di una vecchia alla quale devo portarla subito. Ha fame, bisogna che corra da lei.

Capisce? Verrò dopo. Glielo prometto".

"Vengo con lei", dissi. "E' lontano?".

Sospirò, infine si arrese.

"Solo due isolati", disse. "Affrettiamoci".

Accompagnata dal vescovo, feci la conoscenza del quartiere in cui abitavo. Non avrei mai immaginato che contenesse miserie così grandi! Naturalmente la mia ignoranza veniva dal fatto che non mi occupavo di carità. Ero convinta che Ernest avesse ragione quando paragonava la beneficenza a un cauterio su una gamba di legno, e la miseria a un'ulcera che bisognava togliere, invece di mettervi su un impiastro. Il suo rimedio era semplice. Dare all'operaio il prodotto del suo lavoro, e una pensione a coloro che sono invecchiati lavorando; non ci sarebbe stato più bisogno di elemosine. Persuasa della bontà di questo ragionamento, cospiravo con lui per la rivoluzione, e non spendevo la mia energia per sollevare le miserie sociali che nascono, costantemente, dall'ingiustizia del sistema sociale.

Seguii il vescovo in una piccola stanza di circa quattro metri per tre. Vi trovammo una povera vecchietta tedesca, di sessantaquattro anni, a quanto mi disse. Fu sorpresa di vedermi, ma mi fece un cenno cordiale col capo, senza smettere di cucire un paio di calzoni da uomo che teneva sulle ginocchia. In terra, vicino a lei, ce n'erano parecchi altri. Il vescovo, accortosi che non c'erano più né legna né carbone, uscì per comprarne.

Raccolsi un paio di pantaloni ed esaminai il lavoro della vecchia.

"Sei centesimi, signora", disse lei scuotendo il capo leggermente e continuando a cucire. Cuciva lentamente, ma senza smettere un istante. Sembrava condannata a cucire in eterno.

"Per questo lavoro, pagano sei centesimi?" chiesi stupita. "Quanto tempo c'impiega?" "Sì, tanto mi danno", rispose. "Sei centesimi per la finitura, e ciascuno richiede due ore di lavoro. Ma il padrone non lo sa questo", aggiunse vivacemente, lasciando trasparire il timore di avere delle noie. "Non sono svelta: ho l'artrite alle mani. Le giovani sono molto più abili di me: impiegano metà del tempo, per finire ogni pezzo.

Il padrone è un brav'uomo; mi lascia portare il lavoro a casa, ora che sono vecchia e il rumore delle macchine mi stordisce. Se non fosse così gentile, morirei di fame... Sì, quelle che lavorano all'officina prendono otto centesimi. Ma che vuole? Non c'è abbastanza lavoro per le giovani, e non c'è bisogno delle vecchie... Spesso ho un solo paio di calzoni da finire prima di sera".

Le domandai quante ore lavorasse, e mi disse che dipendeva dalla stagione.

"D'estate, quando ci sono molte ordinazioni, lavoro dalle cinque del mattino fino alle nove di sera. Ma d'inverno fa troppo freddo e non riesco a sgranchirmi le mani, allora devo lavorare di più, qualche volta sin dopo la mezzanotte.

Sì, l'estate scorsa è andata male. I tempi sono duri. Il buon dio deve essere in collera. Questo è il primo lavoro che il padrone mi ha dato in tutta la settimana. E quando non c'è lavoro non si mangia! Mi sono abituata. Ho cucito tutta la vita; al mio vecchio paese, un tempo, poi qui, a San Francisco, da trent'anni...

Quando si può guadagnare il denaro per l'alloggio, tutto va bene.

Il proprietario è molto buono, ma alla scadenza pretende l'affitto. Vuole solo tre dollari per questa stanza. Non è caro.

Eppure è una fatica a mettere insieme tre dollari".

S'interruppe, senza smettere di cucire, e scosse il capo.

"Dovrà stare bene attenta a come spende", osservai.

Fece un cenno di assenso. "Una volta pagato l'affitto, le cose non vanno male. Naturalmente non posso comprare la carne, né il latte per il caffè. Ma faccio sempre un pasto al giorno e qualche volta anche due".

Aveva pronunciato le ultime parole con una punta d'orgoglio, un vago senso di vittoria. Ma mentre continuava a cucire in silenzio, vidi addensarsi nei suoi occhi buoni una grande tristezza, e gli angoli della bocca abbassarsi. Il suo sguardo vagò lontano. Poi si stropicciò gli occhi in fretta, altrimenti non avrebbe visto a cucire.

"Non è la fame che mi spezza il cuore", spiegò. "Ci si abitua.

Piango per mia figlia, uccisa dalla fabbrica. E' vero che lavorava molto, ma non posso capire come abbia potuto morire, perché era robusta. Era giovane, aveva solo quarant'anni, e lavorava da trenta. Aveva cominciato presto, è vero, ma mio marito era morto per lo scoppio di una caldaia. Che potevamo fare? Aveva solo dieci anni, ma era molto sviluppata per la sua età. La macchina per cucire l'ha uccisa; lei lavorava più svelta di tutte le altre. Ho pensato tanto a questo, e so tutto, perciò non posso più andare in fabbrica: la macchina per cucire mi fa male, sembra dirmi: l'ho uccisa io! l'ho uccisa io! Canta questo ritornello tutto il giorno. Allora penso a mia figlia e non riesco assolutamente a lavorare".

I suoi occhi stanchi si erano velati di nuovo, e dovette asciugarli prima di riprendere il lavoro. Udii il vescovo arrancare su per le scale e aprii la porta. In che stato era!

Portava sulle spalle mezzo sacco di carbone, e sopra, della legna.

Aveva il viso coperto di fuliggine, e il sudore, per lo sforzo compiuto, gli gocciolava dalla fronte. Lasciò cadere il carico in un angolo vicino alla stufa e si asciugò la faccia con un fazzoletto di tela grezza. Stentavo a credere ai miei occhi. Il vescovo, nero come un carbonaio, aveva una rozza camicia di cotone, una tuta. Questa era la cosa più assurda di tutte: la tuta! alla quale mancava persino un bottone. Era quanto di più incongruo vi potesse essere, sdrucita in fondo, e trattenuta alla vita da una cintura di cuoio.

Se il vescovo aveva caldo, le mani gonfie della povera vecchia erano intirizzite per il freddo. Prima di lasciarla, il vescovo accese il fuoco, mentre io sbucciavo le patate e le mettevo a bollire. Dovevo imparare poi, col tempo, che di questi casi ce n'erano parecchi, e molti anche peggiori nascosti negli orribili interni delle case del quartiere.

Rientrando, trovammo Ernest in pensiero per la mia assenza.

Passata la prima sorpresa dell'incontro, il vescovo si sdraiò in una poltrona, allungò le gambe coperte di tela azzurra e mandò, certamente, un sospiro di sollievo. Eravamo, disse, i primi tra i suoi vecchi amici che rivedeva dopo la sua fuga: nelle ultime settimane, la solitudine gli era pesata enormemente. Ci raccontò molte cose, ma soprattutto espresse la gioia che provava nel mettere in pratica i precetti del suo divino Maestro. "Perché ora veramente", disse, "nutro i suoi agnelli. E ho imparato una gran cosa: non si può curare l'anima finché lo stomaco non è pieno. Gli agnelli di dio devono essere nutriti con pane, patate e carne; solo così le loro menti sono pronte a ricevere un cibo elevato".

Mangiò volentieri il pranzo che avevo preparato. Non aveva avuto mai tanto appetito, alla nostra mensa. Parlammo dei giorni passati, e ci disse che in vita sua non era mai stato così bene come nella sua nuova condizione.

"Vado sempre a piedi, ora", disse, e arrossì al ricordo del tempo in cui girava in carrozza, come se fosse stato un peccatore imperdonabile.

"La mia salute è ottima", aggiunse in fretta, "e sono felicissimo, veramente felicissimo. Ora veramente ho coscienza di essere un eletto del Signore".

Eppure il suo viso serbava costante un'impronta di tristezza, perché ora si era fatto carico dei dolori del mondo. Vedeva la vita sotto una luce ben diversa da come l'aveva intravista nei libri della sua biblioteca.

"E il responsabile di tutto questo è lei, giovanotto", disse rivolto a Ernest che parve imbarazzato e intimidito.

"L'avevo... l'avevo avvertita", balbettò.

"Non ha capito", rispose il vescovo. "Non è un rimprovero, ma un ringraziamento. Le sono grato d'avermi mostrato la mia vita. Dalle teorie sulla vita, lei mi ha condotto alla vita stessa. Ha squarciato i veli, e strappato le maschere. Ha portato la luce nella mia notte, e ora anch'io vedo la luce del giorno. E sono felice, tranne..." esitò, dolorosamente, e come un velo di sofferenza gli oscurò lo sguardo, "tranne questa persecuzione. Non faccio male a nessuno. Perché non mi lasciano in pace? Ma non si tratta neppure di questo quanto piuttosto del tipo di persecuzione. Accetterei persino di essere fustigato, bruciato in una graticola o crocifisso con la testa in giù; ma il manicomio:

mi spaventa! Pensate: una casa di pazzi! E' ripugnante! Ho visto dei casi, là in clinica: dei pazzi furiosi. Mi si gela il sangue al solo ricordo. Essere rinchiuso tutta la vita, fra urli e scene violenti! No, no, sarebbe troppo...!".

Era commovente: le mani gli tremavano: tutto il corpo rabbrividiva e fremeva al pensiero della scena evocata. Ma ben presto riacquistò la calma.

"Scusatemi", disse in tutta semplicità, "sono i miei nervi. E se a tanto dovesse condurmi il servizio di Dio, sia fatta la sua volontà. Chi sono mai, da avere il diritto di lagnarmi?".

Guardandolo, fui quasi sul punto di esclamare: "Oh, grande e buon pastore! Eroe, eroe di Dio!".

Nel corso della serata, apprendemmo altre cose sul suo conto.

"Ho venduto la casa, o meglio le mie case, e tutti i miei possedimenti. Sapevo di doverlo fare di nascosto, altrimenti mi avrebbero preso tutto. Sarebbe stato terribile. Spesso mi meraviglio per la gran quantità di patate, pane, carne, carbone e legna che si può comprare con una somma che va dai due ai trecentomila dollari".

E si rivolse a Ernest:

"Lei aveva ragione, ragazzo mio: il lavoro è pagato tremendamente poco. Non ho mai fatto il più piccolo lavoro in vita mia tranne quello di esortare i farisei. Credevo di predicar loro il messaggio divino... e valevo mezzo milione di dollari. Non sapevo cosa significasse quella somma prima d'aver visto quanta roba si può comprare. Allora ho capito qualcosa di più: ho capito che tutte quelle patate e quel pane e quel latte mi appartenevano e che non avevo fatto mai niente per produrli. Mi è sembrato chiaro, allora, che altri avevano lavorato per produrli e ne erano stati privati poi. E quando sono sceso in mezzo ai poveri, ho trovato quelli che erano stati derubati, quelli che erano affamati e miserabili perché derubati".

Lo riportammo alla sua storia.

"Il denaro? L'ho depositato in banche diverse con nomi diversi.

Non potranno mai togliermelo, perché non lo scopriranno mai. E' tanto utile il denaro! Serve per comprare tanta roba. Prima ignoravo completamente a cosa potesse servire il denaro!".

"Almeno ne avessimo per la nostra propaganda", disse Ernest sovrappensiero. "Potrebbe esserci di molto aiuto".

"Credete?" disse il vescovo. "Non ho molta fiducia nella politica:

temo di non intendermene".

Ernest era molto timido in fatto di soldi. Non insistette pur conoscendo benissimo le difficoltà nelle quali si dibatteva il partito socialista, per mancanza di fondi.

"Vivo in una stanza a buon mercato", continuò il vescovo, "ma ho sempre paura, e non sto a lungo nello stesso posto. Ho pure in affitto due camere in case operaie, in quartieri diversi della città. E' una stranezza, lo so, ma è necessario. Rimedio in parte cucinando da me; ma a volte trovo da mangiare per poco nelle caffetterie. E ho fatto una scoperta: i tamales (2) sono ottimi quando fa fresco, la sera. Soltanto, sono cari: ho scoperto un posto dove ne danno tre per dieci centesimi; non sono buoni come gli altri, ma soddisfano. E così ho finalmente trovato la mia missione nel mondo, e lo debbo a lei, giovanotto. E' la missione del mio divino Maestro". Mi guardò con occhi lucenti: "Mi ha sorpreso mentre stavo nutrendo un suo agnello, come sa:

naturalmente, manterrete il segreto, tutti e due".

Lo disse con tono disinvolto che rivelava però, in fondo, un vero timore. Promise di ritornare da noi.

Ma una settimana dopo, i giornali c'informarono del triste caso del vescovo Morehouse che era stato rinchiuso in un manicomio di Napa; il suo stato lasciava però, a quanto pareva, qualche speranza.

Inutilmente cercammo di vederlo, inutilmente ci demmo da fare perché fosse sottoposto a un'inchiesta. Non potemmo avere altre notizie di lui, se non reiterate dichiarazioni che non bisognava sperare nella sua guarigione.

"Cristo disse al giovane ricco di vendere tutto ciò che possedeva", disse Ernest, con amarezza. "Il vescovo ha obbedito al comando, ed è stato rinchiuso in un manicomio. I tempi sono cambiati dall'epoca di Cristo! Oggi il ricco che dà tutto al povero è un pazzo. Non ci sono dubbi al riguardo. E' il verdetto della società".

NOTE:

1) Idolo del dio indiano Vishnu, sotto il cui carro i devoti s'immolavano.

2) Piatto messicano del quale si parla spesso nella letteratura del tempo. Sembra che fosse condito con molte spezie.

La ricetta non è giunta sino a noi.

Capitolo 13

LO SCIOPERO GENERALE

Ernest venne eletto al Congresso con la grande avanzata socialista che si verificò nell'autunno del 1912. Uno dei grossi fattori che contribuirono ad accrescere il numero dei voti per i socialisti fu l'eliminazione di Hearst (1). Riuscirci fu facile per la plutocrazia. Hearst spendeva diciotto milioni di dollari l'anno per mandare avanti i suoi innumerevoli giornali, somma che gli era ripagata in abbondanza dalla borghesia sotto forma di pubblicità.

La sua forza finanziaria era alimentata dunque dalla borghesia. I trust non gli affidavano pubblicità (2). Per distruggerlo, perciò, bastava togliergli la pubblicità.

La classe media non era ancora completamente vinta: conservava un'ossatura massiccia, ma era inerte. I piccoli industriali e gli uomini d'affari che si ostinavano a sopravvivere, privi di potere, erano in balia della plutocrazia. Appena l'alta finanza fece loro un cenno, tolsero dunque la pubblicità dalla stampa di Hearst.

Costui si batté eroicamente: fece stampare i suoi giornali in pura perdita, rimettendoci di tasca sua un milione e mezzo di dollari al mese, e continuò a pubblicare annunci che non gli venivano pagati. Allora, per nuovo ordine della plutocrazia, la sua meschina clientela lo inondò di un fiume di ingiunzioni a smettere la pubblicità gratuita. Hearst si ostinò. Fu allora citato, e siccome persisteva nel suo rifiuto di obbedire, fu condannato a sei mesi per offesa alla Corte, mentre veniva spinto al fallimento da un diluvio di azioni per danni e interessi. Non aveva vie d'uscita. L'alta banca lo aveva condannato; aveva in mano sua i magistrati che dovevano confermare la sentenza. Con lui, crollò il partito democratico che aveva da poco irretito.

Questa doppia disfatta pose davanti ai suoi seguaci solo due strade: quella che conduceva al partito socialista e l'altra, quella che conduceva al partito repubblicano. Fu così che noi raccogliemmo i frutti della propaganda cosiddetta socialista, di Hearst; la grande maggioranza dei suoi seguaci venne infatti a ingrossare le nostre file.

L'espropriazione degli agricoltori, che ebbe luogo a quel tempo, ci avrebbe procurato un altro forte aumento di voti senza la breve e futile vita del partito degli agricoltori. Ernest e i capi socialisti fecero sforzi disperati per attirare a sé gli agricoltori; ma la distruzione dei giornali e delle case editrici socialiste costituiva un ostacolo formidabile, e la propaganda orale non era ancora sufficientemente organizzata. Successe dunque che politicanti del tipo del signor Calvin, che non erano altro che agricoltori, da lungo tempo espropriati, attirarono gli altri agricoltori dalla propria parte, e sprecarono la loro forza politica in un'inutile campagna.

"Poveri agricoltori!" esclamò una volta Ernest, con un riso sardonico. "I trust li hanno in pugno e li fanno rigare dritto".

La situazione era proprio questa. I sette grandi trust agendo insieme, avevano fuso i loro enormi capitali e avevano costituito un trust agricolo. Le ferrovie, che controllavano le tariffe, i banchieri e gli speculatori di borsa che controllavano i prezzi, avevano da tempo dissanguato gli agricoltori, costringendoli a indebitarsi fino al collo. Dall'altra parte, i banchieri e gli stessi trust avevano prestato loro grosse somme: quindi erano nella rete. Non restava che gettarli a mare; e il trust agricolo si accinse a farlo. La crisi del 1912 aveva già provocato un terribile crollo dei prezzi sul mercato dei prodotti agricoli.

Essi furono ancora deliberatamente ridotti a prezzi di fallimento, mentre le ferrovie, con tariffe proibitive, spezzavano la spina dorsale all'agricoltore. In questo modo, i fittavoli erano obbligati a contrarre nuovi prestiti, non potendo pagare i vecchi debiti. Fu allora decretata la chiusura delle ipoteche e il recupero obbligatorio degli effetti sottoscritti; in tal modo gli agricoltori furono costretti dalla necessità a cedere le loro terre ai trust. Quindi furono ridotti a lavorare per conto dei trust, come gerenti, sovrintendenti, capomastri e semplici braccianti, e tutti salariati. In una parola, diventarono schiavi, servi della gleba, con un salario di fame. Non potevano abbandonare i loro padroni, che appartenevano tutti alla plutocrazia, né andare a stabilirsi in città, dove questa regnava ugualmente. Se abbandonavano la terra, avevano una sola alternativa: fare i giramondo, ossia la libertà di morire di fame.

Ma anche questo fu loro impedito da leggi drastiche contro il vagabondaggio, applicate rigorosamente.

Naturalmente, qua e là, ci furono agricoltori e intere comunità di agricoltori che sfuggirono all'espropriazione grazie a circostanze eccezionali; ma furono casi sporadici che non avevano alcun valore, e l'anno successivo, in un modo o nell'altro, subirono la stessa sorte (3).

Si spiega così lo stato d'animo dei socialisti, nell'autunno del 1912. Tutti, tranne Ernest, erano convinti che il capitalismo fosse giunto alla fine. L'intensità della crisi, il numero dei disoccupati, la repressione degli agricoltori e della media borghesia, la sconfitta decisiva inflitta su tutta la linea ai sindacati, lasciavano credere nell'imminente condanna della plutocrazia.

Ahimé, come ci ingannavamo sulla forza dei nostri nemici!

Dappertutto, i socialisti, dopo un'esposizione esatta sullo stato delle cose, proclamavano la loro prossima vittoria alle urne. La plutocrazia accettò la sfida e, pesate e valutate le cose, ci inflisse la sconfitta dividendo le nostre forze. Dai suoi agenti segreti, fece diffondere dappertutto la voce che il socialismo era una dottrina sacrilega e atea, e attirando nelle sue file le varie chiese, specialmente quella cattolica, ci privò di un buon numero di voti di lavoratori. Sempre attraverso i suoi agenti segreti, incoraggiò quindi il partito agrario e gli fece propaganda perfino nelle città e negli ambienti della borghesia soccombente.

Ma l'avanzata del socialismo si verificò ugualmente, solo, invece del trionfo che ci avrebbe assicurato i posti chiave, e la maggioranza in tutti i corpi legislativi, ottenemmo la minoranza.

Cinquanta dei nostri candidati furono eletti al Congresso, ma quando presero possesso del loro seggio, nella primavera del 1913, si trovarono completamente esautorati. E tuttavia ebbero più fortuna degli agricoltori, i quali, pur avendo conquistato una dozzina di seggi, non poterono neppure esercitare le loro funzioni, perché i titolari in carica rifiutarono loro di cedere il posto e la magistratura era controllata dall'oligarchia. Ma non è il caso di anticipare gli avvenimenti, devo ancora raccontare dei disordini dell'inverno del 1912.

La crisi nazionale aveva provocato un'enorme riduzione dei consumi. I lavoratori, disoccupati, senza denaro, non facevano acquisti. Di conseguenza, la plutocrazia si trovò così a disporre come mai prima di allora, di un'eccedenza di beni. Fu costretta a smerciarla all'estero, e aveva bisogno di fondi per attuare i suoi disegni giganteschi. I suoi sforzi animosi per buttare queste eccedenze sul mercato mondiale, la misero in competizione con la Germania. I conflitti economici degeneravano quasi sempre in conflitti armati e anche questa volta si la regola si verificò. I guerrafondai tedeschi si tennero pronti e altrettanto fecero gli Stati Uniti.

Questa minaccia di guerra era sospesa come una nube di temporale, e tutto era predisposto per una catastrofe mondiale; perché tutto il mondo era teatro di crisi, sommosse, rivalità d'interessi, dappertutto soccombeva la borghesia, dappertutto sfilavano cortei di scioperanti, dappertutto s'udiva il rombo della rivoluzione sociale (4).

L'oligarchia voleva la guerra contro la Germania, per molte ragioni; perché aveva molto da guadagnare negli avvenimenti vari che avrebbe suscitato un simile conflitto, in quello scambio di trattati internazionali e nella firma di nuove alleanze. Inoltre, il periodo delle ostilità doveva portare un consumo notevole di surplus nazionale, ridurre le fila degli scioperanti che minacciavano tutti i paesi e dare all'oligarchia il tempo di maturare i suoi disegni e attuarli. Un conflitto di quel genere l'avrebbe messa virtualmente in possesso di un mercato mondiale.

Le avrebbe dato un esercito permanente che non avrebbe ormai più dovuto congedare. Infine, nella mente del popolo, il motto:

"America contro Germania" avrebbe dovuto sostituire l'altro:

"Socialismo contro Oligarchia".

E la guerra avrebbe dato effettivamente tutti questi frutti, se non ci fossero stati i socialisti. Un'adunanza segreta di dirigenti dell'Ovest fu convocata nelle nostre quattro stanzette di Pell Street. In essa fu esaminato prima l'atteggiamento che il partito doveva assumere. Non era la prima volta che veniva discussa la possibilità di un conflitto armato (5). Ma era la prima volta che succedeva negli Stati Uniti. Dopo la nostra riunione segreta, entrammo in contatto con l'organizzazione nazionale, e ben presto furono scambiati telegrammi in codice attraverso l'Atlantico, fra noi e l'Internazionale.

I socialisti tedeschi erano disposti ad agire con noi. Erano più di cinque milioni, di cui molti appartenenti all'esercito regolare, e in buoni rapporti con i sindacati. Nei due paesi, i socialisti elevarono una fiera protesta contro la guerra e minacciarono lo sciopero generale, al quale nel frattempo si prepararono. Inoltre, i partiti rivoluzionari di tutti i paesi, proclamarono pubblicamente il principio socialista che la pace internazionale doveva essere mantenuta a tutti i costi, anche con le sommosse e le rivoluzioni in ogni paese.

Lo sciopero generale fu l'unica grande vittoria di noi socialisti americani. Il 4 dicembre il nostro ambasciatore fu richiamato da Berlino. Quella stessa notte, la flotta tedesca attaccò Honolulu, affondò tre incrociatori americani e un cacciatorpediniere, e bombardò la città. Il giorno dopo, la guerra fra Germania e Stati Uniti era dichiarata, e in meno di un'ora i socialisti avevano proclamato lo sciopero generale nei due Paesi.

Per la prima volta, il dio tedesco della guerra affrontò gli uomini della sua nazione, cioè quelli che ne sostenevano l'impero e senza i quali egli stesso non avrebbe potuto sostenerlo. La novità di quello stato di cose stava nella passività della loro rivolta. Non si battevano; non facevano nulla, e la loro inerzia legava le mani al loro Kaiser, il quale cercava solo un pretesto per sguinzagliare i suoi mastini e dare addosso al proletariato ribelle; ma il pretesto non venne mai. Non poté né mobilitare l'esercito per la guerra contro lo straniero, né scatenare la guerra civile per punire i suoi sudditi recalcitranti. Non una ruota del meccanismo del suo impero si muoveva, i treni non viaggiavano e i telegrammi non erano trasmessi perché i telegrafisti e i ferrovieri sostenevano lo sciopero, come il resto della cittadinanza.

Lo stesso avvenne negli Stati Uniti: i lavoratori, organizzati, avevano finalmente imparato la lezione: sbaragliati sul terreno da essi scelto, lo abbandonarono e passarono su quello, politico, dei socialisti, perché lo sciopero generale era uno sciopero politico.

Inoltre, le organizzazioni del lavoro erano state così duramente battute che non importava loro più niente: si unirono allo sciopero per pura disperazione. I lavoratori abbandonarono il lavoro a milioni, soprattutto i metalmeccanici si distinsero: le loro teste ancora sanguinavano, la loro organizzazione era apparentemente distrutta, eppure marciarono compatti con i loro alleati, i metallurgici.

Perfino i semplici manovali e tutti i lavoratori indipendenti interruppero il lavoro. Lo sciopero generale aveva organizzato tutto in modo che nessuno potesse lavorare. Le donne furono le più attive propagandiste dello sciopero. Fecero fronte contro la guerra; non volevano che i loro uomini venissero mandati al macello. Ben presto l'idea dello sciopero generale s'impadronì dell'anima popolare e vi risvegliò la vena umoristica; da quel momento si propagò con rapidità contagiosa. I fanciulli di tutte le scuole scioperarono, e i professori a scuola trovarono le aule deserte. Lo sciopero prese l'aspetto di una grande scampagnata nazionale. L'idea della solidarietà nel lavoro, messa in rilievo sotto quella forma, colpì l'immaginazione di tutti. Infine, non si correva nessun pericolo in quella colossale monelleria. Chi poteva essere punito quando tutti erano colpevoli?

Gli Stati Uniti erano paralizzati.

Nessuno sapeva ciò che accadeva: non c'erano più né giornali né posta, né telegrammi. Ogni comunità era isolata dalle altre come se miglia di deserto l'avessero separata dal resto del mondo.

Praticamente, il mondo aveva cessato di esistere, e rimase in quello strano modo per un'intera settimana. A San Francisco ignoravano perfino quello che succedeva dall'altra parte della baia, a Oakland o a Berkeley.

L'impressione prodotta sulle nature sensibili era fantastica, opprimente: sembrava che fosse morto qualcosa di grande, che una forza cosmica fosse scomparsa. Il polso del paese non batteva più, la Nazione giaceva inanimata. Non si sentivano più correre i tram, né i camion per le vie; non si udiva il fischio delle sirene, né il ronzio dell'elettricità nell'aria, né il grido dei giornalai:

niente, tranne il passo furtivo di persone isolate che a rari intervalli scivolavano via come fantasmi oppressi e resi irreali dal silenzio.

In quella lunga settimana silenziosa, l'oligarchia imparò la lezione e l'imparò molto bene. Lo sciopero fu un avvertimento. Non avrebbe dovuto più ripetersi; ci avrebbe pensato l'oligarchia.

Alla fine della settimana, com'era stato prestabilito, i telegrafisti della Germania e degli Stati Uniti ripresero il lavoro. Per mezzo loro i dirigenti socialisti dei due Paesi presentarono il loro ultimatum ai governanti. La dichiarazione di guerra fu revocata, e le popolazioni dei due paesi ripresero il lavoro.

Questo ritorno alla pace determinò un patto di alleanza fra la Germania e gli Stati Uniti. In realtà, quest'ultimo trattato fu concluso fra l'imperatore e l'oligarchia, per poter affrontare il comune nemico: il proletariato rivoluzionario dei due Paesi.

Quest'alleanza fu poi rotta proditoriamente in seguito, dall'oligarchia, quando i socialisti tedeschi si sollevarono e scacciarono il loro imperatore dal trono. Era esattamente lo scopo che si era proposto l'oligarchia in tutta la vicenda: distruggere il grande rivale sul mercato mondiale. Messo da parte l'imperatore, la Germania non avrebbe avuto più beni in eccesso da vendere all'estero, perché, per la natura stessa di uno stato socialista, la popolazione tedesca avrebbe consumato tutto ciò che avrebbe prodotto. Naturalmente, avrebbe continuato a scambiare con l'estero alcuni prodotti che produceva con altri che non produceva, il che era ben diverso da un surplus non consumato.

"Scommetto che l'oligarchia troverà una giustificazione", disse Ernest quando seppe del tradimento nei confronti dell'imperatore tedesco. "Come sempre, sarà persuasa di aver agito lealmente e per il giusto".

Infatti, l'oligarchia dichiarò pubblicamente di aver agito per il bene del popolo americano, scacciando dal mercato mondiale l'odiato rivale e permettendo così di riversare sul mercato il nostro surplus.

"Il colmo dell'assurdità", disse Ernest, a questo proposito, "è che siamo ridotti a un tale punto di impotenza che quegli idioti dispongono liberamente dei nostri interessi. Ci hanno messo nella condizione di vendere di più all'estero; il che significa che saremo obbligati a consumare di meno qui in patria".

NOTE:

1) William Randolph Hearst, giovane milionario della California, divenne il più potente proprietario di giornali del paese. I suoi giornali, pubblicati in tutte le più importanti città, si rivolgevano alla borghesia in declino e al proletariato.

La sua clientela era così vasta, che riuscì a impadronirsi del guscio vuoto del vecchio partito democratico. La sua era una posizione anomala, predicava una specie di socialismo alla buona mitigato da una non ben precisata forma di capitalismo borghese, come un miscuglio di acqua e olio. Non aveva nessuna probabilità di riuscire, ma durante un breve periodo fu fonte di serie preoccupazioni per la plutocrazia.

2) Il costo della pubblicità era iperbolico in quei tempi calamitosi. La concorrenza esisteva solo fra piccoli capitalisti, che ricorrevano perciò alla pubblicità, della quale i trust non sentivano il bisogno.

3) La distruzione dei piccoli proprietari terrieri romani fu molto meno rapida di quella degli agricoltori e piccoli capitalisti americani, perché nel secolo ventesimo ci fu una spinta in tal senso che non ci fu ai tempi dell'antica Roma.

Moltissimi agricoltori, spinti dalla passione per la terra e desiderosi di mostrare fin dove potevano giungere nel ritorno alla vita selvaggia, cercarono di sfuggire all'espropriazione desistendo da qualsiasi accordo commerciale. Non vendevano né compravano più nulla. Fra loro cominciò a rinascere un sistema primitivo di scambio in natura. Le loro privazioni e sofferenze furono orribili, ma resistettero e il movimento acquistò una certa importanza.

La tattica con cui furono sconfitti, fu quanto mai logica e semplice: la plutocrazia, forte del controllo del governo, aumentò le imposte. E i tributi erano il punto debole degli agricoltori.

Avendo cessato di comprare e di vendere, non avevano denaro, cosicché alla fine dovettero vendere le terre per pagare i tributi.

4) Da tempo si udiva quel rombo. Fin dal 1906 Lord Areburg aveva detto alla Camera dei Lords: "L'inquietudine dell'Europa, il propagarsi del socialismo e la sinistra apparizione dell'anarchia, sono avvertimenti fatti ai governi e alle classi dirigenti e segno che la condizione delle classi operaie diventa intollerabile, e che se si vuole evitare una rivoluzione, bisogna fare in modo di aumentare i salari, ridurre le ore di lavoro e abbassare il prezzo dei beni indispensabili". Il "Wall Street Journal", organo degli speculatori, commentava in questi termini il discorso di Lord Arebury: "Queste parole sono state pronunciate da un aristocratico, da un membro dell'organo più conservatore d'Europa.

Perciò hanno più valore. La politica economica che egli raccomanda ha molto più valore di quella insegnata nella maggior parte dei libri: è questo un segnale d'allarme. Fatene tesoro, signori del ministero della guerra e della marina!". Nello stesso tempo, Sydney Brooks scriveva in America, nell'"Harper's Veekly": "Non volete sentir parlare di socialisti a Washington. Perché? Gli uomini politici sono sempre gli ultimi del paese a vedere ciò che accade sotto il loro naso. Rideranno della mia predizione, ma io dico con certezza che alle prossime elezioni presidenziali, i socialisti avranno più di un milione di voti.

5) Fu al principio del secolo ventesimo che l'organizzazione socialista internazionale formulò definitivamente la condotta da seguire in caso di guerra, e che si può riassumere così: "Perché i lavoratori di un paese combatterebbero contro i lavoratori di un altro paese? Per il bene del loro padroni capitalisti?". Il 21 maggio 1905, quando si parlava d'una guerra tra Austria e Italia, i socialisti d'Italia, di Austria e d'Ungheria tennero un congresso a Trieste e lanciarono la minaccia d'uno sciopero generale dei lavoratori dei tre paesi, se la guerra fosse stata dichiarata. Quell'avvertimento fu rinnovato l'anno dopo, quando l'"Affare del Marocco" minacciò di trascinare in guerra la Francia, la Germania e l'Inghilterra.

Capitolo 14

IL PRINCIPIO DELLA FINE

Sin dal mese di gennaio del 1913, Ernest si era reso perfettamente conto della piega che prendevano le cose; ma non gli fu mai possibile convincere gli altri dirigenti socialisti che l'avvento del Tallone di Ferro era imminente. Erano troppo fiduciosi, e gli eventi precipitavano troppo rapidamente. La crisi era scoppiata in tutto il mondo. Virtualmente padrona del mercato mondiale, l'oligarchia americana escludeva da esso una ventina di nazioni sovraccariche di prodotti esuberanti, che non potevano né consumare né vendere; cosicché a queste non rimaneva altra via di scampo se non una riorganizzazione radicale. Non potevano continuare nella sovrapproduzione; per quel che risultava loro, il sistema capitalistico era fallito.

La riorganizzazione di questi paesi prese la forma della rivoluzione. Fu un'epoca di confusione e di violenza. Istituzioni e governi traballavano dovunque. Dappertutto, tranne in due o tre paesi, gli ex padroni, i capitalisti, lottavano con accanimento per conservare i loro beni. Ma il potere fu loro tolto dal proletariato militante. Finalmente, si avverava la profezia classica di Karl Marx: "Suonerà l'ora della fine della proprietà privata capitalistica, e gli espropriatori saranno a loro volta espropriati". Infatti, appena i governi capitalistici crollavano, sorgevano al loro posto governi di repubbliche cooperative.

"Perché mai gli Stati Uniti rimangono indietro?". "Rivoluzionari americani, svegliatevi"."Che succede, dunque, in America?". Tali erano i messaggi che ci mandavano i compagni vittoriosi degli altri paesi. Ma noi non potevamo mantenerci al passo. L'oligarchia ci sbarrava il cammino con la sua possente mole.

"Aspettate, entreremo nella lotta in primavera", rispondevamo, "allora vedrete!".

La nostra risposta nascondeva un segreto pensiero. Eravamo riusciti ad attirare a noi gli agricoltori e, in primavera, una dozzina di stati sarebbero passati in loro potere, in base ai risultati dell'autunno precedente. Subito dopo, questi stati avrebbero dovuto costituirsi in repubbliche cooperative; il resto sarebbe venuto da sé.

"E se il partito agrario non ce la fa?" chiese Ernest. E i suoi compagni lo chiamavano profeta di sventure.

In realtà, quella possibilità non era il male peggiore che angustiava Ernest; lui prevedeva e temeva soprattutto la diserzione di alcuni grandi sindacati operai e il sorgere delle caste.

"Ghent ha indicato agli oligarchi il modo d'agire", diceva.

"Scommetterei che hanno per breviario il suo 'Benevolent Feudalism'" (1).

Non dimenticherò mai la serata in cui, dopo una vivace discussione in casa nostra con una mezza dozzina di dirigenti sindacali, Ernest si rivolse a me e mi disse tranquillamente: "Ormai è fatta.

Il Tallone di Ferro ha vinto. La fine è vicina".

Quella piccola riunione in casa nostra non aveva carattere ufficiale, ma Ernest, d'accordo con gli altri compagni, cercò di ottenere dai dirigenti sindacali la promessa che avrebbero fatto partecipare i loro uomini al prossimo sciopero generale. Dei sei dirigenti presenti, O'Connor, presidente dell'associazione dei metalmeccanici, era stato il più ostinato nel rifiutare questa promessa.

"Eppure, sapete quale terribile bastonata vi ha procurato la vostra superata tattica nello sciopero e nel boicottaggio", disse Ernest.

O'Connor e gli altri annuirono.

"E avete imparato cosa si può ottenere con uno sciopero generale", continuò Ernest. "Abbiamo impedito la guerra con la Germania. Non si era mai vista una così bella prova di unione solidale da parte dei lavoratori. Essi possono e devono reggere il mondo. Se vuoi continuare a stare con noi, segneremo la fine del capitalismo. E' la nostra sola speranza, e ciò che più importa, la vostra unica via di scampo. Qualunque cosa facciate secondo la vostra vecchia tattica, siete già condannati alla sconfitta, non foss'altro che per il semplice motivo che i tribunali sono controllati dai vostri padroni" (2).

"Tu corri troppo", rispose O'Connor. "Voi non conoscete tutte le vie di scampo. Ce n'è un'altra. Sappiamo quel che facciamo. Ne abbiamo abbastanza degli scioperi. In questo modo ci hanno schiacciati, ma credo che non avremo più bisogno di far scioperare i nostri uomini".

"E come farete, dunque?" chiese bruscamente Ernest.

O'Connor si mise a ridere, scuotendo la testa. "Vi posso dire questo: non abbiamo mai dormito. E non stiamo sognando neppure ora".

"Spero che non vi sarà nulla da temere e nessun motivo di arrossire", disse Ernest, con diffidenza.

"Credo che conosciamo meglio il fatto nostro", fu la risposta.

"Da come lo tenete nascosto, dev'essere un fatto oscuro", replicò Ernest con calore.

"Abbiamo pagato la nostra esperienza con sudore e sangue, e ci saremo guadagnati ciò che otterremo", rispose l'altro. "La vera carità comincia da se stessi".

"Hai paura di dirmi come vi salverete. Ebbene, te lo dico io", e la collera di Ernest divampò. "Vi siete accordati col nemico, ecco cosa avete fatto. E avrete la vostra parte di bottino. Avete venduto la causa dei lavoratori, di tutti i lavoratori. Disertate il campo di battaglia come i vili".

"Non dico nulla", rispose O'Connor, con aria crucciata. "Soltanto, mi pare che sappiamo un po' meglio di voi ciò che dobbiamo fare".

"E non vi curate affatto dei bisogni del resto dei lavoratori. Con un calcio, mandate all'aria la solidarietà".

"Non ho niente da dire", replicò O'Connor, "solo che sono presidente dell'associazione dei metalmeccanici ed è mio dovere difendere gli interessi degli uomini che rappresento: ecco tutto".

Dopo la partenza dei sindacalisti, con una calma che ricordava quella che segue la tempesta, Ernest mi espose il corso degli eventi futuri.

"I socialisti predicevano con gioia l'avvento del giorno in cui il lavoro organizzato, sconfitto sul terreno industriale, si sarebbe unito su quello politico. Ora il Tallone di Ferro ha sconfitto i sindacati sul loro campo e li ha spinti verso il nostro, ma questo per noi, anziché ragione di gioia, sarà fonte di guai. Il Tallone di Ferro ha imparato la lezione. Gli abbiamo mostrato la nostra potenza, con lo sciopero generale, e s'è preparato a impedirne un secondo".

"Ma come potrà impedirlo?" domandai.

"Semplicemente sovvenzionando i grandi sindacati. Questi non si uniranno a noi nel prossimo sciopero generale, e di conseguenza lo sciopero non sarà generale".

"Ma il Tallone di Ferro non potrà sostenere all'infinito una politica così dispendiosa".

"Oh, non ha assoldato tutti i sindacati: non è necessario! Ecco che cosa accadrà: i salari saranno aumentati e le ore di lavoro diminuite nei sindacati delle ferrovie, degli operai metallurgici, dei macchinisti e dei metalmeccanici. In questi sindacati continueranno a prevalere migliori condizioni; l'appartenenza a essi equivarrà a un posto in paradiso".

"Ma ancora non capisco. Che cosa ne sarà degli altri sindacati? Ce ne sono molti di più fuori di questa nuova lega".

"Tutti gli altri sindacati saranno sfruttati e lentamente spariranno, perché, osserva bene, i macchinisti, i metalmeccanici e i metallurgici fanno tutto quanto è assolutamente indispensabile nella nostra civiltà delle macchine. Sicuro della loro fedeltà, il Tallone di Ferro può ridere degli altri lavoratori. Il ferro, l'acciaio, il carbone, le macchine, i trasporti costituiscono l'ossatura dell'organismo industriale".

"Ma, e il carbone?" chiesi. "Ci sono circa un milione di minatori".

"Praticamente si tratta di lavoratori non specializzati, non avranno alcun peso. I loro salari saranno ridotti e le ore di lavoro aumentate. Saranno schiavi, come tutto il resto dell'umanità, e diventeranno i più abbrutiti. Saranno obbligati a lavorare come i contadini per i loro padroni che hanno loro rubato la terra. E sarà lo stesso per gli altri sindacati non aderenti alla lega. Li vedremo vacillare e morire. I loro appartenenti saranno condannati ai lavori forzati dal loro stomaco vuoto e dalla legge del paese.

Sai cosa ne sarà di Farley (3) e dei suoi crumiri? Te lo dico subito: il loro mestiere, come tale, sparirà, perché non vi saranno più scioperi. Vi saranno solo rivolte di schiavi. Farley e la sua banda saranno promossi a guardiani di schiavi. Certo non verranno chiamati così; si dirà che faranno osservare la legge che prescrive il lavoro obbligatorio. Il tradimento dei grandi sindacati prolungherà la lotta, ma dio sa dove e quando trionferà la rivoluzione.

Con una combinazione potente come quella dell'oligarchia con i grandi sindacati, come sperare che la rivoluzione possa trionfare?

Quella combinazione potrebbe durare in eterno".

Ernest scosse il capo.

"Una delle nostre solite generalizzazioni è che ogni sistema fondato sulle classi e sulle caste contiene in sé il germe della propria dissoluzione. Quando una società è fondata sulle classi, come si può impedire il formarsi delle caste? Il Tallone di Ferro non può impedirlo e ne sarà alla fine distrutto. Gli oligarchi hanno già formato una casta fra loro; ma aspetta che i sindacati privilegiati sviluppino la loro. Ciò non può tardare. Il Tallone di Ferro farà il possibile per impedirlo ma non ci riuscirà.

I sindacati privilegiati contengono il fior fiore dei lavoratori americani: uomini forti e capaci, entrati nei sindacati nella lotta per il posto migliore. Tutti i migliori operai degli Stati Uniti aspireranno a diventare membri dei sindacati privilegiati.

L'oligarchia incoraggerà queste ambizioni e le rivalità che ne deriveranno. Così quegli uomini forti, che avrebbero potuto diventare dei rivoluzionari, saranno avvinti dall'oligarchia e ricorreranno alla forza per sostenerla.

D'altra parte, le caste operaie, i membri dei sindacati privilegiati, si sforzeranno di trasformare le loro organizzazioni in vere e proprie corporazioni, e ci riusciranno. La qualità di membro vi diverrà ereditaria. I figli succederanno ai padri, e il sangue cesserà di affluire da quel serbatoio di forza che è il popolo. Ne risulterà una degradazione delle caste operaie, che diventeranno sempre più deboli. Nello stesso tempo, formando un'istituzione, acquisteranno una certa potenza temporanea pari a quella delle guardie palatine nell'antica Roma; ci saranno rivoluzioni di palazzo, finché le caste operaie avranno in mano le redini del potere. Questi conflitti accelereranno l'inevitabile indebolimento delle caste, finché un giorno risorgerà il potere del popolo".

Non bisogna dimenticare che questo quadro della lenta evoluzione sociale venne tracciato da Ernest nel primo momento di abbattimento provocato dalla defezione dei grandi sindacati. Io non ho mai accettato questo suo modo di vedere, e dissento ancor più mentre scrivo queste righe, perché ora, sebbene Ernest non sia più, ci troviamo alla vigilia di una rivoluzione che spazzerà tutte le oligarchie.

Ho riferito la profezia di Ernest, perché fatta da lui. Pur credendovi, non cessò mai di lottare come un gigante per impedirne l'attuazione, e più di ogni altro al mondo rese possibile la rivolta di cui aspettava il segnale (4).

"Ma se l'oligarchia rimane", lo interrogai, "cosa ne sarà della ricchezza enorme che accumulerà di anno in anno?".

"Dovrà spenderla, in un modo o nell'altro, e sii sicura che troverà il modo. Saranno costruite strade magnifiche; la scienza e soprattutto l'Arte avranno uno sviluppo straordinario. Quando gli oligarchi avranno domato completamente il popolo, avranno tempo da perdere per le cose. Diventeranno adoratori del bello, amanti delle arti: incoraggiati da loro e generosamente pagati, gli artisti si metteranno all'opera. Ne risulterà un'apoteosi del Genio; gli uomini di talento non saranno più obbligati, come finora, a seguire il cattivo gusto borghese delle classi medie.

Sarà un'età d'oro per l'arte, lo predico: sorgeranno città di sogno, in confronto alle quali le vecchie città sembreranno meschine e volgari. E in quelle meravigliose città, gli oligarchi risiederanno e adoreranno la Bellezza (5).

Così il surplus sarà speso via via che il lavoro produrrà. La costruzione di quelle opere d'arte e di quelle grandi città porterà alla loro spettanza di fame i milioni di lavoratori comuni, perché l'immensità della spesa richiederà immensità di ricchezza. Gli oligarchi costruiranno per mille, per diecimila anni forse. Costruiranno come non sognarono mai di fare gli egizi, i babilonesi, e quando non esisteranno più, le loro città meravigliose rimarranno, e la fratellanza dei lavoratori prenderà il loro posto (6).

Queste opere, gli oligarchi le faranno perché non potranno fare altrimenti. Queste grandi opere saranno una forma d'investimento del surplus, come le classi dominanti dell'antico Egitto erigevano i tempi e le piramidi con la ricchezza rubata al popolo. Sotto l'oligarchia fiorirà non una casta sacerdotale, ma una casta di artisti, mentre le caste operaie prenderanno il posto della nostra borghesia mercantile. E, sotto, vi sarà l'abisso, dove fra carestia e peste, marcirà e si riprodurrà costantemente il popolo comune, la maggioranza della popolazione. E un giorno, chissà quando, il popolo sorgerà dall'abisso; le caste operaie e l'oligarchia andranno in rovina, e allora, finalmente, dopo un lavoro di secoli, verrà il tempo dell'uomo vero. Avevo sperato di vederlo, quel giorno, ma so, ora, che non lo vedrò".

Fece una pausa e mi guardò, a lungo, poi aggiunse:

"L'evoluzione sociale è troppo lenta, non trovi, mia cara?".

Lo circondai con le mie braccia; la sua testa mi si posò sul cuore.

"Cullami", mormorò come un bambino viziato, "vorrei dimenticare questa mia visione dell'avvenire".

NOTE:

1) L'"Our Benevolent Feudalism" apparve nel 1902. Si è sempre detto e sostenuto che fu Ghent a far nascere l'idea dell'oligarchia nelle menti dei capitalisti. Questa convinzione persiste nella letteratura dei tre secoli del Tallone di Ferro e perfino nel primo secolo della Fratellanza Umana. Oggi sappiamo cosa pensare di quel principio; ma rimane il fatto che Ghent fu uno degli innocenti più calunniati di tutta la storia.

2) Quale esempio dell'ostilità dei giudici contro la classe operaia citiamo i seguenti casi. L'impiego dei bambini era un fatto normale nelle regioni minerarie; in Pennsylvania, nel 1905 i lavoratori riuscirono a fare approvare una legge per la quale la dichiarazione giurata dei parenti circa l'età e il grado d'istruzione dei fanciulli doveva, da allora in poi, essere confermata da documenti. Questa legge fu immediatamente denunciata come incostituzionale dal tribunale della contea di Luzerne, con il pretesto che violava il Quattordicesimo emendamento stabilendo una distinzione fra persone della stessa classe, ossia fra i minori di circa quattordici anni; e la Corte di Stato confermò tale decisione. La corte di New York, nella sessione speciale dell'A. D. 1905, denunciò come incostituzionale la legge che proibiva alle donne e ai minori di lavorare nelle officine dopo le nove di sera, col pretesto che si trattava di "una legislazione di classe". Anche a quel tempo, essendo i panettieri oppressi da un lavoro eccessivo, le sessioni Riunite della Corte di New York emanarono una legge che limitava il lavoro di questi operai a dieci ore al giorno. Ma nel 1906, la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò questa legge incostituzionale, adducendo, fra gli altri motivi, che: "Non v'è ragione valida per limitare la libertà delle persone o dei contratti, stabilendo le ore di lavoro nel mestiere del fornaio".

3) James Farley, celebre crumiro dell'epoca, era un uomo dotato di grande capacità, e di coraggio più che di moralità. Si innalzò molto sotto il regime del Tallone di Ferro, e finì col farsi ammettere nella casta degli oligarchi.

Fu assassinato nel 1932, da Sarah Jenkins, il cui marito era stato ucciso trent'anni prima dai crumiri di Farley.

4) Le previsioni sociali di Everhard erano degne di nota. Con chiarezza alla luce degli avvenimenti, prevedeva la defezione dei sindacati privilegiati, la nascita e la lenta decadenza delle caste operaie, come la lotta fra queste e l'oligarchia, per il controllo della grande macchina governativa.

5) Dobbiamo ammirare l'intuito di Everhard. Molto prima che la semplice idea di città meravigliose, come Ardis e Asgard, nascesse nella mente degli oligarchi, lui intravide queste città splendide e la necessità della loro creazione.

6) Da quel giorno, sono passati tre secoli di Tallone di Ferro, e oggi percorriamo le strade e abitiamo le città edificate dagli oligarchi. E' vero che abbiamo continuato a costruire, ma le città degli oligarchi sussistono; io scrivo queste righe, a Ardis, una delle più belle fra tutte.

Capitolo 15

ULTIMI GIORNI

Verso la fine di gennaio del 1913, l'atteggiamento dell'oligarchia nei confronti dei sindacati privilegiati cambiò. I giornali annunciarono un aumento di salario senza precedenti e, nello stesso tempo, una riduzione delle ore lavorative per i dipendenti delle ferrovie, i lavoratori del ferro e dell'acciaio, i metalmeccanici e i macchinisti. Ma gli oligarchi non permisero che tutta la verità fosse immediatamente divulgata. In realtà, i salari erano stati aumentati molto di più e i privilegi concessi erano maggiori di quanto non si sapesse. Tutto questo era segreto, ma i segreti finiscono sempre col trapelare. Gli operai privilegiati si confidarono con le loro mogli, le quali a loro volta chiacchierarono, e in breve tutti i lavoratori seppero ciò che era accaduto.

Era lo sviluppo logico e semplice di quello che nel diciannovesimo secolo si chiamava "partecipazione al furto". Nella lotta che si svolgeva tra le industrie di quel tempo si era tentato pure la ripartizione degli utili fra gli operai; ossia, alcuni capitalisti avevano tentato di calmare i lavoratori facendoli partecipare ai profitti. Ma la partecipazione agli utili era, come sistema, una cosa assurda e impossibile. Poteva riuscire solo in alcuni casi isolati, nell'ambito di un sistema di lotte industriali, perché se tutto il lavoro e tutto il capitale si fossero divisi i profitti, le cose sarebbero ritornate al punto di partenza.

In questo modo, dall'idea inattuabile di una partecipazione ai guadagni, nacque l'idea pratica di partecipazione al furto.

"Pagateci di più e rifatevi sul pubblico", divenne il grido di guerra dei sindacati forti. E questa politica egoistica riuscì qua e là. Facendo pagare al pubblico si faceva pagare alla gran massa del lavoro non organizzato, o debolmente organizzato. Erano in realtà i lavoratori che procuravano un maggior aumento di salario ai loro compagni, membri dei monopoli sindacali. Quest'idea, come ho detto, fu spinta alla sua conclusione logica, su vasta scala, dall'unione degli oligarchi con i sindacati privilegiati (1).

Appena la defezione dei sindacati privilegiati fu risaputa, nel mondo dei lavoratori sorsero mormorii e proteste. Poi i sindacati privilegiati si ritirarono dalle organizzazioni internazionali e si sciolsero da ogni impegno di organizzazione e di solidarietà.

Ne nacquero torbidi e violenze. I loro membri furono bollati come traditori: nei bar e nei bordelli, nelle strade e nelle fabbriche, ovunque, furono assaliti dai compagni che essi avevano con tanta perfidia abbandonato.

Ci furono numerose teste rotte e parecchi morti. Nessun privilegiato era ormai al sicuro. Per recarsi al lavoro o per ritornarne, dovevano unirsi in gruppi. Camminavano sempre al centro della strada, perché sul marciapiede correvano il pericolo di ricevere in testa mattoni o pietre lanciati dall'alto. Ebbero così il permesso di armarsi, e le autorità li aiutarono in tutti i modi. I loro persecutori furono condannati a lunghi anni di carcere, o furono trattati crudelmente; nessuna persona estranea ai sindacati privilegiati aveva diritto di portare armi, e ogni infrazione a questa legge era considerata un grave reato e come tale punita.

Tutti i lavoratori danneggiati continuarono a vendicarsi dei rinnegati. Subito comparvero all'orizzonte nuove caste. I figli dei traditori erano perseguitati dai figli dei lavoratori traditi, al punto che non potevano più giocare nelle strade e andare a scuola. Le mogli e le famiglie dei rinnegati erano condannate all'ostracismo; al punto che il droghiere del rione era boicottato se vendeva loro qualcosa.

Come risultato, respinti da ogni parte, i traditori e le loro famiglie formarono dei clan. Essendo impossibile vivere sicuri in mezzo al proletariato ostile, si trasferirono in nuove località abitate esclusivamente da loro. Questo movimento fu favorito dagli oligarchi: furono costruite per loro case igieniche e moderne, circondate da giardini, i loro figli frequentavano scuole create per loro con corsi speciali di insegnamento manuale e scienze applicate. Così fin da principio, e fatalmente quasi, da quell'isolamento nacque una casta. I membri dei sindacati privilegiati diventarono gli aristocratici del lavoro e furono separati dagli altri operai. Meglio alloggiati, meglio vestiti, meglio nutriti, meglio trattati, essi presero parte alla divisione del bottino, con frenesia.

Nel frattempo, il resto della classe operaia era trattato più duramente che mai. Alla maggioranza furono tolti molti piccoli privilegi di cui godeva; i salari e il livello economico si abbassarono rapidamente, le scuole pubbliche ben presto decaddero e, lentamente, l'educazione cessò di essere obbligatoria. Il numero degli analfabeti della nuova generazione crebbe in modo impressionante.

La conquista da parte degli Stati Uniti del mercato mondiale aveva scosso il resto del mondo. Istituzioni e governi cadevano e si trasformavano dappertutto. La Germania, l'Italia, la Francia, l'Australia e la Nuova Zelanda stavano organizzandosi in repubbliche cooperative. L'Impero britannico crollava a pezzi.

L'Inghilterra era stremata. L'India era in piena rivolta. Il grido di tutto l'Oriente era "L'Asia agli asiatici". E dall'Estremo Oriente, il Giappone spingeva le razze gialle e brune contro la bianca, e mentre sognava un impero continentale e si sforzava di avverare il sogno, distruggeva la sua stessa rivoluzione proletaria. Fu una semplice guerra di caste, di coolies contro samurai, e i lavoratori socialisti furono giustiziati in massa.

Quarantamila furono uccisi nella battaglia per le strade di Tokio, e nell'inutile assalto al palazzo del Mikado. A Kobe, vi fu un macello; il massacro dei filatori di cotone, a raffiche di mitragliatrici, è diventato l'esempio classico e terribile della capacità di sterminio delle moderne macchine di guerra.

L'oligarchia giapponese, nata dal sangue, fu la più feroce di tutte. Il Giappone dominò l'Oriente e conquistò tutta la parte asiatica del mercato mondiale, tranne l'India.

L'Inghilterra riuscì a domare la rivoluzione dei suoi proletari e a conservare l'India a costo d'uno sforzo che per poco non la distrusse. Dovette abbandonare le grandi colonie; perciò i socialisti poterono far dell'Australia e della Nuova Zelanda delle repubbliche cooperative e il Canada fu perduto per la madre patria. Ma il Canada soffocò la rivoluzione socialista con l'intervento del Tallone di Ferro; il quale aiutava nello stesso tempo il Messico e Cuba a reprimere le loro rivolte.

Il Tallone di Ferro, dopo aver saldato in un solo blocco politico tutta l'America del Nord, dal Canale di Panama all'Oceano Artico, si trovò solidamente piantato nel Nuovo Mondo.

L'Inghilterra, sacrificando le sue grandi colonie, era riuscita a salvare l'India, ma anche questa fu una vittoria momentanea; rimandò semplicemente la sua guerra per l'India col Giappone e il resto dell'Asia. Era destinata, entro breve tempo, a perdere quella penisola, e quell'avvenimento a sua volta sarebbe stato causa di una lotta fra l'Asia unificata e il resto del mondo.

Mentre la Terra intera era dilaniata dai conflitti, negli Stati Uniti l'avvento della pace era sempre lontano. La defezione dei grandi sindacati aveva impedito la rivolta dei nostri proletari, ma la violenza regnava dappertutto. Oltre i torbidi dei lavoratori, oltre il malcontento degli agricoltori e dei pochi superstiti della classe media, sorgeva e si diffondeva una rinascita religiosa. Un ramo della setta degli Avventisti del Settimo Giorno era sorto, e s'era subito sviluppato notevolmente.

I suoi fedeli proclamavano la fine del mondo.

"Non ci mancava che questa, nella confusione generale", esclamò Ernest. "Come sperare che ci sia solidarietà, fra tante tendenze contrarie e divergenti?".

E, in verità, il movimento religioso andò assumendo uno sviluppo allarmante. Il popolo, a causa della miseria e della profonda delusione per tutte le cose terrene, era preparato, pronto e infiammato per un cielo dove i suoi tiranni industriali sarebbero entrati non più che un cammello attraverso la cruna di un ago.

Predicatori dagli occhi torvi vagabondavano di paese in paese e, malgrado le proibizioni delle autorità civili e le persecuzioni, la fiamma di questo fanatismo religioso era mantenuta viva da innumerevoli riunioni segrete.

Erano gli ultimi giorni, proclamavano, l'inizio della fine del mondo! I quattro venti erano scatenati: dio agitava i popoli spingendoli alla guerra. Erano tempi di visioni e miracoli, di veggenti e profeti, a legioni. La gente, a centinaia di migliaia, abbandonava il lavoro e fuggiva verso le montagne ad aspettare l'imminente venuta di dio e l'ascensione dei centoquarantaquattromila eletti. Ma dio non appariva e loro morivano in gran parte di fame. Nella disperazione, razziavano le fattorie, e il tumulto e l'anarchia, invadendo anche le campagne, non facevano altro che esasperare le pene dei poveri agricoltori espropriati.

Ma poiché le fattorie e i granai erano proprietà del Tallone di Ferro, numerose truppe furono mandate nei campi e i fanatici, con la punta delle baionette, vennero ricondotti al lavoro nelle città. Ma continuavano a sollevarsi. I loro capi furono giustiziati per sedizione, o rinchiusi in manicomi. I condannati andavano al supplizio con la gioia dei martiri. Furono tempi di follia. L'inquietudine si estese. Perfino nei deserti, nelle foreste, nelle paludi, dalla Florida all'Alaska, piccoli gruppi di indiani sopravvissuti erravano come fantasmi in attesa dell'avvento dell'atteso Messia.

In questo caos, continuava a innalzarsi con serenità e sicurezza quasi prodigiose, la sagoma del mostro dei mostri: l'oligarchia.

Con ferrea determinazione il Tallone di Ferro dominava quel groviglio di milioni di esseri, faceva uscire l'ordine dalla confusione, e poneva le proprie fondamenta sullo stesso caos.

"Aspettate che subentriamo noi", ripetevano gli agricoltori, e così ci disse anche Calvin, nel nostro appartamento di Pell Street. Guardate quanti stati abbiamo conquistato. Con l'appoggio di voi socialisti, faremo cantare loro un'altra canzone, appena saremo subentrati a loro.

"Abbiamo dalla nostra milioni di malcontenti e poveri", replicavano i socialisti. "Alle nostre file si sono aggiunti i contadini, la borghesia e i braccianti. I capitalismo cadrà in pezzi. Fra un mese manderemo cinquanta rappresentanti al Congresso. Fra due anni, tutte le cariche ufficiali saranno nostre, da quella di presidente a quella municipale di accalappiacani".

Al che Ernest replicava, scuotendo il capo: "Quanti fucili avete?

Sapete dove trovare il piombo in gran quantità? Quanto alla polvere, credetemi, le combinazioni chimiche sono migliori dei pasticci meccanici".

NOTE:

1) Tutti i sindacati dei lavoratori ferroviari entrarono in questa associazione. E' interessante notare che la prima vera applicazione della politica della "partecipazione al furto" era stata fatta nel secolo diciannovesimo da un sindacato di ferrovieri, vale a dire la Fratellanza dei Macchinisti, della quale un certo P. M. Arthur era da vent'anni il capo. Dopo lo sciopero della Pennsylvania Railroad nel 1877, costui sottopose ai macchinisti un progetto che prevedeva un accordo con le ferrovie staccandosi dagli altri sindacati. Questo disegno egoistico riuscì perfettamente; da qui la parola "Arthurisation", per indicare la partecipazione dei sindacati al furto. L'origine di questa parola è stata per molto tempo incerta per gli studiosi, ma ora sembra sia ben chiara.

Capitolo 16

LA FINE

Quando per Ernest e per me arrivò il momento di andare a Washington, mio padre non ci accompagnò: si era appassionato alla vita proletaria. Considerava il nostro misero rione un vasto laboratorio sociologico, e sembrava travolto in una sola e interminabile orgia di ricerche. Fraternizzava con gli operai ed era ammesso confidenzialmente in numerose famiglie; faceva inoltre vari lavori che rappresentavano per lui, oltre che una distrazione, una vera e propria indagine scientifica. Vi prendeva gusto e ritornava a casa con le tasche piene di appunti, sempre pronto a raccontare qualche nuova avventura. Era il perfetto scienziato.

Non era obbligato a lavorare, perché Ernest con le sue traduzioni guadagnava abbastanza da mantenere tutti e tre; ma mio padre si ostinava a inseguire il suo fantasma preferito che, a giudicare dalla varietà dei lavori che faceva, doveva essere una specie di Proteo. Non dimenticherò mai la sera in cui ci portò il suo inventario di merciaio ambulante, venditore di lacci e bretelle, né il giorno in cui entrai per comprare della merce in drogheria sull'angolo e fui servita da lui. In seguito, senza molta sorpresa, seppi che era stato per tutta una settimana garzone nel bar di fronte a noi. Fu successivamente guardiano notturno, rivenditore ambulante di patate, incollatore di etichette in una fabbrica di scatolame, facchino in una fabbrica di scatole di cartone, portatore d'acqua in una squadra impiegata nella costruzione di una linea tranviaria; e seppi pure che aveva fatto parte dell'Unione dei Lavapiatti, poco tempo prima che venisse sciolta.

Credo che fosse rimasto affascinato dall'esempio del vescovo, o perlomeno dalla sua tuta, perché ne portava una anche lui, con una stretta cintura in vita e, sotto, una camicia di cotone grezzo.

Della sua vita precedente, conservò solo l'abitudine di cambiarsi l'abito per il pranzo, o meglio per la cena.

Quanto a me, insieme con Ernest mi trovavo bene dappertutto; quindi, la felicità di mio padre, in quelle condizioni, non poteva che accrescere la mia.

"Da piccolo", diceva, "ero molto curioso. Volevo sapere tutti i perché e i come. Fu così che diventai fisico. Oggi la vita m'incuriosisce come allora, ed è questa curiosità che ce la rende degna di essere vissuta".

A volte si spingeva a nord di Market Street, nel quartiere dei negozi e dei teatri, e là vendeva giornali, faceva commissioni e procacciava taxi. Un giorno, chiudendo appunto lo sportello di un taxi, si trovò faccia a faccia con il signor Wickson. Con grande giubilo ci raccontò di quell'incontro la sera stessa.

"Mi ha guardato fisso e a lungo mentre chiudevo lo sportello, e ha mormorato: 'Che il diavolo mi porti!'. Proprio così si è espresso:

Che il diavolo mi porti! Era arrossito e così confuso, che ha dimenticato di darmi la mancia, ma ha ripreso subito il controllo di sé perché, dopo pochi metri, il taxi è tornato indietro con lui che si sporgeva dal finestrino: 'Professore', ha esclamato, 'questo è troppo! Cosa posso fare per lei?'. 'Ho chiuso il suo sportello', ho risposto, 'secondo l'uso potrebbe darmi una piccola mancia'. 'Non si tratta di questo', ha brontolato, 'voglio dire, fare qualcosa di utile'. Diceva sul serio: chissà, qualche rimorso di coscienza. Così per qualche attimo sono rimasto a riflettere.

Quando ho aperto la bocca, è stato a sentirmi attentamente: ma avreste dovuto vederlo alla fine. 'Ebbene', gli ho detto, 'potrebbe forse restituirmi la casa e le mie azioni delle Filande Sierra'".

Mio padre s'interruppe.

"Che cosa ha risposto?" domandai con impazienza.

"Nulla: che cosa poteva rispondere? Ma ho ripreso la parola:

'Spero che sia felice'. Mi guardava con curiosità e sorpresa. Ho insistito: 'Dica, è felice?'. Immediatamente, ha ordinato al tassista di partire, e l'ho sentito bestemmiare furiosamente. Quel malnato non mi ha dato la mancia e tanto meno mi ha restituito la casa e le azioni. Come vedi, cara, la carriera di factotum di tuo padre è piena di delusioni".

E fu così che mio padre rimase nel nostro appartamento di Pell Strett, mentre Ernest e io andavamo a Washington. Sennonché, il colpo di grazia stava per giungere prima di quanto immaginassi.

Contrariamente alla nostra aspettativa, non fu fatto nessun ostruzionismo per impedire ai socialisti eletti di prendere possesso dei loro seggi al Congresso. Sembrava che tutto filasse liscio, e io ridevo di Ernest che vedeva perfino in questa facilità un sinistro presagio.

Trovammo i nostri compagni socialisti pieni di fiducia nelle loro forze e pieni di disegni ottimisti.

Alcuni membri del partito agrario eletti al Congresso avevano accresciuto la nostra forza ed elaborammo con loro un programma particolareggiato su quello che c'era da fare. Ernest partecipava lealmente ed energicamente a questi lavori, pur non potendo fare a meno di ripetere, ogni tanto, e apparentemente fuori proposito:

"Quanto alla polvere, le combinazioni chimiche sono migliori dei pasticci meccanici, credetemi!".

I guai cominciarono prima per gli agrari, nei vari stati che avevano conquistato alle ultime elezioni; si trattava di una dozzina di stati, ma ai nuovi eletti non fu permesso di prendere possesso della loro carica. I perdenti si rifiutarono i cedere il posto, e con il pretesto di brogli elettorali crearono una quantità di ostacoli legali. Gli agrari furono ridotti all'impotenza: i tribunali, loro ultima speranza, erano nelle mani dei nemici. Se gli agrari, delusi, fossero ricorsi alla violenza, tutto sarebbe stato perduto. Quanto ci demmo da fare, noi socialisti, per trattenerli. Per giorni e notti Ernest non chiuse occhio. I maggiori dirigenti degli agrari capirono e collaborarono pienamente con noi. Ma non servì a nulla: l'oligarchia voleva la violenza e scatenò i suoi agenti provocatori, i quali, indiscutibilmente, provocarono la Rivolta dei Contadini.

Essa scoppiò in dodici stati. Gli agrari espropriati si impadronirono con la forza del governo degli stati. La cosa, naturalmente, era incostituzionale e gli Stati Uniti misero in moto l'esercito; gli agenti del Tallone di Ferro eccitavano dovunque la popolazione, travestiti da artigiani, fittavoli o contadini. A Sacramento, capitale della California, gli agrari erano riusciti a mantenere l'ordine, quando una fitta banda di agenti segreti si rovesciò sulla città condannata. Gruppi composti esclusivamente da spie incendiarono e saccheggiarono diversi edifici e officine, e infiammarono le menti del popolo a tal punto che esso si unì a loro nel saccheggio. Per alimentare questo incendio, nei quartieri poveri fu distribuito alcool a fiumi. Poi, quando tutto fu pronto, entrarono in scena le truppe degli Stati Uniti, che erano in realtà i soldati del Tallone di Ferro.

Undicimila tra uomini, donne e bambini furono fucilati per le strade di Sacramento, o assassinati nelle case. Il governo federale prese il posto del governo dello Stato, e tutto fu perduto per la California. Anche altrove le cose andarono nello stesso modo. Tutti gli stati conquistati dagli agrari furono domati con la violenza e affogati nel sangue. Come sempre, dapprima il disordine era scatenato dagli agenti segreti e dalle Centurie Nere, e subito dopo venivano chiamate le truppe. La sommossa e il terrore regnavano in tutti i distretti rurali.

Giorno e notte, il fumo degli incendi delle fattorie, delle città e dei villaggi riempì completamente il cielo. Si ricorse all'uso della dinamite: si fecero saltare ponti e gallerie e deragliare i treni. I poveri contadini furono fucilati e impiccati in massa. Le rappresaglie furono terribili: numerosi plutocrati e ufficiali furono massacrati. I cuori erano assetati di sangue e di vendetta.

L'esercito regolare combatteva gli agrari con l'accanimento che avrebbe usato contro i pellirosse, né gli mancavano le scuse.

Duemilaottocento soldati erano stati annientati nell'Oregon da una spaventosa serie di esplosioni di dinamite, e numerosi treni militari erano stati distrutti nello stesso modo, così che i soldati difendevano la loro pelle, proprio come gli agricoltori.

Quanto alla milizia, la legge del 1903 venne applicata e i lavoratori di ogni stato furono obbligati, pena la morte, a fucilare i loro compagni degli altri stati. Naturalmente all'inizio le cose non andarono lisce: molti ufficiali e soldati della milizia furono uccisi o mandati a morte da stolte corti marziali. La profezia di Ernest nel caso dei signori Kowalt e Asmunsen si avverò con agghiacciante puntualità. Tutti e due, dichiarati idonei per la milizia, furono arruolati in California per la spedizione repressiva contro gli agricoltori del Missouri.

Tutti e due rifiutarono dl prestar servizio: ma non venne loro neppure concesso il tempo di confessarsi: portati davanti a una stolta corte marziale, furono condannati. Morirono entrambi con la schiena rivolta al plotone di esecuzione.

Molti giovani, per non servire nella milizia, si rifugiarono nelle montagne diventando fuorilegge, e solo quando la pace fu ristabilita ebbero la loro punizione. Non avevano guadagnato nulla aspettando, perché il governo fece un proclama invitando i cittadini al di fuori della legge ad abbandonare le montagne entro il termine massimo di tre mesi. Alla scadenza del termine, mezzo milione di sodlati furono mandati nelle regioni montane, e non ci fu né processo, né giudizio: ogni uomo che incontravano era ucciso sul posto. La truppa agiva in base al criterio che solo i proscritti erano rimasti in montagna. Qualche gruppo, trincerato in forti posizioni, resistette valorosamente, ma alla fine tutti i disertori furono sterminati.

Nella mente della popolazione venne intanto impressa una lezione più immediata con il castigo inflitto alla milizia ribelle del Kansas. Il grande ammutinamento del Kansas si verificò proprio all'inizio delle operazioni militari contro gli agrari. Seimila uomini della milizia si sollevarono: da parecchie settimane erano inquieti e scontenti ed erano tenuti in consegna per questo motivo. E' fuori dubbio, però, che la prima rivolta fu anticipata da agenti provocatori.

Nella notte del 22 aprile, gli uomini di truppa si ammutinarono e uccisero gli ufficiali, di cui solo pochi poterono sfuggire al massacro. Questo oltrepassava il programma del Tallone di Ferro, i cui agenti avevano lavorato sin troppo bene. Ma tutto faceva gioco per la plutocrazia, ormai pronta per l'esplosione: l'uccisione di tanti ufficiali fornì una giustificazione per quanto avvenne in seguito. Come per magia, sbucarono fuori quarantamila uomini dell'esercito regolare che circondarono l'accampamento, o meglio, la trappola. Gli infelici militi si accorsero che le cartucce prese al deposito non erano del calibro dei loro fucili, e innalzarono la bandiera bianca per arrendersi, ma inutilmente: nessuno di loro sopravvisse. I seimila furono sterminati fino all'ultimo uomo. Dapprima bombardati a distanza con obici e granate, furono poi falciati a colpi di mitragliatrice mentre si lanciavano disperatamente contro le schiere che li circondavano.

Ho parlato con un testimone oculare: mi ha detto che neppure un milite poté avvicinarsi a meno di cinquanta metri da quella macchina micidiale. Il suolo era cosparso di cadaveri. In una carica finale di cavalleria, i feriti furono massacrati a colpi di sciabola e di rivoltella e schiacciati sotto gli zoccoli dei cavalli.

Mentre avveniva l'annientamento degli agrari, scoppiava la rivolta dei minatori, ultimo rantolo d'agonia del lavoro organizzato.

Dichiararono sciopero in centocinquantamila. Ma erano troppo dispersi in tanti paesi, per trarre vantaggio della loro forza numerica. Furono isolati nei loro distretti, battuti e obbligati a sottomettersi. Fu la prima operazione di reclutamento di schiavi, in massa. Pocock vi guadagnò i galloni di capociurma supremo, e insieme un odio inestinguibile da parte del proletariato (l). La sua vita fu soggetta a numerosi attentati: ma sembrava che possedesse un talismano contro la morte. I minatori devono a lui l'introduzione di un sistema di passaporto alla russa, che tolse loro la libertà di spostarsi all'interno del paese.

Nel frattempo, i socialisti resistevano. Mentre gli agrari cadevano fra le fiamme e il sangue, mentre il sindacalismo era smantellato, noi rimanevamo compatti e perfezionavamo le nostre organizzazioni segrete. Inutilmente gli agrari ci rimproveravano.

Noi rispondevamo, e con ragione, che qualunque rivolta da parte nostra sarebbe stata la fine di ogni rivoluzione, per sempre. Il Tallone di Ferro, dapprima titubante circa il modo di agire verso l'intero proletariato, avrebbe trovato le cose più semplici e lisce di quanto non si aspettasse, e non avrebbe desiderato altro, per finirla una buona volta, che una sollevazione da parte nostra.

Ma noi lo prevenimmo, nonostante gli innumerevoli agenti provocatori nelle nostre file, che usavano sistemi molto grossolani, a quei tempi, e avevano molto da imparare. I nostri Gruppi di Combattimento li eliminarono a poco a poco.

Fu un compito arduo e sanguinoso, ma lottavamo per la nostra vita e per la Rivoluzione, ed eravamo obbligati a combattere il nemico con le sue stesse armi. Però noi combattevamo con lealtà. Nessun agente del Tallone di Ferro fu giustiziato senza processo. Può darsi che siano stati commessi errori, ma se vi furono, furono molto rari. I nostri Gruppi di Combattimento erano formati dai migliori compagni, dai più arditi, dai più disposti al sacrificio.

Un giorno, dopo dieci anni, Ernest fece un calcolo: avvalendosi dei dati forniti dai capi di questi gruppi, calcolò che la durata media di vita degli iscritti, uomini e donne, non oltrepassasse i cinque anni. Tutti i compagni dei Gruppi di Combattimento erano eroi; e il più strano è che a tutti ripugnava attentare alla vita umana. Quegli amanti della libertà, facevano violenza alla loro natura, pensando che nessun sacrificio era troppo grande per una causa tanto nobile.

Lo scopo che ci eravamo prefissi era triplice. Volevamo innanzitutto liberare le nostre file dagli agenti provocatori; in seguito, organizzare i Gruppi di Combattimento all'infuori dell'organizzazione segreta e generale della Rivoluzione; per ultimo, introdurre i nostri agenti scelti in tutti i rami dell'oligarchia, nelle caste operaie, specialmente i telegrafisti, segretari e commessi, nell'esercito, fra le spie e i guardia- schiavi. Era un'opera lenta e pericolosa, e spesso i nostri sforzi fallivano dolorosamente.

Il Tallone di Ferro aveva trionfato nella guerra aperta; ma noi stavamo all'erta, nell'altra guerra, sotterranea, sconcertante e terribile, che avevamo intrapreso. In questa lotta tutto era invisibile, quasi tutto imprevisto: come una lotta fra ciechi, ma svolta con molto ordine, secondo uno scopo e una direttiva. I nostri agenti si insinuavano fra gli ingranaggi di tutta l'organizzazione del Tallone di Ferro mentre la nostra era permeata di agenti avversari; secondo una tattica tortuosa e oscura, piena di intrighi e cospirazioni, complotti e controcomplotti. E dietro tutto questo, sempre minacciosa, si ergeva la morte, la morte violenta e terribile. Uomini e donne sparivano, i nostri migliori, i nostri più cari compagni.

Scomparivano da un giorno all'altro e non li rivedevamo più, apprendevamo che erano morti.

Non esistevano più né sicurezza né fiducia. L'uomo che complottava con noi poteva essere un agente del Tallone Ferro, per quel che ne sapevamo. Ma era lo stesso dalle due parti; eppure eravamo costretti a basarci sulla fiducia e la certezza. Fummo spesso traditi; la natura umana è debole. Il Tallone di Ferro poteva offrire denaro e divertimenti e le gioie e i piaceri che le sue meravigliose città riposanti consentivano; noi non avevamo altro da offrire che la soddisfazione di essere fedeli a un nobile ideale, e questa lealtà non aspettava altra ricompensa che il continuo pericolo, la tortura e la morte.

L'uomo è debole, ho detto, e a causa di questa debolezza eravamo costretti a offrire l'unica ricompensa che ci era consentita: la morte. Era una necessità per noi punire i traditori. Quando accadeva che uno dei nostri ci tradisse, uno o più vendicatori fedeli erano lanciati alle sue calcagna. Poteva accadere di fallire nell'esecuzione dei nostri decreti contro nostri nemici, come nel caso di Pocock, ma la punizione era infallibile quando si trattava di castigare i falsi fratelli. Alcuni compagni si lasciarono corrompere col nostro permesso, per avere accesso nelle città meravigliose e eseguirvi le nostre sentenze contro i veri traditori. Ma, in fondo, esercitavamo un tale timore che era più pericoloso tradirci che restarci fedeli.

La Rivoluzione assunse un carattere profondamente religioso.

Adoravamo davanti all'altare della Rivoluzione, che era quello della Libertà. Il suo spirito divino ci rischiarava. Uomini e donne si consacravano alla Causa e a essa votavano i loro nati, come un tempo al servizio di dio. Eravamo gli adoratori dell'Umanità.

NOTE:

1) Albert Pocock, altro famoso crumiro degli anni precedenti, che fino alla morte riuscì a tenere soggetti tutti i minatori del paese. Gli successe il figlio, Levis Pocock, e durante cinque generazioni quella famosa razza di schiavisti regnò sulle miniere di carbone.

Pocock il vecchio, conosciuto con il nome di Pocock primo, è stato descritto così: "Una testa lunga sottile, per metà circondata da una frangia di capelli scuri e grigi, con zigomi sporgenti e un grosso mento... Colorito pallido, occhi grigi senza splendore, voce metallica e un atteggiamento languido". Era nato da genitori poveri e aveva cominciato la sua carriera come garzone di bar.

Divenne in seguito poliziotto privato al servizio di una società ferroviaria e si trasformò a poco a poco in crumiro di professione. Pocock quinto, ultimo della schiatta, morì per lo scoppio di una bomba durante una rivolta di minatori nel Territorio Indiano. Questo avvenne nel 2073 dell'era cristiana.

2) Quei gruppi d'azione furono modellati in genere sul tipo delle organizzazioni dei combattenti della Rivoluzione Russa e, malgrado gli sforzi incessanti del Tallone di ferro, resistettero tre secoli, cioè per tutto il periodo della sua esistenza.

Composti da uomini e donne ispirati da ideali sublimi, e impavidi davanti alla morte, i Gruppi di Combattimento esercitarono una prodigiosa influenza e moderarono la brutalità dei governanti. La loro opera non si limitò a una guerra invisibile contro gli agenti dell'oligarchia. Gli stessi oligarchi, e spesso persino i subordinati degli oligarchi, gli ufficiali dell'esercito e i capi delle caste operaie, furono obbligati a prendere in considerazione i decreti dei Gruppi, e quando disobbedivano erano puniti con la morte. Le sentenze di questi rivendicatori organizzati erano conformi alla più rigorosa giustizia; soprattutto era notevole la loro procedura imparziale e perfettamente giuridica. Non c'erano giudizi improvvisati. Quando un uomo era preso, era giudicato lealmente e aveva la possibilità di difendersi. Necessariamente, molti furono processati e condannati in contumacia, come nel caso del generale Lampton, nel 2138 d.C. Questi era forse il più sanguinario e il più crudele dei mercenari dell'oligarchia. Fu informato dai Gruppi di Combattimento che era stato giudicato, riconosciuto colpevole e condannato a morte; e questo avvertimento gli venne dato dopo averlo tre volte esortato a cessare dal trattare ferocemente il proletariato. Alla notizia della condanna Lampton prese ogni precauzione possibile e immaginabile, e per anni i Gruppi di Combattimento si sforzarono invano di eseguire la loro sentenza. Molti compagni, uomini e donne, fallirono nel loro tentativo e furono crudelmente condannati dall'oligarchia. Fu proprio il caso del generale Lampton a far riesumare la crocifissione come mezzo di esecuzione legale. Ma alla fine il condannato trovò il suo giustiziere nella persona di una giovane di diciassette anni, Madeline Provence, che per ottenere il suo scopo serviva da due anni nel palazzo come guardarobiera. Essa morì, dopo torture orribili e prolungate in una cella. Oggi la sua statua di bronzo sorge nel Pantheon della Fratellanza, nella meravigliosa città di Serles.

Noi che ignoriamo gli spargimenti di sangue, non dobbiamo giudicare troppo severamente gli eroi dei Gruppi di Combattimento.

Essi hanno dato la loro vita per l'umanità, per la quale nessun sacrificio sembrava troppo grande. D'altra parte, una necessità inesorabile li costringeva a dare al loro sentimento, in un'epoca sanguinaria, una forma sanguinosa. I Gruppi di Combattimento furono l'unica freccia nel fianco che il Tallone di Ferro non poté estirparsi. A Everhard spetta la paternità di questo strano esercito. I suoi successi e la sua resistenza, durante trecento anni, mostrano la saggezza con la quale egli organizzò, e la solidità delle basi da lui gettate perché le generazioni successive vi costruissero sopra. Da un certo punto di vista, questa organizzazione può essere considerata la sua opera principale, a parte il grande valore dei suoi contributi economici e sociali e le sue gesta di massimo dirigente della Rivoluzione.

Capitolo 17

LA LIVREA SCARLATTA

Con la devastazione degli stati agrari, i rappresentanti di questo partito sparirono dal Congresso. Furono istituiti processi per alto tradimento e il loro posto fu occupato da creature del Tallone di Ferro. I socialisti vennero a trovarsi in pietosa minoranza e capirono che la loro fine era vicina. Il Congresso e il Senato erano ormai pure e semplici finzioni, delle farse. I problemi pubblici vi erano dibattuti con gravità e votati secondo le forme tradizionali, ma servivano solo a convalidare con una procedura costituzionale gli atti dell'oligarchia.

Ernest si trovava nel fitto della mischia quando sopraggiunse la fine. Fu durante la discussione di un disegno di legge per l'assistenza agli scioperanti. La crisi dell'anno prima aveva ridotto vaste masse del proletariato a un livello ancora più basso di quello della fame, e il propagarsi e prolungarsi dei disordini le sprofondavano sempre più in basso. Milioni di persone morivano di fame, mentre gli oligarchi e i loro sostenitori si rimpinzavano a dismisura (1). Chiamavamo quegli infelici, il popolo dell'abisso (2): e per alleviare le loro sofferenze, i socialisti avevano presentato quel disegno di legge, che al Tallone di Ferro non piacque. Aveva infatti il suo modo di vedere, per quanto riguardava la sistemazione di milioni di esseri, e siccome questa concezione non era la nostra, aveva dato ordini affinché questo progetto venisse respinto.

Ernest e i suoi compagni sapevano che il loro sforzo sarebbe stato vano ma, stanchi di essere tenuti nell'incertezza, desideravano una decisione, qualunque essa fosse. Non riuscendo a ottenere nulla, speravano almeno di porre termine a quella farsa legislativa in cui eravamo costretti a recitare un ruolo passivo.

Ignoravamo quale aspetto avrebbe assunto la scena finale; ma non l'avremmo mai immaginata più drammatica di quanto fu poi in realtà.

Quel giorno mi trovavo nella tribuna riservata al pubblico.

Sapevamo tutti che sarebbe accaduto qualcosa di terribile. Era nell'aria, e la sua presenza era resa visibile dalle truppe allineate nei corridoi e dagli ufficiali raggruppati davanti alle porte dello stesso Congresso. L'oligarchia stava evidentemente per sferrare il gran colpo.

Ernest aveva preso la parola e descriveva le sofferenze dei disoccupati, come se accarezzasse la folle speranza di intenerire quei cuori e quelle coscienze: ma i membri repubblicani e democratici sogghignavano e si burlavano di lui, interrompendolo con esclamazioni e rumori.

Improvvisamente, Ernest cambiò tattica: "So benissimo che nulla di quanto dico potrà influire su di voi", esclamò: "non avete anima.

Siete degli invertebrati, dei rammolliti. Vi chiamate pomposamente repubblicani e democratici, ma non esiste un partito di questo nome: in questa Camera non ci sono né repubblicani né democratici.

Non siete altro che degli adulatori e ruffiani delle creature della plutocrazia. Parlate all'antica del vostro amore per la libertà, voi che indossate la livrea scarlatta del Tallone di Ferro".

La sua voce fu coperta dalle grida: "Abbasso, abbasso!" e lui aspettò, sdegnosamente, che il clamore si calmasse. Allora, aprendo le braccia, come per abbracciarli tutti, volgendosi verso i compagni gridò:

"Ascoltate il muggito delle bestie ben pasciute!".

Scoppiò un pandemonio. Il presidente batteva sul tavolo per ottenere il silenzio e lanciava occhiate agli ufficiali ammucchiati davanti alle porte. Ci furono delle grida di "Sedizione!" e un membro di New York, noto per la sua rotondità, lanciò l'epiteto di "Anarchico!".

L'aspetto di Ernest non era dei più rassicuranti: tutto il suo spirito combattivo vibrava, la sua espressione era quella di un animale aggressivo. E tuttavia rimaneva calmo e padrone di sé.

"Ricordate", gridò con voce che copriva il tumulto, voi non mostrate alcuna pietà per il proletariato, ricordate che verrà il giorno in cui il proletariato non avrà pietà di voi".

Le grida di Sedizioso! Anarchico! raddoppiarono.

"So che non voterete questo disegno di legge", continuò Ernest.

"Avete avuto dai vostri padroni l'ordine di votare contro. E osate trattarmi da anarchico, voi che avete distrutto il governo del popolo, voi che apparite in pubblico con la vostra vergognosa livrea scarlatta! Non credo nel fuoco dell'inferno, ma a volte mi spiace e sono tentato di crederci; in questo momento, per esempio, perché lo zolfo e la pece non sarebbero una punizione eccessiva per i vostri delitti. Finché esisteranno i vostri simili, l'inferno sarà una necessità cosmica".

Ci fu un movimento alle porte. Ernest, il presidente e tutti i deputati si volsero a guardare in quella direzione.

"Perché non ordinate ai vostri soldati di entrare, di compiere il loro lavoro, signor presidente?" chiese Ernest. "Essi obbedirebbero subito".

"Ci sono altri piani", fu la risposta, "per questo i soldati sono qui".

"Piani contro di noi, immagino", schernì Ernest. "Assassinio o qualcosa del genere".

Alla parola "assassinio" il tumulto ricominciò. Ernest non riusciva più a farsi sentire, rimase tuttavia in piedi, aspettando che tornasse la calma. In quel momento avvenne. Dal mio posto in tribuna vidi soltanto il lampo di un'esplosione. Il rumore mi stordì: vidi Ernest vacillare e cadere in una nube di fumo, mentre i soldati si precipitavano nei corridoi tra i seggi. I suoi compagni balzarono in piedi, inferociti, pronti a qualsiasi violenza, ma Ernest li calmò per qualche attimo, e agitò le braccia per imporre il silenzio.

"E' un complotto", urlò, mettendo in guardia i compagni. "Non vi muovete o sarete tutti uccisi".

Detto questo, si afflosciò lentamente, proprio quando i soldati giungevano sino a lui. Un istante dopo, fecero sgombrare le tribune e non vidi più nulla.

Sebbene fosse mio marito, non mi permisero di avvicinarlo; anzi, appena detto il mio nome fui arrestata. Contemporaneamente, furono arrestati tutti i membri socialisti del Congresso presenti a Washington, compreso l'infelice Simpson, obbligato a letto in albergo da una febbre tifoidea.

Il processo fu rapido: tutti erano già condannati. Quanto a Ernest, lo straordinario è che non fu giustiziato. Fu uno sbaglio dell'oligarchia, e le costò caro. A quel tempo era troppo sicura di sé; inebriata dal successo, non credeva che un manipolo di eroi potesse avere la forza di minare la sua solida base. Domani, quando scoppierà la grande rivolta, e tutto il mondo risuonerà dei passi in marcia di milioni e milioni, l'oligarchia capirà, ma troppo tardi, fino a che punto si sia ingigantita quella banda di eroi.

Come rivoluzionaria, una che era all'interno del partito e conosceva le speranze, i timori e i piani segreti dei rivoluzionari, sono in grado, come pochi, di rispondere all'accusa lanciata contro di loro di aver fatto esplodere quella bomba nel Congresso. E posso affermare tranquillamente, senza riserve né dubbi, che i socialisti, sia quelli del Congresso sia quelli di fuori, erano estranei all'esplosione. Non sappiamo chi abbia lanciato l'ordigno, siamo però sicuri che non fu lanciato da nessuno dei nostri.

D'altra parte, diversi indizi tendono a dimostrare che il Tallone di Ferro sia il responsabile di quell'atto. Naturalmente, non possiamo provarlo, e la nostra conclusione è solo fondata su induzioni. Ma ecco i fatti, quali ci risultano. Il presidente della Camera era stato informato dagli agenti segreti del governo, che i membri socialisti del Congresso sarebbero passati alla tattica terroristica e che avevano già fissato il giorno del loro esordio, che era esattamente quello dell'esplosione. Per precauzione, il Campidoglio era stato circondato dalla truppa.

Poiché noi non sapevamo nulla della faccenda della bomba, poiché una bomba era scoppiata realmente, e le autorità avevano preso le debite misure di sicurezza, è più che naturale concludere che il Tallone di Ferro fosse informato di tutto. Sosteniamo inoltre che il Tallone di Ferro fu il vero colpevole di quell'attentato, che preparò e eseguì con lo scopo di farne cadere la colpa su di noi, causando la nostra rovina.

Dal presidente, la notizia trapelò a tutti i membri della Camera che indossavano la livrea. Durante il discorso di Ernest, sapevano dunque che sarebbe stato commesso un atto di violenza; e bisogna render loro giustizia: essi credevano sinceramente che sarebbe stato commesso dai socialisti. Al processo, sempre in buona fede, molti dichiararono di aver visto Ernest prepararsi a lanciare la bomba, scoppiata poi anzitempo. Naturalmente non avevano visto niente, ma nella loro fantasia, stimolata dalla paura, credettero di aver visto veramente.

Come dichiarò Ernest al processo: "E' ragionevole pensare che se avessi avuto intenzione di lanciare una bomba, avrei mai scelto una così piccola bomba inoffensiva? Non conteneva neppure polvere sufficiente. Ha fatto molto fumo senza ferire nessuno all'infuori di me. E' scoppiata proprio ai miei piedi e non mi ha ucciso.

Credetemi, quando mi metterò a lanciare bombe, farò danni sul serio. I miei petardi non faranno solo fumo".

Il pubblico ministero replicò che la debolezza dell'ordigno era dovuta a errore dei socialisti, e così l'esplosione intempestiva, avendo Ernest lasciato cadere l'ordigno per nervosismo. E quest'argomentazione fu confermata dalla testimonianza di coloro che pretendevano di aver visto Ernest maneggiare la bomba e lasciarla cadere.

Dal canto nostro, nessuno sapeva come fosse stata lanciata. Ernest mi disse che un attimo prima dell'esplosione l'aveva sentita e vista cadere a terra vicino a lui. Lo affermò pure al processo, ma nessuno gli credette. D'altronde la cosa era "cucinata", secondo l'espressione popolare. Il Tallone di Ferro aveva deciso di distruggerci, e non esisteva difesa possibile.

Secondo un proverbio, la verità finisce sempre con il trionfare (4): comincio a dubitarne. Diciannove anni sono trascorsi, e con tutti i nostri sforzi incessanti, non siamo riusciti a scoprire chi lanciò veramente la bomba. Evidentemente dovette essere stato un agente del Tallone di Ferro, ma non siamo mai riusciti a raccogliere il benché minimo indizio sulla sua identità, e oggi non rimane che classificare la cosa fra i misteri della storia.

NOTE:

1) Condizioni simili si osservano in India, nel secolo diciannovesimo, sotto il dominio britannico. Gli indigeni morivano di fame a milioni, mentre i loro padroni li privavano del frutto del lavoro che spendevano in cerimonie e cortei feticisti. Non possiamo non vergognarci, in questo secolo di lumi, della condotta dei nostri antenati, e dobbiamo limitarci a pensare filosoficamente che nell'evoluzione sociale lo stadio capitalistico sta, pressapoco, come l'età scimmiesca all'epoca dell'evoluzione animale. L'Umanità doveva superare quei periodi per uscire dal fango degli organismi inferiori; e le era naturalmente difficile liberarsi interamente di quella viscida feccia.

2) Questa espressione è una trovata dovuta al genio di H. G.

Wells, che visse alla fine del secolo diciannovesimo. Fu un veggente in fatto di sociologia, uno spirito sano e normale, e nello stesso tempo un cuore veramente umano. Numerosi frammenti delle sue opere sono giunti fino a noi, e due delle sue opere migliori: "Anticipations" e "Mankind in the Making" ci sono arrivate intatte.

Prima degli oligarchi, e prima di Everhard, Wells aveva previsto la costruzione di città meravigliose di cui parla nei suoi libri chiamandole città del piacere.

3) Persuasa che le sue memorie fossero state lette dai suoi contemporanei, Avis Everhard non accenna al risultato del processo per alto tradimento. Ci sono nel manoscritto molte altre lacune del genere. Cinquantadue membri socialisti del Congresso furono processati e giudicati colpevoli. Stranamente nessuno fu condannato a morte. Everhard e undici altri, fra cui Theodore Donnelson e Matthew Kent, furono condannati all'ergastolo.

Gli altri quaranta furono condannati, chi a trenta chi a quarantacinque anni, mentre Arthur Simpton, che il manoscritto dice ammalato di tifoidea al momento dell'esplosione, non ebbe che quindici anni di carcere. Secondo la tradizione, fu lasciato morire di fame nella sua cella per punirlo della sua intransigenza ostinata e del suo odio ardente e indefettibile per tutti servi del dispotismo. Morì a Cabanas, nell'isola di Cuba, dove tre altri suoi compagni erano detenuti. I cinquantadue socialisti del Congresso furono rinchiusi nelle fortezze militari sparse in tutti gli Stati Uniti: così, Dubois e Woods furono rinchiusi a Porto Rico; Everhard e Merryweather nell'isola di Alcatraz, nella baia di San Francisco, che da molto tempo serviva da prigione militare.

4) Avis Everhard avrebbe dovuto aspettare molte generazioni per ottenere la rivelazione del mistero. Quasi cento anni fa e quindi più di seicento anni dopo la sua morte, fu scoperta negli archivi segreti del Vaticano la confessione di Pervaise. Non sarà forse inopportuno fare qualche accenno a quest'oscuro documento, sebbene ormai non abbia più per gli storici alcun valore.

Pervaise, un americano di origine francese, nel 1913 era in prigione a New York, in attesa di essere processato per omicidio.

Sappiamo, dalla sua confessione, che senza essere un criminale incallito, aveva un carattere impulsivo, impressionabile e appassionato. In un impeto di folle gelosia aveva ucciso la moglie, cosa abbastanza diffusa a quel tempo. Il terrore della morte s'impadronì di lui, come raccontò in seguito lui stesso, e per sfuggirne sarebbe stato disposto a fare qualunque cosa. Gli agenti segreti, per ridurlo alle loro mire, gli confermarono che si era reso colpevole di omicidio di primo grado, delitto che era punito con la pena capitale. Il condannato veniva legato a una apposita sedia e, sotto il controllo di medici specialisti, ucciso dalla corrente elettrica. Questo tipo di esecuzione, chiamato sedia elettrica, era molto in voga, a quel tempo: solo in seguito fu sostituito dall'anestesia. Costui, brav'uomo in fondo, ma natura superficiale improntata a una animalità violenta, aspettando in una cella l'inevitabile morte, si lasciò facilmente convincere a gettare una bomba nel Congresso. Dichiara, anzi, nella sua confessione, che gli agenti del Tallone di Ferro gli assicurarono che l'ordigno sarebbe stato inoffensivo, e che non avrebbe ucciso nessuno. Fu introdotto di nascosto in un palco, ufficialmente chiuso per riparazioni. Avrebbe dovuto scegliere lui il momento opportuno per gettare la bomba, ma confessa, ingenuamente, che fu talmente preso dal discorso di Ernest e dal tumulto da esso suscitato, che per poco non dimenticò il compito affidatogli.

Non solo Pervaise fu scarcerato, ma gli fu concessa una pensione a vita. Non doveva godersela a lungo, però: nel settembre del 1914 fu colpito da reumatismo al cuore e morì dopo tre giorni. Mandò a chiamare un prete cattolico, al quale si confessò. Padre Durban, considerandola molto grave, rimise la sua confessione per scritto e la firmò come testimone. Noi possiamo soltanto fare delle congetture su quanto avvenne dopo. Il documento era certo abbastanza importante per trovare la via di Roma. Potenti influenze furono messe in movimento per evitarne la divulgazione.

Soltanto nel secolo scorso, Lorbia, il celebre scienziato italiano, durante le sue ricerche, lo scoprì. Oggi, dunque, non rimane alcun dubbio che il Tallone di Ferro sia responsabile dell'esplosione del 1913. E anche se la confessione di Pervaise non fosse mai venuta alla luce, non vi sarebbe stato alcun dubbio ragionevole: quell'episodio che mandò in prigione cinquanquantadue deputati, è della stessa natura di tanti altri, sanguinosi, commessi dagli oligarchi e, prima di essi, dai capitalisti.

Come esempio classico di massacri di innocenti, commessi con ferocia e indifferenza, bisogna citare quello dei cosiddetti anarchici di Haymarket, a Chicago, nella penultima decade del secolo diciannovesimo. Esempio a sé, è poi l'incendio doloso e la distruzione dei possedimenti capitalistici compiuti dai capitalisti medesimi. Per delitti di questo genere furono puniti numerosi innocenti "incastrati" come si usava dire a quel tempo.

Durante le sommosse operaie della prima decade del secolo ventesimo, nei disordini fra i capitalisti e la Federazione Occidentale dei Minatori, fu usata una tattica simile, ma più sanguinosa. Gli agenti dei capitalisti fecero saltare in aria la stazione ferroviaria di Independence: tredici uomini furono uccisi e molti altri feriti. I capitalisti che guidavano il meccanismo legislativo e giudiziario dello stato del Colorado, accusarono di questo delitto i minatori e per poco non li fecero condannare.

Romaines, uno degli strumenti di questo "affare", era in prigione in un altro stato, nel Kansas, quando gli agenti dei capitalisti gli proposero il colpo. Ma le confessioni di Romaines, al contrario di quelle di Pervaise furono pubblicate quando era ancora in vita. Nello stesso tempo, vi fu ancora il caso di Moyer e Haywood, due dirigenti sindacali forti e risoluti: l'uno presidente e l'altro segretario della Federazione Occidentale dei Minatori. L'ex governatore dell'Idaho era stato assassinato misteriosamente: i socialisti e i minatori avevano apertamente incolpato di questo delitto i proprietari delle miniere. Ma, violando le norme costituzionali statali, in seguito a una intesa fra i governatori dell'Idaho e del Colorado, Moyer e Haywood furono presi, gettati in carcere e accusati di omicidio. Questo provocò la seguente dichiarazione di Eugene V. Debs, dirigente dei socialisti americani di quel tempo: "I dirigenti sindacali che non si possono corrompere si arrestano, e si assassinano. Moyer e Haywood, sono colpevoli soltanto del reato di fedeltà, tenace e incorrotta, alla classe operaia. I capitalisti hanno spogliato il nostro paese, corrotto la nostra politica, disonorato la nostra giustizia; ci hanno calpestato e ora si propongono dl ammazzare coloro che non sono così abietti da sottomettersi al loro brutale dominio. I governatori del Colorado e dell'Idaho non fanno che eseguire gli ordini dei loro padroni, i plutocrati. La lotta è incominciata fra i lavoratori e la plutocrazia. Questa può, sì, sferrare il primo colpo violento, ma noi sferreremo l'ultimo".

Capitolo 18

ALL'OMBRA DELLA SONOMA

Di me, durante quel periodo, non ho molto da dire. Fui tenuta sei mesi in carcere senza alcuna imputazione. Ero una "sospetta", parola tremenda che doveva essere ben presto conosciuta da tutti i rivoluzionari. Ma il nostro servizio segreto, appena organizzato, cominciava a funzionare. Verso la fine del secondo mese di prigionia, uno dei miei carcerieri mi si rivelò come un rivoluzionario in rapporto con la nostra organizzazione. Alcune settimane dopo, Joseph Parkhurst, che era appena stato nominato medico delle carceri, si fece conoscere come membro di uno dei nostri Gruppi di Combattimento.

Così, attraverso tutta la trama dell'oligarchia, la nostra organizzazione tesseva insidiosamente la sua tela. Ero informata di quanto avveniva all'esterno, e ognuno dei nostri dirigenti reclusi era in contatto con i nostri bravi compagni, che si celavano sotto la livrea del Tallone di Ferro. Quantunque Ernest fosse rinchiuso a tremila miglia lontano, sulla costa del Pacifico, ero continuamente in comunicazione con lui, così che potemmo corrispondere con perfetta regolarità.

I nostri dirigenti, prigionieri o liberi, potevano dunque discutere e dirigere il movimento. Sarebbe stato facile, dopo alcuni mesi, far evadere parecchi di loro, ma poiché il carcere non limitava la nostra attività, risolvemmo di evitare ogni tentativo prematuro. Cinquantadue parlamentari e più di trecento dirigenti rivoluzionari erano in prigione. Decidemmo di liberarli tutti insieme. L'evasione di pochi avrebbe allarmato gli oligarchi, e, forse, impedito la liberazione degli altri. D'altra parte, pensavamo che quella fuga collettiva, organizzata in tutto il paese, avrebbe avuto sul proletariato un grosso effetto psicologico, e che quella dimostrazione della nostra forza avrebbe ispirato fiducia a tutti.

Si convenne, dunque, quando fui rilasciata dopo sei mesi, che avrei dovuto sparire e preparare un rifugio sicuro per Ernest. Ma non era facile appena in libertà, le spie del Tallone di Ferro mi si misero alle calcagna. Bisognava far perdere le tracce e andare in California. Ci riuscimmo, alla fine, in maniera abbastanza divertente. Il sistema dei passaporti, copiato dai russi, stava già sviluppandosi; se volevo rivedere Ernest dovevo far perdere completamente le mie tracce, perché se fossi stata seguita lo avrebbero riacciuffato. D'altro canto, non potevo neppure viaggiare vestita da proletaria; non mi rimaneva altro espediente se non quello di fingermi membro dell'oligarchia. Gli oligarchi supremi erano pochi, ma migliaia di persone di minor valore, come Wickson, per esempio, che possedevano milioni, erano i satelliti degli altri maggiori. Poiché le mogli e le figlie di questi oligarchi minori erano numerosissime, fu deciso che mi sarei spacciata per una di loro. Anni dopo, la cosa sarebbe stata impossibile, perché il sistema dei passaporti fu così perfezionato che tutti, uomini donne e bambini, furono registrati, e seguiti nei loro spostamenti.

Al momento opportuno, i miei pedinatori furono sviati dalla mia pista. Un'ora dopo Avis Everhard non esisteva più, mentre una certa signora Felice Van Verdighan, accompagnata da due cameriere e da un cagnolino, nonché un'altra cameriera per detto cagnolino (1), saliva su un vagone pullman (2) che, qualche istante dopo, filava verso occidente.

Le tre cameriere che mi accompagnavano erano tre rivoluzionarie, di cui due facevano parte dei Gruppi di Combattimento, e la terza, Grace Holbrook, ammessa l'anno seguente a far parte di un gruppo, fu giustiziata sei mesi dopo dal Tallone di Ferro. Era lei che serviva il cagnolino. Delle altre due, una, Bertha Stole, scomparve dodici anni dopo; l'altra, Anna Roylston, vive ancora e ha parte sempre più importante nella rivoluzione (3).

Attraversammo gli Stati Uniti, senza il minimo incidente fino alla California. Quando il treno giunse a Oakland, alla stazione della Sedicesima Strada, scendemmo e Felice Van Verdighan scomparve per sempre, con le due cameriere, il cane e la cameriera del cane. Le tre giovani andarono con dei compagni fidati, altri si incaricarono di me. Mezz'ora dopo essere sbarcata dal treno, ero a bordo di un piccolo battello da pesca nelle acque della baia di San Francisco. Sbalzati da terribili raffiche di vento, andammo alla deriva per quasi tutta la notte, ma vedevo le luci di Alcatraz, dove Ernest era rinchiuso, e quella vicinanza mi confortava. All'alba, a forza di remi, raggiungemmo le Marin Islands. Là rimanemmo nascosti tutto il giorno; la notte seguente, portati dalla marea e spinti dal vento, attraversammo in due ore la baia di San Pablo e risalimmo il Petaluma Creek.

Un altro compagno mi aspettava con i cavalli, e senza indugi ci mettemmo in cammino, al lume delle stelle. A nord vedevo la massa indistinta della Sonoma Mountain, verso la quale eravamo diretti.

Lasciammo alla nostra destra la vecchia città di Sonoma e risalimmo un canyon che sprofondava tra i primi contrafforti della montagna. La strada da carreggiabile divenne sentiero e poi una semplice mulattiera, che finì col perdersi tra i pascoli dell'alta montagna. Raggiungemmo a cavallo la cima del monte Sonoma. Era questo il cammino più sicuro, perché là nessuno poteva osservare il nostro passaggio.

L'alba ci sorprese sulla cresta del versante settentrionale, e nella luce grigia ci inoltrammo, giù in discesa, tra sequoie e canyon ancora lambiti dal calore dell'estate morente. Era quello il mio paesaggio, lo conoscevo e lo ammiravo, e ben presto divenni io la guida. Era il mio nascondiglio, l'avevo scelto io. Ci inoltrammo su un pascolo d'altura e l'attraversammo; poi, oltrepassata una piccola altura ricoperta di querce, scendemmo su un pascolo più piccolo e risalimmo un'altra cresta, questa volta all'ombra dei mandronos e dei manzanitas dorati. I primi raggi del sole ci colpirono alla schiena mentre salivamo. Un volo di quaglie si levò con un frullo dal bosco; un grosso coniglio ci tagliò la strada a salti rapidi e silenziosi; un daino al quale il sole indorava il collo e le spalle, valicò la cresta davanti a noi e scomparve. Seguimmo per un tratto la pista dell'animale, discendemmo poi a picco, seguendo un sentiero a zig-zag che l'animale aveva disegnato, nel folto di un magnifico gruppo di sequoie che contornava uno stagno dalle acque rese scure dai minerali che contenevano. Conoscevo quel cammino sin nei minimi particolari perché un tempo uno scrittore, mio amico, aveva posseduto là una fattoria. Anche lui era diventato rivoluzionario, ma con minore fortuna di me, perché era già sparito, e nessuno aveva saputo dove né come fosse morto. Lui solo conosceva il nascondiglio verso il quale mi dirigevo. Aveva comprato la fattoria per la bellezza pittoresca del posto, e l'aveva pagata cara, con grande scandalo dei fattori del luogo. Si divertiva a raccontarmi che quando diceva il prezzo pagato quelli scuotevano il capo costernati e, dopo una serie di calcoli mentali, esclamavano: "Non potrà ricavarne neppure il sei per cento".

Ma era morto, e i suoi figli non avevano ereditato la fattoria.

Caso strano, essa apparteneva ora al signor Wickson che possedeva tutto il pendio orientale e settentrionale della Sonoma Mountain, dalla proprietà degli Spreckels fino alla linea di demarcazione della Bennett Valley. Ne aveva fatto un magnifico parco di daini, che si stendeva per migliaia di acri di prateria in pendio dolce, di boschi e canyon, dove gli animali s'aggiravano in libertà come se fossero allo stato selvaggio. Gli antichi proprietari del terreno erano stati scacciati, e un asilo per menomati mentali era stato demolito per far posto ai daini.

Come se tutto questo non bastasse, il padiglione di caccia del signor Wickson era situato a un quarto di miglio dal mio rifugio.

Ma questo, anziché un pericolo, costituiva una garanzia di sicurezza. Saremmo stati sotto la protezione di un oligarca minore. Bastava questo ad allontanare ogni sospetto. L'ultimo posto al mondo, in cui le spie del Tallone di Ferro potevano pensare di cercare Ernest e me, era certo il parco dei daini del signor Wickson.

Legammo i nostri cavalli tra le sequoie, vicino allo stagno. Da un nascondiglio fatto in un tronco marcio, il mio compagno tirò fuori varie cose: un sacco di farina di cinquanta libbre, cibi in scatola di ogni tipo, utensili da cucina, coperte di lana, tele cerate, libri e l'occorrente per scrivere, un grosso pacco di lettere, un bidone di cinque galloni di petrolio e un gran rotolo di grossa corda. Si trattava di una tale provvista di roba che sarebbero occorsi vari viaggi per trasportarla al nostro rifugio.

Per fortuna non era lontano. Presi il rotolo di corda e mi avviai avanti, inoltrandomi in un fitto di arbusti e virgulti che formavano, fra due alture boscose, una specie di viale verde che finiva bruscamente davanti alla riva scoscesa di un torrente. Era un piccolo corso d'acqua alimentato da sorgenti sotterranee che neppure nella più calda estate si seccava. Da ogni parte sorgevano alture boscose: ce n'erano molte, e sembravano gettate là dal gesto negligente di un Titano. S'innalzavano di qualche trentina di metri, erano prive di base rocciosa, composte solo di terra vulcanica rossa, la famosa terra color vino della Sonoma. Fra questi rialzi, il piccolo torrente si era scavato un letto molto scosceso e profondamente incassato.

Bisognò calarsi giù, per scendere fino al letto del torrente, d'una buona trentina di metri; dopo di che arrivammo al grande buco. Nulla rivelava l'esistenza di quel baratro, che non era un buco nel vero senso della parola. Ci si trascinava carponi, fra un'inestricabile confusione di arbusti e tronchi, e ci si trovava di colpo sul margine del baratro. Lungo e largo una sessantina di metri, era profondo circa la metà. Forse per qualche remota causa geologica, all'epoca della formazione delle alture, e certo per effetto di un'erosione capricciosa, l'escavazione era avvenuta nel corso dei secoli, causata dallo scolo delle acque. Di terra neppure l'ombra; tutto era immerso nella vegetazione: dalla sottile verginella alle felci dorate e alle imponenti sequoie e ai pini giganti. Questi grandi alberi s'innalzavano persino sulle pareti del baratro. Alcuni erano inclinati di quarantacinque gradi, ma la maggior parte svettavano diritti dalle pareti quasi perpendicolari e soffici.

Era un nascondiglio ideale. Nessuno si spingeva mai fin lì, neppure i ragazzi del villaggio di Glen Ellen. Se l'incavo fosse stato nel letto di un canalone di uno o più miglia di lunghezza, sarebbe stato conosciuto, ma non era così. Da un capo all'altro, il corso d'acqua non aveva più di cinquecento metri di lunghezza.

Nasceva a trecento metri a monte della trincea, da una sorgente in fondo a una prateria, e a cento metri a valle sboccava in aperta campagna, arrivando al fiume attraverso un terreno erboso e ondulato.

Il mio compagno girò la corda attorno a un albero e, dopo avermi ben legata, mi fece scendere. In un istante fui in fondo. Poco dopo, lui mi mandò giù, con lo stesso sistema, tutte le provviste del nascondiglio. Poi ritirò la corda, la nascose, e prima di partire mi mandò un cordiale arrivederci.

Prima di continuare devo dire qualche parola su questo compagno, John Carlson, umile eroe della Rivoluzione, uno degli innumerevoli fedeli che costituivano le file dell'esercito. Lavorava per Wickson, nelle stalle del padiglione di caccia; infatti avevamo traversato la Sonoma sui cavalli di Wickson. Per circa vent'anni, fino al momento in cui scrivo, John Carlson è stato la guardia del rifugio e durante tutto questo tempo sono sicura che non un solo pensiero sleale ha sfiorato la sua mente neppure in sogno. Era di carattere calmo e grave, a tal punto che non si poteva fare a meno di chiedersi che cosa la Rivoluzione rappresentasse per lui.

Eppure l'amore della libertà proiettava una luce tranquilla in quell'anima oscura. Sotto certi aspetti era meglio che non fosse dotato di immaginazione. Non perdeva mai la testa. Obbediva agli ordini e non era né curioso né chiacchierone. Un giorno gli chiesi come mai avesse scelto di fare il rivoluzionario.

"Sono stato soldato da giovane", rispose. "Ero in Germania. Là tutti i giovani devono far parte dell'esercito e nel reggimento al quale appartenevo avevo un compagno della mia età. Suo padre era ciò che voi dite un agitatore, ed era stato messo in prigione per delitto di lesa maestà, cioè per aver detto il vero sull'Imperatore. Suo figlio mi parlava spesso del popolo, del suo lavoro e del modo con cui viene derubato dai capitalisti. Mi diede una nuova prospettiva alla vita e diventai socialista. Quel che diceva era giusto e bene, e non l'ho mai dimenticato. Venuto negli Stati Uniti, mi misi in contatto con i socialisti e mi feci accogliere come membro di una sezione. Era il tempo del S.L.P.

(4). In seguito, quando ci fu la scissione, entrai a far parte del S.P. locale. Lavoravo allora per un noleggiatore di cavalli a San Francisco, prima del terremoto. Ho pagato le mie quote per ventidue anni. Sono sempre membro e pago sempre la mia quota, anche se oggi si deve farlo in grande segretezza. Adempirò sempre questo dovere, e quando verrà la Repubblica Cooperativa sarò contento".

Rimasta sola, preparai la colazione sul fornello a petrolio e misi in ordine la mia nuova dimora. Spesso, di buon mattino o verso sera, Carlson veniva al rifugio e vi lavorava per una o due ore.

Agli inizi, il mio tetto fu la tela cerata, in seguito drizzammo una piccola tenda, dopo, quando fummo certi della sicurezza del nostro eremo, costruimmo una piccola casa. Era completamente nascosta allo sguardo di chi si affacciasse sull'abisso; la vegetazione lussureggiante di quell'angolo riparato formava una difesa naturale. Inoltre, la casa si appoggiava alla parete verticale e, in quello stesso muro, scavammo due piccole camere, puntellate da forti travi di quercia, ben areate e asciutte.

Avevamo tutte le comodità. Quando, in seguito, il terrorista tedesco Biedenbach venne a nascondersi con noi, vi installò un apparecchio che distruggeva il fumo; così, le sere d'inverno potevamo sedere intorno al fuoco crepitante.

A questo punto bisognerà che parli anche di questo terrorista dall'animo dolce, che fu certamente il più incompreso dei nostri compagni rivoluzionari. Biedenbach non ha mai tradito la causa, e non è stato giustiziato dai suoi compagni, come si crede. E' una frottola inventata dai servi dell'oligarchia. Il compagno Biedenbach era molto distratto e di poca memoria. Fu ucciso da una delle nostre sentinelle nel rifugio sotterraneo di Carmel perché aveva dimenticato la parola d'ordine. Fu un errore deplorevole, certo; ma è assolutamente falso affermare che avesse tradito il suo Gruppo di Combattimento. Mai uomo più sincero e leale ha lavorato per la Causa (5).

Sono ormai circa diciannove anni che il rifugio scelto da me è quasi sempre abitato, e per tutto questo tempo, con una sola eccezione, non è mai stato scoperto da estranei. Eppure era solo a un quarto di miglio dal padiglione di caccia di Wickson, e a un miglio appena dal villaggio di Glen Ellen. Tutte le mattine e tutte le sere, sentivo il treno arrivare e partire, e regolavo il mio orologio sulla sirena della fabbrica di mattoni (6).

NOTE:

1) Questa scena ridicola costituisce un documento tipico dell'epoca, e illustra bene la condotta di quei padroni senza cuore. Mentre il popolo moriva di fame, i cagnolini di lusso avevano delle cameriere particolari. Questo di Avis Everhard era un travestimento molto pericoloso, ma era una questione di vita o di morte, ed era in gioco la causa, quindi è da considerarsi veritiero.

2) Si chiamavano così le vetture più lussuose dei treni di quel tempo, dal nome del loro inventore.

3) Nonostante i continui e quasi inconcepibili pericoli, Anna Royalston raggiunse la bella età di novantun anni. Come i Pocock sfuggirono agli esecutori dei Gruppi da Combattimento, essa sfidò quelli del Tallone di Ferro. Prospera in mezzo ai pericoli, la sua vita sembrava protetta da un sortilegio. Lei stessa era una giustiziera per conto dei Gruppi da Combattimento: la chiamavano Vergine Rossa e diventò una delle eroine della Rivoluzione.

All'età di sessantanove anni uccise Halcliffe "Il sanguinario", nonostante fosse scortato da una guardia del corpo, e se la cavò senza una scalfittura. Morì di vecchiaia nel suo letto, in un rifugio segreto e sicuro di rivoluzionari, sui monti Ozark.

4) Socialist Labor Party.

5) Nonostante tutte le ricerche sui documenti dell'epoca, non abbiamo trovato nessuna documentazione su questo personaggio. Se ne parla soltanto nel manoscritto di Avis Everhard.

6) Il viaggiatore curioso che si dirigesse verso il Sud, partendo da Glen Ellen, si troverebbe su un viale che segue precisamente l'antica strada di sette secoli fa. A un quarto di miglio da Glen Ellen, superato il secondo ponte, vedrebbe a destra una barranca che si estende come una cicatrice, attraverso un gruppo di alture boscose. Questa barranca è il posto dove si esercitava l'antico diritto di pedaggio che esisteva in quel tempo di proprietà private, sui terreni di un certo signor Chauvet, pioniere francese venuto in California all'epoca dei cercatori d'oro. Le alture boschive sono quelle di cui parla Avis Everhard.

Il grande terremoto del 2368, staccò il fianco di uno di quei rialzi che riempì la trincea nella quale gli Everhard avevano il loro rifugio. Ma dopo la scoperta del manoscritto sono stati fatti degli scavi ed è stata trovata la casa con le due camere interne contenenti gli utensili accumulati durante una lunga permanenza.

Tra gli altri resti degni di nota, è stato trovato l'apparecchio distruttore del fumo di cui si parla in questo racconto. Gli studiosi che si interessassero all'argomento in questione, potrebbero leggere il volume di Arnold Bentham, che uscirà in questi giorni.

A un miglio a nord ovest delle alture, si trova l'area della Wake Robin Lodge, alla confluenza della Wild Water e della Sonoma.

Osserviamo di sfuggita che la Wild Water si chiamava un tempo Graham Greek, come si legge in alcune vecchie carte. Ma il nuovo nome rimane. A Wake Robin Lodge, Avis Everhard dimorò poi a parecchie riprese, quando, camuffata da agente provocatore del Tallone di Ferro, poté rappresentare impunemente la sua parte in mezzo agli uomini e agli avvenimenti. Il permesso ufficiale le fu concesso niente di meno che dal signor Wickson, l'oligarca minore di cui parla il manoscritto.

Capitolo 19

TRASFORMAZIONE

"Bisogna che tu ti trasformi completamente", mi scriveva Ernest.

"Bisogna cessare di esistere e diventare un'altra donna, non solo cambiando modo di vestire, ma perfino pelle sotto l'abito nuovo.

Bisogna che tu ti rifaccia completamente di modo che neppure io possa riconoscerti, mutando voce, gesti, modo di fare, andatura, tutta, insomma".

Obbedii, esercitandomi parecchie ore al giorno a seppellire definitivamente l'Avis Everhard di un tempo sotto la pelle d'una donna nuova che potrei chiamare il mio altro io. A questo risultato si può arrivare solo lavorando con tenacia: mi applicavo infatti quasi senza interruzione persino intorno ai particolari minimi della intonazione di voce, sinché quella del mio nuovo essere non fu stabile e meccanica. Possedere quest'automatismo era la condizione prima ed essenziale per riuscire nello scopo.

Bisognava arrivare al punto d'ingannare me stessa. Si prova qualcosa di simile quando s'impara una nuova lingua, il francese, per esempio. Agli inizi la si parla in modo cosciente, con uno sforzo di volontà; si pensa in inglese e si traduce in francese, oppure si legge in francese ma si traduce in inglese prima di capire. Poi lo sforzo diventa automatico; lo studente si trova su un terreno solido: legge, scrive e pensa in francese senza più ricorrere all'inglese.

Così, per i nostri travestimenti, era necessario che ci esercitassimo fino a che la nostra parte artificiale fosse diventata reale al punto che, per ridiventare noi stessi, occorresse uno sforzo di attenzione e di volontà. In principio, naturalmente, andavamo un po' alla cieca e ci smarrivamo spesso.

Stavamo creando un'arte nuova, e c'era molto da scoprire. Ma il lavoro progrediva, dappertutto; nuovi maestri sorgevano in quest'arte, e si veniva formando a poco a poco tutta una serie di trucchi e di espedienti. Questa esperienza divenne una specie di manuale che passava di mano in mano e faceva parte, per così dire, del programma di studio della scuola della Rivoluzione (1).

Fu a quel tempo che mio padre scomparve. Le sue lettere che mi erano sempre giunte regolarmente, cessarono. Non fu più visto nel nostro appartamento di Pell Street. I compagni lo cercarono dappertutto: tutte le prigioni del paese furono esplorate dai nostri informatori segreti; ma rimase irreperibile, come se la terra l'avesse inghiottito, e fino a oggi non è stato possibile avere il minimo indizio su come morì (2).

Passai mesi di solitudine, lì nel rifugio, ma non furono vani. La nostra organizzazione progrediva rapidamente e montagne di lavoro da sbrigare si ammucchiavano ogni giorno. Dalla prigione, Ernest e gli altri dirigenti decidevano ciò che si doveva fare, e spettava a noi, che eravamo fuori, eseguire. Il nostro programma comprendeva, per esempio, la propaganda a voce, l'organizzazione del sistema di spionaggio, con tutte le sue ramificazioni; la fondazione di tipografie clandestine, il nostro treno sotterraneo, come lo chiamavamo, ossia la possibilità di comunicazione fra i nostri nuovi rifugi, che erano migliaia, quando venivano a mancare gli anelli della catena creata in tutto il paese.

Per questo, come dissi, il lavoro non finiva mai. Dopo sei mesi, il mio isolamento fu interrotto dalla venuta di due compagne: due ragazze, due brave e buone creature, amanti appassionate della libertà: Lora Peterson, che sparì nel 1922, e Kate Bierce, che sposò poi Du Bois (3), e che vive ancora con noi, in attesa della nuova aurora.

Giunsero in uno stato febbrile, come si può ben immaginare in due ragazze sfuggite a un pericolo improvviso di morte. Tra l'equipaggio del battello da pesca che le trasportava attraverso la baia di San Pablo, c'era una spia, una creatura del Tallone di Ferro; un tale che era riuscito a farsi credere rivoluzionario e ad avere accesso ai segreti della nostra organizzazione. Senza dubbio era sulle mie tracce, perché sapevano da tempo che la mia scomparsa aveva preoccupato seriamente il servizio segreto dell'oligarchia. Per fortuna, come si vide in seguito, non aveva rivelato a nessuno la sua scoperta. Evidentemente aveva rimandato il suo rapporto a più tardi, sperando di condurre a buon fine l'impresa di trovare il mio rifugio e impadronirsi della mia persona. Le sue informazioni perirono con lui. Con un pretesto qualsiasi, quando le ragazze sbarcarono a Petaluma Creek e montarono a cavallo, anche lui abbandonò il battello.

Quasi a metà strada della Sonoma, John Carlson lasciò che le ragazze andassero avanti sul suo cavallo, e ritornò indietro a piedi. Gli erano sorti dei sospetti. Catturò la spia, e dal racconto che ci fece potemmo farci un'idea di quanto era avvenuto.

"L'ho sistemato", disse semplicemente. "L'ho sistemato", ripeté; una luce sinistra brillava nei suoi occhi e le mani, deformate dal lavoro, gli si aprivano e chiudevano in modo eloquente. "Non ha fatto rumore. Ora l'ho nascosto, e questa notte lo seppellirò come si deve".

Durante quel periodo, mi stupivo spesso della mia metamorfosi che, a volte mi sembrava perfino inverosimile sia forse perché ero vissuta nella tranquillità di una città universitaria, sia perché ero diventata una rivoluzionaria abituata alle scene di violenza e di morte. L'uno o l'altro mi sembrava impossibile: se l'uno era vero, l'altro doveva essere un sogno; ma quale delle due cose era vera? La mia vita attuale di rivoluzionaria nascosta in fondo a una scarpata era forse un sogno? Oppure potevo credermi una ribelle che sognava un'esistenza precedente in cui non avevo conosciuto nulla di più eccitante del tè o del ballo, delle società benefiche e delle conferenze? Ma, dopo tutto, credo che fosse un'esperienza comune a tutti i compagni schierati sotto la bandiera rossa della fratellanza umana.

Ricordavo spesso persone di quell'altra vita e, stranamente, esse apparivano e sparivano di tanto in tanto nella mia nuova vita.

Come il vescovo Morehouse. Invano l'avevamo cercato, dopo lo sviluppo della nostra organizzazione; era stato trasferito di manicomio in manicomio. Avevamo seguito le sue tracce dal manicomio di Napa a quello di Stockton e di là al manicomio di Santa Clara Valley, chiamato Agnews, ma a questo punto si perdevano le tracce. Il suo atto di morte non esisteva. Doveva essere riuscito in qualche modo a fuggire. Non immaginavo affatto le terribili circostanze nelle quali lo avrei rivisto, la visione passeggera e rapida che avrei avuto di lui, nel turbine della carneficina della Comune di Chicago.

Non rividi più Jackson, l'uomo che aveva perso un braccio nelle Filande Sierra e che era stato la causa occasionale della mia conversione alla Rivoluzione, ma sapevamo tutti ciò che aveva fatto prima di morire. Non si era mai unito ai rivoluzionari.

Inasprito dal destino avverso, covando nel cuore il ricordo del male che gli avevano fatto, diventò anarchico, non nel senso filosofico ma come un qualunque animale spinto dall'odio e dal desiderio di vendetta. E si vendicò, e bene. Una notte, mentre tutti dormivano in casa Pertonwaithe, eludendo la vigilanza delle sentinelle, fece saltare in aria il palazzo. Neppure uno sfuggì al massacro, neppure le sentinelle. Poi lui, in prigione, in attesa del processo, si soffocò sotto le coperte.

Ben diversi furono i destini del dottor Hammerfield e del dottor Ballingford: rimasti fedeli al loro padrone, furono ricompensati con palazzi vescovili, dove vivono in pace col mondo. Tutt'e due sono difensori ed esaltatori dell'oligarchia, e tutti e due sono diventati grassi.

"Il dottor Hammerfield", spiegò un giorno Ernest, "è riuscito a modificare la sua metafisica in modo da poter assicurare al Tallone di Ferro la sanzione divina, poi a farvi entrare l'adorazione della bellezza, e in ultimo a ridurre allo stato di spettro invisibile il vertebrato gassoso di cui parla Haeckel. La differenza fra il dottor Hammerfield e il dottor Ballingford sta nel fatto che quest'ultimo concepisce il dio degli oligarchi come un po' più gassoso e un po' meno vertebrato".

Peter Donnelly, capo-operaio delle Filande Sierra, che avevo incontrato durante la mia inchiesta sul caso Jackson, preparò a tutti una sorpresa. Nel 1918 assistevo a una riunione dei Rossi di San Francisco. Di tutti i nostri Gruppi di Combattimento era questo il più formidabile, il più feroce e spietato. Non faceva esattamente parte della nostra organizzazione; i suoi membri erano dei pazzi fanatici; al punto che noi non osavamo incoraggiare il loro stato d'animo. Però eravamo in rapporti amichevoli, sebbene non li considerassimo dei nostri. Ero là, quella sera, per una faccenda di capitale importanza; in mezzo a una ventina di uomini, ero la sola non mascherata. Sbrigata la faccenda, fui accompagnata da uno di loro. Passando in un corridoio buio, la mia guida accese un fiammifero, l'avvicinò al viso e si tolse la maschera.

Intravidi i lineamenti appassionati di Peter Donnelly, poi il fiammifero si spense.

"Volevo solo farle vedere che ero io", disse nell'oscurità.

"Ricorda Dallas, il direttore?".

Ricordai la faccia di volpe di quell'uomo.

"Ebbene, l'ho sistemato come si meritava, per primo", disse Donnelly con orgoglio. "Poi mi sono fatto accogliere tra i Rossi".

"Ma come mai è qui?" domandai. "E sua moglie? E i suoi figli?" "Morti", rispose. "Per questo, sono qui... No", aggiunse in fretta, "non per vendicarli: sono morti tranquillamente, nel loro letto... di malattia... Capirete, un giorno o l'altro doveva accadere! Finché erano vivi ho avuto le mani legate; ora che non ci sono più vendico la mia virilità sprecata. Un tempo ero Peter Donnelly, capo-operaio, ma oggi sono il Numero 27 dei Rossi di San Francisco. Venga, la farò uscire".

Udii parlare ancora di lui parecchio tempo dopo. Aveva detto la verità a modo suo, dicendomi che tutti i suoi erano morti: uno invece era vivo, Timothy, ma lui lo considerava morto, perché si era arruolato nei Mercenari del Tallone di Ferro. Ogni membro dei Rossi di San Francisco s'impegnava, con giuramento, di compiere dodici esecuzioni all'anno, e di uccidersi se non fosse riuscito nell'intento. Le esecuzioni non erano però arbitrarie. Quel gruppo di esaltati si riuniva spesso e pronunciava sentenze in serie contro membri e servi dell'oligarchia che si erano esposti alla sua vendetta. Il compito delle esecuzioni veniva poi assegnato a sorte.

La faccenda che mi aveva condotto là, quella sera, era per l'appunto un verdetto del genere. Uno dei nostri compagni, che da molti anni era riuscito a mantenere il suo posto come commesso nell'ufficio locale del servizio segreto del Tallone di Ferro, aveva destato i sospetti dei Rossi di San Francisco, che l'avevano condannato. La sentenza sarebbe stata letta quel giorno stesso.

Naturalmente lui non era presente e i suoi giudici ignoravano che fosse uno dei nostri. La mia missione era di testimoniare sulla sua identità e lealtà. Ci si domanderà come fossi informata di questa faccenda. La spiegazione è molto semplice: uno dei nostri agenti segreti faceva parte dei Rossi di San Francisco. Era infatti necessario seguire le mosse sia degli amici, che dei nemici; e quel gruppo di fanatici era troppo importante per sfuggire alla nostra sorveglianza.

Ma ritorniamo a Peter Donnelly e a suo figlio. Tutto andò bene per il padre fino al giorno in cui, nel gruppo estratto a sorte fra i condannati da giustiziare, la cui esecuzione spettava a lui, trovò il nome del figlio. Allora gli si risvegliò quell'istinto paterno un tempo così forte in lui. Per salvare suo figlio tradì i compagni. Il suo disegno fu in parte sventato: ciò nonostante, una dozzina di Rossi di San Francisco furono giustiziati e il Gruppo venne quasi distrutto. Per rappresaglia, i sopravvissuti fecero fare a Donnelly la fine che meritava. Suo figlio non gli sopravvisse a lungo; i Rossi di San Francisco s'impegnarono con giuramento solenne a sopprimerlo. L'oligarchia fece tutti gli sforzi per salvarlo: lo trasferì da una parte all'altra del paese; tre Rossi persero la vita per catturarlo. Il gruppo si componeva solo di uomini, ma alla fine ricorsero a una donna, a una delle nostre compagne, Anna Roylston. Il nostro gruppo le proibì di accettare quella missione; ma da lei, che aveva sempre avuto una volontà propria e sdegnava ogni disciplina, e inoltre era intelligente e attirava la simpatia, non si poteva ottenere nulla.

Rappresentava un tipo a sé, diverso da qualsiasi altra rivoluzionaria. Nonostante il nostro divieto, si ostinò e volle compiere questo atto.

Anna Roylston era una creatura veramente affascinante, le bastava un cenno per sedurre un uomo. Aveva già infiammato i cuori di numerosi nostri giovani compagni e aveva attratto altri alla nostra organizzazione. Tuttavia, rifiutava sempre di sposarsi.

Amava teneramente i bambini, ma riteneva che un figlio l'avrebbe distratta dalla Causa alla quale aveva dedicato la vita.

Fu un gioco facilissimo per Anna Roylston conquistare Timothy Donnelly. Non provò nessun rimorso di coscienza, perché proprio in quel tempo avvenne il massacro di Nashville, nel quale i Mercenari, agli ordini di Donnelly, assassinarono ottocento tessitori di quella città. Ma lei non uccise Donnelly con le sue mani; lo consegnò ai Rossi di San Francisco. Questo successe l'anno scorso. Ora Anna è stata ribattezzata: i rivoluzionari la chiamano la "Vergine Rossa" (5).

Il colonnello Ingram e il colonnello Van Gilbert sono altri due personaggi noti che conobbi in seguito. Il colonnello Ingram s'innalzò molto nell'oligarchia e diventò ambasciatore in Germania, profondamente detestato dal proletariato dei due paesi.

Lo conobbi a Berlino, quando, accreditata spia internazionale del Tallone di Ferro, mi ricevette in casa sua e mi diede un prezioso aiuto. Posso dichiarare ora che il mio doppio ruolo mi permise di compiere vari incarichi importanti per la Rivoluzione.

Il colonnello Van Gilbert era noto come "Ringhio" Van Gilbert. Suo merito principale fu la collaborazione alla stesura del nuovo codice, dopo la Comune di Chicago. Ma già prima, come giudice, si era attirato una condanna a morte per la sua diabolica crudeltà.

Io fui una delle persone che lo giudicarono e condannarono: e Anna Roylston eseguì la sentenza.

Ancora un fantasma della mia vita passata: l'avvocato di Jackson.

Joseph Hurd era davvero l'ultima persona che mi aspettassi di rivedere, e il nostro fu uno strano incontro. Due anni dopo la Comune di Chicago, una sera tardi, Ernest e io arrivammo insieme al rifugio di Benton Harbour nel Michigan, sulla riva del lago opposta a quella di Chicago, proprio quando stava terminando il processo di una spia. La sentenza di morte era stata pronunciata e stavano portando via il condannato. Appena ci vide, sfuggì ai guardiani e si precipitò ai miei piedi, stringendomi le ginocchia come in una morsa, implorando pietà come in delirio. Quando alzò verso di me il suo viso spaventato, riconobbi Joseph Hurd. Ora, di tutte le scene terribili che ho visto, nessuna mi ha commosso quanto lo spettacolo di quella creatura disperata che implorava la grazia. Attaccato disperatamente alla vita, si avvinghiava a me nonostante gli sforzi di molti compagni per staccarlo. Quando alla fine lo trascinarono via, io caddi a terra svenuta. E' meno terribile veder morire uomini forti, che sentire un vile implorare per aver salva la vita (6).

NOTE:

1) A quell'epoca il travestimento diventò una vera arte. I rivoluzionari avevano scuole di recitazione in tutti i loro rifugi. Sdegnavano gli accessori degli artisti ordinari, come false barbe e parrucche, che erano una trappola. Il travestimento doveva essere fondamentale, intrinseco, doveva costituire nell'individuo una sorta di seconda natura. Si racconta che la Vergine Rossa divenne bravissima in quest'arte, alla quale dovette il successo della sua lunga carriera.

2) Queste sparizioni erano uno degli orrori dell'epoca. Se ne parlava continuamente nelle canzoni e nelle storie. Erano un risultato inevitabile della guerra insidiosa che infuriò durante quei tre secoli. La cosa era però frequente anche presso gli oligarchi e le classi operaie. Senza preavviso, senza rumore, uomini, donne e bambini sparivano; non si rivedevano più, e la loro fine rimaneva avvolta nel mistero.

3) Il Du Bois, attuale bibliotecario di Ardis, discende in linea diletta da quella coppia di rivoluzionari.

4) Oltre alle caste operaie c'era la casta militare, costituita da un esercito regolare di soldati di professione, i cui ufficiali erano membri dell'oligarchia, conosciuti tutti col nome di Mercenari. Questa istituzione sostituiva la milizia, divenuta impossibile sotto il nuovo regime. Era stato istituito un servizio segreto di Mercenari, oltre a quello del Tallone di Ferro, che era una via di mezzo fra l'esercito e la polizia.

5) Solo dopo che la Seconda Rivolta fu schiacciata, il gruppo dei Rossi di San Francisco rifiorì e per due generazioni imperversò. A quel tempo, un agente del Tallone di Ferro riuscì a farsi ammettere in esso e a entrare in tutti i segreti conducendolo così alla fatale distruzione. Ciò accadde nel 2002. I membri del gruppo furono giustiziati, uno per uno, a tre settimane d'intervallo, e i loro cadaveri furono esposti nel ghetto operaio di San Francisco.

6) Il rifugio di Benton Harbour era una catacomba la cui entrata era abilmente dissimulata da un pozzo. E' conservata in buono stato, i visitatori possono in realtà percorrere il labirinto di corridoi fino alla sala delle riunioni, dove certamente avvenne la scena descritta da Avis Everhard. Più in là, sono le celle dove erano tenuti i prigionieri e la camera della morte dove avevano luogo le esecuzioni; più oltre ancora, il cimitero: un insieme di lunghe e tortuose gallerie scavate nella roccia, aventi, su ogni lato, nicchie dove riposano i Rivoluzionari ivi deposti dai compagni ormai da tanti anni.

Capitolo 20.

UN OLIGARCA IN MENO

I ricordi della vita passata mi hanno spinto troppo oltre nella storia di quella nuova. La liberazione in massa dei nostri amici prigionieri avvenne piuttosto tardi, nel corso del 1915. Sebbene complessa, simile impresa avvenne senza incidenti, con un successo che fu per noi un onore e un incoraggiamento. Da una quantità di prigioni, carceri militari, fortezze disseminate da Cuba alla California, liberammo in una sola notte cinquantuno dei nostri Congressisti su cinquantadue, e più di trecento altri dirigenti.

Non ci fu il minimo incidente: non solo scapparono tutti, ma tutti raggiunsero i ricoveri preparati. Il solo dei nostri rappresentanti che non facemmo evadere fu Arthur Simpson, già morto a Cabanyas dopo crudeli torture.

I diciotto mesi che seguirono segnano forse il periodo più felice della mia vita con Ernest, per tutto quel tempo non ci lasciammo un istante, mentre più tardi, rientrati nel mondo, abbiamo spesso dovuto vivere separati. L'impazienza con cui aspettavo quella sera l'arrivo di Ernest era grande come quella che provo oggi davanti alla rivolta imminente. Ero stata così a lungo senza vederlo che impazzivo quasi all'idea che il minimo contrattempo nei nostri disegni potesse tenerlo ancora prigioniero nella sua isola. Le ore mi sembravano secoli. Ero sola. Biedenbach e tre altri giovani anch'essi nascosti nel nostro ricovero si erano appostati dall'altro lato della montagna, armati e pronti a tutto. Credo infatti che quella notte, in tutto il paese, tutti i compagni fossero fuori dai loro rifugi .

Appena il cielo impallidì per l'avvicinarsi dell'aurora, udii dall'alto il segnale convenuto e mi affrettai a rispondere.

Nell'oscurità per poco non abbracciai Biedenbach che scendeva per primo, ma un istante dopo ero nelle braccia di Ernest. Mi accorsi in quel momento, tanto la trasformazione era profonda, che dovevo fare uno sforzo di volontà per ridiventare l'Avis Everhard di un tempo, con i suoi modi, il suo sorriso, le sue frasi e le sue intonazioni di voce. Solo controllandomi riuscivo a conservare la mia antica identità. Non potevo permettermi di abbandonarmi anche solo un attimo, tanto automaticamente imperativa era diventata la nuova personalità che mi ero creata.

Quando fummo all'interno della nostra piccola capanna, vidi il volto di Ernest alla luce della lampada. Tranne il pallore, acquistato durante la permanenza in carcere, non c'era - o mi pareva di non vedere - alcun cambiamento in lui. Era sempre lo stesso: il mio amante, mio marito, il mio eroe. Solo una certa aria ascetica gli affinava un po' i tratti del volto, conferendogli un'espressione di nobiltà che ingentiliva l'eccesso di vitalità impetuosa che aveva sempre segnato i tratti del suo volto. Forse era diventato un po' più grave, ma una luce allegra gli brillava sempre negli occhi. Anche se dimagrito di una decina di chili, conservava una forma perfetta, avendo sempre allenato i muscoli durante la prigionia: ed erano di acciaio. In realtà, era in condizioni migliori di prima di entrare in carcere. Trascorsero parecchie ore prima che la sua testa si posasse sul guanciale e che si addormentasse sotto le mie carezze. Io non chiusi occhio:

ero troppo felice e non avevo diviso con lui le fatiche dell'evasione e della corsa a cavallo.

Mentre dormiva, mi cambiai d'abito, mi pettinai diversamente, ripresi la mia nuova personalità. Quando Biedenbach e gli altri compagni si svegliarono, mi aiutarono a preparare un piccolo scherzo. Tutto era pronto ed eravamo nella piccola camera sotterranea che fungeva da cucina e sala da pranzo, quando Ernest aprì l'uscio ed entrò. In quel momento, Biedenbach mi chiamò col nome di Mary, e io mi rivolsi a lui per rispondergli. Guardai Ernest con l'interesse curioso che una giovane compagna manifesterebbe vedendo per la prima volta un eroe tanto noto della Rivoluzione. Ma lo sguardo di Ernest si fermò appena su di me e fece il giro della stanza, cercando con impazienza qualcun altro.

Gli venni allora presentata col nome di Mary Holmes.

Per completare lo scherzo, avevamo preparato un posto in più a tavola e, sedendoci, lasciammo una sedia vuota. Mi sarei messa a gridare dalla gioia nel veder crescere l'ansia di Ernest. E non riuscii a trattenermi a lungo.

"Dov'è mia moglie?" disse lui bruscamente.

"Dorme ancora", risposi.

Era il momento critico, ma la mia voce gli risultò nuova, non riconobbe nulla di familiare in essa. Il pasto continuò. Parlai molto, con esaltazione, come avrebbe potuto fare l'ammiratrice di un eroe, mostrando chiaramente come il mio eroe fosse lui. Giunsi così al colmo dell'ammirazione e dell'entusiasmo e, prima che lui potesse intuire la mia intenzione, gli gettai le braccia al collo e lo baciai sulla bocca. Mi allontanò, e lanciò intorno uno sguardo incerto e seccato... I quattro uomini scoppiarono a ridere; seguirono le spiegazioni. Ernest rimase dapprima incredulo: mi scrutò attentamente e sembrava quasi convinto, poi scosse il capo, per niente disposto a credere. Solo quando, ridiventata l'Avis Everhard di un tempo, gli mormorai all'orecchio i segreti noti esclusivamente a me e a lui, finì con l'accettarmi come sua moglie.

Dopo, durante il giorno, mi prese fra le braccia, dicendo di sentirsi bigamo.

"Sei la mia cara Avis", disse, "ma sei pure un'altra. Essendo due donne in una, costituisci il mio harem. Comunque, per il momento siamo al sicuro. Ma se gli Stati Uniti diventassero per noi troppo pericolosi, avrei tutto il diritto di diventare cittadino turco" (l).

Conobbi allora la perfetta felicità, lì nel nostro rifugio.

Dedicavamo lunghe ore a lavori seri, ma lavoravamo insieme. Fummo l'uno dell'altra per un lungo periodo di tempo, e il tempo ci sembrava prezioso. Non ci sentivamo isolati, perché i nostri compagni andavano e venivano portando l'eco sotterranea di un mondo di intrighi rivoluzionari, o il racconto di lotte ingaggiate su tutto il fronte della battaglia. L'allegria non mancava.

Sopportavamo molto lavoro e molte sofferenze, ma i vuoti delle nostre file erano presto colmati e avanzavamo sempre, e fra i colpi e i contraccolpi della vita e della morte, trovavamo il tempo di ridere e di amare. C'erano, fra noi, artisti, scienziati, studenti, musicisti e poeti; in quella fucina d'intelletti fioriva una cultura più nobile e più raffinata che nei palazzi e nelle città meravigliose degli oligarchi. D'altronde, molti dei nostri compagni s'erano professionalmente dedicati ad abbellire quei palazzi e quelle città di sogno (2).

D'altra parte, non eravamo confinati nel nostro rifugio. Spesso, la notte, per fare del moto, percorrevamo a cavallo la montagna, usando le cavalcature di Wickson. Se solo sapesse quanti rivoluzionari hanno portato le sue bestie! Organizzavamo persino delle merende nei posti più solitari che conoscevamo, dove rimanevamo dall'alba al tramonto, tutto il giorno. Ci servivamo pure della panna e del burro di Wickson; e Ernest non si faceva alcuno scrupolo ad ammazzare le sue quaglie e i conigli e persino, se gli capitava, qualche giovane daino (3).

In realtà era un rifugio delizioso. Credo però di aver detto che fu scoperto una volta, e ciò m'induce a parlare della scomparsa del giovane Wickson. Ora che è morto posso dire liberamente la verità. C'era in fondo al nostro rifugio un angolo, invisibile dall'alto, dove il sole batteva per parecchie ore. Ci avevamo portato un po' di sabbia del fiume, di modo che c'era un caldo secco che rendeva piacevole, a chi volesse, stare disteso al sole.

In quel punto, un giorno, dopo pranzo, mi ero mezzo assopita, tenendo in mano un volume di Mendenhall (4). Stavo così comoda e mi sentivo così tranquilla che neppure il lirismo infiammato del poeta riusciva a commuovermi.

Fui richiamata alla realtà da una zolla di terra che cadde ai miei piedi; poi, sentii in alto uno stropicciare precipitoso di piedi e un istante dopo vidi un giovane che, fatto un ultimo scivolone lungo la parete brulla, atterrava davanti a me.

Era Philip Wickson, che allora non conoscevo. Mi guardò tranquillamente, ed emise un leggero fischio per la sorpresa.

"Oh, bella!" esclamò e, togliendosi il cappello, quasi subito aggiunse: "Le chiedo scusa, non mi aspettavo di trovare qualcuno qui".

Ebbi meno sangue freddo di lui. Ero ancora una principiante in fatto di comportamento in circostanze disperate. Se avessi avuto l'esperienza che acquistai in seguito, quando diventai spia internazionale, mi sarei mostrata meno confusa, ne sono sicura.

Invece mi alzai di colpo e lanciai il grido di allarme.

"Che succede?" chiese lui, guardandomi incuriosito. "Perché grida?".

Era evidente che non aveva neppure sospettato la nostra presenza, scendendo laggiù. Me ne accorsi con vero sollievo.

"Perché crede che abbia gridato?" replicai. Ero proprio inetta a quel tempo.

"Non so", rispose, scuotendo il capo. "Probabilmente avrà degli amici, là. In ogni modo bisogna spiegarmi questa faccenda. C'è qualcosa di losco. Lei è su una proprietà privata: questo terreno è di mio padre e...".

Ma in quel momento Biedenbach, sempre corretto e dolce, gli ingiunse alle spalle, a bassa voce:

"Mani in alto, giovanotto!" Il giovane Wickson alzò prima le mani, poi si voltò per vedere in faccia Biedenbach che gli puntava addosso un fucile automatico 30.30. Wickson rimase tranquillissimo.

"Oh! Oh!" fece, "un nido di rivoluzionari, addirittura un vespaio, a quanto pare. Ebbene, non rimarrete a lungo qui, posso assicurarvelo".

"Forse ci rimarrà lei, e abbastanza per cambiar opinione, rispose tranquillamente Biedenbach. Intanto devo pregarla di venire dentro, con me".

"Dentro?" il giovanotto era stupito. "Avete dunque una catacomba, qui? Ho sentito parlare di cose di questo genere".

"Entri e vedrà", rispose Biedenbach, col suo accento più corretto.

"Ma è illegale", protestò l'altro.

"Sì, secondo la vostra legge", rispose il terrorista in tono significativo. "Ma secondo la nostra legge, invece, è permesso.

Bisogna bene che si metta in mente che lei è entrato in un mondo del tutto diverso da quello in cui è vissuto finora, dominato dall'oppressione e dalla brutalità".

"Vedremo", mormorò Wickson.

"Ebbene, rimanga con noi per discutere la questione".

Il giovane si mise a ridere, e seguì il suo rapitore nell'interno della casa. Fu condotto nella camera più interna, sotto terra, e guardato da uno dei compagni, mentre noi discutevamo sul da farsi in cucina.

Biedenbach, con le lacrime agli occhi, disse che bisognava ucciderlo, e sembrò molto sollevato quando la maggioranza respinse la sua terribile proposta. D'altronde, non era neanche il caso di pensare di lasciar libero il giovane oligarca.

"Vi dirò io cosa dobbiamo fare: teniamolo con noi ed educhiamolo", disse Ernest.

"Se è così, chiedo il privilegio di illuminarlo in materia di giurisprudenza", esclamò Biedenbach.

Tutti risero a questa proposta. Avremmo dunque tenuto prigioniero Philip Wickson e gli avremmo insegnato la nostra morale e la nostra sociologia. Nel frattempo c'era altro da fare: bisognava far sparire ogni traccia del giovane oligarca, incominciando da quelle che aveva lasciato sul pendio friabile della scarpata. Il compito spettò a Biedenbach, il quale, sospeso a una corda, lavorò abilmente per tutto il resto della giornata e fece sparire ogni segno. Cancellò pure tutte le impronte, incominciando dal bordo della scarpata fino al canalone. Poi, al crepuscolo, John Carlson chiese le scarpe al giovane Wickson.

Non voleva darle, e si mostrò disposto a lottare per difenderle.

Ma Ernest gli fece sentire il peso della sua mano da maniscalco.

In seguito, Carlson si lagnò delle numerose bolle e scorticature dovute alla strettezza delle scarpe, ma con esse aveva fatto un lavoro ardito e importantissimo. Partendo dal punto in cui avevamo smesso di cancellare le tracce del giovanotto, Carlson, dopo aver calzato le scarpe del giovane Wickson, si era diretto a sinistra, e aveva camminato per miglia e miglia, contornando monticelli, valicando cime, arrampicandosi lungo i canaloni, sino a far perdere le tracce nell'acqua corrente di un ruscello. Toltesi le scarpe, percorse il letto del ruscello per un certo tratto, poi rimise le proprie. Una settimana dopo, il giovane Wickson ritornò in possesso delle sue scarpe.

Quella notte, la muta di caccia fu sguinzagliata e non si poté dormire nel rifugio. Il giorno dopo, per molte volte i cani scesero lungo il canalone abbaiando ma si lanciarono a sinistra, seguendo la falsa traccia lasciata da Carlson, e i loro latrati si persero lontano, tra le gole della montagna. Intanto, i nostri uomini aspettavano nel rifugio, con le armi in pugno; avevano rivoltelle automatiche e fucili nonché una mezza dozzina di ordigni infernali fabbricati da Biedenbach. Quale sorpresa per i cercatori se si fossero avventurati nel nostro nascondiglio!

Ho rivelato ora la verità sulla scomparsa di Philip Wickson, un tempo oligarca e poi fedele servitore della rivoluzione. Perché finimmo per convertirlo. Aveva una intelligenza pronta e plasmabile e una natura fondamentalmente sana. Parecchi mesi dopo gli facemmo valicare la Sonoma su uno dei cavalli di suo padre, fino al Petaluma Creek, dove s'imbarcò su una piccola scialuppa da pesca. Con un viaggio felice, a tappe, grazie alla nostra ferrovia segreta, lo mandammo sino al rifugio di Carmel.

Là rimase due mesi, trascorsi i quali non voleva più abbandonarci, per due motivi: primo, s'era innamorato di Anna Roylston; secondo, era diventato dei nostri. Solo dopo essersi convinto dell'inutilità del suo amore cedette ai nostri desideri e acconsentì a ritornare a casa di suo padre. Benché abbia finto fino alla morte di essere un oligarca, fu in realtà uno dei nostri agenti più preziosi. Molte e molte volte il Tallone di Ferro fu sorpreso per l'insuccesso dei suoi disegni e delle sue operazioni contro di noi.

Se avesse saputo quanti dei suoi membri lavoravano per si sarebbe spiegato anche i suoi insuccessi. Il giovane Wickson fu sempre fedele alla Causa (5). La sua stessa morte è dovuta a questa sua fedeltà al dovere. Durante la grande tempesta del 1927, contrasse la polmonite di cui morì per assistere a una riunione dei nostri dirigenti.

NOTE:

1) A quell'epoca la poligamia era ancora praticata in Turchia.

2) Non si tratta di vanteria da parte di Avis Everhard: il fior fiore del mondo artistico e intellettuale era composto di rivoluzionari. Fatta eccezione di pochi musicisti e cantanti e di qualche oligarca, tutti i grandi creatori dell'epoca, tutti quelli i cui nomi sono giunti sino a noi, erano rivoluzionari.

3) Fino allora, la panna e il burro si estraevano ancora dal latte di mucca, con procedimenti grossolani. La preparazione chimica dei cibi ancora non esisteva.

4) Nei documenti letterari dell'epoca si parla spesso dei poemi di Rudolph Mendenhall, che i suoi compagni chiamavano "La fiamma". Era indubbiamente un genio; ma, fatta eccezione di qualche frammento di poemi citato da altri autori, di suo non ci è giunto altro. Fu giustiziato dal Tallone di Ferro nel 1928.

5) Il caso di questo giovane non è eccezionale. Molti figli d'oligarchi, per ragioni morali o per romanticismo, votarono la loro vita all'ideale rivoluzionario, spinti da un sentimento d'onestà o dal fatto che la loro fantasia era stata sedotta dall'aspetto glorioso della rivoluzione. Già prima molti figli di nobili russi avevano fatto lo stesso, durante la lunga rivoluzione di quel paese.

Capitolo 21

LA BESTIA RUGGENTE DELL'ABISSO

Durante la nostra prolungata permanenza nel rifugio, fummo regolarmente informati di tutto quanto avveniva nel mondo esterno, così che potemmo valutare con precisione la forza dell'oligarchia contro cui lottavamo. Col flusso dei mutamenti, le nuove istituzioni acquistavano forme più precise e i caratteri e gli attributi della stabilità. Gli oligarchi erano riusciti a inventare una macchina governativa tanto estesa quanto complessa, ma che continuava a funzionare, malgrado i nostri sforzi per intralciarla e distruggerla.

Questa fu una sorpresa per molti rivoluzionari che non l'avevano ritenuto possibile. Ciò nonostante, l'attività del paese continuava. Molti lavoravano nei campi e nelle miniere, ma erano, naturalmente, gli schiavi. Quanto alle industrie fondamentali, prosperavano su tutta la linea. Gli appartenenti alle grandi caste operaie erano soddisfatti e lavoravano volentieri. Per la prima volta in vita loro conoscevano la pace industriale. Non si preoccupavano più di riduzioni di orari, scioperi, serrate, timbri di sindacati; vivevano in case più comode, in graziose villette di proprietà, veramente deliziose in confronto alle soffitte abitate una volta. Il loro nutrimento era migliore, avevano meno ore di lavoro, vacanze più lunghe, una scelta più variegata di piaceri e svaghi intellettuali. Né si preoccupavano dei loro fratelli e sorelle meno fortunati, dei lavoratori sfavoriti dalla sorte, del popolo caduto nell'abisso. Si annunciava, per l'umanità, un'era di egoismo. E tuttavia, neppure questo è esatto, perché le caste operaie formicolavano di nostri agenti, di uomini che avevano, al di là dei bisogni pratici, le radiose visioni di Libertà e Fratellanza.

Un'altra grande istituzione che aveva preso forma e funzionava perfettamente era quella dei Mercenari. Questa truppa che traeva origine dall'antico esercito regolare, contava ormai un milione di uomini, senza tener conto delle forze coloniali. Abitavano in città a loro destinate e amministrate da un governo praticamente autonomo, e godevano di numerosi privilegi. Questi Mercenari consumavano gran parte del problematico surplus. Persero però ogni simpatia da parte del resto della popolazione e svilupparono una loro coscienza e moralità particolari. Anche fra loro avevamo migliaia di agenti (1).

L'oligarchia stessa si sviluppò in modo notevole e, bisogna confessarlo, inaspettato. Come classe, si diede una disciplina; ognuno dei suoi membri ebbe un incarico preciso, con l'obbligo di svolgerlo. Non ci furono più giovani ricchi e oziosi; la forza dei giovani serviva a consolidare quella dell'oligarchia. Servivano sia come ufficiali superiori nell'esercito sia come capitani o direttori nell'industria. Facevano carriera nelle scienze applicate, e molti di loro diventarono ottimi ingegneri. Facevano parte di numerose amministrazioni pubbliche, assumevano impieghi nelle colonie ed erano arruolati a migliaia nei diversi servizi segreti. Venivano iniziati, se così si può dire, all'insegnamento, alle arti, alla religione, alla scienza e alla letteratura; e in questi diversi campi svolgevano una funzione importante, modellando la mentalità nazionale in modo d'assicurare la continuità dell'oligarchia.

Si insegnava loro, e più tardi essi stessi insegnavano agli altri, che ciò che facevano era giusto. Assimilavano le idee aristocratiche fin dal principio, quando, da bambini iniziavano la loro esperienza del mondo esterno. E di queste idee erano intessute le loro fibre, sin nel profondo dell'animo. Si consideravano domatori di bestie feroci. Sotto di loro, però, ruggiva sempre il brontolio sotterraneo della rivolta. E tra loro, furtivamente, si aggirava senza tregua la morte violenta: bombe, pallottole, coltelli, erano le zanne di quella bestia ruggente dall'abisso che essi dovevano domare per la sopravvivenza dell'umanità. Si credevano i salvatori del genere umano e si consideravano lavoratori eroici che si sacrificavano per il suo bene.

Erano convinti che la loro classe fosse l'unico sostegno della civiltà e che, se avessero ceduto un solo istante, il mostro li avrebbe inghiottiti nel suo ventre cavernoso e viscido, con tutto ciò che vi è di bello, buono, piacevole e meraviglioso al mondo.

Senza di loro, l'anarchia avrebbe regnato sovrana e l'umanità sarebbe ricaduta nella notte primordiale dalla quale era emersa con tanta fatica. L'orribile spettro dell'anarchia era costantemente posto davanti agli occhi dei loro figli, fino a che, ossessionati da quel timore, fossero a loro volta pronti a ossessionare i loro discendenti. Quella era la bestia che bisognava calpestare, e la sua distruzione costituiva il dovere supremo dell'aristocratico. Insomma, con i loro sforzi e sacrifici incessanti, essi costituivano l'unico ostacolo fra la debole umanità e il mostro vorace; e di questo erano convinti, fermamente.

Non insisterò mai abbastanza su questa profonda presunzione morale di tutta la classe degli oligarchi. E' stata la forza del Tallone di Ferro; e fin troppi compagni hanno impiegato molto tempo a capirlo. Molti di essi hanno attribuito la forza del Tallone di Ferro al suo sistema di ricompense e punizioni. E' un errore. Il cielo e l'inferno possono essere i fattori primi dello zelo religioso di un fanatico, ma per la grande maggioranza si tratta di semplici accessori nei confronti del bene e del male. L'amore del bene, il desiderio del bene, l'insoddisfazione nei confronti di tutto ciò che non è del tutto bene, in una parola, la buona condotta, ecco il primo fattore della religione. E altrettanto si può dire dell'oligarchia. Il carcere, l'esilio, la degradazione, da un lato, dall'altro gli onori, i palazzi, le città meravigliose, non sono che contingenze. La grande forza motrice della oligarchia è la convinzione di far bene. Non badiamo alle eccezioni, non teniamo conto dell'oppressione e dell'ingiustizia tra le quali il Tallone di Ferro nacque; tutto questo è noto, ammesso, sottinteso. Il punto è che la forza dell'oligarchia consiste, attualmente, nella convinzione e soddisfazione della propria rettitudine.

Ma, d'altra parte, anche la forza della Rivoluzione durante questi ultimi e terribili anni è consentita soprattutto nella consapevolezza di essere nel giusto. Non si spiegano altrimenti i nostri sacrifici né l'eroismo dei nostri martiri. Per questo solo motivo l'animo di Mendenhall si infiammò per la Causa, per questo solo scrisse il suo meraviglioso canto del cigno in quell'ultima notte della sua vita. Per questo solo, Hurlbert morì sotto la tortura, rifiutando fino all'ultimo di tradire i compagni. Per questo solo Anna Roylston rinunciò alla felicità della maternità, e John Carlson è rimasto senza alcun compenso guardiano fedele del rifugio di Glen Ellen. Senza distinzioni, uomini o donne, giovani o vecchi, illustri o umili, intelligenti o semplici, si uniscono agli altri compagni della Rivoluzione, e la forza che li muove sarà sempre un profondo e imperturbabile desiderio di giustizia.

Ma mi sono allontanata dal mio racconto, divagando. Prima di abbandonare il nostro rifugio, Ernest e io avevamo compreso perfettamente che la potenza del Tallone di Ferro andava sviluppandosi. Le caste operaie, i Mercenari e le schiere innumerevoli di poliziotti e agenti di ogni specie, erano interamente asserviti all'oligarchia. Tutto sommato, non contando la perdita della libertà, vivevano meglio di prima. D'altra parte, la grande massa disperata del popolo, del popolo dell'abisso, sprofondava in un abbrutimento apatico fatto di assuefazione a tanta squallida miseria. Dei proletari di forza eccezionale che si distinguevano dal gregge, gli oligarchi si impadronivano, migliorando le loro condizioni e ammettendoli nelle caste operaie o fra i Mercenari. Spariva in questo modo ogni malcontento, e il proletariato si ritrovava privo dei suoi capi naturali.

La condizione del popolo nell'abisso era pietosa. La scuola comune non esisteva più; viveva come bestie in grandi e squallidi ghetti operai, marciva nella miseria e nel degrado. Tutte le antiche libertà erano state abolite. A questi schiavi del lavoro era negata persino la scelta del lavoro. Allo stesso modo, veniva loro anche negato il diritto di spostarsi da un posto all'altro o di possedere armi. Erano servi, non della terra, come gli agricoltori, ma della macchina e del lavoro. Quando, di rado, si aveva bisogno di loro per un'impresa straordinaria come la costruzione di grandi strade, linee elettriche, canali, gallerie, passaggi sotterranei e fortificazioni, venivano reclutati in massa nei ghetti e decine di migliaia di servi, volenti o nolenti, erano trasportati sul luogo del lavoro. Un vero esercito di schiavi lavora attualmente per la costruzione di Ardis, e sono alloggiati in miserabili baracche, dove la vita di famiglia non esiste e dove la decenza è sostituita da una bestiale promiscuità. E lì, nel ghetto, rugge la bestia dell'abisso, tanto temuta dagli oligarchi, che pure l'hanno creata e l'alimentano, impedendo la scomparsa della scimmia e della tigre nell'uomo.

E anche ora corre voce di un nuovo reclutamento per la costruzione di Asgard, la città meravigliosa che quando sarà finita dovrà superare tutti gli splendori di Ardis (3). Noi rivoluzionari cureremo la continuazione di quest'opera colossale, che però non sarà compiuta da miserabili schiavi. Le mura, le torri e le guglie di questa città di sogno, s'innalzeranno al ritmo delle canzoni, e la sua bellezza incomparabile sarà cementata, invece che da gemiti e sospiri, dall'armonia e dalla gioia.

Ernest era molto impaziente di ritrovarsi nel mondo e di riprendere la sua attività, perché i tempi sembravano maturi per la nostra Prima Rivolta, quella che fallì tanto miseramente con la Comune di Chicago. Ma io m'impegnavo a disciplinare il suo animo alla pazienza, e per tutto il tempo che durò il suo tormento, mentre Hadly, fatto venire apposta dall'Illinois, lo trasformava in un altro uomo (4), lui concepiva i grandi progetti di organizzazione del proletariato istruito, e preparava i piani per mantenere almeno un principio di educazione nel popolo dell'abisso, qualora, naturalmente, si fosse avverata l'ipotesi di uno scacco della Prima Rivolta.

Solo nel gennaio del 1917 abbandonammo il nostro rifugio. Tutto era pronto. Immediatamente, prendemmo il nostro posto di agenti provocatori nel gioco del Tallone di Ferro. Io passavo per sorella di Ernest. Quel posto ci era stato dato dagli oligarchi o dai nostri autorevoli compagni tra le loro schiere. Eravamo in possesso di tutti i documenti necessari, persino il nostro passato era in regola. Con l'aiuto necessario, non era difficile perché nel regno d'ombre in cui era tenuto sempre il servizio segreto, l'identità rimaneva più o meno nebulosa. Simili a fantasmi, gli agenti andavano e venivano, obbedivano a ordini, adempivano il loro dovere, seguivano tracce, facevano rapporti a funzionari che essi non vedevano mai, o cospiravano con altri agenti che non avevano mai visto prima e mai avrebbero rivisto.

NOTE:

1) I Mercenari svolsero un ruolo importante negli ultimi tempi del Tallone di Ferro. Essi mantenevano l'equilibrio del potere nei conflitti fra oligarchi e caste operaie, gettando il peso della loro forza da una parte o dall'altra, secondo il gioco degli intrighi e delle cospirazioni.

2) Dall'inconsistenza e incoerenza morale del capitalismo, gli oligarchi trassero tuttavia una nuova etica coerente e compiuta, decisa e rigida come l'acciaio, la più assurda, la meno scientifica e nello stesso tempo la più possente che abbia mai servito una classe di tiranni. Gli oligarchi credevano nella loro morale, sebbene fosse smentita dalla biologia e dall'evoluzione, e per tre secoli poterono arrestare la possente marea del progresso umano: esempio profondo, terribile, sconcertante per il moralista metafisico; e che deve ispirare al materialista molti dubbi e riconsiderazioni.

3) Ardis fu terminata nel 1942 e Asgard nel 1984 dell'era cristiana. La costruzione di quest'ultima durò cinquantadue anni, e occorse il lavoro ininterrotto di mezzo milione di servi. In certi periodi, il loro numero superò il milione, senza tener conto delle centinaia di migliaia di lavoratori privilegiati e di artisti.

4) Fra i rivoluzionari, c'erano numerosi chirurghi che avevano acquistato una grande abilità nella vivisezione. Secondo le stesse parole di Avis Everhard, potevano letteralmente trasformare un uomo in un altro. Per essi, l'eliminazione di cicatrici e deformità era un gioco. Mutavano i tratti del volto con tale precisione che non rimaneva alcuna traccia dell'intervento. Il naso era uno degli organi preferiti per simili interventi. Innestare la pelle e trapiantare capelli era una cosa ordinaria per loro, che ottenevano cambiamenti di espressione con abilità straordinaria e modificavano radicalmente gli occhi, le sopracciglia, le labbra, la bocca, le orecchie. Con abili interventi alla lingua, alla gola, alla laringe, alle fosse nasali, poteva essere modificato persino il modo di parlare. In quell'epoca di disperazione occorrevano rimedi disperati, e i medici rivoluzionari erano all'altezza dei tempi. Tra gli altri prodigi, c'era la possibilità di allungare un adulto di cinque o dieci centimetri, e di accorciarlo di quattro o cinque. La loro arte oggi è andata perduta. Non ne abbiamo più bisogno.

Capitolo 22

LA COMUNE DI CHICAGO

La nostra qualità di agenti provocatori non solo ci permetteva di viaggiare molto, ma ci metteva in contatto col proletariato e con i nostri compagni rivoluzionari. Eravamo contemporaneamente nei due campi avversi, servendo con ostentazione il Tallone di Ferro, ma lavorando segretamente e con tutto l'ardore per la Causa. I nostri erano numerosi nei vari servizi segreti dell'oligarchia, e malgrado i rimaneggiamenti e le riorganizzazioni subiti dai servizi segreti, non sono mai stati eliminati del tutto.

Ernest aveva contribuito in massima parte al piano della Prima Rivolta, fissata per i primi giorni della primavera del 1918.

Nell'autunno del 1917, eravamo tutt'altro che preparati, e la Rivolta, scoppiando prematuramente, era destinata a fallire.

Naturalmente, in un piano così complicato, la fretta può essere fatale. Il Tallone di Ferro l'aveva previsto, e si era preparato.

Avevamo stabilito di lanciare il primo attacco contro il sistema nervoso dell'oligarchia. Questa non aveva dimenticato la lezione ricevuta al tempo dello sciopero generale e si era premunita contro la defezione dei telegrafisti installando stazioni telegrafiche protette dai Mercenari. Dal lato nostro, avevamo preso tutte le misure per parare questa mossa. Al segnale convenuto, da tutti i rifugi sparsi nel paese, da tutte le città, dai villaggi e dai baraccamenti, sarebbero usciti compagni fedeli che avrebbero fatto saltare le stazioni telegrafiche. In questo modo, fin dal primo urto il Tallone di Ferro sarebbe stato messo a terra e praticamente smembrato.

Nello stesso tempo, altri compagni avrebbero dovuto far saltare con la dinamite i ponti e le gallerie, interrompendo l'intera rete ferroviaria. Gruppi speciali avrebbero rapito gli ufficiali dei Mercenari e della polizia, come pure alcuni oligarchi di particolare rilievo o che esercitavano importanti funzioni. Così i capi nemici sarebbero stati allontanati dal campo di battaglia. E questa non avrebbe tardato a accendersi dappertutto.

Molte cose dovevano succedere contemporaneamente appena la parola d'ordine fosse stata data. I patrioti del Canada e del Messico, di cui il Tallone di Ferro non immaginava neppure la vera forza, si erano impegnati a imitare la nostra tattica. C'erano poi i compagni (le donne, perché gli uomini sarebbero stati impiegati diversamente) incaricati di affiggere i proclami stampati nelle nostre tipografie clandestine. Quelli fra noi che ricoprivano importanti impieghi nel Tallone di Ferro, avrebbero dovuto cercare con ogni mezzo di far precipitare nel disordine e nell'anarchia tutto i loro uffici. Avevamo migliaia di compagni fra i Mercenari.

Il loro compito consisteva nel far saltare i depositi e distruggere il delicato meccanismo dell'intera macchina bellica.

Operazioni analoghe sarebbero state compiute nelle città dei Mercenari e tra le caste operaie.

In una parola, volevamo assestare un colpo improvviso, magistrale e definitivo. L'oligarchia sarebbe stata distrutta prima di potersi riavere dallo stupore. Ci sarebbero stati momenti terribili e il sacrificio di molte vite, ma nessun rivoluzionario si lascia fermare da questo tipo di considerazione. Nel nostro piano, dipendevamo molto persino dal popolo non organizzato dell'abisso, che doveva essere sguinzagliato verso i palazzi e le città dei padroni. Che cosa importavano la perdita di vite e la distruzione delle proprietà? La bestia dell'abisso avrebbe ruggito, la polizia e i Mercenari avrebbero ucciso. Ma la bestia dell'abisso avrebbe ruggito per qualunque causa e gli sterminatori di professione avrebbero ucciso con ogni mezzo. Così, i vari pericoli che ci minacciavano si sarebbero neutralizzati a vicenda.

Nel frattempo, noi avremmo fatto il nostro lavoro, in gran parte indisturbati, e avremmo conquistato il controllo della macchina della società.

Tale era il nostro piano; ogni particolare, prima elaborato in segreto, era poi, via via che si avvicinava il momento dell'esecuzione, comunicato a un numero sempre crescente di compagni. Questo allargamento progressivo del complotto era il suo punto debole, pericoloso. Ma non ci si arrivò mai. Tramite il suo servizio di spionaggio, il Tallone di Ferro ebbe notizia della Rivolta, e si preparò a infliggerci una nuova e sanguinosa lezione. Chicago fu il posto scelto per la dimostrazione, che fu esemplare.

Di tute le città, Chicago era la più matura per la Rivoluzione (1). Chicago, chiamata un tempo la "città del sangue", avrebbe meritato di nuovo quel soprannome. Troppi scioperi vi erano stati soffocati al tempo del capitalismo perché gli operai potessero dimenticare o perdonare. La rivolta covava perfino tra le caste operaie della città. Sebbene queste avessero mutato condizione e avessero ottenuto molti favori, conservavano tuttavia un odio inestinguibile per la classe dominante. Questo stato d'animo aveva contaminato anche i Mercenari, tre reggimenti dei quali erano pronti a unirsi a noi, in massa.

Chicago era sempre stata un centro di conflitti fra lavoro e capitale, una città dove si combatteva nelle vie, dove le morti violente erano frequentissime, dove la coscienza di classe e l'organizzazione erano sviluppate tanto nei lavoratori quanto nei capitalisti; dove, un tempo, persino gli insegnanti formavano dei sindacati affiliati alla Confederazione Americana del Lavoro, insieme a quelli dei manovali e dei muratori. Chicago, dunque, divenne l'epicentro di quella prematura Prima Rivolta.

La situazione venne fatta precipitare dal Tallone di Ferro. Fu un'operazione molto abile. Tutta la popolazione, comprese le caste dei lavoratori privilegiati, fu sottoposta a un trattamento oltraggioso. Impegni e accordi furono violati: furono inflitti castighi severi per errori insignificanti. Il popolo dell'abisso fu svegliato a colpi di frusta dalla sua apatia. Il Tallone di Ferro in realtà si preparò a far ruggire la bestia.

Contemporaneamente, mostrò un'incredibile noncuranza per le misure di sicurezza più elementari. La disciplina s'era allentata fra i Mercenari rimasti sotto le armi mentre parecchi reggimenti erano stati trasferiti e sparsi in varie parti del paese.

Non ci volle molto per portare a termine questo programma: fu una faccenda di poche settimane. Noi rivoluzionari avemmo sentore che qualcosa stava succedendo, ma non disponevamo di elementi sufficienti per comprendere la verità. Pensavamo in realtà che si trattasse di uno spirito di rivolta spontaneo che avremmo dovuto incanalare e mai pensavamo che potesse essere invece preparato deliberatamente e così segretamente, nell'ambito del Tallone di Ferro, da non lasciar trapelare nulla a noi. L'organizzazione di quel movimento controrivoluzionario fu perfetta, come pure la sua esecuzione.

Ero a New York, quando ricevetti l'ordine di recarmi immediatamente a Chicago. L'uomo che mi trasmise quest'ordine era un oligarca, lo capii sentendolo parlare. Sebbene non conoscessi il suo nome, e non vedessi che il suo viso, quelle istruzioni erano troppo chiare perché potessi sbagliare. Chiaramente, mi resi conto che la nostra cospirazione era stata scoperta, e che eravamo stati anticipati. Tutto era pronto per l'esplosione e gli innumerevoli agenti del Tallone di Ferro, me compresa, avrebbero fatto scattare la scintilla, da lontano o recandosi sul posto. Mi vanto di aver conservato il mio sangue freddo, sotto lo sguardo scrutatore dell'oligarca; ma il cuore mi batteva all'impazzata.

Prima che avesse finito di dare i suoi ordini implacabili, avevo già voglia di urlare e di stringergli la gola fra le mani.

Appena via dalla sua presenza, feci il calcolo del tempo disponibile. Se la fortuna mi assisteva, potevo disporre di qualche minuto per mettermi in contatto con qualche dirigente locale, prima di saltare sul treno. Badando bene a non farmi pedinare, corsi come una pazza all'Ospedale di Pronto Soccorso, ed ebbi la fortuna di essere ricevuta immediatamente dal direttore sanitario, il compagno Galvin. Con l'affanno, stavo per comunicargli la notizia, quando mi interruppe:

"So tutto", disse, con una calma che contrastava col lampo dei suoi occhi irlandesi. "So perché sei venuta, ho ricevuto la notizia un quarto d'ora fa, e l'ho già trasmessa. Qui faremo tutto il possibile per tener calmi i compagni. Chicago, solo Chicago dev'essere sacrificata".

"Hai tentato di metterti in comunicazione con Chicago?" domandai.

Scosse la testa: "Nessuna comunicazione telegrafica è possibile.

Chicago è isolata dal resto del mondo, e vi si scatenerà l'inferno".

Tacque un istante, e lo vidi stringere i pugni. Poi esclamò:

"Perdio, vorrei andarci, però!".

"C'è ancora una possibilità per impedirlo", dissi, "se il mio treno non ha incidenti e arriva in tempo, oppure se altri compagni del servizio segreto che hanno saputo la verità fanno in tempo ad arrivarci".

"Voialtri vi siete lasciati sorprendere stavolta", disse.

"Il segreto era molto ben custodito", risposi. "Solo i massimi capi lo sapevano, fino a oggi. Poiché fino a loro ancora non siamo arrivati, eravamo dunque al buio. Se almeno Ernest fosse qui!

Forse è a Chicago ora, e allora tutto andrà bene".

Il dottor Calvin scosse il capo.

"Secondo le ultime notizie, dev'essere stato mandato a Boston o a New Haven. Il servizio segreto per il nemico lo deve urtare enormemente, ma è meglio che restare rinchiusi in un rifugio".

Mi alzai per andare, e Galvin mi strinse forte la mano.

"Fatti forza", mi raccomandò, salutandomi. "Se la prima rivolta è perduta, ne faremo una seconda, e saremo più prudenti. Arrivederci e buona fortuna. Non so se ti vedrò ancora. Dev'essere terribile laggiù, ma darei volentieri dieci anni di vita per esserci".

Il Twentieth Century (2) lasciava New York alle sei di sera per arrivare a Chicago alle sette del mattino. Quella sera era molto in ritardo. Seguivamo un altro treno. Nel mio vagone pullman fra gli altri passeggeri c'era il compagno Hartman, anche lui, come me, nel servizio segreto del Tallone di Ferro. Mi parlò del treno che ci precedeva. Era una replica del nostro, ma senza passeggeri a bordo. In caso di attentato al Twentieth Century, sarebbe saltato in aria il treno vuoto. A bordo del nostro, però, non c'era molta gente: contai appena dodici o tredici passeggeri nella nostra vettura.

"Devono esserci personaggi importanti su questo treno", disse Hartman, a mo' di conclusione. "Ho notato una carrozza riservata, in coda".

Era già notte, quando ci fu il primo cambio di locomotiva. Scesi sul marciapiedi per respirare un po' d'aria pura e per guardarmi un po' intorno. Dai finestrini del vagone riservato, intravidi tre uomini che conoscevo. Hartman aveva ragione: uno era il generale Altendorff, gli altri due, Mason e Vanderbold, che costituivano il cervello del servizio segreto dell'oligarchia.

Era una bella notte di luna piena, ma mi sentivo agitata e non potevo dormire. Alle cinque del mattino mi alzai e mi vestii .

Chiesi alla cameriera della toeletta quanto ritardo avevamo e mi rispose: "Due ore". Era una mulatta. Osservai che aveva i lineamenti tirati e gli occhi cerchiati, come dilatati da un'ansia continua.

"Cosa le succede?" domandai.

"Nulla, signorina, non ho dormito bene", rispose.

La guardai più attentamente, e tentai uno dei nostri segni convenzionali. Rispose, e mi assicurai così che era dei nostri.

"Sta per succedere qualcosa di terribile a Chicago", disse. "Siamo preceduti da un finto treno. Questo e quelli militari ci causano ritardo".

"Treni militari?".

Fece cenno di sì.

"La linea ne è piena. Li abbiamo incontrati tutta la notte. E tutti diretti a Chicago. Hanno tutti la precedenza e questo significa che c'è sotto qualcosa. Ho un amico a Chicago", soggiunse, con tono di scusa, "è uno dei nostri. E' fra i Mercenari, e temo per lui".

Povera ragazza! Il suo innamorato apparteneva a uno dei tre reggimenti infedeli.

Hartman e io facemmo colazione nel vagone restaurant, e io mi sforzai di mangiare. Il cielo era coperto e il treno filava con un cupo tuono nella prima luce grigia del giorno. Persino i negri che ci servivano sapevano che si stava preparando qualcosa di tragico.

Avevano perduto la loro solita spensieratezza e sembravano depressi. Erano lenti nel servire, avevano la mente rivolta altrove e bisbigliavano incupiti fra loro, in fondo al vagone, vicino alla cucina. Per Hartman la situazione era disperata.

"Che possiamo fare?" chiese per la ventesima volta, alzando le spalle. Poi, indicando il finestrino: "Ecco, tutto è pronto. Puoi star certa che ce n'è una fila così lungo tutta la strada ferrata".

Alludeva ai treni militari schierati sui binari morti. I soldati preparavano il rancio sui fuochi accesi vicino ai binari e guardavano, incuriositi, il nostro treno che proseguiva senza rallentare la sua corsa velocissima.

Quando entrammo in Chicago, tutto era tranquillo. Evidentemente niente di anormale era ancora accaduto. Alla periferia portarono a bordo i giornali del mattino. Non dicevano niente di nuovo, eppure chi sapeva poteva leggere fra le righe molte cose che sfuggivano al lettore comune. Si avvertiva lo scaltro intervento del Tallone di Ferro in ogni colonna. Si lasciavano intravedere alcuni punti deboli nell'armatura dell'oligarchia ma, s'intende, nulla di definitivo; si voleva che il lettore trovasse la spiegazione da sé, attraverso le allusioni. Tutto era raggiunto con molta destrezza. Come in letteratura, i giornali del mattino del 27 ottobre erano dei capolavori.

Mancavano le notizie locali, e questo di per sé era già un colpo maestro. Avvolgeva Chicago nel mistero, e suggeriva al lettore comune l'idea che l'oligarchia non osasse darne. C'erano accenni a sommosse, inventate naturalmente, atti di insubordinazione commessi un po' dappertutto, accompagnati da compiaciute allusioni ai provvedimenti repressivi da prendere. Si parlava di stazioni telegrafiche fatte saltare in aria, e di grossi premi per chi avesse collaborato alla scoperta degli autori. Naturalmente, nessuna stazione telegrafica era saltata in aria. Veniva dunque data notizia di molti colpi del genere, perfettamente rispondenti ai disegni dei rivoluzionari. Tutto questo doveva dare ai compagni di Chicago l'impressione che una rivolta generale stesse per cominciare, e nello stesso tempo creare una gran confusione mediante particolari su scacchi parziali. Chi non era ben informato non poteva sfuggire alla vaga ma certa sensazione che tutto il paese era pronto per una sommossa già cominciata.

Veniva annunciato che la defezione dei Mercenari in California era diventata così seria, che una mezza dozzina di reggimenti erano stati sbandati e dispersi, e che i soldati con le loro famiglie erano stati espulsi dalle loro città e rigettati nei ghetti operai. Ora i Mercenari di California erano, in realtà, i più fedeli di tutti ai loro padroni. Ma cosa ne sapevano a Chicago, isolata com'era dal resto del mondo ? Un dispaccio, mutilato durante la trasmissione, descriveva la sollevazione della cittadinanza di New York, che s'era unita alle caste operaie, e finiva affermando (la cosa doveva passare per un bluff) che le truppe avevano il sopravvento.

E non solo con la stampa gli oligarchi avevano tentato di divulgare notizie false. Venimmo a sapere dopo che, a più riprese, sul far della notte, erano giunti messaggi telegrafici destinati unicamente a essere intercettati dai rivoluzionari.

"Credo che il Tallone di Ferro non avrà bisogno di noi", osservò Hartman, mettendo via il giornale che stava leggendo, quando il treno entrò nella stazione centrale. "Era inutile mandarci qui. I loro piani sono riusciti meglio di quanto sperassero. L'inferno si scatenerà da un momento all'altro".

Mentre scendeva, si voltò a guardare in fondo al treno.

"L'immaginavo", disse. "Hanno sganciato il vagone riservato quando hanno portato a bordo i giornali".

Era prostrato. Tentai d'incoraggiarlo, ma non fece caso ai miei sforzi. A un tratto, mentre attraversavamo la stazione, si mise a parlare svelto a bassa voce. Sulle prime non capii.

"Non ne ero sicuro, e non ne ho parlato con nessuno", disse. "Da settimane tento l'impossibile, e ancora non sono sicuro. Stia attenta a Knowlton. Dubito di lui. Conosce il segreto di molti nostri rifugi. Ha in mano la vita di centinaia di noi, e credo che sia un traditore. La mia è solo un'impressione, finora, ma da un po' di tempo ho notato un certo cambiamento in lui. E' possibile che ci abbia venduti o, se non l'ha fatto, ha intenzione di farlo.

Ne sono quasi certo. Non potevo svelare i miei sospetti a nessuno ma, non so perché, sento che non lascerò vivo Chicago. Tenga d'occhio Knowlton. Cerchi di attirarlo in trappola. Lo smascheri.

Non so niente di più. E' solo un'intuizione, non ho nessun indizio".

In quel momento uscivamo dalla stazione.

"Ricordi", concluse Hartman, con tono frettoloso. "Tenga d'occhio Knowlton".

E aveva ragione: non trascorse un mese, e Knowlton pagò con la vita il suo tradimento. Fu formalmente giustiziato dai compagni del Milwaukee.

Le strade erano tranquille, troppo tranquille. Chicago sembrava morta. Non si sentiva il rombo e il frastuono del traffico, non passavano macchine. I tram erano fermi e la soprelevata non funzionava. Ogni tanto s'incontrava qualche passante solitario che tirava via alla svelta, verso una meta ben definita. S'indovinava tuttavia nella sua andatura un'indecisione strana, come se temesse che le case potessero crollare o che il marciapiede gli sprofondasse sotto i piedi. Qua e là, però, oziavano dei ragazzini e nei loro occhi si leggeva un'attesa contenuta, come se aspettassero avvenimenti meravigliosi e commoventi.

Da qualche parte, lontano a sud, giunse il rumore sordo di un'esplosione. Poi, più nulla. La calma ritornò; ma i ragazzini, allarmati, tendevano l'orecchio come giovani daini nella direzione del suono. Le porte delle case erano chiuse, le saracinesche dei negozi abbassate. Ma c'erano molti poliziotti e guardie in giro e ogni tanto una pattuglia di Mercenari sfrecciava in automobile.

Di comune accordo, Hartman e io giudicammo inutile presentarci ai capi locali del servizio segreto. Sapevamo che saremmo stati giustificati dagli avvenimenti successivi. Ci dirigemmo dunque verso il grande ghetto operaio della Zona Sud con la speranza di avvicinare qualcuno dei nostri compagni. Era troppo tardi. Ma non potevamo restare senza far niente in quelle strade spettrali e silenziose. Dov'era Ernest? Non facevo che chiedermelo. Cosa succedeva nelle caste operaie e in quelle dei Mercenari della città? E nella fortezza?

Come in risposta a questi interrogativi, s'udì nell'aria un rombo prolungato, un brontolio un po' attutito dalla distanza ma punteggiato da una serie di rapide detonazioni.

"E' la fortezza", esclamò Hartman. "Il cielo abbia pietà di quei tre reggimenti!".

A un incrocio, notammo, in direzione dei macelli, una gigantesca colonna di fumo. Al successivo ne vedemmo parecchie altre che s'innalzavano al cielo, dalla parte della Zona Ovest. Sopra la città dei Mercenari si librava un rosso pallone frenato che scoppiò proprio mentre lo guardavamo, lasciando cadere da ogni parte i suoi brandelli in fiamme. Nulla, però, lasciava pensare a una tragedia aerea, perché non sapevamo se nel pallone c'erano amici o nemici. Un vago rumore ci giunse agli orecchi, simile al ribollire lontano di una pentola gigantesca. Hartman disse che era il crepitio delle mitragliatrici e dei fucili automatici.

Ciò nonostante, intorno a noi c'era ancora calma. Passarono dapprima agenti di polizia e pattuglie in macchina, poi una mezza dozzina di autopompe che ritornavano evidentemente da un incendio.

Un ufficiale, a bordo di un'automobile, interrogò i pompieri, di cui uno rispose: "Non c'è acqua. Hanno fatto saltare le condutture principali".

"Abbiamo distrutto la provvista dell'acqua", osservò Hartman, entusiasta. "Se possiamo far questo in un tentativo di rivolta prematura, isolato e fallito sul nascere, immaginiamo cosa si può fare in un tentativo collettivo e concorde in tutto il paese!".

La macchina dell'ufficiale che s'era rivolto ai pompieri si allontanò rapidamente. All'improvviso scoppiò un fragore assordante: la vettura, col suo carico umano, fu sollevata in un turbine di fumo, poi precipitò in un mucchio di rottami e di cadaveri.

Hartman esultava. "Bene, bene", ripeteva a bassa voce. "Oggi il proletariato riceve una lezione, ma ne dà anche una".

La polizia accorse sul luogo del disastro. Un'altra pattuglia in auto s'era fermata. Quanto a me, ero come intontita dall'avvenimento improvviso. Non capivo che fosse accaduto sotto i miei occhi, e m'ero appena accorta che eravamo stati accerchiati dalla polizia. A un tratto, vidi un agente che stava per abbattere Hartman; ma questi, con sangue freddo, gli diede la parola d'ordine: vidi la rivoltella vacillare, poi abbassarsi, e sentii il poliziotto brontolare deluso. Era in collera e malediceva l'intero servizio segreto. Dichiarò che quella era gente sempre fra i piedi. Hartman gli rispose col caratteristico tono altezzoso degli agenti segreti, spiegandogli gli errori della polizia.

Poco dopo mi resi conto di quanto era accaduto. Parecchi curiosi si erano fermati, e due uomini stavano per sollevare l'ufficiale ferito per portarlo nell'altra automobile, ma furono presi da panico improvviso e tutti, spaventati, si sparpagliarono in varie direzioni. I due avevano lasciato cadere di colpo il ferito e correvano come gli altri. Anche l'agente che aveva bestemmiato si mise a correre, e Hartman e io facemmo lo stesso, senza sapere perché, spinti da un cieco terrore ad allontanarci al più presto da quel luogo fatale.

Non era successo nulla di particolare in quel momento; eppure mi spiegavo tutto. I fuggitivi ritornavano timidamente, ma, ogni tanto, alzavano gli occhi con apprensione verso le finestre delle alte case che dominavano da ogni parte la strada, come le pareti d'una gola dirupata. La bomba era stata lanciata da una di quelle innumerevoli finestre: ma quale? Non c'era stata una seconda bomba, soltanto la paura.

Dopodiché, scrutammo attentamente e con timore le finestre. La morte poteva essere in agguato dietro una di esse. Ogni casa poteva nascondere un'insidia. Era guerra, in quella giungla moderna che è una grande città. Ogni strada poteva essere un canyon, ogni edificio una montagna. Nulla era cambiato dai tempi dell'uomo primitivo, nonostante le autoblindo che ci ronzavano intorno.

Nel girare un angolo ci imbattemmo in una donna stesa a terra in un lago di sangue. Hartman si chinò su di lei. Io mi sentii svenire. Dovevo vedere molti morti, quel giorno, ma l'eccidio in massa non mi colpì come quel primo cadavere abbandonato là, ai miei piedi, sul lastricato.

"Colpita al petto", dichiarò Hartman.

La donna stringeva, sotto il braccio, un pacco di manifesti, come fosse un bambino. Anche morendo non aveva voluto staccarsi da quella che era stata la causa della sua morte. Infatti, quando Hartman riuscì a toglierle il pacco, vedemmo che era formato da grandi fogli stampati: erano i proclami dei rivoluzionari.

"Una compagna!" esclamai.

Hartman si limitò a maledire il Tallone di Ferro, e continuammo per la nostra strada. Fummo fermati più volte da agenti e pattuglie, ma le parole d'ordine ci permisero di proseguire. Non cadevano più bombe dalle finestre: sembrava che gli ultimi passanti fossero svaniti e le strade fossero tornate più tranquille che mai. Ma la gigantesca pentola continuava a ribollire in lontananza, il rumore sordo delle esplosioni giungeva da ogni parte, e colonne di fumo sempre più numerose levavano sempre più in alto i loro sinistri pennacchi.

NOTE:

1) Chicago era l'inferno industriale del diciannovesimo secolo. A questo proposito, è giunto fino a noi uno strano aneddoto di John Burns, grande dirigente socialista inglese ed ex membro del gabinetto. Stava visitando gli Stati Uniti quando, a Chicago, un giornalista gli domandò cosa pensasse di quella città:

"Chicago", rispose, "è un'edizione tascabile dell'inferno". Poco tempo dopo, mentre s'imbarcava per ritornare in Inghilterra, un altro giornalista lo avvicinò per chiedergli se aveva cambiato opinione su Chicago: "Sì, certamente", rispose John Burns. "Ora la mia opinione è che l'inferno sia un'edizione tascabile di Chicago".

2) Letteralmente: ventesimo secolo. Così si chiamava il treno ritenuto a quel tempo il più veloce del mondo. Era molto famoso.

Capitolo 23

IL POPOLO DELL'ABISSO

Improvvisamente le cose cambiarono; un fremito di animazione sembrò vibrare nell'aria. Passarono sfrecciando due, tre, una dozzina di auto con a bordo persone che ci gridavano avvertimenti.

All'incrocio successivo, una delle macchine fece una svolta stretta senza rallentare e un istante dopo, al posto che aveva appena lasciato e dal quale era già lontana, I'esplosione di una bomba scavava una gran buca. Vedemmo la polizia sparire correndo per le vie laterali: sapevamo che qualcosa di spaventoso si avvicinava. Ne sentivamo il brontolio crescente.

Potemmo già vedere la testa della colonna che occupava la strada da un marciapiede all'altro, mentre l'ultima autoblindo sfrecciava via. Poi, giunta alla nostra altezza, questa si fermò. Ne scese in fretta un soldato: recava qualcosa che depose con molta precauzione nel rigagnolo del marciapiede, poi ritornò con un balzo al suo posto. L'autoblindo ripartì, girò all'angolo e scomparve. Hartman corse verso il rigagnolo e si chinò sull'oggetto.

"Non si avvicini", mi gridò.

Lo vidi armeggiare febbrilmente. Quando mi raggiunse, aveva la fronte imperlata di sudore.

"Ho tolto l'innesco", disse, "e al momento giusto. Quel soldato è un incapace: l'aveva destinata ai nostri compagni, ma non aveva calcolato il tempo giusto. Sarebbe scoppiata prima. Ora non scoppierà più".

Gli avvenimenti precipitavano. Dall'altro lato della via, un po' più lontano, alle finestre di un caseggiato, distinguevo delle persone che guardavano. Avevo appena finito di farlo osservare a Hartman, quando fiamme e fumo si svilupparono su quella parte della facciata, e l'aria fu scossa da un'esplosione. In alcuni punti, l'intonaco caduto mostrava l'armatura di ferro al di sotto.

Poco dopo, la facciata della casa di fronte era dilaniata da altre esplosioni simili. Nell'intervallo si sentirono crepitare pistole e fucili automatici. Quel duello durò parecchi minuti, poi si spense. Evidentemente i nostri compagni occupavano uno dei caseggiati, e i Mercenari quello di fronte, e gli avversari si combattevano attraverso la strada; ma non potevamo sapere da quale parte fossero i nostri.

In quel momento, la colonna che procedeva sulla strada era giunta quasi alla nostra altezza. Appena le prime file passarono sotto le finestre delle case rivali, il bombardamento riprese con forza. Da un lato si gettavano bombe nella strada, dall'altro se ne lanciavano contro la casa di fronte, che rispondeva al fuoco. Ora sapevamo quale fosse la casa occupata dai nostri, i quali facevano un buon lavoro, difendendo la gente della strada dalle bombe del nemico.

Hartman mi prese per un braccio e mi tirò dentro un vasto androne.

"Non sono i nostri compagni", mi disse all'orecchio.

Le porte interne sotto quell'androne erano chiuse e sprangate. Non avevamo via di scampo. In quel momento la testa della colonna passò. Non era una colonna, ma una confusa massa di gente, un torrente inquieto che riempiva la via; era il popolo dell'abisso esaltato e assetato che s'era levato ruggendo per chiedere il sangue dei padroni. L'avevo già visto, quel popolo dell'abisso, avevo attraversato i suoi ghetti e credevo di conoscerlo, eppure mi sembrava di vederlo per la prima volta. La sua muta apatia era svanita: dava ora uno spettacolo affascinante e terribile. Mi si levava ora davanti in vere ondate di rabbia, ruggendo e brontolando, carnivoro, ebbro del whiskey dei depositi assaliti, ebbro d'odio e della sete di sangue. Uomini, donne e bambini, in cenci e stracci, feroci e cupe intelligenze senza più sembianze umane nei volti, ma bestiali, tigri ormai, incarnati anemici e gran ciuffi di peli, volti pallidi a cui la società vampiro aveva succhiato la linfa vitale; megere appassite e vecchi barbuti dalla testa di morto, gioventù corrotta e vecchiaia cancrenosa, facce di demoni, asimmetriche e torve, corpi deturpati dalla malattia e dal morso d'una eterna carestia, feccia e schiuma della vita, orde urlanti, epilettiche, arrabbiate, diaboliche.

Poteva forse essere altrimenti? Il popolo dell'abisso non aveva nulla da perdere, fuorché la sua miseria e la pena di vivere. E che cosa aveva da guadagnare? Null'altro che un'orgia finale e terribile di vendetta. Mi venne da pensare che in quel torrente di lava umana ci fossero degli uomini, dei compagni, degli eroi, la cui missione era stata quella di sollevare la bestia dell'abisso affinché il nemico potesse domarla.

Allora mi accadde una cosa sorprendente; avvenne in me una trasformazione. La paura della morte, mia o degli altri, mi aveva abbandonata. Per una strana esaltazione, mi sentivo una creatura nuova in una nuova vita. Nulla aveva importanza. La Causa era perduta, questa volta, ma avrebbe potuto trionfare domani, più giovane e ardente che mai. Così potei osservare con calmo interesse gli orrori che si scatenarono nelle ore successive. La morte non significava nulla, ma la vita non significava di più.

Ora osservavo gli avvenimenti con attenta obiettività; trascinata dalla corrente, vi prendevo parte con la stessa curiosità. La mia mente s'era levata alla fredda altezza delle stelle e aveva colto, impassibile, una nuova scala dei valori. Se non avessi fatto così credo che sarei morta.

Mezzo miglio già di folla era sfilato quando fummo scoperti. Una donna, vestita di stracci incredibili, con le guance infossate e gli occhi neri, profondi, ci scoprì. Subito mandò un mugolio acuto e si precipitò verso di noi, trascinandosi dietro parte della folla. Mi sembra ancora di vederla mentre avanzava a balzi davanti agli altri, con i capelli grigi svolazzanti, il sangue che le colava dalla fronte e dalle ferite al capo. Brandiva un'ascia in una mano, mentre l'altra, secca e rugosa, sembrava stringere convulsamente il vuoto, come artigli di uccello da preda. Hartman si lanciò davanti a me. Il momento non era adatto alle spiegazioni. Eravamo vestiti decentemente, e ciò bastava.

Il suo pugno colpì la donna fra gli occhi, che, per la forza del colpo, fu rigettata indietro; ma incontrato il muro dei compagni che avanzavano rimbalzò avanti, stordita e confusa, mentre l'ascia si abbatteva senza forza sulla spalla di Hartman.

Un attimo dopo non capii più nulla. Ero sommersa dalla folla. Lo stretto spazio in cui eravamo risuonava di imprecazioni, urla e bestemmie. Colpi mi piovevano addosso. Mani mi strappavano e laceravano gli abiti e la carne. Ebbi la sensazione di essere fatta a pezzi. Sul punto d'essere rovesciata, soffocata, ecco una mano vigorosa afferrarmi per una spalla e trarmi violentemente.

Sopraffatta dalla sofferenza, svenni. Hartman non uscì vivo da quell'androne; per difendermi aveva affrontato lui il primo urto.

Questo mi aveva salvato, perché subito dopo la calca era diventata così fitta, che non era stato possibile fare altro contro di me che agitare mani e stringere pugni.

Ripresi coscienza nel mezzo di una sfrenata agitazione; intorno a me tutto s'agitava. Ero trascinata da una mostruosa ondata che mi portava, non sapevo dove. L'aria fresca mi accarezzava la fronte e dava forza ai polmoni. Stordita e debole, sentivo vagamente che un braccio solido mi circondava la vita, sollevandomi e portandomi avanti. Vedevo agitarsi davanti a me la parte posteriore di un soprabito d'uomo che, con una spaccatura dall'alto al basso, lungo la cucitura centrale, palpitava come un polso regolare, aprendosi e chiudendosi al ritmo dell'andatura. Quel fenomeno mi affascinò, finché non ripresi completamente coscienza. Poi sentii mille punture di spilli nelle guance e nel naso, e mi accorsi che il viso mi grondava sangue. Il mio cappello era sparito e i capelli, disfatti, ondeggiavano al vento. Un forte dolore alla testa mi fece ricordare di una mano che nella mischia mi aveva strappato i capelli. Il petto e le braccia erano coperti di lividi e doloranti.

Le idee mi si chiarivano. Senza fermarmi nella corsa mi voltai a guardare l'uomo che mi sosteneva e che mi aveva strappata alla folla e salvata. Lui notò il mio movimento.

"Tutto bene", esclamò con voce rauca. "L'ho subito riconosciuta".

Io non lo riconoscevo ancora; ma prima di dire una parola mi accorsi di camminare su qualcosa di vivo, che si contrasse sotto il mio piede. Spinta da quelli che mi seguivano, non potei chinarmi a vedere, ma seppi che era una donna caduta che migliaia di piedi calpestavano senza tregua sul selciato.

"Tutto bene", ripeté l'uomo. "Sono Garthwaite".

Era barbuto, magro e sudicio, ma potei riconoscere in lui il robusto giovane che tre anni prima aveva passato qualche mese nel nostro rifugio di Glen Ellen. Mi diede la parola d'ordine del servizio segreto del Tallone di Ferro per farmi capire che anche lui ne faceva parte.

"La libererò io, appena ne avrò l'occasione", mi disse. "Ma cammini con precauzione, e stia attenta a non fare un passo falso, e a non cadere: ne va di mezzo la vita!".

Tutto succedeva all'improvviso, quel giorno: bruscamente, di colpo, la folla si fermò. Urtai violentemente una donna che mi precedeva (l'uomo dal cappotto con lo spacco era scomparso) e quelli che mi seguivano mi piombarono addosso. L'inferno s'era scatenato, con una cacofonia di urli, maledizioni, grida d'agonia, che dominavano il crepitio delle mitragliatrici e delle fucilate.

La donna che mi precedeva si piegò su se stessa, stringendosi il ventre con una stretta disperata. Contro le mie gambe un uomo si dibatteva negli spasimi della morte.

Mi accorsi che eravamo alla testa della colonna. Non ho mai saputo come mai fosse scomparso quel mezzo miglio di umanità che ci precedeva, e mi chiedo ancora se sia stato distrutto da qualche spaventosa macchina da guerra e ridotto a pezzi, o se abbia potuto fuggire disperdendosi. Il fatto è che eravamo là, in testa alla colonna, e non più in mezzo, e che in quel momento eravamo falciati da una sibilante pioggia di piombo.

Appena la morte fece un po' di vuoto, Garthwaite, che non aveva abbandonato il mio braccio, si precipitò alla testa di una colonna di sopravvissuti verso il largo porticato di un palazzo di uffici.

Fummo schiacciati contro le porte da una massa di creature ansanti, trafelate, e rimanemmo a lungo in quell'orribile posizione.

"Che cosa ho mai fatto!" si lamentava Garthwaite. "L'ho trascinata in una bella trappola. Nella strada potevamo avere qualche speranza, qui non ne abbiamo alcuna. Non ci rimane altro che gridare: Vive la Révolution!". Poi ebbe inizio quel che c'era da aspettarsi. I Mercenari uccidevano senza tregua. La spaventosa pressione esercitata prima su di noi, diminuiva in proporzione alle uccisioni. I morti e i moribondi, cadendo, facevano largo.

Garthwaite mise la bocca sul mio orecchio e mi gridò delle parole che non riuscii a cogliere in mezzo a quel chiasso assordante.

Senza aspettare oltre, mi prese, mi gettò a terra e mi coprì col corpo di una donna agonizzante. Poi, a forza di spingere e stringere, scivolò vicino a me, riparandomi in parte, col suo corpo.

Morti e moribondi si ammucchiavano sopra di noi e su quel mucchio, i feriti si trascinavano gemendo. Ma quei movimenti cessarono ben presto e regnò un mezzo silenzio, interrotto da gemiti, sospiri e rantoli.

Sarei rimasta schiacciata senza l'aiuto di Garthwaite, eppure, nonostante i suoi sforzi, mi sembra incredibile che abbia potuto sopravvivere a una simile compressione. Tuttavia, a parte la sofferenza, ero vinta da un senso di curiosità. Come sarebbe andata a finire? Che cosa avrei provato morendo? In questo modo ricevetti il battesimo di sangue, il battesimo rosso, nella strage di Chicago. Sino ad allora, avevo considerato la morte in teoria, ma da allora essa fu per me un fatto senza importanza, tanto è facile.

Ma i Mercenari non erano ancora soddisfatti. Invasero il portico per finire i feriti e cercare gli scampati che, come noi, si fingevano morti. Sentii un uomo, strappato di sotto un mucchio, implorare pietà, sinché un colpo di rivoltella non gli spezzò la parola a metà. Una donna si lanciò da un altro mucchio grondando sangue e, spianando la rivoltella, sparò. Prima di soccombere scaricò sei volte l'arma, con quale risultato non seppi, perché seguivamo quelle tragedie solo con l'udito. A ogni istante ci giungevano folate di rumori di scene simili, di cui ognuna finiva con un colpo di arma da fuoco. Negli intervalli sentivamo i soldati parlare e bestemmiare fra i cadaveri, incitati dai loro ufficiali.

Finalmente, si rivolsero al nostro mucchio e sentimmo la pressione diminuire man mano che toglievano i morti e i feriti. Garthwaite pronunciò la parola d'ordine. Dapprima non lo udirono. Alzò un po' più la voce.

"Ascoltate", disse un soldato. E subito si udì l'ordine breve di un ufficiale.

"Attenzione là: fate piano".

Oh, quella prima boccata d'aria mentre ci liberavano! Garthwaite parlò per primo, ma dovetti sottostare anch'io a un breve interrogatorio per provare che ero proprio al servizio del Tallone di Ferro.

"Sono proprio agenti provocatori", concluse l'ufficiale.

Era un giovane imberbe, un cadetto di qualche grande famiglia di oligarchi.

"Brutto mestiere", brontolò Garthwaite. "Darò le mie dimissioni e cercherò di entrare nell'esercito. Siete fortunati, voialtri!".

"Lo meriterebbe", rispose l'ufficialetto. "Posso darle una mano e cercare di sistemare la cosa. Basterà che dica come vi ho trovati".

E, segnato il nome e il numero di Garthwaite, si volse dalla mia parte:

"E lei?".

"Oh! io mi sposo", risposi con disinvoltura, "e mando tutto a quel paese".

Così ci mettemmo a chiacchierare tranquillamente, mentre i feriti attorno a noi venivano finiti. Tutto questo oggi mi sembra un sogno, ma in quel momento mi sembrava la cosa più naturale del mondo. Garthwaite e l'ufficialetto si impegolarono in una vivace discussione sulla diversità fra i metodi di guerra moderni e quella guerriglia urbana tra strade e grattacieli. Io li ascoltavo mentre mi pettinavo e aggiustavo alla meglio con degli spilli gli strappi della gonna. Intanto, il massacro dei feriti continuava. A volte i colpi di rivoltella coprivano la voce di Garthwaite e dell'ufficiale e li obbligavano a ripetersi.

Ho passato tre giorni in quel carnaio della Comune di Chicago, e posso dare un'idea della sua incredibilità dicendo che in quei tre giorni non vidi altro che il massacro del popolo dell'abisso e le battaglie da un grattacielo all'altro. In realtà, non ho visto nulla dell'opera eroica compiuta dai nostri. Ho sentito l'esplosione delle loro mine e delle loro bombe, ho visto il fumo degli incendi appiccati da loro e nient'altro. Però ho seguito in parte una grande azione, l'attacco alle fortezze in pallone, operato dai nostri compagni. Ciò avvenne il secondo giorno. I tre reggimenti ribelli furono distrutti fino all'ultimo uomo. Le fortezze erano zeppe di Mercenari; il vento soffiava in direzione favorevole e i nostri aerostati partivano da un caseggiato della City.

Il nostro amico Biedenbach, dopo la sua partenza da Glen Ellen, aveva inventato un esplosivo potentissimo battezzato da lui col nome di "espredite". Quei palloni erano certo muniti delle sue cariche infernali. Erano semplici mongolfiere, gonfiate con aria calda, grossolanamente costruite in fretta, ma che bastarono alla loro missione. Seguii la scena da un tetto vicino. Il primo pallone mancò completamente il bersaglio e scomparve nella campagna. In seguito però, ne avremmo sentito ancora parlare. Era pilotato da Burton e O'Sullivan, che scesero, lasciandosi andare alla deriva, sopra una ferrovia proprio mentre passava un treno militare lanciato a tutta velocità verso Chicago. I due lasciarono cadere tutto il carico di espredite sulla locomotiva, i cui rottami ostruirono la strada per parecchi giorni. Il bello è che il pallone, alleggerito del carico di esplosivo, fece un salto in aria e atterrò solo una dozzina di miglia lontano, di modo che i nostri due eroi furono sani e salvi.

Il secondo pallone finì tragicamente. Volava male e troppo basso, perciò fu colpito dalle fucilate e crivellato come un colabrodo, prima di giungere alla fortezza. Aveva a bordo Hertford e Guinnes, che saltarono in aria insieme con il campo su cui si abbatterono.

Biedenbach ne fu disperato (tutto questo ci fu detto dopo), tanto che s'imbarcò da solo sul terzo pallone. Anche lui volò troppo basso, ma la sorte gli fu favorevole, perché i soldati non riuscirono a danneggiare il pallone. Mi sembra di rivedere tutta la scena come la seguii allora dal tetto del grattacielo. Il sacco gonfio in alto e l'uomo appeso di sotto come un puntino nero. Non riuscivo a scorgere la fortezza, ma quelli che erano con me sul tetto dicevano che era proprio sotto il pallone. Non vidi cadere il carico di espredite, ma vidi il pallone fare un balzo in alto.

Un attimo dopo una colonna di fumo s'innalzò nell'aria, e solo dopo udii il tuono dell'esplosione. Il mite Biedenbach aveva distrutto una fortezza. Dopo, due altri palloni si levarono contemporaneamente. Uno fu distrutto dall'esplosione dell'espredite, l'altro, spaccato dal contraccolpo, cadde proprio sulla fortezza che era rimasta ancora intatta e la fece saltare in aria. Non poteva andar meglio, sebbene due compagni ci rimettessero la vita.

Ma ritorniamo al popolo dell'abisso, perché in realtà ebbi contatto solo con esso. Quella gente massacrò con rabbia, distrusse tutto il centro della città e fu distrutta a sua volta, ma non riuscì a raggiungere la Zona Ovest, la città degli oligarchi. Questi s'erano ben premuniti: per quanto terribile potesse essere la devastazione al centro, essi, con le loro mogli e i loro bambini, dovevano uscirne incolumi. Si dice che durante quelle giornate, i loro figli si divertissero nei parchi, e che il tema favorito dei loro giochi fosse l'imitazione dei grandi che schiacciavano sotto i piedi il proletariato.

Ma per i Mercenari non fu facile affrontare il popolo dell'abisso e al tempo stesso combattere anche contro i nostri. Chicago restò fedele alle sue tradizioni, e se tutta una generazione di rivoluzionari fu distrutta, essa trascinò con sé, nella sua caduta, quasi una generazione di nemici. Naturalmente, il Tallone di Ferro tenne segreta la cifra delle proprie perdite, ma anche a voler essere cauti si può calcolare in centotrentamila il numero dei Mercenari uccisi. Sfortunatamente, i nostri compagni non avevano speranza di successo. Invece che sostenuti da una rivolta di tutto il paese, erano soli, e l'oligarchia poteva disporre, contro di loro, della totalità delle sue forze. In quell'occasione, ora per ora, giorno per giorno, treno per treno, a centinaia di migliaia furono riversate truppe a Chicago. Ma il popolo dell'abisso era infinito.

Stanchi di uccidere, i soldati intrapresero una vasta manovra avvolgente che doveva finire col cacciare la plebaglia, come bestiame, nel lago Michigan. Appunto agli inizi di questa manovra, Garthwaite e io avevamo incontrato l'ufficialetto. Il piano fallì, grazie al lavoro meraviglioso dei compagni. I Mercenari, che speravano di riunire tutta la massa in un solo gregge, riuscirono a precipitare nel lago non più di quaranta infelici. Accadeva spesso che mentre qualche gruppo era trascinato verso il molo, i nostri amici creavano una diversione e la folla scappava da qualche breccia praticata nelle file.

Ne avemmo un esempio, poco dopo il nostro incontro con l'ufficiale. La colonna di cui avevamo fatto parte e che era stata respinta, trovò la ritirata chiusa verso sud e verso est da forti contingenti di truppe. Intanto, quelle che avevamo incontrato verso sud stringevano ora dal lato ovest. Il nord rimaneva l'unica via aperta, e appunto verso il nord s'incamminò la colonna, ossia verso il lago, tormentata sugli altri tre lati dal tiro delle mitragliatrici e dei fucili automatici. Ignoro se quel gruppo presentì la propria sorte o se il fatto avvenne per un sussulto istintivo del mostro; comunque sia, la folla improvvisamente si incolonnò per una traversale, verso ovest, poi al primo incrocio ritornò indietro, e si diresse a sud, verso il grande ghetto.

In quel preciso momento, Garthwaite e io tentavamo di raggiungere l'ovest per uscire dalla zona dei combattimenti, e ripiombammo nel pieno della mischia. Svoltando un angolo, vedemmo la moltitudine urlante che si precipitava verso di noi. Garthwaite mi prese per un braccio. Stavamo per metterci a correre quando mi trattenne in tempo per impedirmi di essere travolta dalle ruote di una mezza dozzina di autoblindo armate di mitragliatrici che accorrevano a tutta velocità, seguite da soldati armati di fucili automatici.

Mentre prendevano posizione, ecco che la folla gli si precipitò contro, come per sommergerli prima che potessero aprire il fuoco.

Qua e là qualche soldato scaricò il suo fucile, ma quegli spari isolati non facevano nessun effetto sulla turba che continuava ad avanzare, muggendo di furore. Evidentemente era difficile manovrare le mitragliatrici. Le autoblindo sulle quali erano montate sbarravano la via, in modo che i soldati dovevano prender posizione in mezzo a esse o sul marciapiede. Altri soldati sopraggiungevano, in numero sempre crescente, e noi due non riuscivamo a tirarci fuori da quel pasticcio. Garthwaite mi teneva sempre per un braccio, e tutt'e due eravamo quasi schiacciati contro la facciata di una casa.

La folla era a meno di dieci metri, quando le mitragliatrici aprirono il fuoco. Nessuno poteva sopravvivere a quella mortale scarica di piombo. La calca aumentava sempre, ma la folla non avanzava più, si ammucchiava in un enorme cumulo, in un'onda sempre crescente di morti e moribondi. Quelli che stavano dietro spingevano gli altri avanti, e la colonna, da un marciapiede all'altro, pareva rientrare in se stessa come un cannocchiale. I feriti, uomini e donne, rigettati sopra la cresta di quell'orribile flusso, arrivavano dibattendosi fin sotto le ruote delle autoblindo, fra i piedi dei soldati che li trafiggevano con le baionette. Vidi però uno di quegli infelici rimettersi in piedi e saltare addosso a un soldato e morderlo alla gola. Tutt'e due, soldato e schiavo, rotolarono, strettamente allacciati, nel fango.

Il fuoco cessò. Il lavoro era finito. La calca era stata arrestata nel suo folle tentativo di aprirsi un varco. Fu dato l'ordine di sgombrare le vie delle autoblindo. Ma non potevano avanzare su quel mucchio di cadaveri, e l'ordine fu di imboccare una strada traversale. I soldati stavano per levare i corpi di sotto alle ruote, quando successe il fatto. Venimmo a sapere dopo com'era avvenuto. In fondo all'isolato c'era un edificio occupato da un centinaio di compagni, i quali, avanzando sui tetti da un edificio all'altro, erano arrivati proprio sopra i Mercenari ammassati nella via. Allora avvenne il contro-massacro.

Senza alcun preavviso, una pioggia di bombe cadde dall'alto dell'edificio. Le autoblindo furono fatte a pezzi, e con esse molti soldati. Insieme con i sopravvissuti, noi due ci ritirammo in una folle corsa. All'estremità opposta dell'isolato fu ancora aperto il fuoco su di noi dall'alto di un altro edificio. I soldati avevano coperto di cadaveri la strada; toccava a loro, ora, di far da tappeto. Garthwaite e io sembravamo protetti da una magia. Come prima, ci rifugiammo sotto un portico, ma questa volta il mio compagno non intendeva lasciarsi prendere. Quando lo scoppio delle bombe cessò, gettò uno sguardo a destra e a sinistra.

"La plebaglia ritorna", mi gridò. "Bisogna uscire da qui".

Corremmo, tenendoci per mano, sul marciapiede insanguinato, scivolando, affrettandoci verso l'angolo tranquillo più vicino.

Nella strada traversale scorgemmo alcuni soldati che scappavano.

Non c'era nessun pericolo: la via era libera. Ci fermammo a guardare indietro. La folla avanzava ora lentamente, era intenta ad armarsi dei fucili dei morti e a finire i feriti. Vedemmo la fine dell'ufficialetto che ci aveva salvati. Si sollevò a fatica su un gomito e scaricò la sua pistola automatica.

"Ecco la mia probabilità di promozione che se ne salta!" disse Garthwaite ridendo, mentre una donna si lanciava sul ferito, brandendo un coltello da macellaio. "Andiamocene. E' la direzione sbagliata, ma ne usciremo in qualche modo".

Fuggimmo verso est, attraverso strade tranquille, e a ogni svolta ci tenevamo pronti a ogni eventualità. Verso sud, un immenso incendio illuminava il cielo; era il grande ghetto che bruciava.

Alla fine crollai sull'orlo del marciapiede, sfinita, incapace di fare più un solo passo. Ero piena di lividi e scorticature, e il corpo mi doleva tutto. Eppure, trovai la forza di ridere quando Garthwaite disse, arrotolando una sigaretta:

"So che mi sono cacciato in un grande pasticcio per cercare di salvarla, perché non vedo proprio nessuna soluzione. E' un vero e proprio caos. Ogni volta che cerchiamo di uscirne, succede qualcosa che ci ributta dentro. Siamo ad appena uno o due isolati dal luogo in cui l'ho salvata. Amici e nemici, sono tutti confusi insieme. E' un caos. Non si sa da chi siano occupati questi maledetti edifici. Se cerchi di scoprirlo, ti becchi una bomba in testa. Se cammini tranquillamente, t'imbatti nella plebaglia e sei falciato dalle mitragliatrici, oppure incappi nei Mercenari e sei fatto a pezzi dai compagni appostati su un tetto. E per giunta, la plebaglia arriva e ti uccide".

Scosse malinconicamente la testa, accese una sigaretta e sedette accanto a me.

"E come se non bastasse, ho una fame..." soggiunse. "Mangerei le pietre".

Un attimo dopo, era in piedi per cercare effettivamente una pietra in mezzo alla strada: la prese per rompere la vetrina di un negozio.

"E' un pianterreno e non vale niente", spiegò mentre mi aiutava a passare per l'apertura praticata. "Ma non possiamo cercare di meglio. Ora lei si farà un sonnellino e io andrò in ricognizione.

Finirò bene per toglierla dall'impaccio, ma ci vorrà tempo, chissà quanto... e qualcosa da mangiare".

Eravamo in una bottega di finimenti. Mi improvvisò un letto con delle coperte da cavallo nell'ufficio sul retro. Sentivo sopraggiungere una terribile emicrania e fui felice di chiudere gli occhi per tentare di dormire.

"Ritorno subito", disse lui, lasciandomi. "Non assicuro che troverò un'automobile, ma certo porterò qualcosa da mangiare".

E quella fu l'ultima volta che lo vidi. Lo incontrai solo tre anni dopo! Non ritornò: fu mandato in un ospedale, con una pallottola in un polmone e un'altra nella nuca.

Capitolo 24

INCUBO

Non avevo chiuso occhio la notte prima sul Twentieth Century, e questo, unito alla stanchezza, fece sì che ora mi addormentai profondamente. Quando mi svegliai la prima volta, era già notte.

Garthwaite non era ritornato. Avevo perso l'orologio e non avevo idea di che ora fosse. Distesa lì, con gli occhi chiusi udivo lo stesso cupo rombo di lontane esplosioni. L'inferno ancora infuriava. Mi trascinai attraverso la bottega fino all'ingresso. I riflessi nel cielo di grossi incendi illuminavano la strada a giorno, al punto che si sarebbe potuto leggere facilmente i caratteri più minuti. Da vari isolati di distanza giungeva il crepitio delle bombe a mano e delle mitragliatrici, e da più lontano l'eco di una serie di forti esplosioni. Ritornai al mio letto di coperte e mi riaddormentai.

Quando mi svegliai di nuovo, una luce gialla, debole, filtrava fino a me. Era l'alba del secondo giorno. Ritornai verso l'ingresso del negozio: il cielo era coperto da una nube di fumo striata da lampi lividi. Dall'altro lato della strada, stava avanzando un povero schiavo. Con una mano premuta su un fianco, si lasciava dietro una scia di sangue. Gli occhi, pieni di spavento, giravano in tutte le direzioni e si fissarono un istante su di me.

Il volto aveva l'espressione patetica e muta di un animale ferito e perseguitato. Mi vide, ma non si stabilì nessun legame fra noi, né, da parte sua almeno, la minima simpatia. Si piegò su se stesso, e si trascinò oltre. Non poteva aspettarsi nessun aiuto al mondo: era una delle prede perseguitate in quella grande caccia organizzata dai padroni. Tutto ciò che poteva sperare, tutto ciò che cercava era un buco dove nascondersi come una bestia selvatica. Lo scampanio di un'ambulanza che passava all'angolo lo fece sussultare. Le ambulanze non erano fatte per i suoi simili.

Con un gemito, si lanciò nell'ombra di un portico. Un attimo dopo, riprese il suo cammino disperato.

Ritornai alle mie coperte e aspettai ancora per un'ora il ritorno di Garthwaite. Il mal di testa non era scomparso, anzi aumentava.

Dovevo compiere uno sforzo di volontà per aprire gli occhi, e quando li volevo fissare su un oggetto, era una vera tortura. Il cervello mi pulsava dolorosamente. Debole e vacillante, uscii in strada passando dalla vetrina rotta, cercando istintivamente e a caso di sfuggire a quell'orribile massacro. Da quel momento vissi in un incubo. Il ricordo di ciò che successe nelle ore successive è quello di un incubo. Alcuni avvenimenti mi sono rimasti nettamente impressi, con immagini indelebili separate da intervalli di incoscienza, durante i quali avvennero cose che ignoro e che non saprò mai.

Ricordo di essere inciampata sull'angolo nelle gambe di un uomo:

era il povero diavolo di poco prima, che si era trascinato fin là e s'era steso a terra. Rivedo distintamente le sue povere mani nodose, simili più a zampe e artigli che a mani, tutte storte e deformate dal lavoro quotidiano, con i palmi coperti da enormi calli. Ripreso il mio equilibrio, guardai la faccia di quel disgraziato e vidi che era ancora vivo; i suoi occhi mi fissavano vagamente e mi vedevano.

Dopo, nella mia mente non ci sono altro che benefiche lacune. Non sapevo più nulla, non vedevo più nulla: mi trascinavo semplicemente in cerca di un rifugio. Poi, l'incubo continuò, alla vista di una strada coperta di cadaveri. Mi ci trovai improvvisamente, come un vagabondo che incontri inaspettatamente un corso d'acqua. Ma quel fiume non scorreva: indurito dalla morte, uguale, uniforme, si stendeva da un capo all'altro della strada e copriva perfino i marciapiedi. A intervalli, come ghiacci stratificati, dei mucchi di cadaveri ne rompevano la superficie.

Quella povera gentei dell'abisso, quei poveri servi perseguitati giacevano là come conigli di California dopo una battuta (l).

Osservai quella strada di morte nelle due direzioni; non un movimento, non un rumore. Gli edifici, muti, guardavano la scena con le loro numerose finestre. Una volta però, una volta sola, vidi un braccio muoversi in quel fiume letargico. Avrei giurato che quel braccio si contorceva in un gesto di agonia; e con esso si levò una testa insanguinata, orribile spettro che mi borbottò parole inarticolate e ricadde e non si mosse più.

Vedo ancora un'altra strada fiancheggiata da case tranquille, e ricordo il panico che mi richiamò violentemente alla ragione quando mi ritrovai davanti al popolo dell'abisso: questa volta era una corrente che si riversava verso di me. Poi mi accorsi che non avevo nulla da temere. La corrente se ne andava lentamente e dalla sua profondità sorgevano gemiti, lamenti, maledizioni, discorsi insensati per intontimento o isterismo. Essa trascinava con sé giovanissimi e vecchi, deboli, ammalati, impotenti e disperati, tutti i rifiuti dell'abisso. L'incendio nel grande ghetto della Zona Sud li aveva vomitati nell'inferno della lotta in strada, e non ho mai saputo dove andassero né ciò che accadde di loro (2).

Ho il vago ricordo di aver rotto una vetrina e di essermi nascosta in una bottega, per sfuggire a una folla inseguita dai soldati. In un altro momento, una bomba mi scoppiò vicino, in una via tranquilla dove, sebbene guardassi in tutti i sensi, non scorsi anima viva. Ma il successivo, nitido, ricordo comincia con un colpo di fucile; mi accorsi improvvisamente che servivo da bersaglio a un soldato che era a bordo di un'automobile. Mi mancò e allora istantaneamente, mi misi a gridare la parola d'ordine. Il ricordo della mia corsa in quell'automobile rimane avvolto da una nube interrotta da un nuovo lampo; un colpo di fucile tirato dal soldato seduto vicino a me mi fece aprire gli occhi: vidi George Milford, che avevo conosciuto un tempo a Pell Street, crollare sul marciapiede. Nello stesso istante, il soldato sparò di nuovo, e Milford si piegò in due, poi cadde in avanti, a braccia e gambe aperte. I soldati sghignazzarono e l'automobile sfrecciò oltre.

Di tutto ciò che avvenne in seguito, ricordo questo: immersa in un profondo sonno, fui svegliata da un uomo che camminava su e giù vicino a me. Aveva i lineamenti tirati e la fronte imperlata di sudore, che gli gocciolava sul naso. Con una mano premeva l'altra contro il petto, e il sangue colava a terra a ogni passo.

Indossava l'uniforme dei Mercenari. Attraverso un muro giungeva il rombo attutito degli scoppi delle bombe. La casa dove mi trovavo era evidentemente impegnata in un duello con un'altra casa.

Quando un dottore venne a medicare il soldato ferito seppi che erano le due del pomeriggio. Poiché il mal di testa durava, il medico sospese il lavoro per darmi un rimedio energico che doveva calmare il cuore e darmi sollievo. Mi addormentai di nuovo, e quando mi svegliai ero sul tetto dell'edificio. Nelle immediate vicinanze la battaglia era finita, e stavo guardando l'assalto dei palloni contro la fortezza. Qualcuno mi teneva un braccio intorno alla vita, e io mi ero rannicchiata contro di lui. Mi sembrava naturale che fosse Ernest, e mi chiedevo perché avesse le sopracciglia e i capelli arrossati.

Per puro caso ci eravamo ritrovati in quell'orribile città. Lui ignorava che avevo lasciato New York e, passando nella camera dove dormivo, non aveva potuto credere ai suoi occhi. Da quell'ora non vidi più granché della Comune di Chicago. Dopo aver osservato l'attacco dei palloni, Ernest mi ricondusse nell'interno della casa, dove dormii tutto il pomeriggio e tutta la notte seguente.

Là trascorremmo anche il terzo giorno, e il quarto abbandonammo Chicago, dato che Ernest aveva ottenuto il permesso dalle autorità e un'automobile.

La mia emicrania era passata, ma ero stanca di corpo e di animo, molto stanca. Nell'automobile, addossata a Ernest, osservavo con occhio distaccato i soldati che cercavano di portare la macchina fuori della città. La battaglia continuava, ma solo con scontri isolati. Qua e là, interi distretti ancora in mano ai nostri, erano circondati e guardati da forti contingenti di truppe. Così i compagni si trovavano chiusi in centinaia di trappole isolate, mentre l'opera di sterminio continuava. La resa significava morte perché non si dava quartiere. Combatterono, eroicamente fino all'ultimo uomo (3).

Ogni volta che ci avvicinavamo a una di queste trappole, le guardie ci fermavano e ci obbligavano a fare un largo giro. Una volta capitò che non restava altra via per oltrepassare due roccaforti dei compagni, se non passando attraverso una zona incendiata che si trovava nel mezzo. Da ogni lato sentivamo il rombo e il ruggito della battaglia, mentre l'automobile s'apriva un varco fra rovine fumanti e mura cadenti. Spesso le strade erano bloccate da vere montagne di rottami, che dovevamo aggirare. Ci smarrivamo in un labirinto di macerie, e la nostra marcia era lenta.

I macelli (ghetto, impianti e tutto il resto) erano rovine fumanti. Lontano, sulla destra, un denso velo di fumo oscurava il cielo. Il soldato autista ci disse che era la città di Pullman o, per lo meno, ciò che ne rimaneva, perché era stata distrutta da cima a fondo. C'era andato con la macchina a portare dei dispacci nel pomeriggio del terzo giorno. Era, disse, uno dei luoghi dove la battaglia si era scatenata con più furore; strade intere erano diventate impraticabili per i mucchi di cadaveri.

Nel voltare intorno alle mura rovinate di un edificio nella zona dei macelli, la macchina dovette fermarsi davanti a una barriera di corpi, si sarebbe detta una grossa onda pronta a infrangersi.

Indovinammo facilmente quello che era successo. Nel momento in cui la folla, lanciata all'attacco, svoltava l'angolo, era stata decimata a breve distanza da una mitragliatrice che sbarrava la strada laterale. Ma neppure i soldati s'erano sottratti alla carneficina: una bomba doveva essere scoppiata in mezzo a loro, perché la folla, trattenuta un istante dal mucchio dei morti e dei feriti, si era poi precipitata come un'onda vivente e fremente.

Mercenari e schiavi giacevano mescolati, mutilati e squarciati, sui rottami delle automobili e delle mitragliatrici.

Ernest scese dalla vettura. Il suo sguardo era stato attratto da una frangia familiare di capelli bianchi, che scendevano su delle spalle ricoperte solo da una camicia di cotone. Non guardai; solo quando mi fu di nuovo vicino e l'automobile si mosse, mi disse:

"Era il vescovo Morehouse".

Fummo presto in aperta campagna, e gettai un ultimo sguardo al cielo coperto di fumo. Il tuono appena percettibile di un'esplosione ci giunse da molto lontano. Allora nascosi il volto sul cuore di Ernest e piansi in silenzio per la Causa che era perduta. Il suo braccio mi strinse con amore, più eloquente di qualsiasi parola.

"Perduta per questa volta, cara", mormorò; "ma non per sempre.

Abbiamo imparato molte cose. Domani la Causa si rialzerà più forte, per saggezza e disciplina".

L'automobile si fermò alla stazione dove dovevamo prendere il treno per New York. Mentre aspettavamo lungo la banchina, tre direttissimi lanciati verso Chicago passarono con un rumore di tuono. Erano carichi di lavoratori stracciati, gente dell'abisso.

"Leve di schiavi per la ricostruzione della città" disse Ernest.

"Tutti quelli di Chicago sono stati uccisi".

NOTE:

1) A quell'epoca la popolazione era così rada che pullulavano le bestie selvatiche ed erano un vero flagello. In California si introdusse l'uso delle battute di caccia contro i conigli. In un dato giorno tutti gli agricoltori della zona si riunivano e percorrevano la campagna in linee convergenti spingendo i conigli a decine di migliaia verso un recinto preparato prima dove uomini e ragazzi li uccidevano a colpi di randello.

2) Si è a lungo discusso se il ghetto della Zona Sud fosse stato incendiato incidentalmente o volontariamente dai Mercenari.

Oggi è assodato che furono questi ad appiccare l'incendio per ordine dei loro capi.

3) Molti edifici resistettero più di una settimana; uno resistette fino a undici giorni. Ogni edificio fu preso d'assalto come un forte, e i Mercenari furono obbligati ad attaccare piano per piano. Fu una lotta micidiale. Non si chiedeva né si concedeva tregua. In quel genere di combattimento, i rivoluzionari avevano il vantaggio di essere in alto. Furono alla fine distrutti, ma a prezzo di forti perdite. Il fiero proletariato di Chicago si mostrò degno della sua antica fama. Tanti morti ebbe, altrettanti nemici uccise.

Capitolo 25

I TERRORISTI

Soltanto alcune settimane dopo il nostro ritorno a New York, Ernest e io potemmo renderci pienamente conto della portata del disastro che si era abbattuto sulla Causa. La situazione era amara e sanguinosa. In molti posti sparsi in tutto il paese erano scoppiate rivolte e avvenuti massacri di schiavi. La lista dei martiri cresceva rapidamente. Innumerevoli esecuzioni avevano avuto luogo un po' dappertutto. Le montagne e le contrade deserte rigurgitavano di reietti e di fuggiaschi inseguiti senza pietà. I nostri stessi rifugi erano strapieni di compagni sulla cui testa pendeva una taglia. A opera delle spie, molti dei nostri rifugi furono invasi dai soldati del Tallone di Ferro.

Molti compagni erano scoraggiati e favorevoli a una tattica terroristica. Il crollo di ogni speranza li rendeva, è il caso di dire, disperati. Molte organizzazioni terroristiche che non avevano niente a che fare con noi saltarono fuori dal nulla e ci causarono molti guai (1). Questi traviati, pur prodigando follemente la loro vita, facevano spesso fallire i nostri disegni e ritardare la nostra ricostruzione.

In tutto questo, il Tallone di Ferro proseguiva impassibile verso il suo scopo, scuotendo il tessuto sociale, epurando i Mercenari, le caste operaie e i servizi segreti per espellerne i compagni, punendo senza odio e senza pietà, accettando in silenzio tutte le rappresaglie e riempiendo i vuoti tra le proprie file appena si formavano. Contemporaneamente, Ernest e gli altri dirigenti lavoravano con dedizione per organizzare le forze della Rivoluzione. Si comprenderà la portata di questo compito, tenendo conto di...(2).

NOTE:

1) Gli annali di questa breve epoca di sconforto furono scritti col sangue. La vendetta era il motivo dominante; i membri delle organizzazioni terroristiche non si preoccupavano affatto della loro vita e non sapevano nulla dell'avvenire. I "Danites", che prendevano nome dagli angeli vendicatori della mitologia dei Mormoni, e si fermarono sulle montagne del Grande Ovest, si sparsero lungo tutta la costa del Pacifico da Panama all'Alaska.

Le "Valchirie" erano un'organizzazione femminile, e la più terribile di tutte. Non era ammessa nell'organizzazione se non colei che avesse avuto parenti prossimi assassinati dall'oligarchia. Avevano la crudeltà di torturare i loro prigionieri fino alla morte. Un'altra famosa organizzazione femminile era quella delle Vedove di Guerra. I "Berserkers" (guerrieri invulnerabili della mitologia scandinava) formavano un gruppo affine a quello delle Valchirie, composto da uomini che non davano valore alla vita. Furono essi a distruggere completamente la città dei Mercenari chiamata Bellona, abitata da oltre centomila persone. I "Bedlamiti" e gli "Helldamiti" erano associazioni gemelle di schiavi. Una nuova setta religiosa, che non prosperò a lungo, si chiamava "L'ira di Dio". Questi gruppi di gente terribilmente seria, avevano i nomi più fantastici; fra gli altri: Cuori sanguinanti, Figli dell'alba, Stelle mattutine, Fenicotteri, Tre triangoli, Le tre barre, I Rubonici, I Vendicatori, gli Apaches e gli Erebusiti.

2) Questa è la fine del Manoscritto Everhard. S'interrompe bruscamente, a metà d'una frase. Avis dovette essere avvisata dell'arrivo dei Mercenari, perché fece in tempo a mettere in salvo il manoscritto prima di scappare o di essere fatta prigioniera.

C'è da rammaricarsi che non sia vissuta abbastanza da portarlo a termine, poiché avrebbe certamente fatto luce sul mistero che da settecento anni avvolge la condanna e la morte di Ernest Everhard.

Jack London

IL TALLONE DI FERRO




Capitolo 1

LA MIA AQUILA

La brezza leggera dell'estate agita le sequoie e la Wild Water si frange con ritmiche cadenze contro le pietre muscose. Ci sono farfalle nel sole, e dovunque si leva il sonnolento ronzio delle api. C'è tanta pace e silenzio e io me ne sto qui, inquieta, a pensare. E' questa pace a rendermi inquieta: mi sembra irreale.

Una quiete profonda, ma è la quiete che precede la tempesta. Tendo dunque l'orecchio, e tutti i sensi, al primo segnale della tempesta imminente. Purché non sia prematura. Purché non scoppi troppo presto (1).

Sono inquieta con ragione. Penso, penso continuamente, è piú forte di me. Ho vissuto così a lungo nella mischia che la pace e la quiete mi opprimono e non posso impedirmi d'indugiare col pensiero su quel turbine di devastazione e morte che presto si scatenerà.

Già odo le grida delle vittime, già vedo, come nel passato, (2) tanta bella e preziosa carne falciata e mutilata, tante anime strappate a forza dai loro nobili corpi e lanciate verso Dio. E' così che noi povere creature umane raggiungiamo i nostri scopi; solo attraverso stragi e distruzioni riusciamo a portare pace e felicità durature sulla terra!

Sì, sono sola. Quando non penso a quel che sarà, penso a quel che è stato, a ciò che non è piú: alla mia Aquila, che batte l'aria con le ali instancabili, librandosi in eterno verso il suo sole, l'ideale radioso della libertà umana. Non saprei starmene inerte ad aspettare il grande avvenimento di cui lui è l'artefice, anche se non sarà presente al momento. Vi dedicò interi gli anni della sua vita, lo pagò con la vita. E' opera sua. Lo rese lui possibile (3).

Perciò, in simile ansiosa attesa, ho deciso di scrivere di mio marito. Io soltanto tra tutti potrò far luce sulla sua personalità, una personalità tanto nobile che tuttavia non sarà mai abbastanza nota. Era un'anima grande e, quanto il mio amore è scevro da ogni egoismo, il mio rammarico più grande è che lui non sia più qui ad assistere all'alba di domani. Non possiamo fallire: le basi che lui ha gettato sono troppo solide, troppo sicure.

Strapperemo via dal petto dell'umanità schiacciata il maledetto Tallone di Ferro. Al segnale della riscossa, le legioni dei lavoratori di tutto il mondo insorgeranno, e nella storia non si sarà mai visto nulla di simile. La solidarietà delle masse lavoratrici è assicurata, e per la prima volta scoppierà una rivoluzione internazionale, vasta quanto il mondo (4).

Sono, chiaramente, talmente presa da ciò che ci aspetta, che da tempo ormai vivo giorno e notte, sin nei minimi particolari, il grande avvenimento; anzi, non riesco a pensare a mio marito senza pensare a esso. Lui ne fu l'anima, come potrei separare le due cose nei miei pensieri?

Come ho detto, posso fare molta luce sulla sua personalità. Tutti sanno che ha lavorato molto, e penato ancor più, per la libertà; ma nessuno può saperlo meglio di me, che ho condiviso la sua vita in questi venti anni di ansia, e ho avuto modo di apprezzare la sua pazienza, il suo sforzo incessante, la sua totale dedizione alla causa per la quale, appena due mesi fa, è morto.

Cercherò di raccontare in tutta semplicità in che modo Ernest Everhard entrò nella mia vita: come lo conobbi, come finii col diventare parte di lui, quali profondi cambiamenti portò nella mia vita. In tal modo potrete guardarlo attraverso i miei occhi e apprendere di lui ciò che appresi io: tutto, salvo le cose troppo intime e dolci perché io possa ridirle.

Lo vidi per la prima volta nel febbraio del 1912. Era stato invitato a pranzo da mio padre (5), e devo dire che quando varcò la soglia di casa nostra a Berkeley, non mi fece un'impressione del tutto favorevole. Avevamo molta gente a pranzo e il suo ingresso nel salotto in cui aspettavamo l'arrivo degli ospiti fu abbastanza imbarazzante. Era la sera dei "predicatori", come diceva mio padre in famiglia, e Ernest non era certamente al suo posto tra quella gente di chiesa.

Tanto per cominciare, era mal vestito. Portava un completo di panno scuro, confezionato, che gli cascava addosso. In realtà, neppure in seguito riuscì mai a trovare un abito che gli andasse bene. Anche quella sera, come sempre, a ogni movimento che faceva i muscoli aggrinzivano la stoffa e, per via dell'ampio torace, dietro le spalle la giacca faceva una quantità di pieghe. Aveva il collo d'un campione di pugilato (6), grosso e robusto. E così questo è il filosofo sociale, ex maniscalco, scoperto da mio padre, mi dissi. Con quei bicipiti e quel collo, ne aveva tutta l'aria infatti. Lo giudicai immediatamente una specie di prodigio, un Blind Tom (7) della classe operaia.

Quando poi mi diede la mano, la sua fu una stretta forte e sicura.

I suoi occhi neri mi fissarono con ardire - un po' troppo ardire, mi parve. Ero nata e cresciuta in quell'ambiente, infatti, e a quel tempo avevo un istinto di classe molto sviluppato. Tanto ardire in un uomo del mio stesso livello sociale mi sarebbe risultato più o meno imperdonabile; fui dunque costretta ad abbassare gli occhi e fu con vero sollievo che tirai oltre per andare a salutare il vescovo Morehouse, uno dei miei prediletti, un uomo di mezza età, serio, dolce, dall'aspetto mite di un Cristo e, inoltre, un vero erudito.

Ma quell'ardire, che attribuii a presunzione, era quanto mai rivelatore della vera personalità di Ernest Everhard: era semplice, diretto, non aveva paura di niente e si rifiutava di perdere tempo con le convenzioni. "Mi piacesti subito", mi rivelò molto tempo dopo. "Perché dunque non avrei dovuto riempirmi gli occhi di ciò che mi piaceva?". Ho appena detto che non aveva paura di niente. Era un aristocratico autentico, anche se di fatto combatteva l'aristocrazia; un superuomo, l'essere biondo descritto da Nietzsche (8), e pur tuttavia un ardente democratico.

Impegnata a ricevere gli altri invitati, e forse anche per la cattiva impressione riportata, dimenticai quasi completamente il filosofo della classe operaia. In seguito, però, a tavola, attirò di nuovo un paio di volte la mia attenzione. Stava ascoltando i discorsi dei reverendi e nei suoi occhi notai un lampo divertito.

Ha il senso dell'umorismo, pensai, e quasi gli perdonai quel modo goffo di vestire. Intanto il tempo passava; il pranzo era inoltrato e lui non aveva aperto bocca neppure una volta mentre i reverendi discutevano animatamente della classe operaia e dei suoi rapporti con la chiesa e di ciò che questa aveva fatto e ancora faceva per essa. Notai che mio padre era seccato di quel suo silenzio e a un certo punto, profittando di un attimo di calma, gli chiese quale fosse la sua opinione. Ernest si limitò a scrollare le spalle e, dopo un secco "Non ho niente da dire", riattaccò a masticare mandorle salate.

Ma mio padre non si dava facilmente per vinto e, dopo qualche istante, disse: "Abbiamo tra noi un rappresentante della classe operaia. Sono sicuro che potrebbe presentarci le cose da un punto di vista nuovo e interessante. Alludo al Signor Everhard".

Tutti si mostrarono subito cortesemente interessati e sollecitarono Ernest a esporre le sue idee; ma il loro era un atteggiamento così chiaramente benevolo e tollerante da sembrar quasi condiscendenza. Mi accorsi che anche lui lo aveva notato, e ne era divertito. Girò lentamente lo sguardo sui convitati e in quei suoi occhi neri vidi un lampo di malizia.

"Non sono tagliato per le cortesi discussioni degli ecclesiastici", esordì poi, con tono modesto. Quindi esitò.

Si levarono alcune voci d'incoraggiamento: "Continui, continui". E il dottor Hammerfield aggiunse:

"Non temiamo la verità, da chiunque sia detta in buona fede".

"Lei dunque distingue tra verità e sincerità?" ribatté vivacemente Ernest con un sorriso.

Il dottor Hammerfield rimase un attimo perplesso, quindi balbettò:

"Anche il migliore di noi può sbagliare, giovanotto, anche il migliore".

All'improvviso, Ernest parve cambiare. In un attimo, sembrò un altro uomo.

"Bene, allora comincerò col dirvi che v'ingannate, tutti. Della classe operaia voi non sapete un bel niente. La vostra esperienza sociale è falsa e priva di valore come il vostro modo di ragionare".

Più che le parole mi colpì il tono con cui le pronunciò, e rimasi scossa già al solo suono della sua voce: uno squillo di tromba che mi fece fremere tutta. Anche tutti i presenti ne furono scossi, destati di colpo dal solito torpore e dalla solita monotonia.

"Cosa c'è di tanto falso e privo di valore nel nostro modo di ragionare, giovanotto?" chiese il dottor Hammerfield, con tono indispettito.

"Siete dei metafisici, e con la metafisica potete dimostrare qualunque cosa. Ma naturalmente, qualunque altro metafisico potrà a sua volta dimostrare, con non poca soddisfazione, che avete torto. Nel campo del pensiero siete degli anarchici e avete la passione delle costruzioni cosmiche. Ognuno di voi vive in un proprio universo, creato dalla sua fantasia e secondo i suoi desideri, ma dell'altro mondo, quello vero in cui abitate, non sapete niente, e il vostro pensiero non ha posto nella realtà se non come fenomeno di alienazione.

Sapete a cosa stavo pensando poco fa sentendovi parlare a vanvera?

A quegli scolastici del Medio Evo che con serietà e dottrina dibattevano il problema di quanti angeli possano danzare sulla punta di un ago. Voi, signori, siete lontani dalla vita intellettuale del ventesimo secolo quanto poteva esserlo diecimila anni fa uno stregone pellerossa impegnato a fare incantesimi in una foresta vergine".

A giudicare dal volto acceso, dalle sopracciglia aggrottate, dal lampeggiare degli occhi, dalle contrazioni del mento e della mascella, tutti segni di una natura aggressiva, sembrò che nel pronunciare quest'ultima frase fosse in preda all'ira. Era invece il suo modo di fare che, tuttavia, invariabilmente scuoteva la gente, esasperandola con quegli assalti impetuosi e improvvisi. I nostri invitati stavano già perdendo il loro contegno consueto. Il vescovo Morehouse ascoltava con attenzione, piegato in avanti; il dottor Hammerfield era rosso in viso per l'indignazione e anche gli altri erano sconvolti. Solo alcuni ancora sorridevano con aria divertita di superiorità. Quanto a me, trovavo la scena quanto mai divertente. Lanciai un'occhiata a mio padre e addirittura temetti che stesse per scoppiare a ridere per l'effetto prodotto da quella specie di bomba umana che aveva osato buttare in mezzo a noi.

"Lei si esprime in maniera abbastanza vaga", dichiarò infine il dottor Hammerfield. "Cosa intende dire esattamente chiamandoci metafisici?" "Vi definisco metafisici", riprese Ernest, "perché ragionate metafisicamente. Il vostro metodo è l'opposto di quello scientifico e le vostre conclusioni non hanno alcuna validità.

Dimostrate tutto e al tempo stesso niente, e neppure due tra voi riescono a mettersi d'accordo su un punto qualsiasi. Per spiegare l'universo e se stesso, ognuno di voi si tuffa nella propria coscienza, e pretendere di spiegare la coscienza con la coscienza è come pretendere di sollevarsi da terra tirandosi per i lacci delle scarpe".

"Non capisco", lo interruppe il vescovo Morehouse. "A me pare che tutte le cose dello spirito siano metafisiche. La stessa matematica, la più esatta e convincente delle scienze, è metafisica; ogni processo mentale di uno scienziato è già un atto di natura metafisica. Certamente sarà d'accordo su questo".

"Come lei stesso ha detto, non capisce", ribatté Ernest. "Il metafisico ragiona per deduzione partendo dalla sua stessa soggettività. Lo scienziato, invece, ragiona per induzione, basandosi sui fatti forniti dall'esperienza. Il metafisico procede dalla teoria ai fatti, lo scienziato dai fatti alla teoria. Il metafisico spiega l'universo secondo se stesso, lo scienziato spiega se stesso secondo l'universo".

"Ringraziamo Iddio di non essere scienziati", mormorò il dottor Hammerfield, con tono di compiacimento.

"E cosa siete, dunque?".

"Filosofi".

"Ci siamo", esclamò Ernest, ridendo. "Avete abbandonato il solito terreno della realtà per librarvi in aria con una parola, come se fosse una macchina volante. Per piacere, ritornate sulla terra e vogliate dirmi, a vostra volta, cosa intendete esattamente per filosofia".

"La filosofia è..." (il dottor Hammerfield si schiarì la voce) "è qualcosa che non si può definire in modo comprensibile se non a menti e spiriti filosofici. Lo scienziato che si limita a ficcare il naso tra le sue provette non potrà mai capire la filosofia".

La stoccata lasciò Ernest impassibile. Ma era abituato a ritorcere l'attacco contro l'avversario, e così fece, immediatamente, con volto e voce affatto benevoli.

"In tal caso, sarete certamente in grado di comprendere la definizione della filosofia che penso di proporvi. Prima, però, vi invito a rivelarne gli errori oppure a mantenere un silenzio metafisico. La filosofia non è altro che la più vasta di tutte le scienze. Il suo metodo non si distacca da quello di una qualunque scienza particolare o di tutte le scienze in generale. E appunto per questo suo meccanismo, questo suo metodo di ragionamento, il metodo induttivo, la filosofia fonde insieme tutte le scienze particolari, formando una sola, grande scienza. Come dice Spencer, i dati di ogni scienza particolare formano una conoscenza unificata solo in parte, mentre la filosofia sintetizza in sé la conoscenza offerta da tutte le scienze. E' cioè la scienza delle scienze, la scienza assoluta, se volete. Che ne dite di questa definizione?".

"Molto attendibile", mormorò il dottor Hammerfield.

Ma Ernest era senza pietà.

"Guardatevene", disse, "la mia definizione è fatale alla metafisica. Se, a partire da adesso, non riuscite a trovare in essa neppure un'incrinatura, sarete squalificati quando in seguito vorrete opporre argomenti metafisici. Passerete la vita intera a cercare quell'incrinatura e sarete costretti a restare metafisicamente muti fino a quando non l'avrete trovata".

Tacque, in attesa. Il silenzio divenne penoso. Il dottor Hammerfield era a disagio e insieme perplesso. Quell'attacco, dei veri e propri colpi di maglio, lo aveva sconcertato; non era abituato a quel modo di discutere semplice e diretto. Il suo sguardo implorante fece il giro della tavola, ma nessuno prese la parola per lui. Sorpresi mio padre che rideva dietro il tovagliolo.

"C'è un altro modo per squalificare i metafisici", riprese Ernest quando la sconfitta del dottore fu ben chiara, "giudicarli dalle loro opere. Cosa hanno fatto per l'umanità oltre a tessere fantasie aeree e scambiare per divinità la propria ombra?

Riconosco che hanno aggiunto nuovi motivi d'allegria per il genere umano, ma quale bene tangibile hanno mai apportato? Hanno filosofato, scusatemi la parola di cattivo gusto, sul cuore come sede delle emozioni, mentre intanto gli scienziati studiavano la circolazione del sangue. Hanno declamato sulla peste e sulla carestia, considerandole flagelli di Dio, mentre intanto gli scienziati costruivano silos e risanavano gli agglomerati urbani.

Descrivevano la terra come centro dell'universo, mentre gli scienziati scoprivano l'America e scrutavano lo spazio per scoprirvi le stelle e le leggi degli astri. Insomma, i metafisici non hanno fatto assolutamente niente per l'umanità. Hanno dovuto arretrare passo dopo passo davanti alle conquiste della scienza; ma appena i fatti scientificamente accertati rovesciavano le loro spiegazioni soggettive, ne fabbricavano altre su scala più vasta per spiegare appunto i fatti accertati. E così, senza dubbio, continueranno a fare sino alla fine dei secoli. Signori, i metafisici sono degli impostori. Fra voi e l'esquimese che immaginava dio come un mangiatore di grasso vestito di pelliccia, c'è solo una differenza di qualche migliaio d'anni di fatti accertati. Tutto qui".

"Eppure il pensiero di Aristotele ha dominato l'Europa per dodici secoli", intervenne il dottor Ballingford, pomposo, "e Aristotele era un metafisico".

Quindi il dottor Ballingford girò lo sguardo sui commensali, dai quali fu ricompensato con cenni e sorrisi di approvazione.

"Il suo esempio non è per niente felice", rispose Ernest. "Lei si riferisce a uno dei periodi più oscuri della storia dell'umanità.

Infatti lo chiamiamo periodo d'oscurantismo, un'epoca in cui la scienza era schiava della metafisica, la fisica si limitava alla ricerca della pietra filosofale, l'alchimia aveva preso il posto della chimica, e l'astrologia quello dell'astronomia. Triste dominio quello del pensiero di Aristotele!".

Il dottor Ballingford parve seccato, ma subito si riprese e ribatté:

"Anche accettando il quadro nero che lei ci ha dipinto, deve però riconoscere alla metafisica un grande valore intrinseco, perché è riuscita a liberare l'umanità dall'oscurantismo avviandola verso la luce dei secoli successivi".

"La metafisica non ne ebbe alcun merito", ribatté Ernest.

"Come!" esclamò il dottor Hammerfield, "non è stato forse il pensiero speculativo a condurre alle grandi scoperte?".

"Ah, caro reverendo", disse Ernest con un sorriso, "la credevo squalificato. Non ha ancora trovato una sola incrinatura, nella mia definizione della filosofia e ora è sospeso nel vuoto. Ma questa è un'abitudine dei metafisici e io la perdono. No, ripeto, la metafisica non ebbe alcun merito in tutto questo. Ai viaggi di scoperta spinse il bisogno di pane quotidiano, seta e gioielli, monete d'oro e metalli preziosi e, tra l'altro, la chiusura delle vie commerciali terrestri verso l'India. Quando cadde Costantinopoli nel 1453, i turchi chiusero le vie carovaniere per l'India, e i mercanti europei dovettero cercare altre strade.

Questa fu la vera causa di quelle esplorazioni. Cristoforo Colombo prese il mare per cercare una nuova via per le Indie, potete leggerlo su tutti i libri di storia. Si scoprirono così per caso fatti nuovi in natura, come la grandezza e la forma della terra, e il sistema tolemaico mandò i suoi ultimi bagliori".

Il dottor Hammerfield emise un grugnito.

"Non è d'accordo?" domandò Ernest. "Allora mi dica dove sbaglio".

"Posso soltanto riconfermare il mio punto di vista" replicò aspramente il dottor Hammerfield. "Sarebbe altrimenti un tema troppo vasto".

"Non esistono temi troppo vasti per uno scienziato", ribatté, in tono cortese, Ernest. "Per questo lo scienziato scopre e ottiene, per questo è arrivato in America".

Non ho intenzione di descrivere tutta la serata, sebbene sia per me una gioia ricordare ogni particolare di quel primo incontro, di quelle prime ore passate con Ernest Everhard.

La discussione si fece molto animata, e i reverendi avvampavano, quando Ernest li chiamava filosofi romantici, lanterne magiche e così via. Li interrompeva continuamente per richiamarli ai fatti.

"Il fatto, amico, il fatto inconfutabile", proclamava trionfante, ogni volta che assestava un colpo decisivo. Era irto di fatti e glieli lanciava fra i piedi, glieli drizzava davanti in improvvise imboscate, li bombardava con raffiche di fatti.

"A quanto pare lei sacrifica soltanto sull'altare del fatto", lo stuzzicò il dottor Hammerfield.

"Non c'è altro dio che il fatto, e il signor Everhard è il suo profeta", parafrasò il dottor Ballingford.

Ernest, sorridendo, approvò col capo.

"Io sono come i texani", disse. E, sollecitato, spiegò: "Quelli del Missouri dicono sempre: 'Bisogna farmelo vedere'; quelli del Texas, invece, dicono: 'Bisogna mettermelo in mano'. Chiaro quindi che non sono dei metafisici".

A un certo punto, avendo egli detto che i filosofi metafisici non potrebbero sopportare la prova della verità, il dottor Hammerfield tuonò:

"Qual è questa prova della verità, giovanotto? Vuole avere la bontà di spiegarci quello che a lungo ha imbarazzato menti più sagge della sua?".

"Volentieri", rispose Ernest, con quella sicurezza che li indispettiva. "Le menti sagge sono state a lungo imbarazzate dalla ricerca della verità perché la cercavano per aria, lassù! Se fossero rimaste sulla terra ferma, l'avrebbero trovata facilmente.

Come avrebbero certamente scoperto che con ogni azione e pensiero pratico della loro vita, essi stessi costituivano appunto la prova della verità".

"La prova, la prova", ripeté con impazienza il dottor Hammerfield.

"Lasci da parte i preamboli. Ci dia ciò che abbiamo cercato tanto a lungo: la prova della verità. Ce la dia e diventeremo degli dèi".

C'era in queste parole, e nel modo con cui furono pronunciate, lo scetticismo aggressivo e ironico che la maggioranza dei convitati provava; il vescovo Morehouse parve però colpito.

"Il dottor Jordan (9) l'ha stabilito in maniera chiarissima", disse Ernest. "Ecco il suo modo di verificare la verità: 'E' essa concreta, in atto? le affidereste la vostra vita?'".

"Figurarsi!" disse il dottor Hammerfield con un sorriso. "Non ha tenuto conto del vescovo Berkeley (10). In conclusione, non gli hanno mai risposto".

"Il più nobile metafisico della confraternita", replicò Ernest, ridendo, "ma scelto male come esempio. Come egli stesso ha dimostrato, la sua metafisica era campata in aria".

Il dottor Hammerfield s'indignò, punto sul vivo, come se avesse sorpreso Ernest nell'atto di rubare o mentire.

"Giovanotto", sbottò, "questa affermazione è degna di tutto quanto ha detto stasera. E' un'asserzione ignobile e assolutamente priva di fondamento".

"Eccomi bell'e sistemato", mormorò Ernest, con un'aria afflitta.

"Purtroppo non mi sento colpito. Bisognerebbe farmelo toccare con mano, reverendo".

"Benissimo, benissimo", balbettò il dottor Hammerfield. "Non potrà certo dire che il vescovo Berkeley non abbia dimostrato che la sua metafisica non fosse pratica. Non ne ha le prove, giovanotto, lei non ne sa niente. La metafisica di Berkeley ha sempre funzionato".

"Per me, la prova migliore che la metafisica di Berkeley era pura astrazione, sta nel fatto che lo stesso Berkeley", e a questo punto Ernest riprese tranquillamente fiato, "aveva la buona abitudine di passare per le porte e non attraverso i muri; perché per nutrire la propria vita s'affidava al pane e burro e al sostanzioso arrosto, e si faceva la barba con un rasoio bene affilato".

"Ma queste sono cose della vita fisica", esclamò il dottore, "mentre la metafisica appartiene allo spirito".

"E funziona anche in spirito?" chiese Ernest, calmissimo.

L'altro annuì.

"E, in spirito, una miriade di angeli può danzare sulla punta di un ago", continuò Ernest, con aria assorta. "E, in spirito, può esistere anche un dio impellicciato e mangiatore di grasso, perché non ci sono prove contrarie, in spirito. E immagino, reverendo, che lei viva anche in spirito, vero?".

"Il mio spirito è il mio regno", rispose l'altro.

"Cioè, vive nel vuoto. Ma sono sicuro che ritorna sulla terra all'ora dei pasti o alle prime scosse d'un terremoto. O forse mi obietta che in un simile malaugurato caso non avrebbe nessun timore che il suo corpo immateriale possa essere colpito da una tegola immateriale?".

Istintivamente, e con gesto inconsapevole, il dottor Hammerfield si toccò la testa, dove, nascosta tra i capelli, aveva una cicatrice. L'esempio di Ernest era stato quanto mai calzante:

durante il grande terremoto (11), infatti, il reverendo per poco non era stato schiacciato da un comignolo. Scoppiarono tutti a ridere.

"Ebbene", riprese Ernest quando l'ilarità si fu calmata, "aspetto sempre la prova del contrario". Poi, nel silenzio generale, aggiunse: "Passi pure questo suo ultimo argomento, ma non è ancora quello risolutivo".

Il dottor Hammerfield era ormai fuori combattimento; ma la battaglia si spostò in un'altra direzione. Punto per punto, Ernest confutò ogni loro asserzione. Quando sostenevano di conoscere la classe operaia, lui ribatteva esponendo delle verità fondamentali che quelli non conoscevano, e li sfidava a contraddirlo. Parlava di fatti, sempre fatti, frenava i loro slanci verso la luna e li riconduceva sul terreno solido dei fatti.

Ricordo benissimo la scena! Mi pare di udirlo ancora, con quel suo tono aggressivo, colpirli col fascio dei fatti, di cui ciascuno era una verga sferzante! Senza pietà: non chiedeva tregua e non ne accordava (12). Non dimenticherò mai la scudisciata finale che inflisse loro:

"Questa sera avete ammesso più volte, direttamente o con le vostre dichiarazioni d'incompetenti, di non conoscere la classe operaia.

Non vi biasimo per questo: come potreste conoscerla, infatti? Non vivete fra gli operai, pascolate con la classe capitalista. E perché dovreste agire diversamente? I capitalisti vi pagano, vi nutrono, vi danno gli abiti che portate questa sera. In cambio, voi predicate ai vostri padroni il tipo di metafisica che è loro particolarmente gradito e che essi accettano perché non minaccia l'ordine stabilito delle cose".

A queste parole, ci fu una protesta generale.

"Oh, non metto in dubbio la vostra sincerità", proseguì Ernest.

"Voi siete sinceri. Predicate ciò in cui credete. In questo consistono la vostra forza e il vostro valore agli occhi dei capitalisti. Ma se per caso cominciaste a credere in qualcosa che minaccia invece l'ordine stabilito, le vostre prediche diventerebbero inaccettabili per i vostri padroni, e voi sareste licenziati. Ogni tanto, non spesso, qualcuno di voi viene infatti congedato (13). Non è così?".

Questa volta non ci fu nessuna protesta: tutti se ne stettero umilmente in silenzio, tranne il dottor Hammerfield, che disse:

"Solo quando il loro modo di pensare è falso, vengono invitati a dimettersi".

"Vale a dire quando il loro modo di pensare è inaccettabile", ribatté Ernest, e aggiunse: "Per questo vi dico, continuate a predicare e a guadagnarvi il vostro soldo ma, per amor del cielo, lasciate in pace la classe operaia. Voi state dalla parte del nemico. Non avete nulla in comune con essa. Le vostre mani sono bianche perché altri lavorano per voi, e i vostri stomachi pieni per l'abbondanza di cibo". (A questo punto il dottor Hammerfield fece una smorfia e tutti sbirciarono verso il suo enorme pancione, grazie al quale, si diceva, da anni non vedeva più i propri piedi). "E le vostre menti sono infarcite di dottrine che servono a reggere l'ordine stabilito. Siete dei mercenari sinceri, mercenari sinceri, lo ammetto, ma come lo era la Guardia Svizzera (14). Siate fedeli a chi vi dà il pane, il sale e la paga; sostenete con le vostre prediche gli interessi dei vostri signori, ma non venite a offrirvi alla classe operaia come falsi condottieri! Non potreste vivere onestamente in due campi opposti.

La classe operaia ha fatto a meno di voi, e credetemi, continuerà a farne a meno. Inoltre se la sbrigherà meglio senza di voi che con voi".

NOTE:

1!Sebbene avesse collaborato, naturalmente, con i dirigenti europei, la Seconda Rivolta fu, in larga misura, opera di Ernest Everhard. Successivamente, il suo arresto e la sua esecuzione segreta, furono il grande avvenimento della primavera del 1932. E tuttavia aveva preparato così minuziosamente quella rivolta che i suoi compagni poterono mettere in atto i suoi piani senza confusione né indugio. Dopo l'esecuzione di Everhard, la vedova si ritirò a Wake Robin Lodge, un piccolo bungalow tra le Sonoma Hills, in California.

2) Certamente si riferisce alla Comune di Chicago.

3) Con tutto il rispetto per sua moglie Avis, va detto che Everhard fu soltanto uno dei tanti e abili dirigenti che progettarono la Seconda Rivolta. Oggi, a distanza di secoli, possiamo affermare che anche se lui fosse sopravvissuto, il risultato di quella rivolta non sarebbe stato meno disastroso .

4) La Seconda Rivolta fu effettivamente internazionale. Si trattava di un disegno troppo vasto per essere elaborato dal genio di un uomo solo. In tutte le oligarchie del mondo, i lavoratori erano pronti a sollevarsi al segnale convenuto. La Germania, l'Italia, la Francia e tutta l'Australasia erano paesi di lavoratori, stati socialisti pronti ad appoggiare la rivoluzione.
E lo fecero, coraggiosamente. Per questo, quando fu soffocata la Seconda Rivolta furono anch'essi soffocati, schiacciati, dall'alleanza mondiale delle oligarchie e i rispettivi governi socialisti sostituiti da governi oligarchici.

5) John Cunningham, padre di Avis Everhard, era professore alla State University di Berkeley, in California. Il suo campo era la fisica, svolgeva molte ricerche originali anche in altri campi, ed era molto stimato come scienziato. Suoi principali contributi alla scienza furono i suoi studi sugli elettroni e, soprattutto, la monumentale opera intitolata "Identità della materia e dell'energia", nella quale stabilì, in maniera inconfutabile, che l'unità ultima della materia e quella della forza sono la stessa cosa. Prima di lui, la stessa idea era stata avanzata, ma non dimostrata, da Sir Oliver Lodge e da altri studiosi del nuovo campo della radioattività.

6) A quel tempo gli uomini si battevano a pugni per vincere un premio. Quando uno dei due cadeva, privo di sensi o morto, l'altro guadagnava il premio.

7) Oscuro riferimento a un musicista negro, cieco, che verso la fine del diciannovesimo secolo ebbe un istante di notorietà negli Stati Uniti.

8) Friedrich Nietzsche, il filosofo pazzo del secolo diciannovesimo, che ebbe visioni fantastiche della verità ma la cui ragione, a furia di girare nel gran circolo del pensiero umano, sfuggì per la tangente.

9) Noto educatore della fine del diciannovesimo secolo e dell'inizio del ventesimo. Era rettore dell'Università di Stanford, università fondata per lascito privato.

10) Monista idealista che imbarazzò a lungo i filosofi del suo tempo, negando l'esistenza della materia; ma i suoi sottili ragionamenti finirono per crollare quando le nuove scoperte empiriche della scienza furono generalizzate in filosofia.

11) Quello che distrusse San Francisco, nel 1906.

12) Immagine, questa, ispirata alle abitudini di quel tempo. Quando, tra quelli che si battevano all'ultimo sangue in quella loro maniera bestiale, un vinto gettava via le sue armi, era facoltà del vincitore ucciderlo o risparmiarlo.

13) A quel tempo parecchi ministri furono espulsi dalla Chiesa per aver predicato dottrine inaccettabili. Ciò accadeva in particolare quando le loro prediche erano tinte di socialismo.

14) Guardie di palazzo straniere assoldate da Luigi sedicesimo, un re di Francia che fu decapitato dal popolo.

Capitolo 2

SFIDE

Quando gli invitati andarono via, mio padre si lasciò cadere su una sedia e s'abbandonò a una risata pantagruelica. Dalla morte di mia madre non lo avevo mai visto ridere così di cuore.

"Scommetto che il reverendo Hammerfield non s'è mai trovato in una situazione del genere in vita sua", disse fra le risa. "Il tono cortese delle dispute ecclesiastiche! Hai notato che sulle prime sembrava una pecorella, parlo di Everhard, per mutarsi subito dopo in un leone ruggente? Ha un notevole rigore intellettuale, quell'uomo; sarebbe diventato uno scienziato di prim'ordine se avesse indirizzato le sue energie in tal senso".

Non sarà necessario dire, a questo punto, che Ernest Everhard mi interessava molto: non soltanto per quanto aveva detto, e per il modo in cui l'aveva detto, ma per se stesso, come uomo. Non avevo mai incontrato uno come lui, e credo che per questo, a ventiquattro anni compiuti, non ero ancora sposata. Mi piaceva, dovetti ammetterlo, e questa mia simpatia era dovuta non alla sua intelligenza e alla sua dialettica, ma ad altro. Nonostante quei suoi muscoli e quel suo torace da pugile, mi aveva fatto l'impressione di un giovane dall'animo puro. Sentivo che sotto quell'apparenza del chiacchierone intellettuale, c'era un animo, uno spirito delicato e sensibile. Lo avvertivo, in modo che potevo attribuire soltanto al mio intuito femminile.

C'era nel suo dire tonante qualcosa che mi era andato a cuore, e mi sembrava sempre di udirlo. Desideravo udirlo ancora, vedere ancora nei suoi occhi quel lampo di gaiezza che smentiva l'impassibilità del resto del viso. E ancora altri sentimenti vaghi, indistinti, ma più profondi, si agitavano in me. Quasi lo amavo già, sebbene sia sicura che, se non lo avessi più rivisto, quel vago sentimento si sarebbe spento e, facilmente, avrei finito col dimenticarlo.

Ma non era nel mio destino non rivederlo più: il nuovo interesse che mio padre aveva preso a nutrire per la sociologia, e i pranzi che dava regolarmente, non lo avrebbero permesso. Mio padre non era un sociologo. Il suo matrimonio con mia madre era stato felice, e felice lo avevano reso le sue ricerche di fisica; ma dopo la morte di mia madre quelle ricerche non erano più riuscite a colmare l'orribile vuoto. Si era occupato di filosofia, con poco interesse agli inizi, poi con sempre maggiore impegno, finendo con l'occuparsi di economia politica e scienze sociali. Possedeva un vivo sentimento della giustizia, e così non tardò ad accendersi di passione per la riparazione dei torti. Dal canto mio, notavo con somma gioia questi segni di rinascente interesse per la vita, pur non immaginando quale sarebbe stato il risultato. Con l'entusiasmo di un ragazzo, s'immerse così in nuove ricerche, senza neppure chiedersi dove l'avrebbero portato.

Abituato da sempre al lavoro di laboratorio, aveva dunque trasformato la sala da pranzo in un laboratorio di sociologia: vi si trovava riunita gente di ogni tipo e condizione: scienziati, uomini politici, banchieri, commercianti, professori, sindacalisti, socialisti e anarchici. Lui li sollecitava alla discussione e analizzava le loro idee sulla vita e sulla società.

Aveva conosciuto Ernest poco tempo prima della "serata dei predicatori", e dopo che gli ospiti furono andati via seppi come l'aveva conosciuto. Una sera, per strada, si era fermato ad ascoltare un uomo che, in piedi su una cassetta di legno, parlava a un gruppo di operai. Era Ernest. Ma non era un oratore da strapazzo. Era molto apprezzato dalla direzione del partito socialista, considerato uno dei dirigenti e riconosciuto come tale dai dottrinari del socialismo. Aveva il dono di presentare in forma semplice e chiara anche i problemi ardui, era un educatore nato e non credeva di avvilirsi salendo su una cassetta di legno per spiegare l'economia politica ai lavoratori.

Mio padre s'era dunque fermato ad ascoltarlo ed era rimasto interessato. Aveva poi avvicinato l'oratore, s'era presentato e lo aveva invitato al pranzo dei reverendi. E solo dopo quel pranzo mi rivelò il poco che era riuscito a sapere. Era figlio di operai, sebbene discendesse da un'antica famiglia stabilitasi da più di duecento anni in America (1). A dieci anni aveva cominciato a lavorare in fabbrica e in seguito aveva imparato il mestiere di maniscalco. Era un autodidatta, aveva studiato il francese e il tedesco, e a quel tempo si guadagnava modestamente la vita traducendo opere scientifiche e filosofiche per una traballante casa editrice socialista di Chicago. Arrotondava poi il guadagno con i diritti ricavati dalla vendita, ristretta, delle proprie opere di economia e filosofia.

Questo appresi su di lui quella sera prima di andare a letto, dove stetti a lungo sveglia ascoltando ancora, nel ricordo, il suono della sua voce. Mi spaventai dei miei stessi pensieri. Somigliava così poco agli uomini della mia classe! Sembrava così estraneo, così forte! La sua padronanza di sé mi piaceva e insieme mi spaventava, e la mia fantasia galoppava tanto che mi sorpresi a considerarlo come amante e come marito. Avevo sempre sentito dire che la forza degli uomini è un'attrattiva irresistibile per le donne; ma Ernest era troppo forte. "No, no!" esclamai, "è impossibile, è assurdo!". E il giorno dopo, svegliandomi, provai il desiderio fortissimo di rivederlo, di assistere alla sua vittoria in una nuova discussione, di vibrare ancora al suono bellissimo della sua voce, di ammirarlo nella sua sicurezza e nella sua forza, quando spezzava la loro albagia e distoglieva il loro pensiero dal solito circolo vizioso. Che importavano le sue smargiassate? Come lui stesso aveva detto, "funzionavano", erano efficaci. Inoltre, erano belle a sentirsi, eccitanti come l'inizio di una battaglia.

Passarono parecchi giorni durante i quali lessi i libri di Ernest prestatimi da mio padre. Scritta, la sua parola era come quella parlata, chiara e convincente. La sua semplicità assoluta ti convinceva anche se il tuo dubbio continuava. Aveva il dono della lucidità, di esporre in maniera perfetta. E tuttavia, nonostante il suo stile, molte cose non mi piacevano. Dava troppa importanza a ciò che chiamava la lotta di classe, all'antagonismo fra lavoro e capitale, al conflitto degli interessi.

Mio padre, compiaciuto, mi riferì il giudizio del dottor Hammerfield su Ernest: "Un botolo insolente reso borioso da poca e inadeguata preparazione". Inoltre, il dottor Hammerfield si rifiutava di rivederlo.

Il vescovo Morehouse, invece, era rimasto molto colpito, ed era ansioso di incontrarlo di nuovo. "Un giovane forte", aveva dichiarato, "e vivace, molto vivace. Ma troppo sicuro di sé, troppo sicuro!".

Ernest ritornò un pomeriggio, in compagnia di mio padre. Il vescovo era già arrivato e stavamo prendendo il tè sulla veranda.

La prolungata presenza di Ernest a Berkeley, tra l'altro, era dovuta al fatto che seguiva dei corsi speciali di biologia all'università; in più, a quel tempo lavorava intensamente a una nuova opera intitolata: "Filosofia e Rivoluzione" (2).

Quando entrò, improvvisamente la veranda parve troppo piccola. Non perché lui fosse molto alto (era alto un metro e settantadue), ma perché sembrava irradiare un'atmosfera di grandezza. Nel salutarmi, tradì una lieve esitazione che contrastava stranamente con il suo sguardo ardito e la sua stretta di mano ferma e sicura.

I suoi occhi non erano meno sicuri, ma, questa volta, sembravano interrogare, mentre mi guardavano, come il primo giorno, indugiando un po' troppo.

"Ho letto il suo libro: 'Filosofia della classe lavoratrice'", dissi, e scorsi nei suoi occhi un lampo di compiacimento.

"Naturalmente", rispose, "avrà tenuto conto del pubblico al quale è rivolto".

"Sì, e appunto per questo non sono d'accordo con lei".

"Neppure io", disse il vescovo Morehouse, "sono d'accordo con lei".

Ernest scrollò le spalle con aria rassegnata, e accettò una tazza di tè.

Il vescovo mi cedette la parola con un inchino.

"Lei fomenta l'odio di classe", cominciai. "E a me pare un errore, un delitto, fare appello a tutto ciò che vi è di limitato e brutale nella classe operaia. L'odio di classe è anti-sociale".

"Proclamo la mia innocenza", rispose lui. "Non c'è odio di classe né nel testo né nello spirito di nessuna mia opera".

"Oh!" esclamai con aria di rimprovero. Presi il libro e lo aprii.

Lui sorseggiava il tè e mi sorrideva, mentre io sfogliavo le pagine.

"Pagina centotrentadue", dissi, e lessi ad alta voce: "'Pertanto, nell'attuale stadio dello sviluppo sociale, tra i datori di lavoro e i salariati esiste lotta sociale'!".

Lo guardai con aria di trionfo.

"Ma non vi si parla di odio di classe", rispose lui, sorridendo.

"Ma parla di 'lotta di classe'".

"Non sono certo la stessa cosa. Mi creda, noi non fomentiamo l'odio. Sosteniamo soltanto che la lotta di classe è una legge dell'evoluzione sociale. Non ne siamo responsabili. Non è una nostra invenzione. Ci limitiamo a spiegarla, come Newton spiegava la gravitazione. Noi esaminiamo la natura del conflitto d'interessi che provoca la lotta di classe".

"Ma non dovrebbe esserci nessun conflitto d'interessi!" esclamai.

"Sono perfettamente d'accordo con lei", rispose. "E noi socialisti tendiamo appunto all'abolizione di questo conflitto di interessi.

Scusi, mi lasci leggere un altro punto". Prese il libro e ne voltò alcuni fogli. "Pagina centoventisei: 'Il ciclo della lotta di classe, iniziato con la dissoluzione del comunismo primitivo della tribù e la nascita della proprietà privata, si concluderà con l'abolizione della proprietà individuale dei mezzi dell'esistenza sociale'".

"Non sono d'accordo con lei", lo interruppe il vescovo, tradendo con un lieve rossore nel volto ascetico l'intensità dei suoi sentimenti. "Le sue premesse sono false. Non esiste conflitto d'interessi fra lavoro e capitale, o, almeno, non dovrebbe esistere".

"La ringrazio", disse con aria grave Ernest, "di avermi restituito le mie premesse con questa sua affermazione".

Ma perché dovrebbe esserci conflitto?" incalzò il vescovo con calore.

Ernest si strinse nelle spalle.

"Perché siamo fatti così, immagino".

"Ma non siamo fatti così!" esclamò l'altro.

"Stiamo forse parlando dell'uomo ideale, divino, privo di egoismo?" ribatté Ernest. "Ce n'è tanto pochi che si possono considerare inesistenti. Oppure dell'uomo comune, ordinario?".

"Dell'uomo ordinario".

"Debole, fallibile e soggetto a errare?".

Il vescovo Morehouse annuì.

"E meschino, egoista?" Il prelato annuì ancora.

"Badi bene", avvertì Ernest. "Ho detto 'egoista'".

"L'uomo comune è egoista", affermò il vescovo con calore.

"Che vuole avere tutto ciò che può?".

"Vuole avere il più possibile. E' deplorevole, ma è vero".

"Allora ci è cascato". La mascella di Ernest scattò come una trappola. "Glielo dimostro. Prenda un uomo che lavora sui tram".

"Non potrebbe lavorare se non ci fosse il capitale", l'interruppe il vescovo.

"E' vero, ma ammetterà che il capitale perirebbe se non guadagnasse i suoi dividendi sulla mano d'opera".

Il vescovo non rispose.

"Non è d'accordo?" insistette Ernest.

Il prelato annuì.

"Allora le nostre due proposizioni si annullano reciprocamente, e ci troviamo al punto di partenza. Ricominciamo. I tranvieri forniscono la mano d'opera e gli azionisti il capitale. Da quest'unione del lavoro col capitale nasce il guadagno (3).

Entrambi si dividono questo guadagno: la parte che tocca al capitale si chiama dividendo, quella che tocca al lavoro si chiama salario".

"Benissimo", l'interruppe il vescovo. "Ma non c'è motivo perché questa divisione non avvenga amichevolmente".

"Ha già dimenticato le premesse", replicò Ernest. "Eravamo d'accordo nell'ammettere che l'uomo ordinario è egoista. L'uomo ordinario è quello che è. Ora invece lei parte per la tangente e vuol fare una distinzione fra quest'uomo e gli uomini come dovrebbero essere, ma come non sono in realtà. Ritorniamo sulla terra: il lavoratore, essendo egoista, vuole avere quanto più può nella divisione; il capitalista, essendo egoista, vuole, del pari, avere tutto ciò che può prendere. Quando una cosa esiste in quantità limitata, e due uomini vogliono averne ciascuno la parte maggiore, nasce un conflitto d'interessi. E' il conflitto che esiste fra capitale e lavoro, ed è uno scontro inconciliabile.

Finché esisteranno operai e capitalisti, litigheranno per la divisione del guadagno. Se fosse stato a San Francisco questo pomeriggio, sarebbe stato costretto ad andare a piedi, non circola neppure un tram".

"Un altro sciopero?" (4) domandò il vescovo, allarmato.

"Sì, litigano per l'equa divisione dei guadagni delle tranvie".

Il vescovo si irritò.

"Hanno torto!" esclamò. "Gli operai non vedono al di là del loro naso. Come possono sperare di conservare la nostra simpatia?...".

"Quando ci obbligano ad andare a piedi", disse maliziosamente Ernest.

E il vescovo concluse senza badargli:

"Il loro punto di vista è troppo meschino. Gli uomini devono agire da uomini e non da bestie. Ci saranno ancora violenze e uccisioni, e vedove e orfani addolorati. Capitale e lavoro dovrebbero essere uniti, dovrebbero procedere insieme, per il reciproco interesse".

"Ecco che parte di nuovo per la tangente", osservò freddamente Ernest. "Vediamo di ritornare sulla terra e di non perdere di vista la nostra asserzione: l'uomo è egoista".

Ma non dovrebbe esserlo!" esclamò il vescovo.

"Su questo punto sono d'accordo con lei. Non dovrebbe essere egoista, ma lo sarà sempre finché vivrà in un sistema sociale fondato su una morale meschina".

Il prelato parve spaventato; mio padre entro di sé rideva.

"Sì, una morale meschina", riprese Ernest, senza esitazioni. "Ed è l'ultima parola del vostro sistema capitalistico, è ciò che sostiene la vostra chiesa, ciò che voi predicate ogni volta che salite sul pulpito: meschina, non c'è altro nome".

Il vescovo si rivolse per aiuto a mio padre, il quale scosse il capo, ridendo.

"Credo che il signor Everhard abbia ragione", disse poi. "E' la politica del 'laissez-faire', dell'ognuno per sé e dio per tutti.

Come disse l'altra sera il signor Everhard, il compito di voi gente di chiesa consiste nel mantenere l'ordine stabilito e la società è fondata su questo principio!".

"Ma questo non è l'insegnamento di Cristo!" esclamò il vescovo.

"Oggi la chiesa non insegna la dottrina di Cristo", rispose Ernest. "Per questo gli operai non vogliono niente a che farci. La chiesa approva la terribile brutalità, la ferocia con la quale il capitalista tratta la classe lavoratrice".

"Non l'approva affatto", obiettò il vescovo.

"Ma non protesta neppure", replicò Ernest "e perciò approva, perché non bisogna dimenticare che la chiesa è sostenuta dalla classe capitalistica".

"Non avevo mai considerato la cosa da questo punto di vista", disse ingenuamente il vescovo. "Ma credo che sbagli. So che le tristezze e le brutture del mondo sono molte; so che la chiesa ha perduto il... quello che voi chiamate proletariato" (5).

"Non è mai stato con voi", esclamò Ernest. "Si è sviluppato fuori della chiesa e senza di essa".

"Non la seguo più", replicò debolmente il vescovo.

"Le spiego. Dopo l'introduzione della macchina e del sistema industriale, verso la fine del diciottesimo secolo, la grande massa dei lavoratori fu allontanata dalla terra e l'antico sistema di lavoro mutò. Tolti dai loro villaggi, i lavoratori si trovarono rinchiusi nelle città industriali; le madri e i fanciulli furono messi a lavorare alle nuove macchine; la vita di famiglia cessò e le condizioni divennero atroci. E' una pagina di storia scritta con sangue e lacrime".

"Lo so", l'interruppe il vescovo, con un'espressione d'angoscia in viso. "Fu terribile, ma ciò avvenne in Inghilterra, un secolo e mezzo fa".

"E lì, un secolo e mezzo fa, nacque il proletariato moderno", continuò Ernest. "Mentre il paese veniva trasformato dai capitalisti in un vero e proprio macello, la chiesa taceva, non protestò allora come non protesta oggi. Come dice Austin Lewis (6), parlando di quell'epoca, coloro che avevano ricevuto il comandamento: 'Pascete i miei agnelli', hanno assistito senza protestare alla vendita e al massacro di quegli agnelli (7). Prima di continuare la prego di dirmi sinceramente se è o no d'accordo.

La chiesa protestò a quel tempo?".

Il vescovo Morehouse esitò: come il dottor Hammerfield, non era abituato a quel violento "corpo a corpo", come lo chiamava Ernest.

"La storia del secolo diciottesimo è stata scritta", suggerì questi. "Se la chiesa tacque allora, non avrà taciuto anche nei libri".

"Purtroppo temo che sia rimasta muta", ammise il prelato.

"E rimane muta anche oggi".

"Su questo non sono d'accordo".

Ernest tacque, guardò attentamente il suo interlocutore e accettò la sfida.

"Benissimo", disse, "vedremo. Ci sono, a Chicago, donne che lavorano tutta la settimana per novanta centesimi. Protesta forse la chiesa?".

"E' una novità per me", fu la risposta. "Novanta centesimi? E' orribile!".

"La chiesa ha forse protestato?" insistette Ernest.

"La chiesa lo ignora". Il vescovo appariva penosamente agitato.

"Eppure la chiesa ha ricevuto il comandamento: 'Pasci i miei agnelli!'" disse Ernest, con amara ironia. Poi, riprendendosi:

"Perdoni la mia ironia, monsignore, ma c'è da meravigliarsi se perdiamo la pazienza con voi? Avete forse protestato presso le vostre congreghe capitalistiche per l'impiego dei fanciulli nelle filande di cotone del Sud? (8). Bimbi di sei o sette anni lavorano tutte le notti, in turni di dodici ore: non vedono mai la santa luce del giorno, e muoiono come mosche. I dividendi sono pagati con il loro sangue e con quel denaro si costruiscono chiese magnifiche nel New England, nelle quali voi predicate piacevoli banalità ai lustri e panciuti beneficiari di quei dividendi".

"Non sapevo", mormorò il vescovo, con un filo di voce e il viso pallido, come se soffrisse di nausea.

"E quindi non avete protestato, vero?".

Il vescovo fece un debole cenno di diniego.

"Così la chiesa tace oggi come tacque nel secolo diciottesimo".

Il vescovo non rispose e, per una volta tanto, Ernest non insistette oltre.

"E non dimentichi; ogni volta che un membro del clero protesta, lo si congeda".

"Questo non mi sembra giusto".

"Lei protesterebbe?".

"Fatemi vedere, nella vostra comunità, dei mali come quelli di cui ha parlato lei e io farò sentire la mia voce".

"Mi metto a sua disposizione per mostrarglieli", rispose tranquillamente Ernest. "Le farò fare un viaggio attraverso l'inferno".

"E io protesterò!". Il vescovo si era raddrizzato sulla sedia e il dolce viso gli si tese nella fiera durezza del guerriero. "La chiesa non rimarrà muta".

"Sarà congedato", lo avvertì Ernest.

"Le fornirò la prova del contrario", replicò l'altro. "Le dimostrerò che, se tutto ciò che dice è vero, la chiesa ha sbagliato per ignoranza; che tutto quanto c'è di orribile nella società industriale è dovuto all'ignoranza della classe capitalistica. Essa rimedierà al male appena riceverà il messaggio che la chiesa avrà il dovere di comunicarle".

Ernest scoppiò a ridere, una risata così brutale che mi sentii portata a prendere le difese del vescovo.

"Ricordi", dissi, "che lei vede un solo lato della medaglia. Anche se lei non ci crede capaci di bontà, sappia che c'è molto di buono in noi. Il vescovo Morehouse ha ragione. I mali dell'industria, per quanto terribili, sono dovuti all'ignoranza. Le diversità delle condizioni sociali sono troppo profonde".

"L'indiano selvaggio è meno crudele e meno implacabile della classe capitalistica", rispose lui, e in quel momento l'odiai.

"Lei non ci conosce, non siamo né crudeli né implacabili".

"Lo dimostri", disse lui, in tono di sfida.

"Come posso dimostrarlo... a lei?". Cominciavo a irritarmi.

Scosse il capo. "Non pretendo che lo dimostri a me; le chiedo di dimostrarlo a se stessa".

"So cosa pensare in proposito".

"Non sa proprio nulla", rispose lui, brutalmente.

"Andiamo, andiamo, figlioli", disse mio padre, conciliante.

"Me ne infischio..." cominciai, indignata; ma lui mi interruppe.

"Credo che lei abbia dei capitali investiti nelle filande Sierra; o che li abbia suo padre, il che è lo stesso".

"Cosa c'entra questo?" esclamai.

"Non molto", rispose lui, parlando lentamente, "solo che l'abito che indossa è macchiato di sangue. Le travi del tetto che vi ripara, gocciolano del sangue di fanciulli e di giovani validi e forti. Mi basta chiudere gli occhi per sentirlo colare goccia a goccia, intorno a me".

E accompagnando la parola con il gesto, si allungò nella poltrona e chiuse gli occhi.

Scoppiai in lacrime, per la mortificazione e la vanità ferita. Non ero mai stata trattata tanto brutalmente in vita mia. Anche il vescovo e mio padre erano a disagio e turbati. Cercarono di sviare la conversazione rivolgendola verso un argomento meno scottante, ma Ernest aprì gli occhi, mi guardò e volse altrove lo sguardo. La piega della sua bocca era severa, e il suo sguardo anche; non c'era nei suoi occhi il minimo lampo di gaiezza. Cosa stesse per dire, quale nuova crudeltà stesse per infliggermi, non l'avrei mai saputo, perché in quell'istante un uomo che passava sul marciapiede si fermò a guardarci. Era un giovane robusto, vestito poveramente, che portava sulla schiena un pesante carico di cavalletti, sedie e parafuochi di bambù e panno. Guardava la casa come se non osasse entrare per tentare di vendere la sua merce.

"Quell'uomo si chiama Jackson", disse Ernest.

"Robusto com'è," osservai seccamente, "dovrebbe lavorare, invece di fare il merciaio ambulante" (9).

"Osservi la sua manica sinistra", disse Ernest gentilmente.

Gettai uno sguardo e vidi che la manica del giovane era vuota .

"Anche da quel braccio scorre un po' del sangue che sentivo gocciolare dal vostro soffitto", continuò lui, con lo stesso tono dolce e triste. "Ha perduto il braccio nella filanda Sierra, e voi l'avete gettato sul lastrico a morire come un cavallo mutilato.

Dicendo voi, intendo il direttore e le altre persone impiegate da voi e gli altri azionisti che dirigono per voi le filande. Fu una disgrazia, dovuta allo zelo di quell'operaio per far risparmiare qualche dollaro all'azienda. Il braccio gli venne preso dal cilindro dentato della cardatrice. Avrebbe potuto lasciar passare il sassolino che aveva notato fra i denti della macchina, avrebbe spezzato una doppia fila di punte; volle invece toglierlo e il braccio gli si impigliò e fu sfracellato, dalla punta delle dita alla spalla. Era notte: nella filanda si facevano turni straordinari di lavoro. In quel trimestre fu pagato un forte dividendo. Quella notte Jackson lavorava da molte ore e i suoi muscoli avevano perduto la solita vivacità: per questo venne afferrato dalla macchina. Ha moglie e tre bambini".

"E che cosa fece la società per lui?" chiesi.

"Assolutamente niente. No, mi scusi, qualcosa ha fatto. E' riuscita a far respingere l'istanza per danni e interessi che l'operaio aveva presentato quando uscì dall'ospedale. La società ha degli avvocati abilissimi".

"Non ha detto tutto", feci con convinzione, "e forse non conoscete tutta la storia. Forse quell'uomo era un insolente".

"Insolente! Ah! Ah!". Quella sua risata era mefistofelica. "Gran dio, insolente col braccio sfracellato! Era un servitore dolce e umile, e non risulta che sia mai stato un insolente".

"Ma il tribunale", insistetti, "non avrebbe deciso in suo sfavore se non ci fosse sotto qualcos'altro".

"Il principale avvocato consulente della società è il colonnello Ingram, un uomo di legge, molto abile".

Mi guardò con aria grave per un momento, quindi continuò:

"Voglio darle un consiglio, signorina Cunnigham: fare un'inchiesta sul caso Jackson".

"Avevo già deciso di farlo", risposi, gelida.

"Benissimo", ribatté lui, allegro. "E le dirò dove potrà trovare il nostro uomo. Ma fremo al pensiero della conclusione alla quale arriverà grazie al braccio di Jackson".

E così il vescovo e io accettammo la sfida di Ernest. Poco dopo se ne andarono, insieme, lasciandomi scossa per l'ingiustizia fatta alla mia classe sociale e a me stessa. Quel giovanotto era un bruto. Lo odiavo, in quel momento, e mi consolavo al pensiero che la sua condotta era come bisognava aspettarsela da un membro della classe operaia.

NOTE:

1) A quei tempi, la distinzione fra le famiglie natie nel paese e quelle venute di fuori, era nettamente e gelosamente segnata.

2) Questo libro continuò a essere stampato clandestinamente durante i tre secoli del Tallone di Ferro. Parecchie copie delle sue diverse edizioni si trovano nella biblioteca nazionale di Ardis.

3) A quel tempo, gruppi di uomini rapaci controllavano tutti i mezzi di trasporto, per il cui uso imponevano tariffe al pubblico.

4) Queste manifestazioni erano molto diffuse in quei tempi di caos e anarchia. A volte gli operai rifiutavano di lavorare, altre volte i capitalisti rifiutavano di lasciare lavorare gli operai.
Nella violenza e nel disordine di questi dissidi, molta proprietà veniva distrutta e molte vite umane perivano. Tutto questo oggi ci sembra inconcepibile come inconcepibile ci risulterebbe l'altra abitudine di quel tempo, quella dei mariti di fracassare mobili quando litigavano con le mogli.

5) "Proletariato" - dal latino "proletarius", nome dato nel censimento di Servio Tullio a coloro che per lo stato contavano soltanto perché facevano figli ("proles"); in altre parole, non avevano alcuna importanza né per censo né per condizione sociale né per eccezionale abilità.

6) Candidato socialista al governatorato della California nelle elezioni dell'autunno del 1906. Inglese di nascita e autore di numerosi testi di economia politica e filosofia, era uno dei dirigenti socialisti del tempo.

7) Non esiste pagina della storia più orribile di quella del trattamento dei fanciulli e delle donne schiavi nelle fabbriche inglesi durante la seconda metà del secolo diciottesimo dell'era cristiana. E in quegli inferni industriali nacquero parecchie delle più offensive fortune dell'epoca.

8) Everhard avrebbe potuto trovare un esempio ancor più probante di esplicita difesa della schiavitù da parte della chiesa del Sud prima della cosiddetta "Guerra di secessione". Diamo qui alcuni di questi esempi tratti da documenti del tempo. Nell'A.D. 1835, l'Assemblea Generale della Chiesa Presbiteriana decise che "la schiavitù è riconosciuta nel Vecchio come nel Nuovo Testamento e non è condannata dall'autorità divina". La Charleston Baptist Association, nello stesso anno, affermava in un suo indirizzo che "Il diritto dei padroni di disporre del tempo dei propri schiavi fu chiaramente riconosciuto dal Creatore di tutte le cose, il quale è certamente libero di investire del diritto di proprietà su qualunque oggetto chiunque a Lui piaccia". ll reverendo E. D. Sirnon, dottore in teologia e professore al Collegio Metodistico di Randolph-Macon, in Virginia, scrisse: "Ci sono dei passi nelle Sacre Scritture che ribadiscono inequivocabilmente il diritto di proprietà degli schiavi, con tutte le conseguenze derivanti da tale diritto. E' chiaramente stabilito il diritto di acquistarne e di venderne. Nell'insieme, dunque, sia che si consulti la politica ebraica istituita da Dio stesso, o l'uniforme opinione e la pratica del genere umano in tutti i tempi, o i comandamenti del Nuovo Testamento e la legge morale, siamo portati a concludere che la schiavitù non è immorale. Stabilito il fatto che i primi schiavi africani furono legalmente condotti in schiavitù, ne consegue necessariamente il diritto di mantenere anche i loro figli in servitù. Pertanto, la schiavitù esistente in America è fondata sul diritto".

Nessuna meraviglia che un simile linguaggio sia stato tenuto dalla Chiesa, una o due generazioni dopo, in merito alla difesa della proprietà capitalistica. Nel grande museo di Asgard, esiste un libro intitolato "Saggi d'applicazione", opera di Henry Van Dyke.

Il libro venne pubblicato nell'anno 1905 dell'Era Cristiana, ed è un buon esempio di ciò che Everhard avrebbe chiamato mentalità borghese. Si noti la somiglianza tra l'affermazione della Charleston Baptist Association citata sopra, e la seguente di Van Dyke, settant'anni dopo: "La Bibbia insegna che Dio possiede il mondo. Distribuisce a tutti gli uomini secondo il suo piacere, conformemente alle leggi generali".

9) Esistevano, a quel tempo, migliaia di poveri merciai ambulanti, che offrivano di porta in porta la loro mercanzia. Era un vero spreco di energia. I sistemi di distribuzione erano confusi e irrazionali, come tutto l'insieme del sistema sociale.

Capitolo 3

IL BRACCIO DI JACKSON

Non immaginavo neppure la parte importante che il braccio di Jackson avrebbe avuto nella mia vita. Lui personalmente, quando riuscii a trovarlo, non mi fece una grande impressione. Lo scovai in una baracca (1) dalle parti della baia, al limite della palude.

Tutt'intorno, c'erano pozze d'acqua stagnante, la cui superficie era coperta da una schiuma verde e dall'aspetto putrido; e se ne levavano miasmi intollerabili.

Scoprii che era veramente la persona umile e mite che mi era stata descritta. Era tutto intento a un lavoro di impagliatura, e mentre parlavo con lui, lavorava senza smettere. Nonostante la sua rassegnazione, colsi nella sua voce come un senso di amarezza nascente, quando mi disse:

"Avrebbero potuto impiegarmi come guardiano notturno, almeno" (2).

Riuscii a cavar poco da lui: aveva un'aria ebete che contrastava con la destrezza mostrata nel lavorare con la sua unica mano.

Questo mi suggerì una domanda:

"Come le è successo di restare impigliato col braccio nella macchina?".

Mi guardò come trasognato. Rifletté, poi scosse il capo.

"Non so, non so come sia accaduto".

"Negligenza?".

"No, non la chiamerei negligenza: facevo delle ore supplementari ed ero un po' stanco. Ho lavorato diciassette anni in quella filanda, e ho notato che gli incidenti capitano proprio poco prima del fischio della sirena (3). Scommetterei che ne accadono più nell'ora che precede l'uscita, che nel resto della giornata. Dopo aver lavorato per parecchie ore senza interruzione, si è meno attenti. Lo so perché ne ho visti tanti fatti a pezzi, affettati o sfracellati".

"Molti?"

"Centinaia. E anche bambini".

Tranne alcuni particolari raccapriccianti, il racconto che Jackson mi fece dell'incidente fu lo stesso di quello che avevo già sentito. Quando gli chiesi se nella manovra della macchina non avesse per caso infranto qualche norma di sicurezza, scosse il capo.

"Staccai la cinghia con la destra", disse poi, "allungai quindi la sinistra per togliere la pietra senza verificare se la cinghia era staccata. Credevo di averlo fatto con la destra - invece no. Non del tutto, almeno; avevo agito troppo in fretta. E il braccio mi venne maciullato".

"Dovette sentire un dolore atroce", dissi, con simpatia.

"Lo stritolamento delle ossa non fu... piacevole", fu la sua risposta.

Quanto alla citazione e al giudizio per danni, aveva le idee un po' confuse. La sola cosa chiara, per lui, era che non aveva ottenuto nessun risarcimento. Secondo lui, la decisione contraria del tribunale era dovuta alla testimonianza dei capi-operai e del direttore che, come s'espresse lui, "non dissero quello che avrebbero dovuto dire". Decisi pertanto di rivolgermi anche a loro.

Una cosa era chiara, che Jackson era ridotto in condizioni pietose. Sua moglie era malata e quel mestiere di merciaio ambulante non gli faceva guadagnare abbastanza da sfamare la famiglia. Era in arretrato con la pigione, e il figlio maggiore, un ragazzo di undici anni, lavorava già nella filanda.

"Potevano darmi il posto di guardiano notturno", furono le sue ultime parole, mentre me ne andavo.

Dopo un colloquio con l'avvocato che aveva patrocinato la causa di Jackson, e con il direttore e i due capi-operai che avevano deposto come testimoni, cominciai a rendermi conto che dopotutto Ernest aveva ragione.

A prima vista giudicai l'avvocato un essere debole e inetto, e non mi stupii che Jackson avesse perso la causa. Il mio primo pensiero fu che in fondo aveva avuto ciò che si meritava per aver scelto un difensore simile. Poi mi ritornarono alla mente le affermazioni di Ernest: "La società ha degli avvocati abilissimi", e l'altra: "Il colonnello Ingram è un uomo di legge molto abile". Conclusi allora che, naturalmente, la società era in grado di pagarsi difensori migliori di quelli che poteva permettersi un povero diavolo di operaio come Jackson. Ma questo era un particolare secondario; a mio avviso, doveva esserci una ragione ben valida se Jackson aveva perso la partita.

"Come mai perse la causa?" domandai.

L'avvocato parve, per un attimo, perplesso e preoccupato; e provai pietà per quel disgraziato. Poi cominciò a lamentarsi. Penso che fosse un piagnone nato. Era un uomo sconfitto fin dalla culla. Si lamentò dei testimoni, la cui deposizione era stata favorevole solo alla parte avversa. Non era riuscito a strappargli una sola parola a favore di Jackson. Sapevano bene da quale parte stava la pagnotta. Quanto a Jackson, era uno stupido: si era lasciato intimidire e confondere dal colonnello Ingram, che era abilissimo nei controinterrogatori. Lo aveva confuso con le sue domande, e gli aveva strappato delle risposte rovinose.

"Intende dirmi forse che Jackson stava dalla parte della ragione e, ciò nonostante, perse?" gli domandai, esitando. "Vuole forse insinuare che non c'è giustizia alla corte del giudice Caldwell?".

Il piccolo avvocato mi guardò fisso per un istante; poi ogni traccia di bellicosità scomparve dal suo volto.

Riprese a lamentarsi. "Avevo poche possibilità. Si fecero beffe di Jackson, e di me con lui. Quale probabilità di riuscita avevo? Il colonnello Ingram è un grande avvocato. Se non fosse un giurista di prim'ordine, crede che avrebbe in mano le Filande Sierra, il Sindacato Fondiario di Erston, la Berkeley Consolidated, l'Oakland, la San Leandro e la Società Elettrica Pleasanton? E' un legale di società, e questi legali non sono pagati per essere stupidi. Perché mai le Filande Sierra, solo esse, gli danno ventimila dollari l'anno? Perché, capirà bene, agli occhi degli azionisti, egli vale quella somma. Io, non valgo tanto. Se valessi tanto non sarei uno spostato, un morto di fame, costretto ad accettare casi come quello di Jackson. Cosa crede che avrei guadagnato anche se avessi vinto il processo?".

"Penso che l'avrebbe spogliato (4), molto probabilmente".

"Naturalmente", esclamò, irritato. "Anch'io devo vivere" (5).

"Ma ha moglie e figli!" ribattei.

"Io pure ho moglie e figli. E non c'è nessuno al mondo, oltre me, che si preoccupi perché non muoiano di fame!".

Il viso gli si addolcì, improvvisamente. Aprì la cassa dell'orologio e mi mostrò le fotografie di una donna e due bambine.

"Guardi, eccole. Abbiamo avuto brutti momenti, brutti. Avevo intenzione di mandarle in campagna se avessi vinto quel processo.

Non stanno bene qui, ma non ho i mezzi per mandarle altrove".

Quando mi alzai per congedarmi, ricominciò il suo piagnisteo:

"Non ho avuto un briciolo di fortuna! Il colonnello Ingram e il giudice Caldwell sono amicissimi. Non dico che quell'amicizia avrebbe influito sulla causa, se avessi ottenuto una deposizione come si deve da parte dei testimoni, ma devo aggiungere, tuttavia, che il giudice Caldwell e il colonnello Ingram frequentano la stessa loggia, lo stesso circolo. Abitano nello stesso quartiere, dove io non posso vivere, le loro mogli sono sempre insieme. E fra loro è uno scambio continuo di partite di whist, e cose del genere".

"E tuttavia lei crede che Jackson avesse il diritto dalla parte sua?".

"Non lo credo: ne sono sicuro. In principio credetti persino che avesse probabilità di vincere, ma non lo dissi a mia moglie per non darle inutili speranze. Era ossessionata dall'idea di un soggiorno in campagna. E' stata abbastanza delusa anche così".

A Peter Donnelly, uno dei capi-operai che avevano deposto al processo, domandai: "Perché non richiamò l'attenzione sul fatto che Jackson era stato ferito perché aveva cercato di evitare un guasto alla macchina?".

Rifletté a lungo prima di rispondermi; poi si guardò attorno, con aria sospetta e disse:

"Perché ho una moglie e i tre più bei figli che si possa immaginare, per questo".

"Non capisco".

"In altre parole, perché sarebbe stato imprudente".

"Intende dire...".

M'interruppe con foga:

"Voglio dire quello che dico. Da molti anni lavoro come filatore.

Ho cominciato da bambino ai fusi, e da allora non ho più smesso di lavorare. Lavorando duro, sono giunto alla posizione attuale, privilegiata. Sono capo-operaio, e dubito che, se stessi affogando, un solo operaio della filanda mi porgerebbe una mano.

Un tempo facevo parte del sindacato, ma durante due scioperi mi schierai dalla parte del padrone, e così mi chiamarono 'crumiro'.

Non uno solo di loro berrebbe una birra con me se gliela offrissi.

Guardi le cicatrici che ho sulla testa: mi hanno colpito con dei mattoni. Non c'è apprendista che non maledica il mio nome. Il mio solo amico è la società. Non è mio dovere sostenerla, ma essa è il mio pane, il mio companatico e la vita dei miei bambini. Ecco perché non ho detto nulla".

"Jackson ebbe forse qualche colpa dell'incidente?" chiesi.

"Avrebbe dovuto ottenere il risarcimento dei danni. Era un buon operaio che non aveva mai dato noia a nessuno".

"Non era dunque libero di dire la verità?" aggiunsi, in tono solenne.

Scosse il capo.

"La verità, tutta la verità e nient'altro che la verità?" ripetei con tono solenne.

Il suo viso si contrasse ancora; lo sollevò, non verso di me, ma verso il cielo.

"Mi lascerei bruciare anima e corpo, a fuoco lento, nell'inferno eterno per amore dei miei figli", rispose.

Henry Dallas, il direttore, era un tipo dal viso volpino che mi squadrò con insolenza e si rifiutò di parlare. Non riuscii a cavargli una sola parola sul processo e la deposizione dei testimoni. Ebbi miglior fortuna con l'altro capo-operaio, James Smith. Era un uomo dall'espressione dura, e provai una stretta al cuore vedendolo. Anche lui mi diede l'impressione di non essere un uomo libero, e durante la nostra conversazione mi accorsi che la sua intelligenza era superiore a quella della media degli uomini della sua specie. D'accordo con Peter Donnelly, disse che a Jackson avrebbero dovuto pagare almeno i danni, si spinse anche oltre, definendo fredda e spietata la decisione di gettare sul lastrico quel povero operaio dopo che era stato menomato dall'incidente. Aggiunse anche che gli incidenti sul lavoro erano frequenti nelle filande e che le società si battevano fino all'ultimo per risparmiare il pagamento dei danni.

"Rappresentano migliaia di dollari l'anno per gli azionisti", disse, e mentre parlava mi ricordai dell'ultimo dividendo pagato a mio padre e che era servito per comprare un bell'abito per me e dei libri per lui. Ricordai che Ernest aveva detto che il mio vestito era macchiato di sangue, e sentii la mia carne fremere sotto gli abiti.

"Nella sua deposizione non fece rilevare che Jackson fu vittima di quell'incidente perché volle evitare un guasto alla macchina?".

"No", rispose, e strinse le labbra amaramente. "Dichiarai che Jackson era stato ferito per negligenza e noncuranza, e la società non era responsabile".

"Ci fu dunque negligenza da parte di Jackson?".

"Si può chiamarla come si vuole. Il fatto è che quando ha lavorato parecchie ore consecutive, un uomo è stanco".

Quell'uomo cominciava a interessarmi. Era certamente un tipo poco comune.

"Lei è più istruito della maggior parte degli operai", osservai.

"Ho frequentato la scuola superiore", rispose. "Mi pagavo gli studi lavorando come uomo delle pulizie. Volevo arrivare all'università, ma quando mio padre morì dovetti entrare a lavorare nella filanda. Volevo diventare naturalista", aggiunse, timidamente, come se avesse confessato una debolezza. "Adoro gli animali. Invece sono entrato in quella filanda. Promosso capo- operaio, mi sposai, poi ci fu la famiglia e... be', non fui più padrone di me stesso".

"Cosa intende dire?" domandai.

"Stavo spiegando perché al processo deposi a quel modo... seguii le istruzioni ricevute...".

"Da chi?".

"Dal colonnello Ingram... Fu lui a suggerire la deposizione che dovevo fare".

"E che fece perdere la causa a Jackson".

Annuì e il rossore invase il suo volto scuro.

"E Jackson aveva moglie e due bambini da mantenere".

"Lo so," disse, tranquillamente, ma il viso gli si oscurò ancor più.

"Dica", continuai, "fu facile per lei, da quello che era quando frequentava la scuola superiore, trasformarsi in un uomo capace di una cosa simile?".

La sua pronta collera mi spaventò. Vomitò (6) una bestemmia sconcertante, e strinse il pugno come per colpirmi.

"Mi scusi", disse subito dopo. "No, non è stato facile... E ora credo che farebbe meglio ad andarsene. Ha saputo tutto quello che voleva sapere. Ma lasci che l'avverta di una cosa. Non le servirà a niente ripetere ciò che le ho detto. Negherei tutto, visto che non ci sono stati testimoni. Negherei fino all'ultima parola, e se fosse necessario, negherei anche sul banco dei testimoni, sotto giuramento".

Dopo questo colloquio, andai a trovare mio padre nel suo studio presso l'Istituto di Chimica, dove incontrai Ernest. Fu una sorpresa; mi accolse con il suo sguardo ardito, la sua stretta di mano forte e sicura e quello strano miscuglio di sicurezza e goffaggine che era tipico di lui. Sembrava che avesse dimenticato il nostro ultimo incontro e la sua atmosfera burrascosa; ma io non ero disposta a dimenticare.

"Ho approfondito il caso Jackson", dissi, bruscamente.

Subito si mostrò attento e interessato, e attese che continuassi, benché leggessi nei suoi occhi la certezza che le mie convinzioni precedenti erano scosse.

"Credo che abbia subìto un duro torto", ammisi. "Io... io... credo che un po' del suo sangue goccioli effettivamente dal nostro soffitto".

"Naturalmente", rispose, "se Jackson e tutti i suoi compagni fossero trattati più umanamente, i dividendi sarebbero minori".

"Non sarà più un piacere per me mettermi un bel vestito", aggiunsi.

Mi sentivo umile e contrita, ma avvertivo anche come una dolce sensazione a immaginare Ernest come una specie di confessore. In quel momento, come sempre, la sua forza mi seduceva. Mi sembrava che risplendesse come una promessa di pace e protezione.

"Lo stesso proverebbe vestendosi di tela di sacco", disse, con aria grave. "Ci sono, come sa, filande di juta, dove succedono le stesse cose. Dappertutto è lo stesso. La vostra vantata civiltà è fondata sul sangue, imbevuta di sangue, e né voi né alcun altro può sfuggire alla macchia rossa. Con chi ha parlato?".

Gli raccontai tutto.

"Nessuno di loro è libero delle proprie azioni, tutti sono incatenati all'implacabile macchina industriale. E il più doloroso di questa tragedia è che sono vincolati da legami sentimentali: i figli, quelle giovani vite che per istinto essi proteggono; e questo istinto è più forte della loro morale. Anche mio padre ha mentito, rubato, commesso ogni sorta di azioni disonorevoli per darci un pezzo di pane, a me e ai miei fratelli e sorelle. Era uno schiavo della macchina, che gli spezzò la vita, stremandolo fino alla morte".

"Ma lei almeno", lo interruppi, "è un uomo libero".

"Non completamente", replicò. "Non sono vincolato da legami sentimentali. Ringrazio il cielo di non avere bambini, anche se li amo molto. Se però mi sposassi, non oserei averne".

"E' certo una pessima tesi", esclamai.

"Lo so", disse lui triste. "Ma è una tesi opportunista. Sono rivoluzionario, e la mia è una vocazione pericolosa".

Risi, incredula.

"Se tentassi di penetrare di notte in casa di suo padre per rubargli i dividendi della Sierra, che farebbe?".

"Di notte ha una rivoltella sul comodino accanto al letto.

Probabilmente le sparerebbe addosso".

"E se io e qualche altro guidassimo un milione e mezzo di uomini (7) nelle case di tutti i ricchi, ci sarebbe una bella sparatoria, vero?".

"Sì, ma non lo farete".

"E' esattamente quello che vogliamo fare. E la nostra intenzione è di impossessarci non solo delle ricchezze che sono nella case, ma anche delle fonti di quelle ricchezze, tutte le miniere, le ferrovie, le officine, le banche e i negozi. Questa è la vera rivoluzione. E' una cosa molto pericolosa. E temo che il massacro sarà più grande di quanto immaginiamo. Ma, come dicevo, oggi nessuno è completamente libero. Siamo tutti presi nell'ingranaggio della macchina industriale. Ha scoperto infatti di essere presa anche lei nell'ingranaggio, come tutti quelli con cui ha parlato.

Ne interroghi altri, vada dal colonnello Ingram, perseguiti i giornalisti che non vollero parlare del caso Jackson sui giornali, e i direttori stessi dei giornali, e scoprirà che tutti sono schiavi della macchina industriale".

Poco più tardi, parlando con lui, gli feci appena una domanda sui rischi corsi dagli operai, e in cambio lui mi tenne una vera e propria lezione di statistica.

"Ma lo trova in tutti i libri", concluse. "Sono state raccolte le cifre, ed è definitivamente provato che gli infortuni, relativamente rari nelle prime ore del mattino, si moltiplicano rapidamente man mano che gli operai si stancano e perdono le loro energie muscolari e mentali.

Può darsi che lei ignori che suo padre ha una probabilità tre volte maggiore di un operaio di conservare la propria vita e i propri arti intatti. Ma le società di assicurazione lo sanno (8).

Esse chiedono a suo padre quattro dollari e rotti di premio annuale per una polizza di mille dollari, per la quale chiedono invece quindici dollari a un operaio".

"E lei?" domandai. E nel momento stesso in cui gli rivolgevo questa domanda, mi resi conto che provavo per lui abbastanza interesse.

"Oh, io! " fece con noncuranza. "Come rivoluzionario ho circa otto probabilità su una di essere ucciso o ferito. Ai chimici esperti che manipolano gli esplosivi, le società di assicurazione chiedono otto volte più di quanto chiedono agli operai. Credo che non vorrebbero assicurarmi affatto. Perché me lo chiede?".

Battei le palpebre e sentii una vampata salirmi al viso, non perché lui s'era accorto della mia ansia, ma perché io stessa l'avevo avvertita.

Proprio in quel momento entrò mio padre e si preparò per uscire con me. Ernest gli restituì dei libri che aveva preso in prestito e uscì per primo. Sulla soglia si voltò e mi disse:

"A proposito, intanto che sta turbando la sua tranquillità di spirito, e io faccio altrettanto col vescovo, potrebbe andare a trovare le signore Wickson e Pertonwaithe. Sa, credo, che i loro mariti sono i due principali azionisti della filanda. Come tutto il resto dell'umanità, quelle due donne sono vincolate alla macchina, ma al punto da starvi appollaiate sopra".

NOTE:

1) Termine con il quale venivano indicate certe case in rovina, cadenti, nelle quali gran parte dei lavoratori trovava ricovero a quel tempo. Pagando, invariabilmente, un affitto enorme, considerato il valore di quella casa, ai proprietari.

2) A quei tempi le ruberie erano incredibilmente comuni.

Tutti rubavano la proprietà agli altri. I dirigenti della Società rubavano legalmente o facevano legalizzare le loro ruberie, mentre le classi più povere rubavano illegalmente. Nulla, che non fosse custodito, era sicuro. Un numero enorme di uomini era impiegato come guardiano per proteggere la proprietà. Le case dei benestanti erano depositi di sicurezza, sotterranei e fortezze insieme.

L'appropriarsi di cose personali altrui, che osserviamo oggi nei nostri figli, è considerato come un retaggio istintivo del caratteristico furto comunissimo in quei tempi.

3) I lavoratori erano chiamati al lavoro e rimessi in libertà da fischi laceranti e snervanti di sirene a vapore.

4) La funzione dei legali delle società anonime era di servire, con metodi corrotti, le tendenze di queste a arraffare denaro a ogni costo. E' noto che Theodore Roosevelt, a quel tempo presidente degli Stati Uniti disse, nell'A. D. 1905, nel discorso d'apertura dell'anno accademico all'Università di Harvard: "Tutti noi sappiamo che, come stanno attualmente le cose, molti dei più influenti e meglio retribuiti membri del foro, in ogni centro di ricchezza, si dedicano particolarmente alla ricerca del modo più audace e ingegnoso che permetta ai loro ricchi clienti, individui o società, di aggirare le leggi fatte per regolare, nell'interesse pubblico, l'uso delle grandi ricchezze".

5) Esempio tipico della lotta cruenta che investiva l'intera società. Gli uomini si depredavano a vicenda, come lupi voraci. I più grandi divoravano i più piccoli, e nel branco sociale Jackson era uno dei lupi più trascurabili e piccoli.

6) Diciamo, per spiegare non la bestemmia di Smith ma il verbo energico adoperato da Avis, che quella brutalità di linguaggio, comune a quell'epoca, esprimeva perfettamente la bestialità della vita che si conduceva allora, vita di "bruti" invece che di essere umani.

7) Allusione al totale di voti ottenuti dalla lista socialista nelle elezioni del 1910. L'aumento progressivo di questo totale indica la rapida crescita del partito della rivoluzione negli Stati Uniti: 2068 voti nel 1888; 127713 nel 1902; 435040 nel 1904; 1108427 nel 1908 e 1688211 nel 1910.

8) In quella lotta costante, nessuno, per quanto ricco, poteva essere sicuro del futuro. Appunto per assicurare il benessere della famiglia, gli uomini inventarono le assicurazioni.

Questo sistema che nel nostro tempo illuminato sembra assurdo e ridicolo, era allora una cosa seria. La cosa più buffa è che i fondi delle compagnie di assicurazioni erano di frequente svaligiati e dissipati dalle persone stesse incaricate di amministrarli.

Capitolo 4

GLI SCHIAVI DELLA MACCHINA

Più pensavo al braccio di Jackson, più ero scossa. Ero stata messa di fronte alla realtà; per la prima volta vedevo la vita. Gli anni universitari, lo studio e l'educazione che avevo ricevuto, restavano fuori della vera vita. Avevo imparato solo delle teorie sulla vita e la società, cose che fanno un bellissimo effetto sulla carta, ma solo ora vedevo la vita come essa è realmente. Il braccio di Jackson era un fatto, e nella mia coscienza risuonavano ancora le parole di Ernest: "E' un fatto, amico, un fatto inconfutabile".

Ma che tutta la nostra società fosse fondata sul sangue, mi sembrava mostruoso, impossibile. E tuttavia c'era Jackson, e non potevo cancellarlo. Il mio pensiero ritornava continuamente a lui, come la calamita verso il polo. Era stato trattato in modo abominevole. Non gli avevano pagato il suo sangue onde ricavarne un più grosso interesse. Conoscevo almeno una ventina di famiglie agiate e soddisfatte, che incassando i loro dividendi prosperavano, per la loro parte, sul sangue di Jackson. Ma se la società poteva seguire il suo corso senza curarsi dell'orribile trattamento inflitto a un uomo, non era dunque probabile che molti altri fossero stati trattati allo stesso modo? Ricordavo ciò che Ernest aveva detto delle donne di Chicago, che lavoravano per novanta centesimi di dollaro la settimana, e dei bambini schiavi nelle filande di cotone nel Sud. E mi sembrava di vedere le loro povere mani scarne, dissanguate, che tessevano la stoffa di cui era fatto il mio abito; poi, ritornando col pensiero alle filande Sierra e ai dividendi pagati, vedevo il sangue di Jackson sulle mie mani. Non potevo sfuggire a quell'uomo: ormai era oggetto di tutte le mie meditazioni...

In fondo all'animo, avevo l'impressione di essere sull'orlo di un precipizio; mi aspettavo qualche nuova terribile rivelazione della vita. E non ero la sola: tutti i miei familiari stavano per rimanerne sconvolti; prima di tutti, mio padre. L'influsso di Ernest su di lui era per me evidentissimo. Poi, il vescovo Morehouse, che l'ultima volta che l'avevo visto mi era parso un uomo malato: era in uno stato di estrema tensione nervosa e nei suoi occhi c'era un orrore indefinibile. Da quel poco che appresi capii che Ernest aveva mantenuto la promessa di fargli fare un viaggio attraverso l'inferno; ma non riuscii a sapere quali scene diaboliche gli fossero passate davanti agli occhi, perché era troppo agitato per parlarne.

A un certo punto, colpita dallo sconvolgimento del mio piccolo mondo e dell'universo intero, conclusi che Ernest ne era la causa e pensai: "Eravamo così felici e tranquilli prima della sua comparsa!". Ma subito dopo capii che tale pensiero era un tradimento della realtà e Ernest mi apparve trasfigurato in apostolo della verità: con gli occhi scintillanti e la fronte intrepida d'un arcangelo che si batte per il trionfo della luce e della giustizia, per la difesa dei poveri, dei derelitti e degli oppressi. E davanti a me si presentò un'altra visione: quella di Cristo. Anche Lui aveva preso le difese dell'umile e dell'oppresso contro i poteri stabiliti dei sacerdoti e dei farisei. Ricordai la Sua morte sulla croce, e il cuore mi si strinse di angoscia al pensiero di Ernest. Era anche lui destinato al martirio, lui con quel suo accento di lotta, la sua bella virilità?

E, immediatamente, capii che l'amavo. Mi struggevo dal desiderio di consolarlo. Pensavo alla sua vita triste, meschina e dura.

Pensai a suo padre, che per lui aveva mentito e rubato e si era consumato di lavoro sino alla morte. E a lui che cominciava a dieci anni a lavorare nella filanda. Il cuore mi si gonfiava del desiderio di prenderlo fra le braccia, di posare la sua testa sul mio petto, la sua testa stanca di tanti pensieri, e di dargli un istante di riposo, un po' di conforto e di oblìo, un attimo di tenerezza.

Incontrai il colonnello Ingram a un ricevimento di ecclesiastici.

Lo conoscevo da anni e feci dunque in modo di attirarlo dietro alcune alte palme e altre piante in vaso, in un angolo, dove, senza che potesse sospettare, si trovò come preso in una trappola.

Cominciò col dispensarmi le solite galanterie e spiritosaggini; era sempre stato un uomo dai modi piacevoli, pieno di diplomazia, tatto, riguardo, e formalmente la persona più distinta della nostra società. Accanto a lui, persino il venerabile preside dell'università risultava goffo e impacciato.

Nonostante queste sue qualità, scoprii tuttavia che il colonnello Ingram era nelle stesse condizioni dei meccanici analfabeti, con i quali avevo parlato. Non era un uomo libero: anche lui era legato alla ruota. Non dimenticherò mai la trasformazione che avvenne in lui quando avviai il discorso sul caso Jackson. Il suo sorriso gaio svanì come per incanto, e un'espressione spaventosa sfigurò all'istante i suoi lineamenti d'uomo ben educato. Provai lo stesso timore provato davanti all'accesso di collera di James Smith. Non bestemmiò: questa l'unica differenza fra lui e l'operaio. Godeva la fama di uomo di spirito, ma per il momento il suo spirito era in rotta. Inconsciamente, cercava a destra e a sinistra una via d'uscita, ma io lo tenevo come in una trappola.

Oh, quel nome, Jackson, lo faceva soffrire! Perché avevo avviato un simile discorso? Lo scherzo gli sembrava privo di spirito, segno di cattivo gusto e di mancanza di tatto da parte mia. Non sapevo forse che nella sua professione i sentimenti personali non hanno alcun valore? Lui li lasciava a casa, quando andava in ufficio, dove non ammetteva che i sentimenti professionali.

"A Jackson spettava un'indennità?" gli chiesi.

"Certamente... almeno, il mio parere personale è che ne aveva diritto. Ma ciò non ha nessun rapporto con l'aspetto legale della cosa".

Cominciava a ritrovare il suo spirito smarrito.

"Mi dica, colonnello, la legge non ha alcun rapporto col diritto, la giustizia, il dovere?".

"Il dovere... il dovere... Bisognerebbe cambiare la prima sillaba della parola", rispose, con un sorriso.

"Il potere?".

Annuì. "E tuttavia è con la legge che dovremmo ottenere giustizia?".

"E il paradosso è che ce la rende".

"Questa è un'opinione professionale, vero?".

Avvampò; avvampò letteralmente e di nuovo cercò una via di scampo; ma io gli bloccavo la strada e non mostravo intenzione di muovermi.

"Mi dica", continuai, "quando si abbandonano i propri sentimenti personali per quelli professionali, non si compie quello che potrebbe essere definito una specie di autolesionismo spirituale?".

Non ebbi risposta. Il colonnello era fuggito, ingloriosamente, rovesciando una palma nella fuga.

In seguito provai con i giornali. Scrissi un resoconto spassionato e obiettivo del caso Jackson. Mi astenni dall'esporre le persone con cui avevo parlato, anzi, non feci neppure alcun cenno a esse.

Raccontai i fatti come erano accaduti, ricordai i lunghi anni durante i quali Jackson aveva lavorato alla filanda, il suo tentativo di evitare un guasto alla macchina, l'incidente e la sua attuale e miserabile condizione. Con solidarietà perfetta, i tre quotidiani e i due settimanali locali respinsero il mio scritto.

Riuscii ad avvicinare Percy Layton, un giovane laureato che s'era dato al giornalismo e a quel tempo stava facendo il suo apprendistato presso il più autorevole dei tre quotidiani. Sorrise quando gli domandai perché i giornali avessero soppresso ogni notizia riguardante Jackson e il suo processo.

"Politica editoriale", disse poi. "Non ne sappiamo nulla noi, sono affari del direttore".

"Ma perché questa politica?" insistetti.

"Siamo tutt'uno con le industrie. Anche pagando il prezzo di un annuncio, anche pagando dieci volte la tariffa ordinaria, non si riuscirebbe a fare pubblicare quella informazione su nessun giornale, chi volesse farla passare di nascosto perderebbe il posto".

"E che dice della vostra politica? Mi sembra che la vostra funzione sia di deformare la verità, secondo gli ordini dei padroni, che a loro volta obbediscono ai capricci delle industrie".

"Io non c'entro in tutto questo". Per un attimo parve a disagio, poi il viso gli si rischiarò: aveva trovato una scappatoia.

"Personalmente, non scrivo mai nulla che non sia vero. Sono in regola con la coscienza. Certo avvengono molte cose ripugnanti nel corso di una giornata di lavoro, ma, capirà, questo fa parte della routine quotidiana", concluse con logica infantile.

"Però, lei spera di occupare un giorno il posto del direttore e di fare anche lei la sua politica, non è così?".

"Sarò già stato incallito dal tempo".

"Allora, visto che ancora non è del tutto incallito, mi dica cosa pensa, ora, della politica editoriale in generale".

"Non penso nulla", rispose, con vivacità. "Se si vuol fare strada nel giornalismo, non bisogna scalpitare eccessivamente. Questo, almeno, l'ho imparato". E scosse quel suo giovane capo.

"E la giustizia?".

"Lei non conosce il gioco. Tutto, naturalmente, è giusto, perché tutto finisce sempre bene, capisce?".

"Deliziosamente vago", mormorai, ma il cuore mi sanguinava per la sua giovanile sprovvedutezza, e avrei voluto invocare soccorso e scoppiare in lacrime.

Cominciavo a vedere al di là delle apparenze della società nella quale ero sempre vissuta, e scoprivo la terribile realtà nascosta.

Contro Jackson era stato ordito un tacito complotto, e cominciai ad avvertire un fremito di comprensione per l'avvocato piagnucolone che aveva sostenuto la causa in modo tanto miserevole. Ma quel complotto s'allargava sempre più e non era più diretto solo contro Jackson: era diretto contro tutti gli operai mutilati della filanda. E, se così era, perché non contro tutti gli operai di tutte le officine e delle industrie?

Se le cose stavano così, la società era bugiarda. Mi ritraevo inorridita davanti alle mie stesse conclusioni. Era troppo abominevole, troppo orribile, per essere vero. Eppure Jackson e il suo braccio, e quel sangue che colava dal nostro soffitto e mi macchiava l'abito, erano veri. I Jackson erano molti, ce n'erano centinaia nella sola filanda, come lui stesso aveva detto. Il suo ricordo, tutti questi pensieri, mi perseguitavano.

Andai a trovare il signor Wickson e il signor Pertonwaithe, i due maggiori azionisti delle Filande Sierra; ma, come gli operai al loro servizio, non riuscii a commuoverli. Scoprii che seguivano una morale superiore a quella del resto della società e che potrei chiamare la morale aristocratica, la morale dei padroni (1).

S'espressero in termini vaghi sulla loro politica, sulle loro capacità, che identificavano con la probità, e mi si rivolsero con tono paterno, condiscendenti di fronte alla mia giovinezza e inesperienza. Erano più irrecuperabili di tutti coloro che avevo avvicinato nel corso della mia inchiesta, convintissimi della rettitudine della loro condotta; al riguardo non potevano esserci né dubbio né discussione. Si credevano i salvatori della società, artefici della felicità delle masse, e fecero un quadro patetico delle sofferenze che la classe operaia avrebbe subìto senza il lavoro che loro e loro soltanto, con la propria saggezza, le procuravano.

Reduce dall'incontro con quei due saggi, vidi Ernest e gli raccontai della mia esperienza. Mi guardò con un'aria soddisfatta.

"Benissimo", disse. "Comincia a scoprire la verità da sola. La sua empirica generalizzazione è esatta. Nella macchina industriale nessuno è libero delle proprie azioni, tranne il grosso capitalista, e neppure lui lo è, se mi consente questo irlandesismo (2). I padroni, vede, sono del tutto certi di agire in modo giusto. Questa è l'assurdità che corona tutto l'edificio.

Sono così legati dalla loro natura umana, che non possono fare una cosa senza crederla buona. Hanno bisogno di una sanzione per le loro azioni. Quando vogliono intraprendere qualcosa, negli affari, s'intende, devono aspettare che nasca nel loro cervello una specie di concezione religiosa, filosofica o morale, della bontà di questa cosa. Dopodiché la realizzano senza accorgersi che il desiderio è padre del pensiero avuto. Qualsiasi cosa si prefiggano di fare, la sanzione non manca mai. Sono dei casuidici superficiali, dei gesuiti. Si sentono perfino autorizzati a fare il male purché ne risulti un bene. Una delle immagini più ridicole e assiomatiche create da loro è quella della loro superiorità, in saggezza ed efficienza, rispetto al resto dell'umanità. Partendo da questo punto di vista, si arrogano il diritto di ripartire pane e companatico a tutto il genere umano. Hanno perfino risuscitato la teoria del diritto divino dei re, dei re mercantili, nel loro caso (3).

Il punto debole della loro posizione sta nel fatto che sono semplicemente uomini d'affari. Non sono filosofi, non sono dei biologi o dei sociologi: se lo fossero, tutto procederebbe meglio, naturalmente. Un uomo d'affari che fosse nello stesso tempo versato in queste scienze, saprebbe più o meno cosa occorre all'umanità. Ma anche tolti dal loro dominio commerciale, questi signori sono stolti. S'intendono solo di affari. Non comprendono né il genere umano né il mondo, e tuttavia si erigono ad arbitri della sorte di milioni di affamati e di tutta la massa umana. La storia, un giorno gli farà una gran risata in faccia".

Preparata com'ero ad affrontare la signora Wickson e la signora Pertonwaithe, la conversazione che ebbi con loro non mi serbò alcuna sorpresa. Erano signore della migliore società (4).

Abitavano in sontuosi palazzi e avevano parecchie altre residenze, un po' dappertutto: in campagna, in montagna, sulle rive dei laghi e del mare. Una vera folla di servitori si affaccendava attorno a loro, e la loro attività sociale era straordinaria. Patrocinavano le università e le Chiese, e i pastori, in particolare, erano pronti a piegare le ginocchia davanti a loro (5). Erano due vere potenze, con tutto quel denaro a disposizione. Disponevano del potere di sovvenzionare il pensiero, come ben presto mi sarei resa conto, grazie agli insegnamenti di Ernest.

Imitavano i loro mariti, e si esprimevano con gli stessi termini vaghi intorno alla politica, ai doveri e alle responsabilità dei ricchi. Erano sviate dalla stessa morale dei loro mariti, la morale della loro classe, e ripetevano frasi sensazionali che non capivano neppure.

In più, quando dipinsi loro la deplorevole condizione della famiglia di Jackson, s'irritarono; e siccome mi stupivo perché non avevano offerto nessun aiuto volontario, dichiararono che non avevano bisogno di lezioni in fatto di doveri sociali. Quando chiesi loro, apertamente, di soccorrerlo, rifiutarono non meno apertamente. Lo strano è che espressero il loro rifiuto con parole quasi identiche, benché fossi andata da loro separatamente e l'una ignorasse che ero andata dall'altra. La loro comune risposta fu che erano ben felici di avere l'occasione di dimostrare, una volta per tutte, che non avrebbero mai premiato la negligenza e che non volevano, pagando per l'incidente, spingere i poveri a ferirsi volontariamente (6).

Ed erano sincere, quelle signore. Il doppio convincimento della loro superiorità di classe e della loro autorità personale, le inebriava. Trovavano nella loro morale di casta una sanzione per tutte le azioni che compivano. Nell'allontanarmi dallo splendido palazzo della Pertonwaithe, mi voltai a guardarlo ancora una volta e ricordai la frase di Ernest: che anche quelle donne erano legate alla macchina, ma in modo da esservi sedute proprio in cima.

NOTE:

1) Prima della nascita di Avis Everhard, John Stuart Mill scriveva nel suo saggio "Sulla Libertà": "Ovunque esiste una classe dominante, dagli interessi di questa classe e dai suoi sentimenti classisti ha origine gran parte della morale pubblica".

2) Le contraddizioni verbali, chiamate "bulls", furono per molto tempo un piacevole vizio degli antichi irlandesi.

3) I giornali del 1902 di quell'era cristiana, attribuiscono a George F. Baer, presidente dell'Anthracite Coal Trust, l'enunciazione di questo principio: "I diritti e gli interessi delle classi lavoratrici saranno protetti dai cristiani ai quali Dio, nella sua infinita sapienza, ha confidato gli interessi della proprietà in questo paese".

4) La parola "società" è qui usata in senso ristretto, secondo l'abitudine del tempo, per indicare i farfalloni dorati, i quali senza lavorare si concedevano tutti i godimenti. Gli uomini di affari e i lavoratori non avevano né il tempo né l'occasione per quel gioco di società, privilegio dei ricchi e dei fannulloni.

5) "Portate il vostro denaro infetto", era il sentimento esplicito della chiesa durante quel periodo.

6) Sulle colonne dell'"Outlook", rivista critica settimanale di quegli anni, alla data del 18 agosto 1906, è riferita la storia di un operaio che perse un braccio nelle stesse circostanze di Jackson.

Capitolo 5

GLI AMICI DELLO STUDIO

Ernest veniva spesso a casa nostra, attirato non solo da mio padre e dalle discussioni a tavola. Sin d'allora, mi lusingavo di avere anch'io una piccola parte in quelle sue visite, e non tardai molto a esserne certa. Perché non ci fu mai al mondo un innamorato come Ernest Everhard. Di giorno in giorno, il suo sguardo e la sua stretta di mano andarono facendosi più fermi e sicuri, se possibile, e la domanda che avevo visto spuntare nei suoi occhi diventò sempre più imperativa.

La mia prima impressione era stata sfavorevole, poi mi ero sentita attratta da lui. Quindi era seguito un moto di repulsione il giorno in cui aveva insultato la mia classe e me stessa, ma ben presto mi ero resa conto che non aveva per niente calunniato il mondo in cui vivevo, che tutto quanto aveva detto di duro e di amaro era vero; e più che mai mi avvicinai a lui. Divenne il mio oracolo. Ai miei occhi, strappava la maschera della società e mi lasciava intravedere certe verità incontestabili quanto spiacevoli.

No, non ci fu mai innamorato come lui. Una ragazza non vive fino a ventiquattro anni in una città universitaria senza avere esperienze d'amore. Ero stata infatti corteggiata da imberbi matricole, da professori attempati e da campioni di atletica e di foot-ball. Ma nessuno aveva condotto l'assalto come Ernest. Mi strinse fra le braccia prima che me ne accorgessi, e le sue labbra si posarono sulle mie prima che avessi avuto il tempo di protestare o resistere. Davanti alla sincerità del suo ardore, la dignità convenzionale e la riservatezza verginale risultavano ridicole. Persi l'equilibrio davanti al suo splendido impeto invincibile. Non mi fece nessuna dichiarazione: mi prese fra le braccia e diedi per scontato che ci saremmo sposati. In proposito non ci fu nessuna discussione. L'unica che ci fu sorse più tardi: sulla data di matrimonio.

Era inaudito, inverosimile, e tuttavia, come la sua famosa prova della verità, funzionò. Gli affidai la mia vita, e quella fiducia fu ben riposta. Tuttavia, durante i primi giorni del nostro amore, quando pensavo all'irruenza e all'impeto del suo amore, ero presa dal timore del futuro. Ma erano timori infondati; nessuna donna ebbe mai la fortuna di avere un uomo più dolce e più tenero.

Dolcezza e violenza si fondevano stranamente nella sua passione, sicurezza e goffaggine nel suo modo di fare. Da quel velo di goffaggine non si liberò mai, ed era deliziosa! Si comportava nel nostro salotto come un elefante che s'aggira tra porcellane (1).

Fu a quel tempo che gli ultimi miei dubbi sulla profondità del mio amore per lui svanirono (dubbi incoscienti per lo più). Al Circolo degli "Amici dello Studio", in una magnifica notte di battaglia in cui Ernest affrontò i padroni nel loro rifugio, ebbi la rivelazione del mio amore in tutta la sua pienezza. Il Circolo degli "Amici dello Studio" era il più raffinato di tutta la costa del Pacifico. Era stato fondato da Miss Brentwood, una vecchia zitella favolosamente ricca, che ne aveva fatto il proprio marito, la propria famiglia, il proprio giocattolo. I soci erano i più ricchi membri della società e le menti più capaci fra i ricchi, compreso, naturalmente, un numero esiguo di uomini di scienza, per dare all'insieme un tono intellettuale.

Il Circolo degli "Amici dello Studio" non disponeva di una propria sede: era un circolo speciale i cui membri si riunivano una volta al mese, in casa di uno di loro, per ascoltare una conferenza. Gli oratori erano di solito pagati, ma non sempre. Se un chimico di New York faceva una scoperta sul radium, per esempio, gli rimborsavano le spese del viaggio attraverso il continente americano e gli davano inoltre una forte somma per indennizzarlo del tempo perduto; e così facevano con l'esploratore di ritorno dalle regioni artiche o con i nuovi astri della letteratura e dell'arte. Nessun estraneo era ammesso a quelle riunioni, e "Gli Amici dello Studio" si erano proposti di non lasciar trasparire nulla delle loro discussioni sulla stampa, di modo che anche gli uomini di stato, se fossero intervenuti, e ce n'erano stati, e dei più grandi, avrebbero potuto esporre liberamente il proprio pensiero.

Ho qui davanti a me la lettera sgualcita che Ernest mi scrisse vent'anni fa, dalla quale trascrivo il brano seguente:

"Tuo padre è membro degli 'Amici dello Studio' quindi puoi partecipare. Vieni martedì sera. Ti assicuro che trascorrerai uno dei momenti migliori della tua vita. Nei tuoi recenti incontri con i padroni non sei riuscita a smuoverli; io li scuoterò per te. Li farò latrare come lupi. Tu hai messo in dubbio la loro moralità, e quando la loro onestà è contestata, diventano ancor più presuntuosi e compiacenti. Io invece li minaccerò nella borsa, e ne rimarranno scossi sin nelle radici più profonde della loro vera natura. Se vieni, vedrai l'uomo delle caverne, in abito di società, difendere coi denti, ringhiando, il suo osso. Ti prometto un vero pandemonio, e la vista edificante della natura della bestia.

Mi hanno invitato per demolirmi. L'idea è stata di Miss Brentwood, ma ha commesso la dabbenaggine di farmelo capire quando mi ha invitato. Ha già loro offerto altre volte questo tipo di divertimento: la presenza fra loro di qualche riformatore dall'animo dolce e fidente. Miss Brentwood crede che io sia mite come un gattino e buono e stupido come un bovino. Devo confessare che ho fatto del mio meglio per convincerla in questo senso. Dopo aver prudentemente tastato il terreno, ha finito per indovinare il mio carattere innocuo. Avrò un buon compenso: duecentocinquanta dollari, quanto si addice a colui che, sebbene radicale, una volta fu candidato al seggio di governatore. Inoltre, dovrò indossare l'abito da sera: in vita mia non mi sono mai camuffato così, e bisognerà che ne prenda uno a nolo. Ma farei anche di più pur di entrare fra gli 'Amici dello Studio'".

Quella sera il circolo si riuniva nientemeno che in casa dei Pertonwaithe. Avevano aggiunto altre sedie nella grande sala, e c'erano di sicuro duecento "Amici" convenuti a sentire Ernest. I veri principi della buona società. Mi divertii a calcolare mentalmente il totale delle ricchezze che rappresentavano:

centinaia di milioni. E non si trattava di ricchi fannulloni ma di uomini d'affari che avevano parte importantissima e attiva nella vita industriale e politica.

Stavamo tutti seduti, quando Miss Brentwood presentò Ernest. Si spostarono subito in fondo alla sala dove lui avrebbe parlato. Era in abito da sera, e appariva meraviglioso, con quelle sue larghe spalle e la testa regale e, sempre, quell'inimitabile tocco di goffaggine nei suoi movimenti. Credo che l'avrei amato anche solo per quello, e guardandolo provai un'immensa gioia. Mi sembrava di sentire il battito del suo polso nel mio, il contatto delle sue labbra sulle mie. Ero così orgogliosa di lui, che provai il desiderio di alzarmi e gridare a tutta l'assemblea: "E' mio, mi ha stretta fra le sue braccia, e occupo quella mente agitata da così alti pensieri".

In fondo alla sala, Miss Brentwood lo presentò al colonnello Van Gilbert al quale sapevo che era assegnata la presidenza della riunione. Il colonnello era un grande avvocato di società anonime; inoltre era immensamente ricco. Il più piccolo onorario che si degnava di accettare era di centomila dollari. Era un maestro del diritto. La legge era per lui un burattino di cui reggeva tutti i fili; e la plasmava come argilla; la torceva e la deformava con un gioco di pazienza cinese, secondo i propri disegni. I suoi modi e il suo eloquio erano un po' vecchio stile, ma l'immaginazione, l'informazione, le risorse, erano aggiornatissime. La sua celebrità datava dal giorno in cui aveva fatto invalidare il testamento Skardwell (2). Solo per questo aveva ricevuto cinquecentomila dollari, e da quel tempo la sua ascesa era stata rapida come quella di un razzo. Era considerato da molti il primo legale del paese, legale di società anonime, naturalmente: tale da non poter essere escluso da una classifica dei tre più grandi legali degli Stati Uniti.

Questi si alzò e cominciò col presentare Ernest, con frasi scelte che lasciavano intravedere una leggera ironia sottintesa. Fu sottilmente sarcastico nella sua presentazione di quel riformatore sociale membro della classe operaia, e parecchi presenti sorrisero. Ne fui urtata e guardai Ernest, sentendo crescere la mia irritazione: sembrava che non provasse risentimento alcuno per quelle frecciate, anzi, peggio, pareva non accorgersene neppure.

Stava seduto tranquillo, calmo, mezzo assonnato. Sembrava davvero uno sciocco. Un'idea rapida mi attraversò la mente: si lasciava forse intimidire da quello sfoggio di prestigio economico e intellettuale? Poi sorrisi. Non mi avrebbe ingannata, no:

ingannava gli altri, come aveva ingannato Miss Brentwood. La quale stava seduta in una poltrona in prima fila, e più volte aveva voltato la testa verso l'una o l'altra delle sue conoscenze per confermare, con un sorriso, le allusioni dell'oratore.

Quando il colonnello ebbe finito, Ernest si alzò e cominciò a parlare. Iniziò a voce bassa, con frasi semplici e staccate, inframmezzate da lunghe pause, con evidente disagio. Narrò della sua nascita nella classe operaia, della sua infanzia trascorsa in un ambiente misero, dove lo spirito e la carne erano ugualmente affamati e tormentati. Descrisse le ambizioni e l'ideale della sua giovinezza, e la sua concezione del paradiso, dove vivevano solo gli uomini delle classi superiori.

"Sapevo", disse, "che più in alto di me regnavano l'altruismo del pensiero puro e nobile, una vita altamente intellettuale. Sapevo tutto questo perché avevo letto romanzi rosa (3), in cui tutti gli uomini e le donne, tranne l'impostore e l'avventuriera, pensano cose nobili, parlano un raffinato linguaggio, e compiono atti gloriosi. In breve, come accettavo il sorgere del sole accettavo anche il fatto che più in alto di me stava quanto di più bello, nobile e generoso è al mondo, insomma, tutto ciò che conferiva onore e dignità alla vita, tutto ciò che la rendeva degna di essere vissuta, che compensava gli uomini di tanto lavoro e di tanta miseria".

Parlò in seguito della sua vita alla filanda, del suo apprendistato come maniscalco e del suo incontro, infine, coi socialisti. Aveva trovato tra loro menti e intelletti superiori e numerosi ministri del Vangelo, destituiti perché il loro cristianesimo era troppo generoso in una società di adoratori di feticci; vi aveva trovato professori fiaccati dalla crudele servitù universitaria alle classi dominanti. Definì i socialisti dei rivoluzionari che lottano per rovesciare la società nazionale odierna, per costruire sulle rovine la società nazionale dell'avvenire. E disse tante e tante cose che sarebbe troppo lungo trascrivere; ma non dimenticherò mai il modo col quale descrisse la sua vita fra i rivoluzionari. Dal suo eloquio era sparita ogni titubanza: la voce si elevava forte e sicura, si affermava, splendeva come lui stesso, come i pensieri che versava fuori a fiotti.

"In quei rivoluzionari trovai pure una fede ardente nell'umanità, un caldo idealismo, la voluttà dell'altruismo, della rinuncia e del martirio; tutte le splendide realtà dello spirito, insomma. E la loro vita era pura, nobile, e sentita. Ero in contatto con anime grandi che esaltavano la carne e lo spirito al di sopra dei dollari e dei centesimi, e per le quali il debole lamento del bimbo sofferente nei tuguri ha maggiore importanza di tutto il pomposo armamentario dell'espansione commerciale e dell'impero del mondo. Vedevo dovunque, intorno a me, la nobiltà dell'ideale e l'eroismo della lotta, e le mie giornate erano piene di sole e le notti stellate. Vivevo nel fuoco e nella rugiada, e davanti ai miei occhi fiammeggiava incessantemente il Santo Graal, il sangue palpitante e umano di Cristo, pegno di soccorso e di salvezza, dopo lunga sofferenza e maltrattamenti".

L'avevo già visto trasfigurato, ma questa volta come non mai. La fronte gli splendeva della divinità interiore, e gli occhi lucevano ancor più in mezzo all'aureola radiosa da cui sembrava avvolto. Gli altri però non vedevano questa luce, cosicché attribuii la mia visione alle lacrime di gioia e d'amore che mi riempivano gli occhi. In ogni modo, il signor Wickson, che sedeva dietro di me, non appariva certo commosso, perché gli sentii lanciare, con tono ironico, l'epiteto di: "utopista" (4).

Ma Ernest passò a raccontare di come si era innalzato nella società, sinché alla fine era entrato in contatto con le classi superiori e aveva conosciuto uomini che occupavano posti chiave.

Era così sopravvenuta in lui la delusione, che espresse con termini poco lusinghieri per gli ascoltatori. La vita non gli era sembrata più nobile e generosa; era spaventato dall'egoismo che incontrava dappertutto. Ciò che lo stupiva ancor più era l'assenza di vitalità intellettuale. Lui, che aveva fresco il ricordo dei suoi amici rivoluzionari, si sentiva colpito dalla stupidità della classe dominante. Inoltre aveva scoperto che nonostante le loro magnifiche chiese e i loro predicatori generosamente pagati, quei padroni, uomini e donne, erano esseri volgarmente materialisti.

Parlavano bene del loro piccolo ideale, della loro cara piccola morale, ma tolta questa vuota verbosità, il male fondamentale delle loro idee era materialista. Erano privi della moralità vera, della moralità che Cristo aveva predicato e che ormai non si insegna più.

"Ho conosciuto persone che nelle loro diatribe contro la guerra invocavano il nome del dio della pace, mentre distribuivano fucili ai Pinkerton (5) per abbattere quelli che scioperavano nelle loro stesse fabbriche. Ho conosciuto tipi che inveivano contro la brutalità del pugilato ma che erano complici di frodi alimentari per le quali muoiono, ogni anno, più innocenti di quanti non ne massacrò Erode dalle mani insanguinate. Ho visto gente autorevole, colonne della Chiesa, che sottoscrivevano somme ingenti a favore delle missioni straniere, ma che facevano lavorare dieci ore al giorno nelle loro fabbriche le ragazzine, compensandole con salari di fame e incoraggiando in tal modo la prostituzione.

Certi rispettabili signori dai lineamenti aristocratici non erano che fantocci che davano il loro nome a società il cui scopo segreto era di spogliare la vedova e l'orfano; certi altri, che parlavano seriamente e posatamente della bellezza dell'idealismo e della bontà di Dio, avevano trascinato e tradito i loro soci in un grosso affare. Altri ancora, che dotavano di nuove cattedre le università e contribuivano alla costruzione di magnifiche cappelle votive, non esitavano a giurare il falso davanti ai tribunali per motivi di denaro. Un tale, magnate delle ferrovie, rinnegava senza vergogna la parola data come cittadino, uomo d'onore e cristiano, concedendo storni segreti... e ne concedeva spesso! Il direttore di un giornale che pubblicava l'annuncio di medicine brevettate, mi definì demagogo perchè lo sfidai a pubblicare un articolo che dicesse la verità su quel ritrovato (6). Un collezionista di belle edizioni che prendeva a cuore le sorti della letteratura pagava intere botti di vino al reggitore brutale e illetterato di un'amministrazione municipale. Un senatore (7) era lo strumento, lo schiavo, il burattino di un politicante dalle folte sopracciglia e dalla bocca enorme; lo stesso accadeva del governatore Caio, e del giudice Tizio alla Corte Suprema. Tutti e tre usufruivano di viaggi gratuiti in ferrovia; inoltre, quel tale capitalista dalla pelle lucida, untuosa, era il vero padrone della macchina politica, perché padrone del padrone della macchina politica e delle ferrovie che concedevano i biglietti di favore.

In questo modo, invece di un paradiso, scoprii l'arido deserto del commercialismo. Non vi trovai che stupidaggine, tranne in ciò che riguarda gli affari. Non incontrai una persona onesta, nobile, attiva, ma ne trovai parecchi che grufolavano nel marciume. Non trovai altro che egoismo smisurato di gente spietata, e un materialismo meschino e ingordo, praticato e pratico".

Disse loro molte altre verità su di essi e sulle proprie delusioni. Intellettualmente l'avevano annoiato; moralmente e spiritualmente, disgustato a tal punto che era ritornato con gioia ai suoi rivoluzionari che almeno erano retti, nobili, sensibili, tutto ciò che i capitalisti non sono.

"E ora", aggiunse, "lasciate che vi parli della rivoluzione".

Prima, devo però dire che questa mortificante requisitoria li aveva lasciati freddi. Scrutai i loro volti e vidi che conservavano un'aria di condiscendente superiorità. Ricordai quello che Ernest mi aveva detto: "Qualunque accusa contro la loro morale non riuscirà a scuoterli". Osservai però che l'ardire del suo linguaggio aveva colpito Miss Brentwood, che appariva seccata e inquieta.

Ernest cominciò col descrivere l'esercito della rivoluzione, e quando espose in cifre la sua forza (secondo i risultati elettorali nei diversi paesi), l'assemblea cominciò ad agitarsi.

Un'espressione di viva attenzione comparve sui loro volti e le loro labbra si strinsero. Il guanto di sfida era stato gettato.

Descrisse l'organizzazione internazionale che univa il milione e mezzo di socialisti negli Stati Uniti ai ventitre milioni e mezzo di socialisti sparsi nel resto del mondo.

"Questo esercito della rivoluzione, forte di ventitre milioni di uomini, fa riflettere le classi dominanti. Il grido di questo esercito è: nessuna tregua. Dobbiamo avere ciò che voi possedete.

Non ci accontenteremo di meno. Vogliamo le redini del potere, e avere in mano il destino del genere umano. Ecco le nostre mani, le nostre forti mani. Vi toglieremo il potere, i palazzi e tutti i vostri agi dorati, e verrà il giorno in cui dovrete lavorare per guadagnarvi il pane, come fa il contadino nei campi, o il commesso nelle vostre metropoli. Ecco le nostre mani; sono forti".

E mentre parlava, protendeva le sue forti spalle e allungava le sue grandi braccia, e i suoi pugni di fabbro fendevano l'aria come artigli d'aquila. Sembrava il simbolo del lavoro trionfante, con le mani tese per schiacciare e distruggere i suoi sfruttatori.

Scorsi nell'uditorio un fremito quasi impercettibile, davanti a quel quadro della rivoluzione, evidente, possente e minaccioso.

Certo le donne sussultarono, e la paura comparve sui loro volti.

Per gli uomini non fu la stessa cosa: uscì dalle loro gole un grugnito profondo, che vibrò nell'aria un istante, poi tacque. Era la premessa del ringhio che avrei sentito più volte quella sera, la manifestazione del bruto che si svegliava nell'uomo e dell'uomo stesso nella sincerità delle sue passioni primitive. E non avevano coscienza di questo loro mormorio, era il ringhio del branco, dell'orda, l'espressione e la dimostrazione riflessa del loro istinto. In quel momento, vedendo i loro volti irrigidirsi e il lampo di stizza nei loro occhi, capii che non si sarebbero lasciati strappare facilmente il dominio del mondo.

Ernest continuò il suo attacco; attribuì l'esistenza d'un milione e mezzo di rivoluzionari negli Stati Uniti al cattivo governo della società esercitato dalla classe capitalistica. Dopo aver accennato alle condizioni economiche dell'uomo primitivo e dei popoli selvaggi dei nostri giorni, che non dispongono di utensili né di macchine ma solo dei mezzi naturali di produzione, illustrò brevemente lo sviluppo dell'industria e dell'organizzazione sociale fino al giorno d'oggi, in cui la capacità produttiva dell'individuo evoluto è mille volte superiore a quella del selvaggio.

"Bastano cinque uomini, oggi, per produrre pane per un migliaio di persone. Un uomo solo può produrre tessuti di cotone per duecentocinquanta persone, maglierie per trecento, calzature per mille. Si potrebbe quindi concludere che con una buona amministrazione della società, l'uomo civile moderno dovrebbe essere in condizioni molto migliori dell'uomo preistorico. Ma lo è? Vediamo. Oggi negli Stati Uniti esistono quindici milioni di uomini (8) che vivono in povertà, e per povertà intendo quella condizione in cui, per mancanza di nutrimento e di ricovero conveniente, non può essere raggiunta una certa efficienza nel lavoro. Oggi, negli Stati Uniti, nonostante la vostra cosiddetta legislazione del lavoro, esistono tre milioni di bambini che lavorano come operai (9). Il loro numero è raddoppiato in dodici anni. A questo proposito, mi chiedo: perché voi, padroni della società, non avete pubblicato le cifre del censimento del 1910? E rispondo per voi: perché quelle cifre vi hanno spaventati. La miseria in cifre avrebbe potuto affrettare la rivoluzione che va preparandosi.

Ma ritorno alla mia accusa: se le capacità produttive dell'uomo moderno sono mille volte superiori a quelle dell'uomo primitivo, perché mai ci sono attualmente negli Stati Uniti quindici milioni di persone che non sono nutrite e alloggiate convenientemente, e tre milioni di bambini che lavorano? E' un'accusa seria. La classe capitalistica si è resa colpevole di una cattiva amministrazione.

Di fronte al fatto che l'uomo moderno vive più miseramente del suo antenato selvaggio, mentre la sua capacità produttiva è mille volte maggiore, non è possibile altra conclusione che questa: la classe capitalistica ha mal governato; voi siete cattivi amministratori, cattivi padroni, e la vostra cattiva gestione è imputabile al vostro egoismo. E su questo, qui, stasera, faccia a faccia, non siete in grado di rispondermi, non più che sull'esistenza di un milione e mezzo di rivoluzionari negli Stati Uniti. Non potete smentirmi. Anzi, vi sfido a farlo. Di più, oso dire che non risponderete neppure quando avrò finito di parlare.

Su questo argomento la vostra lingua è legata, per quanto agile possa essere quando si tratta di altri argomenti.

Avete dato prova d'essere incapaci di amministrare; avete mandato alla malora la civiltà. Nei consessi legislativi vi siete levati (come ancor oggi vi levate) a parlare dell'impossibilità di raccogliere profitti senza il lavoro dei minorenni e dei bambini.

Ma non state soltanto alla mia parola: tutto questo è scritto e registrato. Avete addormentato la vostra coscienza con chiacchiere sull'ideale, secondo la vostra cara morale. Ed eccovi lì, gonfi di potenza e ricchezza, inebriati dal successo! Ebbene, contro di noi non avete speranza di vittoria maggiore di quanta ne abbiano i fuchi riuniti intorno all'alveare, quando le api operaie gli si lanciano addosso per porre fine alla loro facile esistenza. Siete falliti nell'amministrazione della società, che vi sarà tolta di mano. Un milione e mezzo di uomini della classe operaia sono sicuri di attirare alla loro causa il resto delle masse lavoratrici e di strapparvi il dominio del mondo. Ecco la rivoluzione, signori: fermatela se potete!".

Per un po', l'eco della sua voce risuonò ancora nella gran sala; poi il profondo mormorio, già sentito prima, si gonfiò, e una dozzina di loro si alzarono, urlando e gesticolando per attrarre l'attenzione del colonnello Van Gilbert. Notai che Miss Brentwood agitava convulsamente le spalle, e provai un attimo di irritazione, convinta che ridesse di Ernest. Poi capii che non si trattava di un accesso di riso ma di nervi. Era terrorizzata di ciò che aveva fatto gettando quella torcia ardente in mezzo al suo caro circolo degli "Amici dello Studio".

Il colonnello Van Gilbert non si curò della dozzina di presenti che, stravolti dalla collera, chiedevano a gran voce la parola; lui per primo si rodeva dalla rabbia. Si alzò di scatto agitando un braccio, e per un po' riuscì a mandare solo suoni inarticolati; poi un fiume di parole si riversò fuori dalla sua bocca. Ma non era il linguaggio dell'avvocato da centomila dollari, dalla retorica un po' antiquata.

"Errori su errori", esclamò. "In vita mia non ho mai sentito tanti errori in così poco tempo. Inoltre, giovanotto, non ha detto niente di nuovo. Tutto questo l'avevo già appreso a scuola prima che lei nascesse. E sono trascorsi già quasi due secoli da quando Rousseau ha enunciato la vostra teoria socialista. Il ritorno alla terra? Balle! Revisione? La biologia ne dimostra l'assurdità. E' proprio vero che la semi-ignoranza è nociva, e lei ne ha dato prova questa sera con le sue teorie sballate! Errori su errori! In vita mia non ho mai provato tanto disgusto come di fronte a un simile rigurgito di errori! Ecco, guardi come considero le sue affrettate generalizzazioni e i suoi discorsi infantili". Fece schioccare le dita in segno di disprezzo e accennò a sedersi.

L'approvazione delle donne si manifestò in esclamazioni acute, e quella degli uomini in suoni rauchi. Quanto a quelli che avevano chiesto la parola, metà di essi si misero a parlare tutti insieme.

Una confusione indescrivibile, una vera Babilonia. Il vasto appartamento dei Pertonwaithe non aveva mai ospitato un tale spettacolo. Questi, dunque, erano i capitani dell'industria, i padroni del mondo, questi selvaggi ringhiosi e stizzosi in abito da sera? In verità, Ernest li aveva scossi stendendo le mani verso i loro portafogli, quelle mani che, ai loro occhi, rappresentavano gli artigli di un milione e mezzo di rivoluzionari.

Ma lui non perdeva mai la testa in nessuna circostanza. Prima che il colonnello riuscisse a sedersi, Ernest fu in piedi e fece un balzo avanti.

"Uno per volta!" ruggì con tutte le sue forze.

Il grido dei suoi ampi polmoni dominò la tempesta umana, e la semplice forza della sua personalità impose il silenzio.

"Uno per volta", ripeté con tono più calmo. "Lasciatemi rispondere al colonnello Van Gilbert. Dopo, altri potranno attaccarmi, ma uno per volta, ricordate. Non siamo a una partita di pallone".

"Quanto a lei", continuò rivolgendosi al colonnello, non ha confutato nulla di ciò che ho detto. Ha semplicemente espresso alcuni apprezzamenti eccitati e dogmatici sul mio equilibrio mentale. E' una tattica che potrà risultare utile negli affari, ma con me non vale. Non sono un operaio venuto a implorare, col cappello in mano, un aumento di salario o protezione contro la macchina alla quale lavora. Finché avrete a che fare con me, non potrete assumere arie dogmatiche per smentire la verità.

Conservatele per i rapporti coi vostri schiavi salariati che non osano rispondervi perché avete in mano il loro pane, la loro vita.

Quanto al ritorno alla natura di cui lei sostiene di aver sentito parlare a scuola prima che io nascessi, mi permetta di farle osservare che, a quanto pare, da allora in poi non ha imparato più niente. Il socialismo non ha nulla in comune con lo stato di natura, come il calcolo differenziale non ha rapporti col catechismo! Avevo denunciato la mancanza d'intelligenza della vostra classe, tranne nella trattazione degli affari; lei mi ha fornito, signore, un edificante esempio a sostegno della mia tesi".

Questa terribile stoccata al caro avvocato da centomila dollari, fu il colmo per i nervi di Miss Brentwood. Il suo accesso isterico raddoppiò di violenza, tanto che dovettero trascinarla fuori della sala, mentre piangeva e rideva contemporaneamente. E non era tutto, il peggio doveva ancora arrivare.

"Non credete alla mia parola", riprese Ernest dopo questa interruzione. "Le vostre stesse autorità, con voce unanime, riconosceranno la vostra assoluta mancanza d'intelligenza. Gli stessi vostri fornitori di scienza vi diranno che siete in errore.

Consultate il più modesto dei vostri sociologi e chiedetegli quale differenza passa fra la teoria di Rousseau e quella del socialismo. Interrogate i vostri più ortodossi economisti borghesi, cercate in qualsiasi testo dimenticato negli scaffali delle vostre biblioteche sovvenzionate, e da ogni parte vi verrà risposto che non c'è nessun nesso fra il ritorno alla natura e il socialismo, ma che, al contrario, le due teorie sono diametralmente opposte. Vi ripeto, non credete alla mia parola! La prova della vostra mancanza d'intelligenza è là, nei libri, in quei libri che voi non leggete mai. E quanto a mancanza di intelligenza, lei, avvocato, è un campione della sua classe.

Lei è un esperto di diritto e di affari, colonnello Van Gilbert.

Lei sa servire bene le società anonime e ne aumenta i dividendi interpretando a modo suo la legge. Benissimo, si accontenti di questo. Lei è un ottimo avvocato ma un pessimo storico. Della sociologia non sa niente del tutto e, in fatto di biologia, sembra contemporaneo di Plinio il Vecchio".

Il colonnello si dimenava sulla poltrona; nella sala regnava un silenzio assoluto: tutti i presenti erano affascinati, paralizzati. Trattare in quel modo il famoso colonnello Van Gilbert era inaudito, inimmaginabile; il colonnello davanti al quale persino i giudici tremavano quando si alzava a parlare in tribunale. Ma Ernest non dava mai tregua al nemico.

"Questo, naturalmente, non è un biasimo per lei", aggiunse. "A ciascuno il suo mestiere. Lei fa il suo e io il mio. Lei è uno specialista in fatto di leggi, soprattutto quando si tratta di trovare il mezzo migliore per sfuggire a esse o di farne di nuove, a vantaggio delle classi privilegiate, m'inchino davanti a lei. Ma quando si tratta di sociologia, che è materia mia, tocca a lei inchinarsi davanti a me. Non lo dimentichi. E non dimentichi neppure che la legge è effimera, e che lei non s'intende di cose non effimere. Di conseguenza, le sue affermazioni dogmatiche e le sue imprudenti generalizzazioni su argomenti storici e sociologici, non valgono il fiato che spreca per enunciarle".

Fece una pausa, e osservò con aria assorta quel viso oscurato e stravolto dalla collera, quel petto ansante, quel corpo che si agitava, quelle mani che si aprivano e chiudevano convulsamente.

"Ma visto che ha fiato da sprecare, le offro l'occasione di sprecarlo. Ho incolpato la sua classe: mi dimostri che la mia accusa è falsa. Le ho fatto osservare la condizione disperata dell'uomo moderno - tre milioni di bambini schiavi negli Stati Uniti, senza il cui lavoro ogni profitto sarebbe impossibile; e quindici milioni di persone mal nutrite, mal vestite e peggio alloggiate - le ho fatto osservare come, con l'organizzazione moderna e l'organizzazione sociale e l'impiego delle macchine, le capacità produttive dell'uomo civile d'oggi sono mille volte superiori a quelle dell'uomo delle caverne; e ho affermato che da questa duplice circostanza non si può trarre altra conclusione che questa: il malgoverno della classe capitalistica. Questa era la mia accusa, e chiaramente, e a più riprese, l'ho sfidata a rispondermi. Ho detto anzi di più. Le ho predetto che non avrebbe risposto. Avrebbe potuto usare il fiato per smentire la mia profezia. Ha invece definito il mio discorso una somma di errori.

Me ne dimostri la falsità, colonnello Van Gilbert; risponda all'accusa che io e un milione e mezzo di miei compagni abbiamo lanciato contro la vostra classe e contro di lei".

Il colonnello dimenticò completamente che la carica di presidente gli imponeva di dare la parola a coloro che la chiedevano, si alzò di scatto e, agitando in tutte le direzioni le braccia, smarrendosi in sfoghi di retorica e perdendo del tutto la calma, malmenò Ernest per la sua giovinezza e la sua demagogia, attaccando istericamente la classe operaia, che definì come priva di ogni capacità e valore.

Finita quella tirata, Ernest replicò:

"Come uomo di legge, lei è certo il più irragionevole fra quanti abbia mai conosciuto. La mia giovinezza non ha niente a che fare con quanto ho detto, e così pure la mancanza di valore della classe operaia. Ho accusato la classe capitalistica di aver retto male la società. Non mi ha ancora risposto. Non ha neppure tentato di rispondere. Non sa cosa dire? Lei è il campione fra tutti i presenti. Tutti qui, eccettuato me, pendono dalle sue labbra.

Aspettano da lei la risposta che essi non sanno dare.

Quanto a me, le ho già detto, so che non soltanto non potrà rispondere, ma che non tenterà neppure di farlo".

"Questo è intollerabile!" esclamò il colonnello. "E' un insulto!".

"E' intollerabile il fatto che lei non risponde", replicò gravemente Ernest. "Nessuno può essere insultato intellettualmente. L'insulto per se stesso è un fatto emotivo. Si riprenda, dia una risposta intellettuale alla mia accusa intellettuale, che cioè la classe capitalistica ha mal governato la società". Il colonnello rimase muto, e un'espressione di accigliata superiorità gli apparve sul viso, come in chi non voglia compromettersi discutendo con un cialtrone.

"Non si avvilisca", continuò Ernest. "Si consoli pensando che mai nessuno della sua classe è stato in grado di rispondere a questa accusa".

Poi si volse verso gli altri, impazienti di prendere la parola.

"Ecco ora l'occasione per voi. Avanti, e non dimenticate che vi ho sfidati tutti, qui presenti, a darmi la risposta che il colonnello Van Gilbert non ha saputo dare".

Mi sarebbe impossibile ripetere tutto ciò che fu detto durante quella discussione. Non avrei mai immaginato la quantità di parole che si possono dire nel breve spazio di tre ore. In ogni modo, fu uno spettacolo meraviglioso. Più i suoi avversari si infiammavano, più Ernest gettava olio sul fuoco. Conosceva a fondo l'argomento, e li pungeva con una parola o con una frase, come con un ago adoperato con arte. Sottolineava e correggeva i loro errori di ragionamento. Questo sillogismo era falso, questa conclusione non aveva alcun rapporto con le premesse; questa premessa era un'impostura, perché sviluppata ad arte in vista della conclusione. Questa era un'inesattezza, quella una presunzione e quest'altra ancora un'asserzione contraria alla verità sperimentale stampata su tutti i libri.

A volte lasciava la spada per la mazza, e sbaragliava i loro pensieri a destra e a manca. Pretendeva sempre fatti e rifiutava di discutere le teorie. E i fatti, che citava lui stesso, erano disastrosi per loro. Appena attaccavano la classe operaia, replicava: "Il bue chiama cornuto l'asino, ma questo non vi libera dalle corna". E a ognuno e a tutti diceva: "Perché non avete risposto all'accusa che ho lanciato contro la vostra classe? Avete parlato d'altro, e d'altro ancora riguardante altre cose, ma non mi avete risposto. Forse perché non sapete cosa rispondere?".

Solo alla fine della discussione il signor Wickson prese la parola. Era l'unico rimasto calmo, e Ernest lo trattò con un riguardo che non aveva concesso agli altri.

"Non è necessaria alcuna risposta", disse il signor Wickson, con voluta lentezza. "Ho seguito tutta la discussione con stupore e ripugnanza. Sì, signori, voi membri della mia stessa classe, mi avete disgustato. Vi siete comportati come sciocchi scolari.

L'idea d'introdurre in una simile discussione i vostri precetti di morale è il fulmine, passato di moda, del politicante volgare. Non vi siete comportati né come persone mondane né come esseri umani.

Vi siete lasciati calpestare e malmenare. Siete stati rumorosi e prolissi, ma avete soltanto ronzato come le zanzare attorno a un orso. Signori, l'orso è là" (e additò Ernest) "ritto innanzi a voi, e il vostro ronzìo gli ha solo solleticato le orecchie.

Credetemi, la situazione è seria. L'orso ha mostrato le zanne, pronto a schiacciarvi. Ha detto che vi sono negli Stati Uniti un milione e mezzo di rivoluzionari, ed è vero. Ha detto che hanno intenzione di toglierci il potere, i palazzi, e tutto il dorato benessere, ed è vero. E' pure vero che un cambiamento, un grande cambiamento, si prepara nella società, ma fortunatamente potrebbe anche non essere il cambiamento previsto dall'orso. L'orso ha detto che ci schiaccerà. Ebbene, signori, e se schiacciassimo noi l'orso?".

Nella vasta sala si levò un roco mormorio. Furono scambiati cenni di approvazione, di incoraggiamento. Sui volti apparve un'espressione ferma, decisa.

Con freddezza, senza passione, il signor Wickson continuò:

"Ma non è con un brontolìo che schiacceremo l'orso: all'orso bisogna dare la caccia. All'orso non si risponde con le parole.

Gli risponderemo col piombo. Siamo al potere, nessuno può negarlo.

In virtù di questo potere, noi rimarremo al nostro posto".

E si voltò verso Ernest. Il momento era drammatico.

"Ecco dunque la nostra risposta. Non abbiamo parole da sprecare con voi. Quando allungherete le mani, di cui vantate la forza, per afferrare i nostri palazzi, il nostro benessere dorato, vi faremo vedere che cos'è la forza. La nostra risposta sarà costituita dal rombo degli obici, dagli scoppi delle granate, dai crepitii delle mitragliatrici (10). Noi schiacceremo i vostri rivoluzionari sotto i piedi e calpesteremo il loro viso. Il mondo è nostro, ne siamo padroni, e resterà nostro. Quanto all'esercito del lavoro, è stato nel fango dagli inizi della storia, e io, che interpreto la storia come si deve, dico che rimarrà nel fango, finché io e i miei, e coloro che verranno dopo di noi, resteremo al potere. Ecco la grande parola, la regina delle parole: 'Potere'! Né Dio, né Mammona, ma 'il Potere'! Riempitevi la bocca di questa parola: 'il Potere'!".

"Lei mi ha dato una risposta", disse tranquillamente Ernest, "ed era la sola che potesse essere data. Il Potere! E' quanto predichiamo noi alla classe operaia! Sappiamo, e lo sappiamo a prezzo di un'amara esperienza, che nessun appello al diritto, alla giustizia, all'umanità, potrà commuovervi. I vostri cuori sono duri come i talloni con i quali calpestate i poveri. Perciò miriamo alla conquista del potere. E col potere dei nostri voti, il giorno delle elezioni, vi toglieremo il governo..." "E quand'anche otteneste la maggioranza, una maggioranza schiacciante nelle elezioni?" lo interruppe il signor Wickson. "E se rifiutassimo di cedervi il potere, dopo che l'avrete carpito con le urne?".

"Abbiamo previsto anche questo", replicò Ernest. "Vi risponderemmo col piombo. Il Potere! Siete voi che avete proclamata questa la regina delle parole! Benissimo. Sarà questione di forza. E il giorno in cui riporteremo la vittoria nelle elezioni, se vi rifiuterete di rimettere nelle nostre mani il governo di cui ci saremo impadroniti costituzionalmente e pacificamente, ebbene, vi risponderemo allo stesso modo, e la nostra risposta sarà costituita dal rombo degli obici, dagli scoppi delle granate e dai crepitii delle mitragliatrici.

In un modo o nell'altro, non potrete sfuggirci. E' vero che avete interpretato bene la storia. E' vero che dagli inizi della storia il lavoro è umiliato nel fango; è ugualmente vero che resterà sempre nel fango finché voi e i vostri avrete il potere, voi, i vostri e coloro che verranno dopo di voi. Siamo d'accordo. Il potere sarà l'arbitro. E' sempre stato l'arbitro: la lotta di classe è una questione di forza. Ora, come la vostra classe ha abbattuto la vecchia nobiltà feudale, così sarà abbattuta dalla mia classe, dalla classe dei lavoratori. E se interpretate la biologia e la sociologia con la stessa correttezza con cui avete interpretato la storia, vi convincerete che questa fine è inevitabile. Non importa che sia fra un anno, fra dieci o fra mille: la vostra classe sarà abbattuta. E sarà rovesciata dal potere. Noi dell'esercito del lavoro abbiamo ruminato questa parola al punto che ne siamo inebriati. Il Potere! E' veramente la regina delle parole, l'ultima parola!".

Così ebbe termine la serata degli Amici dello Studio.

NOTE:

1) A quel tempo non si era ancora scoperta la vita semplice, e c'era l'abitudine di riempire le case di ninnoli. Le stanze erano veri e propri musei la cui pulizia richiedeva un lavoro continuo. Il diavolo della polvere era il padrone di casa: c'erano mille modi per attirare la polvere e pochi per liberarsene.

2) L'invalidazione dei testamenti era una delle caratteristiche del tempo. Coloro che accumulavano grosse fortune non sapevano in che modo disporne alla loro morte. La redazione e l'invalidazione dei testamenti erano specializzazioni complementari come quelle delle corazze e degli obici, e così si ricorreva a uomini di legge finissimi per redigere testamenti che non fossero invalidabili. Ma fatalmente questi finivano poi con l'essere invalidati dagli stessi legali che li avevano redatti.

Ciò nonostante, i ricchi persistevano nell'idea che fosse possibile fare un testamento inattaccabile, e quest'illusione fu mantenuta per generazioni intere dagli uomini di legge, nei loro clienti. Insomma, una ricerca analoga a quella del dissolvimento universale fatta dagli alchimisti del Medio Evo.

3) Una strana letteratura, d'un genere particolare, destinata a diffondere nei lavoratori idee false sulla vera natura delle classi privilegiate.

4) Gli uomini di quel tempo erano schiavi di alcune formule, e l'abiezione di questo servilismo è incomprensibile per noi.

C'era, nelle parole, una magia più forte di quella dei giocatori di bussolotti. Le menti erano così confuse, che una semplice parola aveva il potere di annientare le conclusioni di tutta una vita di pensiero e di ricerche. La parola "utopista" era fra queste e bastava pronunciarla per condannare i disegni meglio concepiti di miglioramento e di rigenerazione economica. Popoli interi erano presi da una specie di follia alla semplice enunciazione di espressioni come "un dollaro onesto" o "un sacco pieno di mangime", la cui invenzione era considerata un tratto di genio.

5) In origine erano dei detective privati; ma divennero ben presto sostenitori salariati dei capitalisti e poi finirono per essere i mercenari dell'oligarchia.

6) Le medicine brevettate erano veri e propri imbrogli, ma la gente ci credeva come alle grazie e alle indulgenze del Medio Evo.

La sola differenza era che i farmaci brevettati costavano di più ed erano nocivi.

7) Fin verso il 1912 la maggior parte del popolo conservò l'illusione di governare il paese attraverso le elezioni. In realtà, il paese era governato dal cosiddetto meccanismo politico.

In principio, i capi o imprenditori di questi meccanismi estorcevano ai capitalisti grosse somme per influire sulla legislatura; ma i grossi capitalisti non tardarono a capire che sarebbe stato più economico per loro avere direttamente nelle loro mani quel meccanismo, e pagare essi stessi i capi.

8) Robert Hunter, in un libro intitolato "Poverty", pubblicato nel 1906, affermava che a quel tempo negli Stati Uniti dieci milioni di individui vivevano in povertà.

9) Secondo il censimento del 1900 (l'ultimo le cui cifre siano state pubblicate), negli Stati Uniti il numero dei minorenni che lavoravano era di 1752187.

10) La sostanza di questo pensiero trova dimostrazione nella seguente definizione tolta da un'opera intitolata "The Cynic's Word Book", pubblicata nell'A. D. 1906 e scritta da un certo Ambrose Bierce, noto misantropo dell'epoca: "Grape - shot (shrapnel): Argomento che l'avvenire prepara in risposta alle richieste del socialismo americano".

Capitolo 6

SEGNI PREMONITORI

Fu verso quell'epoca che cominciarono a piovere intorno a noi, fitti e rapidi, gli avvertimenti del futuro. Ernest aveva già espresso alcuni dubbi sul grado di prudenza di cui mio padre dava prova, ricevendo in casa sua socialisti e sindacalisti noti, e frequentando apertamente le loro riunioni; ma mio padre aveva riso di quelle preoccupazioni. Quanto a me, imparavo molte cose conversando con i dirigenti e i pensatori della classe operaia.

Vedevo il rovescio della medaglia. Ero sedotta dall'altruismo e dal nobile idealismo che vedevo in loro e, nello stesso tempo, ero spaventata dall'immensità del nuovo orizzonte letterario, filosofico, scientifico e sociale che mi si apriva davanti.

Imparavo rapidamente, ma non abbastanza in fretta per capire sin da allora il pericolo della nostra posizione.

Gli avvertimenti non mancarono, ma non vi davo importanza. Così seppi che la signora Pertonwaithe e la signora Wickson, la cui influenza era formidabile nella nostra città universitaria, avevano espresso l'opinione che giovane com'ero, mi mostravo troppo premurosa e decisa con una pericolosa tendenza a volermi intromettere negli affari degli altri. Le loro osservazioni mi sembrarono naturali, data la parte avuta nell'inchiesta sull'affare Jackson, ma non immaginavo affatto la portata e l'importanza d'un giudizio del genere, emesso da arbitri di così grande influenza sociale.

Osservai, infatti, un certo riserbo nella solita cerchia delle mie conoscenze, ma l'attribuii alla disapprovazione che sollevava il mio progetto di matrimonio con Ernest. Solo molto tempo dopo, Ernest mi dimostrò che l'atteggiamento della gente fra la quale vivevo era tutt'altro che spontaneo, ma concertato e diretto da forze occulte. "Hai ospitato in casa un nemico della tua classe", mi disse. "Non soltanto gli hai dato asilo, ma gli hai concesso il tuo amore e affidato la tua persona. E' un tradimento verso la tua classe e non sperare di sfuggire alla punizione".

Ma prima di questo, un pomeriggio che Ernest era da me, mio padre ritornò tardi a casa e ci accorgemmo che era adirato o, perlomeno, filosoficamente arrabbiato. Raramente dava in escandescenze, ma si permetteva, ogni tanto, un certo sdegno misurato, che lui chiamava il suo "tonico". Lo vedemmo, dunque, appena entrato, con la sua dose di collera tonificante.

"Cosa ne pensate?" annunciò. "Sono stato a colazione con Wilcox".

Wilcox era il rettore a riposo dell'università, la cui mente ristretta era un deposito di luoghi comuni in voga nel 1870 e che non si era mai sognato di aggiornare.

"Mi ha invitato, mi ha mandato a chiamare".

S'interruppe. Noi aspettavamo ansiosi.

"Oh! è stato pieno di tatto, lo riconosco, ma sono stato rimproverato! Da quel vecchio fossile!".

"Credo di sapere perché l'ha rimproverato", disse Ernest.

"Non l'immagina neppure", rispose mio padre.

"Invece sì", ribatté Ernest. "E non si tratta di una congettura, ma di una deduzione. Ha biasimato la sua vita privata".

"E' vero", esclamò mio padre. "Come ha fatto a indovinare?".

"Sapevo che sarebbe accaduto, l'avevo avvertita".

"E' vero", rispose mio padre, riflettendo. "Ma non riuscivo a crederlo. In ogni modo, sarà una prova di più, e convincente, da inserire nel mio libro".

"Non è nulla in confronto a ciò che l'aspetta se insiste nel ricevere tutti quei socialisti e radicali, compreso me".

"E' precisamente quello che mi ha rimproverato il vecchio Wilcox, con un mucchio di commenti senza logica. Mi ha detto che davo prova di dubbio gusto, che andavo contro la tradizione e la dignità dell'università, e che, comunque, impiegavo male il mio tempo. Ha poi aggiunto altre cose non meno vaghe. Non sono riuscito a fargli dire qualcosa di più definito, ma l'ho messo in una condizione molto imbarazzante: si ripeteva continuamente, dicendo quanto grande fosse la sua considerazione per me e come tutti mi rispettassero come scienziato. Non è stato un compito piacevole per lui; ho capito benissimo che lo imbarazzava".

"Non è un uomo libero. Non si trascina sempre con piacere la propria catena" (1).

"Gliel'ho fatto confessare. Mi ha dichiarato che quest'anno l'università ha bisogno di più fondi di quanto lo Stato è disposto a concedere, e che possono essere forniti da ricchi personaggi che non vedrebbero certo con piacere l'università allontanarsi dai suoi ideali elevati, deviando dalla ricerca imparziale della pura verità. Quando ho cercato di metterlo con le spalle al muro, chiedendogli come la mia vita privata potesse nuocere agli ideali dell'università, mi ha offerto una vacanza di due anni, durante i quali avrei ricevuto lo stipendio intero, per un viaggio di piacere e di studio in Europa. Naturalmente non potevo accettare una simile proposta".

"Sarebbe stato meglio se avesse accettato", disse Ernest, grave.

"Ma era un tentativo di corruzione", protestò mio padre; e Ernest approvò con un cenno del capo.

Quel vecchio fossile mi ha anche detto che nei salotti si chiacchiera, si critica mia figlia perché si fa vedere in pubblico in compagnia di una persona nota come lei, e che questo è in contrasto col decoro e la dignità dell'università. Lui personalmente non ci vede nulla di male, ma se ne parla, e io dovrei rendermene conto!".

Ernest rifletté un attimo. Il suo viso si oscurò. Era grave e corrucciato. Dopo un po' dichiarò:

"C'è dell'altro sotto, oltre agli ideali universitari. Qualcuno ha fatto pressione su Wilcox".

"Crede?" esclamò mio padre, con un'espressione che rivelava più una grande curiosità che paura.

"Vorrei tentare di spiegarle un'idea che mi si va formando lentamente", disse Ernest. "Mai, nella storia del mondo, la società è stata trascinata da una corrente tanto furiosa come oggi. I rapidi mutamenti del nostro sistema industriale ne provocano altri, non meno rapidi, in tutte le strutture religiose, politiche e sociali. Una rivoluzione invisibile e formidabile si sta preparando nelle intime fibre della nostra società. Queste cose si avvertono solo vagamente, ma sono nell'aria, oggi, ora. Si sente incombere qualcosa di vasto, vago, pauroso. La mia mente si rifiuta di prevedere la forma in cui questa minaccia diventerà realtà. Avete ascoltato Wickson l'altra sera; c'era lo stesso qualcosa, informe e indefinibile, nelle sue parole, dettate da un'inconsapevole cognizione proprio di quel qualcosa".

"Vuol dire..." cominciò mio padre, ma s'interruppe, esitante.

"Voglio dire che un'ombra gigantesca e minacciosa comincia a proiettarsi sul paese. La chiami anche ombra dell'oligarchia, se vuole, che sarebbe la definizione piu approssimativa che oso dare, ma non saprei dire quale ne sia la natura (2). Ma ecco cosa voglio dire soprattutto: lei è in una situazione pericolosa, un pericolo che il mio timore forse esagera, dato che non posso misurarlo.

Segua il mio consiglio, accetti le vacanze che le offrono".

"Ma sarebbe una vigliaccheria", replicò mio padre.

"Niente affatto! Lei è un uomo di una certa età; ha già svolto il suo compito, un bel compito per giunta; lasci la presente lotta a chi è giovane e forte. E' compito nostro, della nuova generazione.

La nostra cara Avis sarà accanto a me, qualunque cosa accada, e la rappresenterà sul campo di battaglia".

"Ma non possono nuocermi" obiettò mio padre. "Grazie a dio, sono indipendente. Oh, la prego di credere che mi rendo conto delle terribili persecuzioni che potrebbero infliggere a un professore la cui vita dipendesse esclusivamente dall'università. Ma io sono indipendente. Non sono entrato nell'insegnamento per lo stipendio.

Posso vivere bene con le mie rendite: loro possono togliermi solo lo stipendio".

"Non vede le cose abbastanza a fondo", rispose Ernest. "Se accade ciò che temo, possono privarla delle sue rendite e perfino del capitale, oltre che dello stipendio".

Mio padre rimase in silenzio per qualche attimo. Rifletteva profondamente, e una profonda ruga, segno di decisione, gli comparve sulla fronte. Infine, con tono deciso, disse:

"Non accetterò questa vacanza". S'interruppe di nuovo. Continuerò a scrivere il mio libro (3). Può darsi che lei sbagli. Ma, torto o ragione, resterò al mio posto".

"Benissimo. Lei sta avviandosi sulla stessa strada del vescovo Morehouse: andrà incontro alla stessa catastrofe. Sarete tutti e due ridotti allo stato di proletari prima di raggiungere lo scopo".

Il discorso si spostò sul prelato, e noi chiedemmo a Ernest di raccontarci ciò che sapeva di lui.

"E' rimasto colpito fin nel profondo dell'animo dal viaggio in cui l'ho trascinato attraverso l'inferno. Gli ho fatto visitare le baracche dei nostri operai, gli ho fatto vedere i rifiuti umani rigettati dalla macchina industriale, che gli hanno raccontato la loro vita. L'ho condotto nei bassifondi di San Francisco, e ha potuto constatare che l'alcolismo, la prostituzione, la criminalità, hanno una causa più profonda che non la corruzione naturale. Ne è rimasto profondamente colpito, peggio, si è appassionato alla causa. Il colpo è stato troppo duro per quel fanatico della morale che, come spesso accade, non ha il minimo senso pratico. Si agita nel vuoto, fra ogni sorta di illusioni umanitarie e disegni di interventi presso le classi colte. Sente che è suo dovere ineluttabile far rivivere l'antico spirito della chiesa e render noto il suo messaggio ai padroni. Si è entusiasmato; presto o tardi scoppierà, ma non posso predire quale forma assumerà la catastrofe . E' un animo puro ed entusiasta, ma così poco pratico! Si spinge più lontano di me, non riesco a tenerlo sulla terra; vola verso il suo orto degli ulivi e poi verso il suo calvario. Perché le anime così nobili sono nate per essere crocifisse".

"E tu?" domandai con un sorriso che nascondeva l'ansia tormentosa del mio amore.

"Io no", rispose, pure sorridendo. "Potrò essere giustiziato o assassinato, ma non sarò mai crocifisso. Sono piantato troppo solidamente e ostinatamente sulla terra".

"Ma perché preparare la crocifissione del vescovo? Non negherai d'esserne la causa".

"Perché dovrei lasciare uno a vivere tranquillamente nel lusso, mentre milioni di lavoratori vivono nella miseria?".

"Allora perché consigli a mio padre di accettare quella vacanza?".

"Perché non sono un'anima pura ed entusiasta. Perché sono solido, ostinato ed egoista, perché vi amo e dico, come Ruth: 'La tua gente è la mia gente'. Il vescovo, poi, non ha una figlia. Inoltre per quanto minimo sia il risultato, per quanto debole e insufficiente si riveli il tentativo, produrrà qualche beneficio per la rivoluzione; e tutte le briciole contano".

Non potevo condividere il suo parere. Conoscevo bene la nobile natura del vescovo Morehouse, e non riuscivo a immaginare che la sua voce, sorgendo in favore della giustizia, non fosse altro che un vagito debole e impotente. Non conoscevo ancora, effettivamente, come Ernest, la dura vita. Lui vedeva con chiarezza la futilità di quella grande anima, che gli avvenimenti prossimi mi avrebbero rivelato con maggiore chiarezza.

Dopo alcuni giorni, Ernest mi raccontò, come una cosa molto strana, l'offerta che aveva ricevuto dal governo. Gli proponevano il posto di segretario al ministero del lavoro. Ne fui felice. Lo stipendio era relativamente alto, avrebbe costituito una solida base per il nostro matrimonio. Quel genere di lavoro doveva certo piacere a Ernest, e il fiero orgoglio che provavo per lui mi fece considerare quella proposta come un giusto riconoscimento delle sue capacità. Improvvisamente, osservai nei suoi occhi il lampo che gli era tipico: si prendeva gioco di me. "Non... rifiuterai, vero?" domandai con voce tremante.

"E' un tentativo di corruzione", disse. "C'è sotto l'abile intervento di Wickson e, dietro il suo, quello di gente ancora più in alto. E' un vecchio trucco, come la lotta di classe, che consiste nello scegliere i propri capitani togliendoli all'esercito del nemico. Poveri lavoratori eternamente traditi!

Sapessi quanti sindacalisti, in passato sono stati comprati così!

Costa meno, molto meno assoldare un generale, che non affrontarlo con il suo esercito e combatterlo. C'è stato... ma non voglio nominare nessuno! Sono già abbastanza indignato. Cara e tenera amica mia, sono un capitano del lavoro, non posso vendermi. Se non avessi altri motivi, la sola memoria del mio povero e vecchio padre estenuato sino alla morte basterebbe a impedirmelo".

Aveva le lacrime agli occhi, quell'eroe, il mio grande eroe. Non avrebbe mai perdonato l'ingiustizia fatta a suo padre, le sordide bugie e i furti meschini ai quali era stato spinto per dare il pane ai suoi figli.

"Mio padre era un brav'uomo", mi disse un giorno. "Era un'anima buona, mutilata, scorticata dalla miseria della vita. I suoi padroni, bruti, due volte bruti, ne fecero una bestia vinta.

Dovrebbe essere ancora vivo, come tuo padre, era forte, ma fu preso nella macchina e logorato a morte, per accrescere il profitto altrui. Pensa, per produrre dividendi, il sangue delle sue vene fu mutato in un pranzo innaffiato da vini prelibati in una ridda di ori o in un'orgia dei sensi per ricchi oziosi e parassiti, i suoi padroni. Due volte bruti!".

NOTE:

1) Gli schiavi africani e i criminali avevano attaccata alla gamba una catena di ferro. Soltanto dopo l'avvento della fratellanza dell'uomo, simili usi barbari furono abbandonati.

2) C'erano stati, prima di Everhard, uomini che avevano presentito quell'ombra, sebbene, come lui, fossero stati incapaci di precisarne la natura. John C. Calhoun diceva: "Un potere superiore a quello dello stesso popolo è sorto nel governo. E' un insieme d'interessi molteplici, diversi e potenti, combinati in una massa unica e mantenuti dalla forza di coesione dell'enorme riserva che esiste nelle banche". E il grande umanista Abraham Lincoln dichiarava, qualche giorno prima del suo assassinio:

"Prevedo nel prossimo avvenire una crisi che mi fa tremare per la sicurezza del mio paese... Le società anonime sono state innalzate al trono: ne seguirà un'era di corruzione nelle classi elevate, e il potere capitalista del paese si sforzerà di prolungare il suo regno appoggiandosi sui pregiudizi del popolo, sinché la ricchezza non sia condensata in poche mani e la repubblica distrutta".

3) Il libro: "Economia ed educazione" fu pubblicato quell'anno. Ne esistono tre esemplari: due ad Ardis e uno ad Asgard. Trattava diffusamente d'uno dei fattori di conservazione dell'ordine, cioè della tendenza al capitalismo delle università e delle scuole inferiori. Era un atto di accusa logico e schiacciante contro tutto un sistema di educazione che sviluppava nella mente degli studiosi solo idee favorevoli al regime, escludendo ogni idea contraria o sovversiva. Il libro fece scalpore e fu immediatamente soppresso dall'oligarchia.

Capitolo 7

LA VISIONE DEL VESCOVO

"Il vescovo ha rotto i freni", mi scrisse Ernest. "Si libra nel vuoto assoluto. Oggi vuol cominciare a rimettere in piedi il nostro miserabile mondo, annunciandogli il proprio messaggio. Mi ha avvertito, e non sono riuscito a dissuaderlo. Questa sera presiede l'I.P.H. (1) e includerà il messaggio nell'allocuzione di apertura.

Posso passare a prenderti per andare a sentirlo? Naturalmente il suo sforzo è condannato in partenza a fallire. Ti spezzerà il cuore... e spezzerà anche il suo, ma per te sarà un'ottima lezione. Sai, mia cara e tenera amica, quanto sia fiero del tuo amore e come vorrei meritare la tua più alta stima, per compensare ai tuoi occhi, in un certo qual modo, la mia indegnità a questo onore. Il mio orgoglio desidera persuaderti che il mio pensiero è corretto e giusto. Le mie idee, al riguardo, sono amare; la futilità di quell'animo, che pure è nobile, ti dimostrerà che la mia asprezza è necessaria. Vieni alla riunione di questa sera. Per quanto tristi possano essere gli incidenti, sento che ti terranno più stretta a me".

L'I.P.H. aveva convocato per quella sera, a San Francisco, un'assemblea per esaminare lo sviluppo dell'immoralità pubblica, e per studiare i rimedi. Presiedeva il vescovo Morehouse che, come osservai subito, era in uno stato di grande eccitazione nervosa.

Ai suoi lati sedevano il vescovo Dickinson, H. H. Jones, capo della facoltà di etica dell'università di California, la signora W. W. Hurd, grande organizzatrice di opere di carità, Philip Ward, altro grande filantropo, e altri astri di minore grandezza nel campo della morale e della carità. Il vescovo Morehouse si alzò e esordì, senza preamboli:

"Attraversavo le strade in carrozza: era notte. Ogni tanto guardavo fuori dal finestrino. A un tratto i miei occhi parvero aprirsi e vidi le cose come sono. Il mio primo gesto fu di portarmi una mano alla fronte, per nascondermi l'orribile realtà, e nell'oscurità mi rivolsi questa domanda: Che cosa si può fare?

Un attimo dopo, la domanda assunse quest'altra forma: Che cosa avrebbe fatto il mio divino Maestro? A questo punto, una luce improvvisa sembrò riempire lo spazio, e il mio dovere, mi parve chiaro, della chiarezza del sole, come Saul aveva visto il suo, sulla strada di Damasco. Feci fermare, scesi e dopo qualche parola scambiata con due donne pubbliche, le indussi a salire nella mia vettura, con me. Se Gesù ha detto il vero, quelle due infelici erano due mie sorelle, e la sola possibilità di purificazione stava nel mio affetto e nella mia tenerezza per loro. Vivo in uno dei quartieri più belli di San Francisco. La casa in cui abito è costata mille dollari, l'arredamento e i libri, e le opere d'arte altrettanto. La mia casa è un castello dove abitano anche numerosi domestici. Ignoravo sinora a che cosa possano servire i manieri, credevo che fossero fatti per viverci. Ora lo so. Condussi le due ragazze di strada nel mio palazzo e ora rimarranno con me. E di sorelle mie, di questa specie, spero di riempire le vaste camere della mia dimora".

Gli ascoltatori andavano agitandosi sempre più e i visi di quelli seduti sulla pedana, manifestavano uno spavento e una costernazione crescente.

All'improvviso, il vescovo Dickinson si alzò e, con un'espressione di disgusto, abbandonò la pedana e la sala. Ma il vescovo Morehouse, dimentico di tutto, gli occhi pieni della sua visione, continuò:

"O sorelle e fratelli, in questo modo di agire trovo la soluzione di tutte le difficoltà. Non mi rendevo conto dell'utilità delle carrozze. Ora so. Sono fatte per trasportare i deboli, gli ammalati e i vecchi, non per rendere onore a quelli che hanno perduto persino il senso della vergogna.

Non sapevo perché i palazzi fossero costruiti, ma oggi l'ho scoperto: le residenze ecclesiastiche dovrebbero essere convertite in ospedali e asili per chi è caduto lungo la via, e che sta per morirvi".

Fece una lunga pausa, dominato evidentemente dall'intensità del suo pensiero, e incerto sul modo migliore di esprimerlo.

"Sono indegno, cari fratelli, di dirvi alcunché in fatto di moralità. Ho vissuto troppo a lungo in un'ipocrisia vergognosa per essere in grado d'aiutare gli altri, ma il mio atto verso quelle donne, verso quelle sorelle, mi mostra che la migliore via è facile a trovare. Per coloro che credono in Gesù e nel suo Vangelo, non possono esserci fra gli uomini altri rapporti che quelli di affetto. L'amore solo è più forte del peccato, più forte della morte.

Dichiaro dunque ai ricchi fra voi che il loro dovere è di fare ciò che ho fatto e faccio io. Tutti quelli che vivono nell'agiatezza prendano in casa un ladro e lo trattino come un fratello; prendano un'infelice e la trattino come una sorella, e San Francisco non avrà più bisogno di polizia e magistrati. Le prigioni saranno sostituite da ospedali, e il delinquente sparirà, insieme al delitto.

Non dobbiamo dedicarci solo a far denaro: dobbiamo dare noi stessi, come faceva Cristo. Questo oggi è il messaggio della Chiesa. Ci siamo allontanati molto, smarrendoci, dall'insegnamento del Maestro. Ci siamo consumati nel nostro lusso. Abbiamo innalzato il vitello d'oro sull'altare. Ho qui una poesia che riassume tutto questo in pochi versi. Ve la leggerò. Fu scritta da un'anima smarrita, che però vedeva le cose chiaramente (2). Non bisogna interpretarla come un attacco contro la chiesa, ma contro gli agi e la pompa del clero, che si è allontanato dal sentiero tracciato dal Maestro e ha abbandonato le sue pecorelle. Eccola:

Trombe d'argento nella Cattedrale squillarono sul popolo inchinato, e sulle spalle io vidi sollevato, re di Roma, il Divino Mortale.

Prete nella sua veste liliale, re, di regale porpora ammantato, tre volte cinto di serto regale, il Papa andò, illuminando il creato.

Pel deserto dei secoli il mio cuore pervenne sino a un solitario mare e a un viandante in cerca di sua pace.

Uccello in nido e volpe in tana giace; invano io solo cerco di posare, ferisco i piedi e bevo il mio dolore".

Il pubblico era agitato, ma non commosso. Il vescovo Morehouse non se ne accorgeva, seguiva la sua via con cuore fermo.

"Ecco perché dico ai ricchi fra voi, e a tutti i ricchi: 'Voi avete crudelmente oppresso le pecore del Maestro, voi avete indurito i vostri cuori, avete indurito i vostri orecchi alle voci che gridano sulla via, voci di sofferenza e di dolore che non volete sentire ma che saranno esaudite un giorno! Ecco perché io predico...'".

Ma a questo punto H. H. Jones e Philip Ward, che da un po' si erano alzati dai loro scanni, presero il vescovo per un braccio e lo trascinarono giù dalla pedana, mentre la sala rimaneva oppressa dallo scandalo.

Appena in strada, Ernest scoppiò in una risata che mi sconvolse.

Il cuore stava per scoppiarmi, le lacrime per scorrere.

"Ha annunciato loro il suo messaggio!" esclamò Ernest. "La forza umana e la natura mite del vescovo si sono rivelate agli occhi dei suoi affezionati seguaci cristiani, i quali hanno concluso che non aveva la testa a posto. Hai visto con che rapidità gli hanno fatto abbandonare la pedana? In verità, l'inferno deve aver riso di questo spettacolo".

"Eppure, ciò che il vescovo ha detto questa sera creerà una forte impressione", osservai.

"Credi?" fece Ernest, ironico.

"Farà molta sensazione", affermai. "Ho visto i cronisti scrivere come matti, mentre lui parlava".

"Neppure una parola di quanto ha detto apparirà domani sui giornali".

"Non posso crederlo", esclamai.

"Aspetta e vedrai, neppure una parola, neppure un pensiero. La stampa quotidiana? Un trucco continuo".

"Ma i cronisti? Li ho visti con i miei occhi".

"Neppure una parola di quanto ha detto verrà stampata. Dimentichi i direttori dei giornali. Il loro stipendio dipende dalla loro linea di condotta, e la loro linea di condotta segue questo criterio: non pubblicare nulla che costituisca una seria minaccia per l'ordine costituito. Le dichiarazioni del vescovo rappresentano un assalto violento alla morale corrente. Sono considerate eresia. Gli hanno fatto abbandonare la pedana per impedirgli di dire di più. I giornali puniranno la sua eresia col silenzio e l'oblio.

La stampa degli Stati Uniti? E' un'escrescenza capitalistica. La sua funzione è di servire lo stato attuale delle cose, manipolando l'opinione pubblica; e l'esegue a meraviglia. Lascia che ti predica ciò che avverrà. I giornali domani racconteranno semplicemente che il vescovo non sta bene, che ha lavorato troppo e che questa sera ha avuto un collasso. Fra qualche giorno, un altro annuncio: che è in uno stato di prostrazione nervosa, e che le sue pecorelle riconoscenti hanno fatto una sottoscrizione affinché gli sia concessa una vacanza. Quindi potrà accadere una di queste due cose: o il vescovo riconoscerà l'errore commesso e ritornerà dalle vacanze perfettamente guarito, senza più visioni; oppure persisterà nel suo delirio e in questo caso i giornali ci informeranno con frasi patetiche, di profonda simpatia, che è diventato matto. Infine, gli lasceranno raccontare le sue visioni davanti a pareti imbottite".

"Ora esageri!" esclamai.

"Agli occhi della società sarà veramente impazzito", rispose Ernest. "Quale onest'uomo, sano di mente, prenderebbe in casa dei ladri e delle prostitute per vivere con loro come fratelli e sorelle? E' vero che Cristo è morto fra due ladroni, ma è un'altra storia. Pazzia? Ma il ragionamento di un uomo col quale non si è d'accordo sembra sempre falso, e naturalmente la mente del vescovo è sconvolta. Dov'è la linea di separazione fra una mente falsa e una mente pazza? E' inconcepibile che un individuo di buon senso possa essere in disaccordo radicale con le nostre più sane conclusioni.

Ne troverai un bell'esempio nei giornali di questa sera. Mary MacKenna abita nella parte meridionale di Market Street. Benché povera, è perfettamente onesta. E' perfino buona patriota. Solo che si è fatta delle idee false circa la bandiera americana e la protezione di cui dovrebbe essere il simbolo. Ed ecco che cosa le è capitato: suo marito, vittima di un infortunio, è rimasto per tre mesi all'ospedale. Lei ha cercato di guadagnare facendo la lavandaia ma ciò nonostante è rimasta arretrata nel pagamento del fitto di casa. Ieri l'hanno messa sul lastrico. Prima, aveva sventolato la bandiera nazionale davanti alla sua porta e, riparandosi dietro di essa, aveva proclamato che in virtù di quella protezione non avevano il diritto di buttarla sulla strada.

Che cosa hanno fatto? L'hanno arrestata e dichiarata pazza! Oggi è stata sottoposta all'esame medico dei periti ufficiali, che l'hanno riconosciuta pazza e l'hanno rinchiusa nella casa di salute di Napa".

"Il tuo esempio non calza. Supponi che io sia in disaccordo con tutti, sul valore, mettiamo, di un'opera letteraria. Non mi manderebbero per questo al manicomio".

"Verissimo", replicò Ernest. "La tua diversità di opinione non costituirebbe una minaccia per la società. Questa è la differenza.

Le opinioni anormali di Mary MacKenna e del vescovo sono invece un pericolo per l'ordine costituito. Che succederebbe se tutti i poveri si rifiutassero di pagare l'affitto rifugiandosi sotto la protezione della bandiera americana? La prosperità sarebbe distrutta. Le convinzioni del vescovo non sono meno pericolose per l'attuale società. Dunque, lo aspetta il manicomio".

"Non posso crederci." "Aspetta e vedrai", disse Ernest. E aspettai.

La mattina dopo, mandai a comprare tutti i giornali: non riportavano neppure una parola di quanto il vescovo Morehouse aveva detto. Uno o due riferivano che si era lasciato vincere dalla commozione. Le stupidaggini degli oratori che avevano parlato dopo di lui erano invece interamente riprodotte.

Parecchi giorni dopo, un breve annuncio informava che il prelato era partito in vacanza per ragioni di salute, in seguito a un eccesso di lavoro. Fin qui Ernest aveva ragione. Ma non si parlava ancora di pazzia, neppure di esaurimento nervoso. Non immaginavo neppure la via dolorosa che il dignitario della chiesa era destinato a percorrere, quella via dall'orto di Getsemani al Calvario, che Ernest aveva intravisto per lui.

NOTE:

1) Non esiste indizio che possa illuminarci sull'organizzazione rappresentata da queste iniziali.

2) Oscar Wilde, uno dei maestri della letteratura del secolo diciannovesimo dell'era cristiana.

Capitolo 8

I DISTRUTTORI DELLA MACCHINA

Poco tempo prima che Ernest si presentasse come candidato al Congresso, nella lista socialista, mio padre diede quello che, in privato, chiamò il pranzo dei "Profitti e perdite". Ernest lo chiamò invece il pranzo dei Distruttori della macchina.

In realtà, fu un pranzo di uomini d'affari, piccoli uomini d'affari, naturalmente. Credo che nessuno fra loro fosse interessato in un'impresa il cui capitale superasse i duecentomila dollari. Erano dunque i veri rappresentanti degli uomini d'affari medio-borghesi. C'era Owen, della Silverberg, Owen e C., un'importante ditta grossista di drogheria, con numerose succursali, di cui noi eravamo clienti. C'erano i soci della grande casa farmaceutica Kowalt e Washburn; c'era il signor Asmunsen, proprietario d'un'importante cava di granito nella Contea di Contra Costa, e parecchi altri dello stesso livello, proprietari o soci di piccole industrie, piccoli commerci e piccole imprese: in una parola, piccoli capitalisti.

Erano persone abbastanza interessanti, dall'aria intelligente e con un linguaggio semplice e chiaro. Si lamentavano, all'unanimità, dei consorzi e la loro parola d'ordine era:

"Aboliamo i trust!". Secondo loro erano all'origine di tutte le oppressioni; e tutti, senza eccezione, ripetevano la stessa lagnanza. Sostenevano la nazionalizzazione delle grandi imprese, come le ferrovie e le poste, nonché l'inasprimento fiscale contro i grossi profitti per distruggere le grandi concentrazioni di capitali. Lodavano anche, come un possibile rimedio alle miserie locali, la municipalizzazione delle imprese di pubblica utilità, come l'acqua, il gas, i telefoni e i trasporti pubblici.

Particolarmente interessante fu il racconto del signor Asmunsen sulle sue vicissitudini di proprietario di cava. Confessò che questa sua cava non gli aveva dato mai nessun utile, nonostante il grande quantitativo di ordinazioni che gli aveva procurato il grande terremoto di San Francisco. La ricostruzione della città era durata sei anni, durante i quali il volume dei suoi affari si era quadruplicato, ma non per questo lui si era arricchito.

"La compagnia delle ferrovie è al corrente dei miei affari meglio di me", spiegò. "Conosce al centesimo le spese di gestione e i termini dei miei contratti. Come mai sia così bene informata posso solo immaginarlo. Deve avere delle spie fra i miei impiegati e delle conoscenze tra i firmatari dei contratti. Perché, badate, appena ho firmato un grosso contratto vantaggioso che mi assicura un buon guadagno, i prezzi di trasporto aumentano come per incanto. Non mi si danno spiegazioni, ma le ferrovie si prendono il mio guadagno. In questi casi non sono mai riuscito a convincere la compagnia a rivedere le sue tariffe, mentre, in seguito a incidenti o aumenti di spese di gestione, o dopo la firma di contratti meno vantaggiosi per me, sono sempre riuscito a ottenere un ribasso. Insomma, le ferrovie si prendono tutti i miei guadagni, grandi o piccoli".

Ernest l'interruppe per chiedergli:

"Ciò che le rimane, in fin dei conti, equivale pressappoco allo stipendio che la compagnia ferroviaria le darebbe come direttore, qualora fosse proprietaria della cava?".

"Esattamente", rispose il signor Asmunsen. "Non molto tempo fa, feci eseguire un controllo dei miei libri in questi ultimi due anni, e ho constatato che i miei guadagni equivalgono pari pari allo stipendio di un direttore. Tanto varrebbe allora che le ferrovie possedessero la cava e l'affidassero a me in gestione".

"Con questa differenza, però", disse Ernest, ridendo. "Che la compagnia ferroviaria si sarebbe caricata dei rischi che lei ha avuto invece la bontà di addossarsi".

"E' vero", ammise il signor Asmunsen, con tristezza.

Quando tutti ebbero detto la loro, Ernest rivolse varie domande.

Cominciò dal signor Owen.

"Sei mesi fa avete aperto una succursale, qui a Berkeley?".

"Sì", rispose il signor Owen.

"Da allora, infatti, ho notato che tre piccole drogherie hanno dovuto chiudere. La vostra succursale ne è la causa?".

"Non avevano nessuna probabilità contro di noi", rispose il signor Owen, con soddisfazione.

"Perché no?".

"Avevamo un capitale più forte. Nel commercio all'ingrosso la perdita è sempre minima e il guadagno maggiore".

"Cosicché il vostro negozio assorbiva i guadagni delle tre piccole botteghe. Capisco. Ma mi dica: che ne è dei proprietari delle tre piccole deogherie?".

"Uno conduce il nostro furgone per le consegne. Non so cosa facciano gli altri".

Ernest si voltò improvvisamente verso il signor Kowalt.

"Lei vende spesso a prezzo di costo, a volte perfino sottocosto (l). Che ne è dei proprietari delle piccole farmacie che ha messo con le spalle al muro?".

"Uno di essi, il signor Haasfurther, è attualmente capo del nostro servizio ordinazioni".

"E lei ha assorbito i guadagni realizzati prima da loro?".

"Certamente: per questo siamo negli affari".

"E lei", disse Ernest rivolgendosi bruscamente al signor Asmunsen.

"Lei è disgustato perché le ferrovie le sottraggono i suoi guadagni, vero?".

Il signor Asmunsen annuì.

"Lei invece vorrebbe tenersi per sé i suoi profitti, vero?".

Il signor Asmunsen annuì di nuovo.

"A spese degli altri?" Nessuna risposta. Ernest insistette:

"A spese degli altri?".

"E' così che si guadagna" replicò seccamente il signor Asmunsen.

"Dunque, il gioco degli affari consiste nel guadagnare a scapito degli altri, e nell'impedire agli altri di guadagnare a spese nostre. E' così, vero?".

Dovette ripetere la domanda e il signor Asmunsen alla fine rispose:

"Sì, è così. Però noi non ci opponiamo a che gli altri facciano i loro guadagni, purché non siano esorbitanti".

"Per esorbitanti intende, senza dubbio, grossi guadagni. Però non vede nessun inconveniente nel fare grossi guadagni per suo conto... vero?".

Il signor Asmunsen confessò la propria debolezza in materia.

Allora Ernest si rivolse a un altro, un certo signor Calvin, una volta grosso proprietario di latterie.

"Qualche tempo fa, lei combatteva il trust del latte", disse. "Ora partecipa alla politica agricola (2). Come mai questo cambiamento?".

"Oh, non ho abbandonato la lotta", rispose il signor Calvin, che aveva infatti un'aria aggressiva. "Io combatto il trust sull'unico terreno sul quale è possibile combatterlo, quello politico. Le spiego: fino a qualche anno fa, noi produttori di latte facevamo ciò che volevamo".

"Ma vi facevate concorrenza fra voi?" l'interruppe Ernest.

"Sì, e questo abbassava i profitti. Allora tentammo di organizzarci, ma c'erano sempre alcuni produttori indipendenti che guastavano i nostri disegni. Poi venne il trust del latte".

"Sovvenzionato dal capitale della Standard Oil" (3) disse Ernest.

"E' vero", ammise il signor Calvin. "Ma non lo sapevamo a quel tempo. I suoi agenti ci affrontarono senza mezzi termini e ci posero questa alternativa: o entrare nella lega e ingrassarci, o star fuori, e perire. La maggior parte di noi entrò nel trust, gli altri creparono di fame. Oh, all'inizio quanto denaro...! Il latte fu aumentato di un centesimo al litro, e un quarto di quel centesimo era nostro. Gli altri tre quarti andavano al trust. Poi il latte fu aumentato di un altro centesimo, ma di questo non toccò nulla a noi. Le nostre lamentele furono inutili. Il trust era diventato il padrone. Ci rendemmo conto di essere delle semplici pedine. Infine, anche il quarto di centesimo addizionale ci fu tolto. Poi il trust cominciò a stringere la vite. Che cosa potevamo fare? Fummo spremuti. Non c'erano più produttori, solo un trust del latte".

"Ma col latte aumentato di due centesimi, mi pare che avreste potuto sostenere la concorrenza", suggerì Ernest con malizia.

"Lo credevamo anche noi. Abbiamo tentato". Il signor Calvin fece una pausa. "E fu la nostra rovina. Il trust poteva lanciare il latte sul mercato a un prezzo inferiore al nostro. Poteva ancora avere un piccolo guadagno quando noi eravamo in pura perdita. Ci ho rimesso cinquantamila dollari in quell'affare. La maggior parte di noi dichiarò fallimento (4). I produttori di latte furono spazzati via".

"Cosicché", disse Ernest, "visto che il trust s'era preso i suoi guadagni, lei s'è dato alla politica, affinché una nuova legislazione distrugga a sua volta il trust e le permetta di riprendere i suoi guadagni?".

Il viso del signor Calvin si rischiarò.

"E' proprio quello che ho detto nelle mie conferenze ai mezzadri.

Questo è, in sintesi, il programma".

"Però il trust dà il latte a migliori condizioni dei lattai indipendenti".

"Perbacco, può ben farlo, con l'organizzazione e le nuove macchine che può procurarsi con i suoi capitali".

"Questo è fuori discussione. Può certamente farlo e, ciò che più conta, lo fa", concluse Ernest.

Il signor Calvin si lanciò allora in un'arringa politica per spiegare il suo punto di vista. Parecchi altri lo imitarono con calore, e il loro grido unanime fu che bisognava abolire i trust.

"Poveri di spirito!" mi bisbigliò Ernest. "Ciò che vedono, lo vedono bene; solamente, non vedono più in là del loro naso".

Dopo un po' riprese il controllo della discussione e, com'era sua abitudine, lo tenne per tutta la sera.

"Vi ho ascoltati con attenzione", cominciò, "e vedo perfettamente che seguite il gioco degli affari in maniera ortodossa. Per voi, la vita si riassume nel guadagno. Avete la convinzione ferma e tenace di essere stati creati e messi al mondo con l'unico scopo di accumulare denaro. Soltanto, c'è un ostacolo: sul più bello della vostra proficua attività, ecco che il trust vi taglia i guadagni. Eccovi in un dilemma apparentemente contrario agli scopi della creazione; e voi non vedete altro mezzo di salvezza che l'annientamento di questo disastroso intervento.

Ho seguito attentamente le vostre parole, e c'è un solo modo per definirvi: siete dei distruttori della macchina. Sapete che vuol dire? Ve lo spiego subito. Nel diciottesimo secolo, in Inghilterra, uomini e donne tessevano il panno su telai a mano, a casa loro. Era un procedimento lento e costoso, quel sistema di manifattura a domicilio. Poi venne la macchina a vapore, con tutti i congegni per guadagnare tempo. Un migliaio di telai riuniti in una grande officina e messi in moto da una macchina centrale, tessevano il panno a molto minor prezzo dei tessitori che possedevano telai a mano. Nella filanda si affermava l'associazione, davanti alla quale si cancella la concorrenza. Gli uomini e le donne che avevano lavorato da soli, con telai a mano, andavano ora nelle fabbriche e lavoravano ai telai a vapore, non più per se stessi ma per i proprietari, i capitalisti. Ben presto anche i bambini si misero ai telai meccanici, in cambio di salari ridotti, e sostituirono gli uomini. I tempi si fecero duri. Il livello di benessere si abbassò rapidamente. Morivano di fame, e dicevano che tutto il male veniva dalle macchine. Allora, vollero rompere le macchine. Non vi riuscirono; erano dei poveri illusi.

Voi non avete ancora capito questa lezione; ed ecco, dopo un secolo e mezzo, volete anche voi distruggere le macchine. Avete ammesso voi stessi che le macchine del trust compiono un lavoro più efficace e a minor prezzo del vostro, per questo non potete combatterle, e tuttavia vorreste distruggerle. Siete ancora più illusi degli sprovveduti operai inglesi. E mentre voi ripetete che bisogna ristabilire la concorrenza, i trust continuano a distruggervi.

Dal primo all'ultimo, raccontate la stessa storia, la scomparsa della rivalità e l'avvento dell'associazione. Lei stesso, signor Owen, ha distrutto la concorrenza, qui a Berkeley, quando la vostra succursale ha fatto chiudere bottega a tre piccoli droghieri, perché la vostra associazione era più efficiente. Ma appena sentite sulle vostre spalle il peso di altre associazioni più forti, quelle dei trust, vi mettete a urlare.

Questo, perché non siete una società forte, ecco tutto. Se formaste un trust di prodotti alimentari per tutti gli Stati Uniti, cantereste un'altra canzone, e la vostra antifona sarebbe:

'Siano benedetti i trust!'. Eppure, non soltanto la vostra piccola associazione non è un trust, ma voi stesso avete coscienza della sua poca forza. Cominciate ad avvertire la fine. Vi accorgete che, nonostante tutte le vostre succursali, non rappresentate che un gettone sul tavolo da gioco. Vedete interessi enormi crescere di giorno in giorno; sentite le mani guantate di ferro dei profittatori impadronirsi dei vostri guadagni, e prendervi un pizzico qui, un pizzico là: così il trust delle ferrovie, il trust del petrolio, il trust dell'acciaio, il trust del carbone; e sapete che alla fine vi distruggeranno, vi prenderanno fino all'ultimo centesimo i vostri mediocri guadagni.

Ciò prova, signore, che lei è un cattivo giocatore. Quando ha strozzato i tre piccoli droghieri, si è sentito orgoglioso, ha vantato l'efficacia e lo spirito dell'impresa, ha mandato sua moglie in Europa, con i guadagni fatti divorando quei poveri negozietti. E' la legge del pesce più grosso, e lei ha mangiato in un sol boccone i suoi rivali.

Ma ecco che a sua volta è morsicato da pesci più grossi ancora, e urla come una cornacchia. E quanto dico di lei, vale per tutti i presenti. Urlate pure. State giocando una partita e la perdete.

Questo vi manda in bestia.

Soltanto, lamentandovi, non siete sinceri; non confessate che vi piace sfruttare gli altri mungendoli, e che fate tutto questo chiasso perché altri tentano di fare lo stesso con voi. No, siete troppo scaltri per questo, e dite tutt'altro. Fate i discorsi politici dei piccoli borghesi, come il signor Calvin poco fa. Che cosa diceva? Ricordo alcune sue frasi: 'I nostri princìpi originari sono solidi'. 'Questo paese deve ritornare ai princìpi americani fondamentali, e ognuno sia libero di approfittare delle occasioni con uguali probabilità...'. 'Lo spirito di libertà sul quale si basa questa nazione... Ritorniamo ai princìpi dei nostri avi!...'.

Quando parlava dell'uguaglianza delle probabilità per tutti, alludeva alla facoltà di spremere guadagni, facoltà che gli è ora tolta dai grandi trust. E la cosa illogica è questa: che, a furia di ripetere queste frasi, avete finito col credere in esse.

Desiderate l'occasione per spogliare i vostri simili uno per volta e vi suggestionate al punto di credere che volete la libertà.

Siete ingordi e insaziabili, ma persuasi dalla magia delle vostre frasi di fare, invece, opera di patriottismo. Trasformate il desiderio di guadagno, che è puro e semplice egoismo, in sollecitudine altruistica per l'umanità sofferente. Avanti, su, una volta tanto, qui fra noi siate sinceri, guardate la realtà in faccia e chiamatela col suo vero nome".

Tutt'intorno alla tavola c'erano visi congestionati che esprimevano una grande irritazione, mista a una certa inquietudine. Erano tutti un po' spaventati da quel giovanotto dal viso glabro, e dal suo modo di parlare, nonché dalla sua terribile maniera di chiamare le cose col loro nome. Il signor Calvin si affrettò a rispondere:

"E perché no?" chiese. "Perché non potremmo ritornare alle tradizioni dei nostri padri che hanno fondato questa repubblica?

Lei ha detto molte cose vere, signor Everhard, per quanto duro possa esserci stato ingoiarle. Ma qui, fra noi, possiamo parlarci chiaro. Togliamo la maschera e accettiamo la verità come il signor Everhard l'ha chiaramente detta.

E' vero che noi piccoli capitalisti diamo la caccia al guadagno, e che il trust ce lo toglie. E' vero che vogliamo distruggere i trust per poter conservare i nostri profitti. E perché non dovremmo farlo? Mi dica perché non dovremmo farlo".

"Ah, eccoci al nocciolo della questione", disse Ernest, con aria soddisfatta. "Perché no? Cercherò di dirvelo, per quanto non sia facile. Voialtri, vedete, avete studiato gli affari nella vostra cerchia ristretta, ma non avete affatto approfondito la questione dell'evoluzione sociale. Siete in pieno periodo di transizione nell'evoluzione economica, ma non ci capite nulla, e da questo deriva tutto il caos. Mi domandate perché non potete ritornare indietro. Per il semplice motivo che non è possibile.

Non potete far risalire un fiume verso la sorgente. Giosuè fermò il sole sopra Gebeone, ma voi vorreste fare di più; voi sognate di far tornare indietro il sole. Vorreste fare andare il tempo all'indietro, dal mezzogiorno all'aurora.

Davanti alle macchine per risparmiare lavoro, alla produzione organizzata, all'efficacia crescente delle società, vorreste fermare il sole dell'economia di una o più generazioni, farlo ritornare a un'epoca in cui non c'erano né grandi ricchezze, né grandi macchine, né strade ferrate: in cui le legioni di piccoli capitalisti lottavano l'una contro l'altra, nell'anarchia industriale; in cui la produzione era primitiva, dispendiosa e disorganizzata. Credetemi: il compito di Giosuè fu più facile, aveva inoltre l'aiuto di Geova. Ma voi, piccoli borghesi, siete stati abbandonati da dio. Il vostro sole declina, e non risorgerà mai più, e non è neppure in vostro potere fermarlo ora nel suo corso. Siete perduti, condannati a sparire completamente dalla faccia della terra.

"E' il fiat dell'evoluzione, il comando divino. L'associazione è più forte della rivalità. Gli uomini primitivi erano poveri schiavi che si nascondevano nelle grotte tra le rocce, ma un giorno si unirono per lottare contro i loro nemici carnivori. Le fiere avevano il solo istinto della rivalità, mentre l'uomo era dotato di un istinto di cooperazione; perciò stabilì la sua supremazia su tutti gli altri animali. E da allora non ha fatto che creare associazioni sempre più vaste. La lotta dell'organizzazione contro la concorrenza data da un migliaio di secoli, e sempre ha trionfato l'organizzazione. Quelli che si arruolano nel campo della concorrenza sono destinati a perire".

"Però gli stessi trust sono nati dalla concorrenza", interruppe il signor Calvin.

"Giustissimo!" rispose Ernest. "E i trust, infatti, l'hanno distrutta. Per questo, come avete voi stessi confessato, è finito il tempo delle vacche grasse".

Alcune risate corsero per la tavola, le prime in tutta la sera, e il signor Calvin non fu l'ultimo a partecipare all'ilarità provocata da lui stesso.

"E ora, visto che parliamo di trust, cerchiamo di chiarire un certo numero di punti", riprese Ernest. "Voglio esporvi alcuni assiomi; se non vi vanno, avrete solo da dirlo. Se tacete, vorrà dire che siete d'accordo. Non è forse vero che un telaio meccanico tesse il panno in maggiore quantità e a minor prezzo di un telaio a mano?". Fece una pausa, ma nessuno prese la parola. "Di conseguenza, non è del tutto folle, forse, distruggere i telai meccanici per ritornare al processo grossolano e costoso della tessitura a mano?". Molte teste si agitarono in segno di assenso.

"Non è vero che l'associazione d'interessi conosciuta sotto il nome di trust produce, in maniera più pratica e più economica, quanto non producano un migliaio di piccole imprese rivali?". Non si levò nessuna obiezione. "Dunque, non è irragionevole distruggere questa associazione d'interessi economici e pratici?".

Nuovo silenzio, che durò a lungo. Infine, il signor Kowalt domandò:

"Che fare allora? Distruggere i trust è la nostra sola via per sfuggire al loro dominio".

Ernest parve accendersi immediatamente, animato da una fiamma ardente.

"Gliene indico un'altra", esclamò. "Invece di distruggere quelle macchine meravigliose, controlliamole. Approfittiamo dell'efficienza e dell'economia che ci offrono. Soppiantiamo gli attuali padroni e facciamole funzionare noi stessi. Questo, signori, è il socialismo; un'associazione più vasta di trust, un'organizzazione sociale e economica più grande di quante ne sono esistite finora sul nostro pianeta. Ed è al passo con l'evoluzione. Affrontiamo le associazioni con un'associazione superiore. Abbiamo buone carte in mano. Schieratevi con noi e sarete dalla parte vincente".

Ci furono delle proteste. Scuotimenti di testa e mormorii.

"Va bene, preferite essere anacronistici", disse Ernest ridendo.

"Preferite svolgere la parte atavica; scomparirete come ogni atavismo. Vi siete mai chiesti cosa vi capiterà quando nasceranno associazioni d'interessi più formidabili degli attuali trust? Vi siete mai preoccupati di ciò che diventerete quando i consorzi si fonderanno nel trust dei trust, in un trust sociale, economico e politico?".

E voltosi improvvisamente verso il signor Calvin:

"Dica lei se non ho ragione. Sarete obbligati a formare un nuovo partito politico, perché i vecchi partiti sono nelle mani dei trust. Questi costituiscono il principale ostacolo alla vostra propaganda agricola. Ogni ostacolo che incontrate, ogni colpo che ricevete, ogni sconfitta che subite, deriva dai trust. Non è forse vero?".

Il signor Calvin taceva imbarazzato.

"Risponda", insistette Ernest con tono incoraggiante.

"E' vero", confessò il signor Calvin. "Ci eravamo impadroniti del potere legislativo nello stato dell'Oregon e avevamo fatto approvare ottime leggi protezioniste, ma il governatore, che è una creatura dei trust, s'è opposto. Invece nel Colorado, avevamo eletto un governatore che non poté entrare in azione per l'opposizione del potere legislativo.

Due volte abbiamo fatto approvare un'imposta nazionale sul reddito, e due volte la Corte Suprema l'ha rigettata come contraria alla costituzione. Le corti sono nelle mani dei trust, noi, il popolo, non paghiamo i nostri giudici abbastanza bene. Ma verrà un giorno...".

"In cui il cartello dei trust controllerà la legislatura", interruppe Ernest, "in cui il cartello dei trust sarà al governo".

"Mai! Mai!" esclamarono i presenti, eccitati e bellicosi.

"Mi volete dire cosa farete, quando verrà quel giorno?" chiese Ernest.

"Ci solleveremo con tutte le nostre forze", esclamò il signor Asmunsen, la cui risolutezza fu salutata da calorose approvazioni.

"Sarà la guerra civile " osservò Ernest.

"E sia la guerra civile!" rispose Asmunsen, appoggiato da nuove acclamazioni. "Non abbiamo dimenticato le gesta dei nostri antenati. Per la nostra libertà siamo pronti a combattere e a morire".

Ernest, sorridendo, disse:

"Non dimenticate, signori, che poco fa eravamo tacitamente d'accordo che la parola libertà, nel caso vostro, significa ricavare profitti dagli altri".

Tutti i convitati erano infuriati, animati da uno spirito bellicoso. Ma la voce di Ernest dominò il tumulto:

"Ancora una domanda: dite che vi solleverete con tutte le vostre forze quando il governo fosse strumento dei trust; di conseguenza, il governo ricorrerebbe contro la vostra forza all'esercito regolare, la marina, la milizia, la polizia, in una parola a tutta la grande e organizzata macchina bellica degli Stati Uniti. Che fine farebbe allora la vostra forza?".

Sui loro volti apparve una profonda costernazione.

Senza lasciar loro il tempo di riflettere, Ernest partì per un nuovo attacco:

"Non molto tempo fa, ricordate, il nostro esercito regolare era di soli cinquantamila uomini. I suoi effettivi sono stati aumentati da un anno: ora conta trecentomila uomini".

E rinnovò il suo attacco:

"Non basta: mentre vi lanciavate all'inseguimento del vostro fantasma favorito, il guadagno, e improvvisavate omelie sul vostro caro feticcio, la concorrenza, conquiste ancora più penose e crudeli sono state realizzate dai trust: c'è la milizia".

"E' la nostra forza", esclamò il signor Kowalt. "Con essa respingeremo l'attacco dell'esercito regolare".

"Cioè, farete parte voi stessi della milizia", replicò Ernest, "e sarete mandati nel Maine o nella Florida, nelle Filippine o in altro luogo, per domare i vostri compagni in rivolta, in nome della libertà. Nello stesso tempo, i vostri compagni del Kansas, del Wisconsin o di un altro stato, faranno parte anch'essi della milizia e verranno in California, per soffocare nel sangue la vostra stessa guerra civile".

Questa volta i presenti rimasero addirittura scandalizzati e muti.

Alla fine il signor Owen mormorò:

"Non ci arruoleremo nella milizia. E' semplicissimo: non saremo così ingenui".

Ernest scoppiò in una risata.

"Non vi siete resi conto dell'associazione che è stata formata.

Non potete difendervi: sarete arruolati a forza nella milizia".

"Esiste una cosa che si chiama diritto civile", insistette il signor Owen.

"Ma non quando il governo proclama la legge marziale. Il giorno in cui parlaste di sollevarvi in massa, la vostra stessa massa si leverebbe contro di voi. Sareste arruolati nella milizia, volenti e nolenti. Sento già qualcuno pronunciare le parole: detenzione arbitraria. Invece di questa avreste l'autopsia. Se rifiutaste di entrare nella milizia o di obbedire, una volta arruolati, sareste trascinati davanti a una corte marziale e abbattuti come cani. E' la legge".

"Non è la legge", affermò con autorità il signor Calvin. "Non esiste una legge simile. Tutto questo lei se l'è sognato, giovanotto. Ma come? Parla di mandare la milizia nelle Filippine?

Sarebbe contro la costituzione. La costituzione dice chiaramente che la milizia non potrà mai essere mandata all'estero".

"Cosa c'entra la costituzione?" ribatté Ernest. "La costituzione è interpretata dalle corti e queste, come ha detto il signor Asmunsen, sono strumento dei trust. Inoltre, come ho affermato, la legge vuole così. E' legge, da anni, da nove anni, signori".

"E' legge", chiese il signor Calvin, con aria incredula, "che si possa essere arruolati a forza nella milizia... e condannati da una corte marziale se ci rifiutiamo?".

"Precisamente", rispose Ernest.

"Come mai allora non abbiamo mai sentito parlare di questa legge?" domandò mio padre; e capii benissimo che anche a lui la cosa riusciva nuova.

"Per due motivi", rispose Ernest. "Primo, perché non si è mai presentata l'occasione di applicarla: se fosse stato necessario, ne avreste già sentito parlare. Secondo, perché questa legge è stata approvata in fretta dal Congresso e in segreto dal Senato:

praticamente senza nessun dibattito. Naturalmente i giornali non ne hanno mai fatto cenno. Noi socialisti lo sapevamo e l'abbiamo pubblicato nei nostri giornali. Ma voi non leggete mai i nostri giornali".

"Io sostengo che lei sogna", disse il signor Calvin, con ostinazione. "Il paese non avrebbe mai permesso una cosa simile".

"Eppure, il paese l'ha permessa, di fatto", replicò Ernest. "E quanto al sognare, mi dica se questo le sembra un sogno".

E, tratto di tasca un opuscolo, l'aprì e si mise a leggere:

"'Sezione Prima. E' decretato, eccetera eccetera, che la milizia si componga di tutti i cittadini validi di età superiore ai diciotto anni e inferiore ai quarantacinque, abitanti i diversi Stati, territori e il distretto di Columbia...

Sezione Settima. Che ogni ufficiale o graduato arruolato nella milizia' - ricordate, signori, che, secondo la Sezione Prima, siete tutti arruolati - 'che rifiuterà e non si presenterà all'ufficiale di reclutamento, dopo essere stato chiamato com'è prescritto, sarà tradotto davanti a una corte marziale e passibile di pene secondo la sentenza di detta corte...

Sezione Nona. Che la milizia, quando sarà chiamata in servizio attivo negli Stati Uniti, sarà soggetta alle stesse leggi di guerra dell'esercito regolare degli Stati Uniti'.

Ecco a che punto siamo, signori, cittadini americani e compagni di milizia. Nove anni fa, noi socialisti pensavamo che questa legge fosse rivolta contro i lavoratori, ma sembra che sia rivolta anche contro voialtri. Il deputato Wiley, nel breve dibattito che fu consentito, dichiarò che la legge 'mirava a creare una forza di riserva per prendere il popolo alla gola'. Il popolo siete voi, signori, 'e per proteggere ad ogni costo la vita, la proprietà, la libertà'. E in avvenire, quando vi solleverete con tutta la vostra forza, ricordate che vi rivolterete contro la proprietà dei trust e contro la libertà, legalmente accordata ai trust, di sfruttarvi.

Signori, vi hanno strappato i denti, vi hanno tagliato le unghie, il giorno in cui insorgerete, armati solo della forza della vostra virilità, ma sprovvisti di unghie e di denti, sarete inoffensivi come una legione di molluschi".

"Non credo a una sola parola di questo", esclamò il signor Kowalt.

"Una simile legge non esiste. E' una storia inventata da voialtri socialisti".

"Il disegno di legge è stato presentato alla Camera il 30 luglio del 1902 dal rappresentante dell'Ohio. E' stato discusso rapidamente e approvato dal Senato il 14 gennaio del 1903. E esattamente sette giorni dopo, la legge è stata approvata dal Presidente degli Stati Uniti".

NOTE:

1) Cioè abbassando i prezzi di vendita sino alla pari del costo della merce e, talvolta, anche al disotto. Una grossa società poteva vendere in perdita più a lungo di una piccola, e questo era un mezzo usato spesso per battere la concorrenza.

2) Numerosi tentativi furono fatti a quel tempo per organizzare la classe decadente dei mezzadri in un partito politico, allo scopo di distruggere i trust con severe misure legislative. Ma tutti gli sforzi fallirono.

3) Il primo gran trust, che precedette di circa una generazione gli altri.

4) Fallimento, o bancarotta: istituto speciale che permetteva all'industriale che non era riuscito a vincere la concorrenza, di non pagare i suoi debiti. L'effetto era di mitigare le condizioni feroci di quella lotta all'ultimo sangue.

5) Everhard diceva il vero. Sbagliava soltanto sulla data della presentazione del disegno di legge, che era il 30 giugno e non il 30 luglio. Esistono, a Ardis, gli Annali dd Congresso, nei quali si parla di questa legge con le seguenti date: 30 giugno; 9, 15, 16 e 17 dicembre 1902, 7 e 14 gennaio 1903. L'ignoranza manifestata a quel pranzo dagli uomini d'affari non era affatto eccezionale. Pochissimi conoscevano l'esistenza di quella legge.

Nel luglio 1903, un rivoluzionario, E. Untermann, aveva pubblicato a Girard, nel Kansas, un opuscolo che trattava della legge sulla milizia. L'opuscolo fu venduto fra i lavoratori ma, data la separazione delle classi, non si diffuse fra la borghesia, che ne ignorò l'esistenza, restando nell'ignoranza.

Capitolo 9

LA MATEMATICA DI UN SOGNO

Fra la costernazione provocata dalla sua rivelazione, Ernest riprese la parola:

"Parecchi di voi, questa sera, hanno dichiarato che il socialismo è impossibile. Poiché avete parlato di ciò che è inattuabile, permettetemi ora di dimostrarvi ciò che è inevitabile: ossia, la scomparsa non solo di voi piccoli capitalisti, ma anche di grossi capitalisti e persino, a un certo momento, dei trust. Ricordate che l'ondata del progresso non si ritrae mai. Senza riflusso, essa procede dalla concorrenza all'associazione, dalla piccola fusione alla grande, dalle grandi fusioni ai grandi e potenti cartelli, sino al socialismo, che è la più gigantesca di tutte le organizzazioni.

Voi mi dite che sogno. Benissimo. Vi esporrò i dati matematici del mio sogno. Anzi, vi sfido in anticipo a dimostrare la falsità dei miei calcoli. Voglio esporvi l'inevitabilità del crollo del sistema capitalistico, e dedurre, matematicamente, la causa della sua fatale decadenza. Abbiate pazienza se il punto di partenza sembra un po' lontano dall'argomento.

Esaminiamo, dapprima, il funzionamento di un'industria privata, e non esitate a interrompermi se dico qualcosa su cui non siete d'accordo. Prendiamo, per esempio, una fabbrica di scarpe. Questa fabbrica compra il cuoio e lo trasforma in scarpe. Ecco che del cuoio per cento dollari, entra in fabbrica e ne esce sotto forma di scarpe, per un valore, mettiamo, di duecento dollari. Che cos'è avvenuto? E' stato aggiunto al valore del cuoio un altro valore di cento dollari. Come mai? Il capitale e il lavoro hanno aumentato il valore iniziale.

Il capitale ha fornito la fabbrica, la macchina e ha pagato le spese. La mano d'opera ha dato il lavoro, lo sforzo combinato del capitale e del lavoro ha aggiunto un valore di cento dollari al valore della materia prima. Fin qui siete d'accordo?".

Ci fu un grande annuire di teste.

"Il lavoro e il capitale, avendo prodotto cento dollari, devono ora ripartire la somma. Le statistiche su divisioni di questo genere sono frazionarie, quindi, per convenienza, ci accontenteremo di una certa approssimazione, ammettendo che il capitale prenda per sé cinquanta dollari e che il lavoro riceva, sotto forma di salario, gli altri cinquanta dollari. Non staremo a cavillare su questa divisione (1), quali che siano i contratti si finisce sempre col mettersi d'accordo, a un prezzo o a un altro. E non dimenticate che ciò che io dico per un'industria si applica a tutte. Chiaro fin qui?".

I convitati assentirono.

"Ora supponiamo che il lavoro, avendo ricevuto la sua quota di cinquanta dollari, voglia ricomprare delle scarpe. Potrà comprarne solo per cinquanta dollari, non è così?

Passiamo adesso da questo caso particolare a quello di tutte le imprese industriali degli Stati Uniti, non soltanto del cuoio, ma di tutte le materie prime, dei trasporti e del commercio in generale. Diciamo, in cifra tonda, che la produzione annuale delle ricchezze, negli Stati Uniti, è di quattro miliardi di dollari. Il lavoro riceve dunque, come salario, una somma di due miliardi l'anno. Dei quattro miliardi prodotti, il lavoro può riscattarne due. Non ci sono dubbi al riguardo, anzi la mia valutazione è già molto larga. A causa di mille trucchi da parte del capitale, infatti, il lavoro non ottiene mai la metà del prodotto totale.

Ma sorvoliamo su questo, e ammettiamo che il lavoro ottenga i due miliardi. E' evidente, allora, che il lavoro può consumare solo due miliardi, mentre bisogna tener presenti gli altri due miliardi che il lavoro non può né riscattare né consumare".

"Il lavoro non consuma neppure i suoi due miliardi", dichiarò il signor Kowalt. " Se li spendesse, non avrebbe depositi nelle banche".

"I depositi di risparmio sono una specie di fondo di riserva, che può essere speso in fretta, come in fretta è stato accumulato.

Sono le economie messe da parte per la vecchiaia, le malattie, gli incidenti e le spese dei funerali. Sono il boccone di pane conservato nella credenza per il domani. No, il lavoro assorbe la totalità del prodotto che può comprare con i suoi guadagni.

Al capitale, dunque, restano due miliardi. Dopo aver pagate le spese, consuma il resto. Il capitale, insomma, brucia i suoi due miliardi?".

S'interruppe e rivolse apertamente la domanda a parecchi dei presenti, che scossero il capo.

"Non lo so", ammise francamente uno di loro.

"Invece lo sa", rispose Ernest. "Rifletta un istante. Se il capitale consumasse la sua parte, la somma totale del capitale non potrebbe aumentare, resterebbe costante. Invece se dà un'occhiata alla storia economica degli Stati Uniti, vedrà che il capitale aumenta continuamente. Dunque, il capitale non brucia la sua parte. Ricordate quando l'Inghilterra possedeva le azioni di molte delle nostre ferrovie? Con l'andar degli anni le abbiamo riscattate. Che cosa si deve concludere, se non che la parte del capitale impiegato ha permesso questo? Oggi i capitalisti degli Stati Uniti possiedono centinaia e centinaia di milioni di dollari in azioni messicane, russe, italiane e greche: che cosa sono se non un po' di quella parte che i capitalisti non hanno consumato?

Fin dalle origini del sistema capitalistico, il capitale non ha mai consumato tutta la sua parte della ripartizione.

E veniamo al punto: negli Stati Uniti ogni anno viene prodotta ricchezza per quattro miliardi di dollari. Il lavoro ne riscatta e ne consuma due, il capitale trattiene gli altri due. Resta pertanto una forte quota che non viene consumata. Che cosa si può fare? Il lavoro non può sottrarne perché ha già consumato i suoi guadagni. Il capitale non se ne serve, perché già, secondo la sua natura, ha assorbito tutto quanto poteva. L'eccesso rimane. Che cosa se ne può fare? Che cosa se ne fa?".

"Si vende all'estero", azzardò il signor Kowalt.

"Precisamente", convenne Ernest. "Da questo eccesso nasce il nostro bisogno d'uno sbocco esterno. Si vende all'estero, si è costretti a venderlo all'estero: non c'è altra scelta. E questo eccesso venduto all'estero costituisce ciò che noi chiamiamo: la bilancia commerciale in nostro favore. Tutti d'accordo fin qui?".

"Stiamo certamente perdendo tempo con questo abbiccì dell'economia", intervenne il signor Calvin, seccato. "Lo conosciamo tutti".

"Se sono stato tanto pignolo nell'esposizione di questo abbiccì è appunto per confondervi", replicò Ernest. "E' questo il bello della faccenda. E vi confonderò subito.

Gli Stati Uniti sono un paese capitalistico che ha sviluppato le proprie risorse. Grazie al suo sistema industriale, dispone di un eccesso di prodotti di cui deve liberarsi all'estero (2).

Ciò che è vero per gli Stati Uniti vale anche per tutti i paesi capitalistici le cui risorse sono sviluppate. Ognuno di questi paesi dispone di un surplus ancora intatto. Non dimenticate che hanno già trafficato tra loro e che, ciò nonostante, c'è ancora un surplus disponibile. In tutti questi paesi il lavoro ha speso i suoi guadagni e non può più comprare nulla; in tutti, il capitale ha consumato solo ciò che gli permette la sua natura. Il rimanente è un peso morto, perché non possono scambiarselo fra loro. Come se ne libereranno?".

"Vendendolo ai paesi sottosviluppati", suggerì il signor Kowalt.

"Precisamente. Vedete dunque che il mio ragionamento è chiaro e semplice, tanto che voi stessi potete completarlo. Passiamo ora al punto successivo. Supponiamo che gli Stati Uniti riversino il loro surplus in un paese le cui risorse non siano sviluppate; nel Brasile, per esempio. Ricordate che questo surplus è fuori e al di sopra del commercio, essendo gli articoli di scambio già consumati. Che cosa potrà dunque dare il Brasile, in cambio, agli Stati Uniti?".

"Dell'oro" disse il signor Kowalt.

"Ma nel mondo c'è una quantità limitata di oro", obiettò Ernest.

"Dell'oro in forma di titoli, obbligazioni e simili", rettificò il signor Kowalt.

"Ora sì che ha colto nel segno. Gli Stati Uniti riceveranno dal Brasile in cambio del loro surplus, azioni e altre garanzie. Che cosa vuol dire questo, se non che gli Stati Uniti entreranno in possesso di ferrovie, fabbriche, miniere e terreni nel Brasile? E che cosa ne risulterà?".

Il signor Kowalt rifletté e scosse il capo.

"Ve lo dico subito", continuò Ernest. "Risulterà questo: che le risorse del Brasile verranno sviluppate. Bene, passiamo ancora al punto successivo. Quando il Brasile, per impulso del sistema capitalistico, avrà sviluppato le sue risorse, possiederà anch'esso un surplus non consumato. Potrà sbarazzarsene negli Stati Uniti? No, perché questi hanno già il loro. Gli Stati Uniti, a loro volta, potranno continuare ancora a riversare il loro surplus nel Brasile? No, perché questo paese ha già il suo.

Che cosa succederà? Ormai Stati Uniti e Brasile devono cercare tutti e due i loro sbocchi in paesi le cui risorse non siano ancora sfruttate. Ma scaricando i loro surplus in nuovi paesi, questi si svilupperanno a loro volta e non tarderanno a disporre anch'essi di surplus. Quindi cercheranno altri paesi in cui scaricarli. Ora, state bene attenti, signori, il nostro pianeta non è così grande; c'è un numero limitato di paesi sulla terra.

Quando tutti i paesi del mondo, dal primo all'ultimo, avranno del surplus da impiegare e troveranno gli altri paesi nelle stesse condizioni, che cosa accadrà?".

Fece una pausa e osservò i suoi ascoltatori. La perplessità sui loro volti era uno spettacolo divertente. Ma a essa s'accompagnava anche una profonda inquietudine. Fra tante astrazioni, Ernest aveva evocato una visione chiara. Ormai tutti la distinguevano chiaramente e ne avevano paura.

"Abbiamo cominciato dall'abbiccì, signor Calvin", disse maliziosamente Ernest, "ora vi ho esposto il resto dell'alfabeto.

E' semplicissimo; è questo il bello. Certamente lei avrà pronta una risposta. Ebbene, che cosa accadrà quando tutti i paesi del mondo avranno della ricchezza superflua non consumata? Dove andrà a finire il vostro sistema capitalistico?".

Il signor Calvin scosse il capo, preoccupato. Evidentemente cercava un errore nel ragionamento di Ernest.

"Rifacciamo insieme il cammino già percorso," riassunse Ernest.

"Siamo partiti prendendo in considerazione un'industria particolare, quella delle calzature, e abbiamo stabilito che la divisione del prodotto ottenuto dalla collaborazione fra capitale e lavoro in questa industria è la stessa che in tutte le altre.

Abbiamo visto che il lavoro può ricomprare, col suo salario, solo una parte del prodotto, e che il capitale non consuma il resto.

Abbiamo visto, come, dopo che il lavoro ha consumato tutto ciò di cui ha bisogno, rimane ancora un eccesso disponibile. Abbiamo riconosciuto che si può disporre di questo eccesso solo riversandolo all'estero. Abbiamo convenuto che il trapasso di questa ricchezza in un paese nuovo ha l'effetto di sviluppare le risorse di questo, di modo ché in poco tempo quel paese finisce col disporre a sua volta di un surplus. Abbiamo esteso questo processo a tutti i paesi del nostro pianeta, fino a giungere alla conclusione che ogni paese, di anno in anno, di giorno in giorno, viene a disporre di un surplus non consumato. Ora torno a chiedervi: che cosa ne faremo di questa ricchezza in eccesso?".

Anche questa volta nessuno rispose.

"Sentiamo, signor Calvin" sollecitò Ernest. "Non ci arrivo", ammise il signor Calvin.

"Non ci ho mai pensato", dichiarò il signor Asmunsen. "Eppure è chiaro come un libro stampato".

Per la prima volta sentivo esporre la teoria di Karl Marx (3) sul plusvalore, e Ernest l'aveva esposta in maniera così semplice che anch'io rimanevo stupita, incapace di rispondere.

"Vi proporrò un mezzo per liberarvi del surplus", disse Ernest.

"Gettatelo in mare. Gettatevi ogni anno le centinaia di milioni di doliari che valgono le calzature, gli abiti, il grano, e tutte le ricchezze commerciali. La faccenda sarebbe risolta?".

"Lo sarebbe certamente", rispose Mister Calvin, ma è assurdo pensarlo".

Ernest gli fu addosso come un fulmine.

"E' forse meno assurdo, lei, signor distruttore di macchine, quando consiglia il ritorno ai sistemi antidiluviani dei nostri nonni? Che cosa propone di fare per liberarci dall'eccesso di ricchezza? Risolverebbe il problema cessando di produrre quell'eccesso. E come eviterebbe di produrlo? Ritornando a un metodo di produzione primitivo, così disordinato e irragionevole che diventerebbe impossibile ottenere la minima eccedenza".

Il signor Calvin deglutì: il colpo era riuscito. Deglutì di nuovo, poi tossì per schiarirsi la gola.

"Ha ragione", disse. "Mi ha convinto: è assurdo. Ma bisogna pur fare qualcosa, è questione di vita o di morte per noi medi borghesi. Non vogliamo certo morire. Preferiamo essere illogici e ritornare ai metodi dei nostri padri, anche se dispendiosi e grossolani. Riporteremo l'industria allo stato in cui era prima dei trust. Romperemo le macchine. E voi, cosa farete?".

"Non potete distruggere le macchine", replicò Ernest. "Non potete fermare l'evoluzione. Avete contro due grandi forze, una delle quali è più potente della media borghesia. I grandi capitalisti, i trust, in altre parole, non vi lasceranno tornare indietro. Non vogliono la distruzione delle macchine. E più potente del trust è la forza del lavoro. Essa non vi permetterà mai di distruggere le macchine. La proprietà del mondo, comprese le macchine, sta tra i trust e il lavoro. Questo è lo schieramento in campo. Nessuno dei due avversari vuole la distruzione delle macchine, ma ciascuno ne vuole il possesso. In questa lotta non c'è posto per la media borghesia, vero pigmeo fra due titani. Non capite, voi poveri medi borghesi, che siete presi fra due macine che hanno già cominciato a girare.

Vi ho dimostrato matematicamente l'inevitabile crollo del sistema capitalistico. Quando ogni paese si troverà in possesso di beni in eccedenza inconsumabili e invendibili, il sistema capitalistico crollerà sotto l'enorme peso dei profitti che ha accumulato, e quel giorno non ci sarà nessuna distruzione di macchine, bensì la lotta per il loro impossessamento. Se il lavoro ne uscirà vincitore, il vostro cammino sarà facile. Gli Stati Uniti, anzi il mondo intero entreranno in un'era nuova e prodigiosa. La vita, anziché essere schiacciata dalle macchine, sarà resa da esse più bella, più felice e più nobile. Come membri della media borghesia abolita, insieme con la classe dei lavoratori, la sola che sopravviverà, parteciperete all'equa ripartizione dei prodotti di quelle macchine meravigliose. E noi, noi tutti, ne costruiremo di più meravigliose ancora. Non ci sarà più ricchezza non consumata, perché non esisteranno più profitti".

"Ma se la battaglia per il possesso delle macchine fosse vinta dai trust?" intervenne il signor Kowalt.

"In questo caso", rispose Ernest, "voi e il lavoro, e noi tutti, saremmo schiacciati sotto il tallone di ferro di un dispotismo implacabile e terribile come ogni dispotismo che ha insanguinato le pagine della storia dell'uomo. Ci sarà allora un solo nome per indicare quel dispotismo: il Tallone di Ferro!" (4) "Ma il vostro socialismo è un sogno", disse infine il signor Calvin, e ripeté: "Un sogno!".

"Allora vi parlerò di qualcosa che non è un sogno", rispose Ernest, "qualcosa che chiamerò Oligarchia e voi chiamate Plutocrazia. Entrambi, però, intendiamo la stessa cosa: il grande capitale, ossia i trust. Vediamo chi ha in mano il potere, oggi.

Per fare questo, esaminiamo la società nella sua divisione di classe.

La società è divisa in tre grandi classi. Prima fra tutte è la plutocrazia, composta dai ricchi banchieri, dai magnati delle ferrovie, dai direttori delle grandi società e dai magnati dei trust; la seconda, la borghesia, la vostra, signori, comprende i grandi professionisti. Infine, la terza e ultima, la mia classe, il proletariato, formata dai lavoratori salariati (5).

Non potete negare che il possesso della ricchezza forma attualmente l'essenza del potere negli Stati Uniti. In quale proporzione, però, questa ricchezza è divisa tra le tre classi?

Ecco le cifre: la plutocrazia dispone di sessantasette miliardi.

Sul numero totale delle persone che esercitano una professione negli Stati Uniti, soltanto lo zero nove per cento appartiene alla plutocrazia; eppure la plutocrazia possiede il settanta per cento della ricchezza totale. La borghesia dispone di ventiquattro miliardi; il ventinove per cento di persone che esercitano una professione appartengono alla borghesia e godono del venticinque per cento della ricchezza totale. Resta il proletariato. Esso dispone di quattro miliardi. Di tutte le persone che svolgono un lavoro, il settanta per cento appartiene al proletariato, che possiede solo il quattro per cento della ricchezza totale. Da quale parte è il potere, signori?".

"Stando alle vostre cifre, noi, della classe media, siamo più potenti dei lavoratori", osservò il signor Asmunsen.

"Ma definendoci deboli voi non migliorate affatto la vostra condizione rispetto alla forza della plutocrazia", rispose Ernest.

"D'altronde, non ho finito. C'è una forza superiore alla ricchezza, superiore nel senso che non può esserci strappata. La nostra forza, la forza del proletariato, sta nei nostri muscoli, nelle nostre mani che votano, nelle nostre dita che possono premere un grilletto. E' la forza primitiva, alleata della vita, superiore alla ricchezza, e che la ricchezza non può cancellare.

La vostra forza, invece, è caduca: vi può essere tolta. In questo stesso momento, la plutocrazia sta per togliervela, e finirà per strapparvela tutta. E allora cesserete d'essere la classe media, verrete a noi, diventerete proletari. E, ciò che più importa, aggiungerete forza alla nostra forza. Vi accoglieremo come fratelli e combatteremo fianco a fianco per la causa dell'umanità.

I lavoratori non hanno niente di concreto da perdere: la loro parte di ricchezza nazionale è fatta di abiti, mobili e in casi rarissimi, una casa libera da ipoteche. Voi invece disponete di una ricchezza concreta, ne avete per ventiquattro miliardi, e la plutocrazia ve la porterà via. Naturalmente, è più probabile che sia il proletariato a portarvela via per primo. Non capite la vostra posizione, signori? La vostra media borghesia è la pecorella tremante fra il leone e la tigre. Se non sarete dell'uno, sarete dell'altra. E se la plutocrazia vi avrà prima, il proletariato avrà in seguito la plutocrazia: è soltanto questione di tempo.

Anche la vostra ricchezza attuale non dà la vera misura della vostra potenza. In questo momento, la forza della vostra ricchezza è un guscio vuoto. Per questo lanciate il vostro debole grido di guerra: 'Ritorniamo ai metodi dei nostri padri'. Avvertite la vostra impotenza e il vuoto del vostro guscio. Vi dimostrerò ora questo vuoto:

Qual è il potere degli agricoltori? Più del cinquanta per cento sono schiavi perché semplici fittavoli o perché oppressi da ipoteche. Sono schiavi, ancora, per il fatto che i trust possiedono o controllano - che è poi la stessa cosa - tutti i mezzi necessari per la distribuzione dei prodotti agricoli sul mercato, come i frigoriferi, i silos, le ferrovie e le linee di navigazione. Inoltre, i trust controllano i mercati. In tutto questo, gli agricoltori non dispongono del minimo potere. Quanto al loro potere politico, me ne occuperò parlando di quello della borghesia.

Di giorno in giorno, i trust schiacciano gli agricoltori come hanno strozzato il signor Calvin e tutti i produttori di latte; e di giorno in giorno i commercianti sono schiacciati allo stesso modo. Ricordate come, in sei mesi, il trust del tabacco è riuscito a distruggere più di quattrocento negozi di tabacchi nella sola Nuova York. Dove sono gli antichi padroni delle miniere di carbon fossile? Saprete certamente, senza che debba ripetervelo, che oggi il trust delle ferrovie possiede o controlla tutte le cave di antracite e di bitume. Lo Standard Oil Trust non possiede forse una ventina di linee marittime? Non controlla anche le miniere di rame? Per non parlare poi del trust degli altiforni, che ha organizzato come impresa secondaria. Ci sono diecimila città negli Stati Uniti, illuminate, questa sera, da società controllate o di proprietà della Standard Oil, e altrettante dove i trasporti elettrici, urbani, periferici o interurbani, sono in mano a quel trust. I piccoli capitalisti, una volta cointeressati in queste migliaia di imprese, sono spariti. E questo voi lo sapete, e vi state avviando per la stessa strada.

Ai piccoli industriali succede quel che succede agli agricoltori; tutto sommato, gli uni e gli altri sono oggi ridotti a un vassallaggio feudale. Lo stesso si può dire dei professionisti e degli artisti che oggi, salvo il nome, sono dei servi mentre gli uomini politici sono dei lacché.

Perché mai lei, signor Calvin, passa i giorni e le notti a organizzare gli agricoltori, come il resto della borghesia, in un nuovo partito politico? Perché i politicanti dei vecchi partiti non vogliono saperne delle vostre idee antiquate, perché sono, come ho detto, i servi, i lacché della plutocrazia.

Ho definito anche i professionisti e artisti servi del regime attuale. Che altro sono infatti? Dal primo all'ultimo, professori, predicatori, editori, sbrigano il loro lavoro servendo la plutocrazia, il loro ufficio consiste nel propagare solo idee inoffensive o elogiative sui ricchi. Tutte le volte che tentano di propagare idee minacciose per la plutocrazia, perdono il posto; in questo caso, se non hanno messo nulla da parte per i tempi difficili, si riducono al livello del proletariato e vegetano nella miseria o diventano agitatori. E non dimenticate che la stampa, il pulpito e l'università manipolano l'opinione pubblica, stabiliscono il clima mentale del paese. Quanto agli artisti, non hanno che da piegarsi al gusto più o meno ignobile della plutocrazia.

Ma, in sostanza, la ricchezza da sola non costituisce il vero potere; è un mezzo per raggiungere il potere, e il potere lo esercita il governo. Ma chi è al governo oggi? Forse il proletariato, con i suoi venti milioni di individui che svolgono vari lavori e mestieri? L'idea fa ridere persino voi. Forse la borghesia, con i suoi otto milioni di vari professionisti?

Neppure. Chi dunque detiene il potere del governo? La plutocrazia, con appena un quarto di milione di membri attivi. Eppure non è questo quarto di milione di uomini che lo detiene realmente, benché ne siano tutti i custodi. Il cervello della plutocrazia che controlla il governo si compone di sette piccoli e possenti gruppi. E non dimenticate che, oggi, questi gruppi agiscono praticamente all'unisono (6).

Lasciate che vi accenni alla potenza di uno solo di questi gruppi, quello delle ferrovie. Impiega quarantamila avvocati, per vincere le cause in tribunale; distribuisce migliaia di tessere gratuite ai giudici, ai banchieri, ai direttori di giornali, ai pastori, ai membri delle università, delle legislature di stato e del Congresso. Mantiene ricchissimi e lussuosi focolai di intrigo, le 'lobby' (7) nelle capitali di ogni stato, nella capitale della nazione e tutte le grandi e piccole città del paese; s'avvale di un immenso esercito di azzeccagarbugli e di politicanti, che hanno il compito di partecipare ai comitati elettorali e alle assemblee di partito, di circuire i giurati, di subornare i giudici e di adoperarsi con tutte le loro forze a favore degli interessi del gruppo (8).

Signori, ho solo accennato alla potenza di uno dei sette gruppi che costituiscono il cervello della plutocrazia (9). I vostri ventiquattro miliardi di ricchezza non vi danno il venticinque per cento del potere governativo. Sono un guscio vuoto, e presto anche questo guscio vi sarà tolto. Oggi la plutocrazia ha tutto il potere nelle sue mani. E' lei che crea le leggi, perché controlla il Senato, il Congresso, la magistratura, e il potere legislativo in ogni stato. E non è tutto qui. Dietro la legge deve esserci la forza che la renda esecutiva. E oggi la plutocrazia, fatte le leggi, ha a sua disposizione la polizia, l'esercito, la marina, e infine la milizia, ossia voi, io e noi tutti".

Quando ebbe finito non ci furono discussioni: i convitati si alzarono subito da tavola. Silenziosi e afflitti, si congedarono tutti a bassa voce. Sembravano ancora spaventati dalla prospettiva dell'avvenire che gli era stata fatta intravedere.

"La situazione è seria", disse il signor Calvin a Ernest. "Ho poche obiezioni da fare a quanto lei ha detto. Solo non sono d'accordo sulla sua condanna della media borghesia. Noi sopravvivremo, e distruggeremo i trust".

"E ritornerete ai metodi dei vostri padri", concluse Ernest.

"Giustissimo! So bene che, in un certo senso, siamo dei distruttori di macchine, e che questo è un assurdo. Ma oggi tutta la vita è illogica, con tutti gli intrighi della plutocrazia.

Comunque, il nostro modo di distruggere le macchine è almeno pratico e possibile, mentre il vostro sogno non lo è. Il vostro sogno socialista non è... che un sogno. Noi non possiamo seguirvi".

"Vorrei solo che lei e i suoi v'intendeste un po' di sociologia e evoluzione", rispose Ernest con aria assorta stringendogli la mano. "Ci risparmieremmo una quantità di fastidi".

NOTE:

1) Everhard espone qui chiaramente la causa di tutti i disordini sindacali del tempo. Nella divisione del frutto della collaborazione fra capitale e lavoro, il capitale esigeva il più possibile, e altrettanto pretendeva il lavoro. Il dissidio su questa divisione era inconciliabile. In regime di produzione capitalistica, lavoro e capitale continuarono a litigare per questa ripartizione. Ai nostri occhi, oggi, è uno spettacolo vergognoso, ma non dobbiamo dimenticare che sono trascorsi sette secoli da quel tempo.

2) Theodore Roosevelt, presidente degli Stati Uniti, qualche anno prima del tempo di cui si tratta, fece in pubblico questa dichiarazione: "Occorre una reciprocità più estesa, più liberale, nella compera e vendita delle merci, in modo che si possa disporre in maniera soddisfacente, nei paesi stranieri, della sovrapproduzione degli Stati Uniti". Naturalmente la sovrapproduzione eccessiva a cui accennava, era costituita dal guadagno dei capitalisti eccedente la loro capacità di consumo.

Contemporaneamente, il senatore Mark Hanna dichiarava: "La produzione della ricchezza negli Stati Uniti è annualmente superiore di un terzo al consumo". Un altro senatore, Chauncey Depew, aggiungeva: "Il popolo americano produce annualmente due miliardi di dollari di ricchezza in più di quanto consuma".

3) Karl Marx, il grande eroe intellettuale del socialismo, era un ebreo tedesco del secolo diciannovesimo, contemporaneo di John Stuart Mill. Stentiamo a credere oggi, dopo l'enunciazione delle teorie economiche di Marx, che durante molte generazioni egli possa essere stato deriso da pensatori e scienziati. A causa delle sue teorie fu bandito dal suo paese natale e morì in esilio, in Inghilterra.

4) E' questa la prima volta in cui per designare l'Oligarchia viene usata questa espressione.

5) Questa divisione della società fatta da Everhard è conforme a quella di Lucien Sanial, una delle autorità del tempo in fatto di statistica. Secondo i suoi calcoli, basati sul censimento del 1900, negli Stati Uniti il numero degli appartenenti alle tre classi, secondo la professione, era il seguente: Plutocrazia: 250251. Borghesia: 8429845. Proletariato: 20393137.

6) Sino al 1907, si considerava il paese dominato da undici gruppi, questo numero fu ridotto in seguito alla fusione dei cinque gruppi delle ferrovie in un unico gruppo. I cinque gruppi fusi insieme, e gli altri loro alleati, economici e politici, erano: a) James J. Hill, che controllava il Nord-Ovest. b) Il gruppo delle ferrovie della Pennsylvania, con a capo Schiff, direttore finanziario, insieme con alcune grosse banche di Filadelfia e di New York. c) Harrimann, con Frick, avvocato consulente, e Odell, luogotenente politico, che controllava le linee di trasporto al centro del continente del Sud-Ovest e del Sud Pacifico. d) Gli interessi ferroviari della famiglia Gould. e) Moore, Reid e Leeds, conosciuti come "Quelli di Rock Island".

Queste potenti oligarchie, nate dal conflitto della concorrenza, dovevano seguire inevitabilmente il cammino che conduce al cartello.

7) Lobby, istituzione speciale che aveva lo scopo di intimidire e corrompere i legislatori che avrebbeto dovuto rappresentare gli interessi del popolo .

8) Una decina d'anni prima di questo discorso di Everhard, la Camera di Commercio di New York aveva pubblicato un rapporto dal quale riportiamo quanto segue: "Le ferrovie controllano decisamente il potere legislativo della maggioranza degli Stati dell'Unione: fanno e disfanno a loro piacimento i senatori, i deputati, i governatori, e sono i veri ispiratori della politica governativa".

9) Rockefeller proveniva dal proletariato, e a forza di risparmio e di scaltrezza riuscì a organizzare il primo trust perfetto, quello che è conosciuto col nome di Standard Oil. Non possiamo esimerci dal citare una pagina notevole della storia di quel tempo per dimostrare come la Standard Oil per il bisogno di impiegare i capitali in eccesso, abbia schiacciato i piccoli capitalisti, affrettando il crollo del sistema capitalistico.

David Graham Phillips era uno scrittore radicale del tempo, e questa citazione è tolta da un suo articolo nel "Saturday Evening Post" del 4 Ottobre 1902. Abbiamo questo solo esemplare del giornale, dalla forma e dalla tiratura del quale dobbiamo però concludere che era uno dei periodici più diffusi: "Circa dieci anni fa, il reddito di Rockefeller era valutato da un'autorità competente in trenta milioni di dollari. Aveva raggiunto il limite del proficuo investimento di profitti nell'industria petrolifera.

In questa, infatti, si riversavano somme enormi in contanti, più di due milioni di dollari al mese, per il solo John Davidson Rockefeller. Il problema dell'impiego di questo denaro diventava serio. Il reddito del petrolio ingrossava, cresceva sempre, e il numero dei possibili impieghi sicuri era limitato, più di quanto sia adesso. Tuttavia, non fu l'avidità di nuovi guadagni a spingere i Rockefeller verso altri campi oltre al petrolio: vi furono costretti dal flusso di ricchezza, che la calamita del loro monopolio attirava irresistibilmente. Dovettero persino ingaggiare una schiera di analisti e ricercatori di investimento. Si dice che il capo di questo personale riceveva uno stipendio annuo di 125000 dollari.

La prima escursione, o incursione, cospicua dei Rockefeller, avvenne nel campo delle ferrovie. Nel 1895 controllavano un quinto di tutta la rete ferroviaria del paese. Che cosa possiedono o, attraverso maggioranze azionarie, controllano oggi? Sono padroni di tutte le grandi ferrovie di New York, a nord, est e ovest, eccetto una, nella quale la loro quota è di pochi milioni. Hanno interessi nella maggior parte delle grandi linee ferroviarie che s'irradiano da Chicago: dominano parecchie reti che si estendono fino al Pacifico. I loro voti formano la potenza del signor Morgan, ora, ma bisogna aggiungere, però, che essi hanno bisogno del suo cervello più che non lui dei loro voti, così che questa combinazione risulta, in larga misura, da comunità d'interessi. Ma le sole ferrovie non bastavano ad assorbire rapidamente quelle enormi ricchezze. I 2500000 dollari di J. D. Rockefeller non tardarono a diventare cinque, sei milioni al mese, fino a 75000000 dollari l'anno. I petroli si mutavano in continuo guadagno, e i guadagni, a loro volta impiegati in altre imprese, davano nuovi milioni ogni anno.

I Rockefeller s'interessarono allora del gas e dell'elettricità quando queste industrie raggiunsero un livello di investimento sicuro. E ora gran parte del popolo americano, qualunque sia il tipo di illuminazione che impiega, comincia a dare il suo contributo alla ricchezza dei Rockefeller non appena il sole tramonta. Quindi si lanciarono nell'impresa del prestito agrario.

Si racconta che qualche anno fa, quando la prosperità aveva permesso agli agricoltori di liberarsi dalle ipoteche, J. D.

Rockefeller ne fosse addolorato fino alle lacrime, otto milioni di dollari che credeva bene impiegati, a un buon interesse, per anni, gli venivano rigettati in braccio e richiedevano un nuovo impiego.

Questo aggravio inatteso del suo perpetuo cruccio di trovare un impiego a favore della progenie del petrolio e della progenie della progenie, fu più di quanto potesse sopportare un uomo afflitto da cattive digestioni...

I Rockefeller passarono quindi alle miniere: ferro, carbone, rame e piombo; poi ad altre società industriali, alle tranvie, alle obbligazioni di stato e municipali, alle linee marittime, alle imprese armatoriali, ai telegrafi, alla proprietà immobiliare, ai grattacieli, alle case, agli alberghi e agli edifici commerciali e amministrativi, alle assicurazioni sulla vita e alle banche. Ben presto, non ci fu un solo campo dell'industria dove i loro milioni non fossero al lavoro...

La banca dei Rockefeller - la National City Bank - è la più importante degli Stati Uniti. E' superata solo dalla Banca d'Inghilterra e dalla Banca di Francia. I depositi oltrepassano, in media, i cento milioni di dollari al giorno; essa domina il mercato dei valori di Wall Street come la borsa. Ma non è sola:

costituisce il primo anello di una catena di Banche Rockefeller che comprende quattordici banche e consorzi nella città di New York, oltre alle banche fortissime e influentissime in tutti i grand centri economici del paese.

J. D. Rockefeller possiede azioni della Standard Oil, per un valore di quattro o cinque milioni di dollari. Ha cento milioni di dollari nel trust dell'acciaio, quasi altrettanto in un altro, e così via, al punto che la mente si stanca ad elencarli. Le sue entrate furono l'anno scorso di cento milioni di dollari circa, ed è dubbio che i redditi di tutti i Rothschild messi insieme raggiungano una cifra superiore. E continuano ad aumentare a gran balzi".

Capitolo 10

IL VORTICE

Dopo quel pranzo di uomini d'affari, avvenimenti di straordinaria importanza si succedettero come lampi; e nel mio piccolo, io che avevo sempre vissuto i miei giorni placidi nella calma della nostra città universitaria, fui trascinata, con tutte le mie vicende personali, nel vasto vortice delle vicende mondiali.

Che fosse il mio amore per Ernest a far di me una rivoluzionaria, o la chiara visione da lui offertami della società in cui vivevo, non saprei dire. Ma rivoluzionaria divenni, e fui travolta da un turbine di avvenimenti che appena tre mesi prima mi sarebbero sembrati impossibili.

La crisi del mio destino coincise con grandi crisi sociali.

Innanzi tutto mio padre fu congedato dall'università. Oh, non fu congedato nel vero senso della parola: gli chiesero di dare le dimissioni, ecco tutto. La cosa in se stessa non aveva grande importanza. In realtà, mio padre ne fu divertito. Il suo congedo, accelerato dalla pubblicazione del suo libro "Economia ed educazione", confermava la sua tesi. Poteva esistere prova migliore del fatto che il sistema educativo era dominato dalla classe capitalistica?

Ma questa conferma non servì a nulla: nessuno seppe che era stato costretto a dimettersi dall'università. Era uno scienziato così famoso che una notizia del genere insieme con la spiegazione del motivo delle dimissioni forzate, avrebbe creato grande indignazione in tutto il mondo. I giornali furono invece generosi di elogi, congratulandosi con lui per aver rinunciato alla fatica delle lezioni, così da consacrare il suo tempo alla ricerca scientifica.

Sulle prime mio padre rise, poi si indignò: la sua rabbia "tonica". Poi gli soppressero il libro; glielo soppressero in maniera così cauta che sulle prime non ci capimmo niente.

La pubblicazione dell'opera aveva immediatamente causato parecchio scalpore nel paese. Il libro era stato cortesemente criticato dalla stampa capitalistica; critica espressa come dispiacere che un così grande scienziato avesse abbandonato il suo campo per avventurarsi in quello della sociologia, che gli era del tutto sconosciuto, e dove non aveva tardato a smarrirsi. Questo durò una settimana, durante la quale mio padre scherzò dicendo che aveva toccato un punto debole del capitalismo. Poi, improvvisamente, giornali e riviste non parlarono più del volume; e in modo non meno improvviso, esso sparì dalla circolazione. Impossibile trovarne una copia presso tutti i librai. Mio padre scrisse agli editori e gli fu risposto che i piombi s'erano rovinati in seguito a un incidente. Ne seguì una corrispondenza confusa. Messi con le spalle al muro, gli editori finirono col dichiarare che non vedevano la possibilità di ristampare l'opera, ma che erano dispostissimi a cedere ogni diritto su di essa.

"E in tutto il paese non troverà un'altra casa editrice disposta a pubblicare il suo libro", disse Ernest. "Se fossi in lei, mi metterei subito al sicuro. Perché questo è solo un saggio di quanto le riserva il Tallone di Ferro".

Mio padre era prima di tutto uno scienziato e non traeva mai conclusioni affrettate. Per lui un esperimento di laboratorio non era tale finché non era stato eseguito fin nei minimi particolari.

Intraprese così un giro paziente di tutti gli editori. Gli trovarono una quantità di pretesti, ma nessuno volle occuparsi del libro.

Quando fu ben convinto che la sua opera era stata soppressa, mio padre tentò d'informarne il pubblico, ma i suoi comunicati alla stampa vennero ignorati. Credette allora di trovare la sua occasione a una riunione politica socialista alla quale assistevano numerosi giornalisti, si alzò e raccontò la storia di questo sopruso. Il giorno dopo, leggendo i giornali, prima ne rise, poi si infuriò oltre ogni dose "tonica". Nessuno parlava del suo libro, ma travisavano la sua condotta in modo spiacevole.

Avevano storpiato le sue parole e le sue frasi, trasformando le sue sobrie e misurate osservazioni in un discorso da anarchico sbraitante. Tutto ciò con molta abilità. Ricordo in particolare un esempio: mio padre aveva usato l'espressione "rivoluzione sociale", e il cronista aveva tranquillamente eliminato l'aggettivo "sociale". La dichiarazione venne quindi diffusa in tutto il paese dall'Associated Press, e da ogni parte si levarono grida d'allarme. Mio padre fu bollato come anarchico e nichilista, e in una vignetta, che venne ampiamente riprodotta, fu ritratto nell'atto di agitare una bandiera rossa, alla testa di una torma irsuta e selvaggia, armata di torce, coltelli e bombe alla dinamite.

Venne aspramente attaccato da tutta la stampa, in lunghi e spietati articoli, per la sua anarchia, e furono fatte allusioni a una sua incipiente follia. Questa tattica, come ci informò Ernest, non era una novità da parte della stampa capitalistica, che inviava di solito i suoi cronisti a tutte le riunioni socialiste, con l'ordine di alterare e travisare ciò che veniva detto, per spaventare la borghesia e distoglierla da ogni idea di una possibile unione col proletariato. Ernest insistette molto perché papà abbandonasse la lotta e si mettesse al riparo.

La stampa socialista, invece, raccolse il guanto, e tutti gli operai che leggevano i giornali seppero che il libro era stato soppresso; ma quest'informazione non oltrepassò la cerchia dei lavoratori. In seguito, una grande casa editrice socialista, "Il richiamo alla ragione", si accordò con mio padre per pubblicare il suo libro. Mio padre ne fu entusiasta, Ernest invece ne fu allarmato.

"Le dico che siamo alle soglie dell'ignoto. Avvengono intorno a noi, in segreto, grandi cose. Le sentiamo, infatti; non ne conosciamo la natura, ma la loro presenza è certa. Tutta la compagine sociale ne freme. Non mi chieda di cosa si tratti perché non ne so niente. Ma in questo movimento, c'è una realtà concreta che sta prendendo forma, sta cristallizzandosi. La soppressione del suo libro ne è una prova. Quanti altri sono stati soppressi?

Lo ignoriamo e non potremo mai saperlo; siamo nel buio. Bisogna aspettarsi la soppressione della stampa e delle case editrici socialiste. Temo anzi che sia imminente. Stiamo per essere soffocati".

Meglio degli altri, sentiva il corso degli avvenimenti: infatti, meno di due giorni dopo, fu sferrato il primo assalto. "Il richiamo alla ragione" era un settimanale diffuso fra il proletariato con una tiratura di settecentocinquantamila copie; inoltre, pubblicava spesso delle edizioni speciali, da due a cinque milioni di copie pagate e distribuite dal piccolo esercito volontario dei lavoratori raggruppati attorno al "Richiamo". Il primo colpo fu diretto contro queste edizioni e fu una brutta mazzata. L'Amministrazione delle poste stabilì, con una decisione arbitraria, che quelle edizioni non facevano parte della solita circolazione del giornale, e con questo pretesto rifiutò di accettarle nei suoi treni postali.

Una settimana dopo, il Ministero delle poste decretò che il giornale stesso era sedizioso e lo escluse definitivamente dai suoi trasporti. Era un terribile attacco alla propaganda socialista: il "Richiamo" era in condizioni disperate, e pensò di raggiungere i suoi abbonati avvalendosi dei corrieri espressi, ma questi rifiutarono il loro aiuto. Era il colpo di grazia; non quello definitivo però. Il "Richiamo" era deciso a continuare la pubblicazione dei libri. Ventimila copie di quello di mio padre erano in rilegatura e altre ancora erano in stampa. Poi, improvvisamente, una sera, una folla di teppisti agitando una bandiera americana e cantando inni patriottici, appiccò il fuoco ai vasti locali della tipografia del "Richiamo" distruggendola completamente.

E' da notare che la piccola città di Girard, nel Kansas, era una località assolutamente tranquilla dove non erano mai avvenuti disordini operai. Il "Richiamo" rispettava i salari stabiliti dai sindacati e, di fatto costituiva l'ossatura della città, perché occupava centinaia di uomini e di donne. La teppaglia che aveva distrutto la tipografia non era formata da abitanti di Girard; era sbucata fuori dal nulla per scomparirvi di nuovo immediatamente a fatto compiuto. Ernest vide in quell'episodio una sinistra minaccia.

"Stanno organizzando le Centurie Nere (1) anche negli Stati Uniti", disse. "Questo è solo l'inizio. Vedremo ben altro. Il Tallone di Ferro prende coraggio".

E così il libro di mio padre fu tolto di mezzo. In seguito, con il passare del tempo, avremmo sentito parlare molto delle Centurie Nere. Di settimana in settimana, altri giornali socialisti venivano respinti dalle poste e, in parecchi casi accadde, le Centurie Nere distrussero le tipografie. Naturalmente, la stampa nazionale sosteneva la politica delle classi dominanti, e i giornali soppressi furono calunniati e denigrati, mentre le Centurie Nere venivano presentate come i veri patrioti e salvatori della società. Queste calunnie erano così convincenti, che alcuni ministri del culto fecero, dal pulpito, l'elogio delle Centurie Nere, pur deplorando la necessità della violenza.

La storia incalzava. Le elezioni di autunno si avvicinavano, e Ernest fu scelto dal partito socialista come candidato al Congresso. Le sue probabilità di riuscita erano quanto mai favorevoli. Lo sciopero dei trasporti pubblici di San Francisco era fallito, come era fallito quello, conseguenza del primo, dei carrettieri. Queste due sconfitte erano state disastrose per l'organizzazione sindacale. La Federazione dei Lavoratori Portuali, con i suoi alleati, gli operai dei cantieri, aveva sostenuto i carrettieri, e tutto l'edificio eretto a fatica era crollato senza vantaggio né gloria. Lo sciopero fu cruento. La polizia ferì a colpi di manganello moltissimi lavoratori, e l'elenco dei morti aumentò in seguito al ricorso che essa fece di una mitragliatrice.

Di conseguenza, gli uomini erano furiosi, ebbri di sangue e di vendetta. Battuti sul terreno da essi stessi scelto, erano pronti a dare una risposta sul terreno politico. Mantenevano la loro organizzazione sindacale; ciò che dava loro forza e coraggio per la lotta in corso.

Le probabilità di Ernest diventavano sempre più forti. Ogni giorno nuovi sindacati decidevano di sostenere i socialisti, e lui stesso non poté fare a meno di ridere quando seppe che anche gli Ausiliari delle Pompe Funebri e gli Spennatori di Volatili si erano schierati dalla loro parte.

I lavoratori erano ormai ostinati. Mentre si affollavano con vero entusiasmo nelle riunioni socialiste, restavano insensibili alle trovate dei vecchi politicanti. Costoro si trovavano di solito davanti a sale vuote, che solo ogni tanto si affollavano di gente che riservava loro una tale accoglienza che, più di una volta, era stato necessario l'intervento della polizia.

La storia incalzava; l'aria vibrava di avvenimenti attuali e imminenti. Il paese era sull'orlo della crisi (2), dovuta a una serie di anni prosperosi durante i quali era diventato sempre più difficile collocare all'esterno l'eccesso di produzione. Le industrie lavoravano a orario ridotto, molte grandi fabbriche avevano addirittura smesso la produzione, in attesa di smerciare l'eccesso di quella precedente, e dappertutto i salari venivano ridotti.

Un altro grande sciopero falliva. Duecentomila lavoratori metalmeccanici, coi loro cinquecentomila alleati metallurgici, erano stati vinti nella lotta più sanguinosa che avesse mai sconvolto gli Stati Uniti. Vere e proprie battaglie erano state combattute contro piccoli eserciti di crumiri (3) armati, messi in campo dalle associazioni padronali. Le Centurie Nere avevano fatto la loro comparsa nelle località più distanti fra loro, recando grandi danni alle proprietà; di conseguenza, erano stati mandati centomila uomini dell'esercito regolare degli Stati Uniti per porre cruentemente fine alla cosa.

Un gran numero di capi operai furono giustiziati, molti altri imprigionati e migliaia di scioperanti rinchiusi nei recinti e trattati in modo esecrabile dai soldati.

Si stavano scontando gli anni della passata prosperità. Tutti i mercati crollavano e, nel crollo generale dei prezzi, quello del lavoro crollava più rapidamente degli altri. Il paese era scosso da una crisi industriale. Dappertutto gli operai scioperavano e se non entravano in sciopero erano scacciati dagli stessi padroni. I giornali riferivano numerosi fatti di violenza e di sangue, e in tutto le Centurie Nere avevano la loro parte. Sommosse, incendi, distruzioni a catena, questo il compito che esse assolvevano con diligenza. L'esercito regolare scendeva anch'esso in campo, richiamato dalle violenze delle Centurie Nere (5). Tutte le città e i villaggi sembravano accampamenti militari; gli operai erano fucilati come cani. I crumiri venivano reclutati fra la massa dei disoccupati, e quando avevano la peggio coi membri dei sindacati, comparivano le truppe regolari, sempre in tempo per difenderli e schiacciare gli altri. Inoltre, c'era la milizia. Fino allora non era stato necessario ricorrere alla legge segreta sulla milizia; solo la sua parte regolarmente organizzata entrava in azione, e operava dappertutto. In ultimo, in quei tempi di terrore, l'esercito regolare fu aumentato di centomila uomini dal governo.

Mai il mondo del lavoro aveva ricevuto una lezione tanto severa.

Questa volta i grandi capitani dell'industria, gli oligarchi, avevano gettato tutte le loro forze nella breccia aperta dalle associazioni padronali. Si trattava, in realtà, di associazioni borghesi che, stimolate dalla crisi, dalla durezza dei tempi, dal crollo dei mercati, e sostenute dall'alta finanza, inflissero all'organizzazione del lavoro una terribile e decisiva sconfitta.

Un'alleanza, dunque, potentissima, ma al tempo stesso una specie di alleanza fra leone e agnello; e la borghesia non avrebbe tardato ad accorgersene.

La classe lavoratrice era agitata da idee sanguinose di vendetta, ma era anche annientata. Eppure la sua sconfitta non pose fine alla crisi. Le banche che già costituivano una forza non indifferente per l'oligarchia, continuavano ad accettare i risparmi dei lavoratori. Il gruppo di Wall Street (6) trasformò la borsa in un turbine che spazzò via tutti i beni del paese. E sui disastri e sulle rovine, s'innalzò la forza della nascente oligarchia: imperturbabile, indifferente e sicura di sé. Questa serenità e sicurezza erano terrificanti. Per ottenere lo scopo, essa non ricorreva soltanto a tutta la propria potenza, ma anche a quella del Tesoro degli Stati Uniti. I capitani dell'industria si erano poi volti contro la media borghesia. Le associazioni padronali, che li avevano aiutati a sconfiggere l'organizzazione del lavoro, erano a loro volta sconfitte dai loro antichi alleati.

In mezzo al crollo dei piccoli finanzieri e industriali, i trust resistevano magnificamente. Non solo erano solidi, ma anche attivi. Seminavano vento, senza paura né esitazioni, perché essi soli sapevano il modo di raccogliere tempesta e trarne profitto. E quale profitto! Quali immensi raccolti! Abbastanza forti per tener testa all'uragano che avevano contribuito largamente a scatenare, si scatenavano essi pure e saccheggiavano ciò che turbinava intorno a loro. I valori di borsa erano pietosamente e incredibilmente crollati e i trust allargavano la loro sfera d'azione in proporzioni non meno incredibili: le loro imprese si estendevano in numerosi campi nuovi, e sempre a spese della media borghesia.

Così, l'estate del 1912 conobbe l'assassinio della classe media borghese. Lo stesso Ernest rimase colpito dalla rapidità con la quale fu inferto il colpo di grazia. Scosse il capo, pieno di cattivi presagi, e cominciò a guardare senza speranza alle elezioni d'autunno.

"E' inutile", diceva Ernest, "siamo stati già sconfitti. Il Tallone di Ferro è un fatto. Avevo posto tutte le mie speranze in una vittoria tranquilla alle urne. Ho avuto torto. Wickson aveva ragione, saremo spogliati delle poche libertà che ci rimangono. Il Tallone di Ferro ci calpesterà; non rimane altro, a questo punto, che una rivoluzione sanguinosa della classe operaia. Naturalmente avremo la vittoria, ma fremo al pensiero di quello che ci costerà".

Da allora Ernest ripose tutta la sua speranza nella rivoluzione.

Su questo punto, anzi, andava più in là del suo partito. I suoi compagni di partito non erano d'accordo con lui. Continuavano a credere che la vittoria poteva essere ottenuta con le elezioni.

Non che fossero storditi dal colpo ricevuto; erano troppo padroni di sé e troppo coraggiosi per questo: erano soltanto increduli.

Ernest non riusciva a ispirare loro un vero timore dell'oligarchia, riusciva a commuoverli, ma erano sempre troppo sicuri della loro forza. Non c'era posto per l'oligarchia nella loro teorica evoluzione sociale; di conseguenza, l'oligarchia non poteva esistere.

"Ti manderemo al Congresso, e tutto si sistemerà", gli dissero in una delle nostre riunioni segrete.

"E quando mi avranno sbattuto fuori dal Congresso, messo con le spalle contro un muro e fatto saltar il cervello", chiese freddamente, "che cosa farete dopo?".

"Ci solleveremo con tutta la nostra forza", risposero una dozzina di voci, immediatamente.

"Allora sguazzerete nel vostro stesso sangue", fu la sua risposta.

"Conosco questo motivo; l'ho sentito cantare dalla borghesia, e dov'è ora la sua forza?".

NOTE:

1) Le Centurie Nere erano bande reazionarie organizzate dall'autocrazia agonizzante durante la Rivoluzione russa. Questi gruppi reazionari attaccavano i gruppi rivoluzionari; inoltre, al momento opportuno provocavano disordini e distruggevano le proprietà per fornire all'autocrazia il pretesto per ricorrere ai Cosacchi.

2) In regime capitalistico questi periodi di crisi erano tanto inevitabili quanto assurdi. La proprietà era sempre causa di calamità. Il fatto era dovuto, naturalmente, all'eccesso di profitti che si accumulavano.

3) In teoria e in pratica, in tutto, fuorché nel nome, i crumiri rappresentavano l'esercito privato dei capitalisti.

Perfettamente organizzati e armati, erano sempre pronti a essere caricati su treni speciali e trasportati sui luoghi degli scioperi, oppure erano tenuti di riserva dai padroni. Solo tempi così strani potevano offrire lo spettacolo di un certo Farley, noto capo dei crumiri, che nel 1906 attraversò gli Stati Uniti su treni speciali da New York a San Francisco, alla testa di un esercito di 2500 uomini armati ed equipaggiati per rompere lo sciopero dei carrettieri di quest'ultima città. Un'infrazione vera e propria alle leggi del paese. Ma il fatto che la cosa rimase impunita, come migliaia di altri episodi del genere, mostra fino a che punto la magistratura fosse creatura della plutocrazia.

4) Durante uno sciopero dei minatori dell'Idaho, nella seconda metà del diciannovesimo secolo, molti scioperanti furono rinchiusi dalla truppa, in un recinto per buoi. La cosa, e il nome, si perpetuarono nel ventesimo secolo.

5) Il solo nome, non il concetto, era stato importato dalla Russia. Le Centurie Nere rappresentavano un'evoluzione degli agenti segreti del capitalismo e comparvero la prima volta nelle lotte dei lavoratori del secolo diciannovesimo. Non vi sono dubbi al riguardo. E questo è stato ammesso addirittura dal Commissario del lavoro degli Stati Uniti del tempo, Carrol D. Wright. Nel suo libro intitolato "Le battaglie del lavoro", troviamo questa sua dichiarazione: "In alcuni grandi scioperi storici, gli impiegati stessi hanno incitato alla violenza"; e aggiunge che gli industriali provocarono di proposito gli scioperi per sbarazzarsi dell'eccedenza della loro merce, e che molti treni furono bruciati dagli agenti dei padroni durante gli scioperi delle ferrovie, per accrescere il disordine. Da simili agenti nacquero le Centurie Nere, che diventarono poi l'arma terribile dell'oligarchia, gli agenti provocatori.

6) Nome di una strada della vecchia New York, dove era la Borsa e dove l'irrazionale ordinamento della società permetteva la manipolazione segreta di tutte le industrie del paese.

Capitolo 11

LA GRANDE AVVENTURA

Il signor Wickson non aveva fatto nulla per vedere mio padre.

S'incontrarono per caso sul traghetto per San Francisco; e quindi l'avvertimento che gli diede non fu premeditato. Se il caso non li avesse fatti incontrare non ci sarebbe stato nessun avvertimento.

Del resto, niente sarebbe cambiato. Mio padre discendeva dall'antico e solido ceppo del "Mayflower" (1) e il buon sangue non mente mai.

"Ernest aveva ragione", mi disse appena tornato a casa, "Ernest è un giovane straordinario, al punto che preferirei vederti sua moglie piuttosto che sposa del re d'Inghilterra, o dello stesso Rockefeller".

"Cos'è successo?" chiesi allarmata.

"L'oligarchia sta per schiacciarci. Wickson me l'ha fatto chiaramente capire. E' stato molto gentile, per essere un oligarca. Mi ha offerto di riprendermi all'università. Che te ne pare? Wickson, quel sordido strozzino, ha il potere di decidere se insegnerò o no all'università dello Stato? Ma mi ha offerto di meglio ancora: mi ha proposto di farmi nominare rettore di un grande istituto di scienze fisiche che hanno in progetto di creare. L'oligarchia deve pur liberarsi in qualche modo della sua ricchezza in eccesso, capisci?

'Ricorda quel che dissi a quel socialista innamorato di sua figlia?' ha detto. 'Gli dissi che avremmo schiacciato la classe operaia. Orbene, lo faremo. Quanto a lei, lei sa che, come scienziato, l'ho in gran rispetto, ma se unisce la sua sorte a quella del proletariato, ebbene stia attento. Non posso dirle altro!'. Quindi mi ha voltato le spalle e se ne è andato".

"Segno che dovremo sposarci prima del previsto", fu il commento di Ernest, quando gli riferimmo la cosa.

Non afferrai allora quel suo ragionamento, ma non tardai a capirlo. A quel tempo fu pagato il dividendo trimestrale delle filande Sierra..., o meglio avrebbe dovuto essere pagato, perché mio padre non ricevette il suo. Dopo parecchi giorni di attesa, scrisse al segretario e ottenne immediatamente risposta: gli si comunicava che dai libri della società non risultava che mio padre possedesse azioni e gli si chiedevano gentilmente maggiori delucidazioni. "Gliele darò io le delucidazioni a quel villano", dichiarò mio padre avviandosi alla banca per ritirare le azioni in questione dalla cassetta di deposito.

"Ernest è un uomo eccezionale", disse al ritorno, mentre l'aiutavo a togliersi il soprabito. "Lo ripeto, figlia mia; il tuo fidanzato è un uomo eccezionale".

Sapevo, sentendolo parlare così, che dovevo prepararmi a qualche nuova sventura.

"Mi hanno già schiacciato. Non ci sono più titoli, la cassetta è vuota. Dovete sposarvi al più presto".

Sempre fedele ai suoi metodi di laboratorio, citò le Filande Sierra in tribunale, ma non riuscì a farvi comparire i libri dei conti. La Sierra, non lui, controllava i giudici: questo spiegava tutto. Non solo la sua istanza fu rigettata, ma la legge sanzionò quello spudorato furto.

Ripensandoci, ora, mi pare quasi ridicolo il modo in cui fu battuto. Incontrò per caso Wickson per strada a San Francisco, gli diede del furfante. Per questo fu arrestato per diffamazione, condannato dal tribunale di polizia a pagare un'ammenda, e dovette promettere, previa cauzione, di starsene quieto. Un fatto così ridicolo che lui stesso non poté fare a meno di ridere. Ma che scandalo sulla stampa locale! Si parlava allora con gravità del bacillo della violenza che infestava tutti quelli che abbracciavano la causa del socialismo, e mio padre, nonostante la sua lunga vita pacifica, fu citato come un esempio illuminante dello sviluppo di quel microbo della violenza. Più di un giornale insinuò che per i troppi studi scientifici doveva avergli dato di volta il cervello, lasciando intendere che si sarebbe dovuto rinchiuderlo in manicomio. E non si trattava di semplici chiacchiere. Il pericolo incombeva seriamente. Ma mio padre fu abbastanza saggio da capirlo. L'esperienza del vescovo Morehouse gli era servita di lezione. Se ne stette buono sotto quel diluvio di ingiustizie, e credo che la sua pazienza sorprese gli stessi nemici.

In seguito, toccò alla casa, la nostra casa. Improvvisamente, saltò fuori un'ipoteca, e dovemmo abbandonarla. Naturalmente non c'era nessuna ipoteca, non c'era mai stata: il terreno era stato acquistato e la casa pagata appena costruita. Casa e terreno erano sempre stati liberi da ogni vincolo. Ciò nonostante, saltò fuori una falsa ipoteca, redatta e firmata legalmente e regolarmente, con le ricevute degli interessi versati durante un certo numero di anni. Mio padre non reagì. Come gli avevano rubato il denaro, ora gli rubavano la casa; non era possibile far ricorso. Il meccanismo della società era nelle mani di coloro che avevano giurato di rovinare mio padre. Ma poiché in fondo era un filosofo, mio padre, ormai, non s'indignava.

"Sono condannato a essere schiacciato", mi diceva, "ma questa non è una buona ragione per non cercare di essere calpestato il meno possibile. Le mie vecchie ossa sono fragili e ho imparato la lezione. Sa dio se ci tengo a passare i miei ultimi giorni in un manicomio".

Questo mi fa ricordare che non ho ancora raccontato la storia del vescovo. Ma prima devo dire del mio matrimonio. Nel vortice degli avvenimenti, la sua importanza si perde, lo so, e dunque ne farò appena menzione.

"Ora diventeremo veri proletari", disse mio padre quando fummo scacciati dalla vecchia casa: "Ho spesso invidiato al tuo futuro marito la perfetta conoscenza del proletariato; ora potrò provare e imparare personalmente".

Doveva avere nel sangue il desiderio dell'avventura, perché considerava la nostra catastrofe alla stregua dell'avventura. Non si lasciò prendere né dalla collera né dall'amarezza; era troppo filosofo e troppo semplice per essere vendicativo, e viveva troppo nel mondo dello spirito per rimpiangere gli agi materiali che avevamo dovuto abbandonare. Quando ci trasferimmo a San Francisco, in quattro miserabili camere, nel ghetto a sud di Market Street, s'imbarcò in quell'avventura con la gioia e l'entusiasmo di un bimbo, ma insieme con la chiara visione e la comprensione di una mente superiore. In realtà, non si ridusse mai alla cristallizzazione mentale e ai falsi apprezzamenti dei valori, perché quelli non avevano alcun senso per lui; i soli valori che riconosceva erano i fatti matematici e scientifici. Era, devo dire, un essere eccezionale: aveva la mente e l'anima dei grandi uomini. A volte superava persino Ernest che era il più grande uomo che avessi mai conosciuto.

E tuttavia provai qualche conforto in quel cambiamento di vita, e cioè la gioia di sfuggire all'ostracismo metodico e progressivo al quale eravamo sottoposti nella nostra città universitaria con l'inimicizia della nascente oligarchia. E anche a me quella nuova vita finì col sembrare un'avventura, e la più grande di tutte, perché era un'avventura d'amore. La nostra crisi finanziaria aveva affrettato il nostro matrimonio; cosicché andai ad abitare come sposa il piccolo appartamento di Pell Street nel ghetto di San Francisco.

Ma di tutto rimane soltanto questo: ho fatto felice Ernest. Sono entrata nella sua vita tempestosa non come un elemento di disordine, ma come un elemento di pace e riposo. Gli ho portato la calma: fu il mio dono d'amore a lui, e il segno infallibile di non essere venuta meno. Riuscire a far dimenticare, suscitare la luce della gioia in quei poveri occhi stanchi: ecco la mia gioia. E poteva essermene riservata una maggiore?

Quei cari occhi stanchi! Si prodigò sempre come pochi hanno mai fatto, tutta la sua vita si prodigò per gli altri. Tale fu la misura della sua umanità. Era un umanitario, una creatura d'amore.

Col suo spirito battagliero, il suo corpo di gladiatore e il suo genio d'aquila, era dolce e tenero con me, come un poeta, ma un poeta che viveva i suoi canti nell'azione. Sino alla morte cantò la canzone umana, la cantò per puro amore di questa umanità per la quale diede la sua vita e fu crocifisso.

E tutto questo, senza la minima speranza d'un premio futuro. Nella sua concezione del mondo non esisteva vita futura. Lui, che fiammeggiava d'immortalità, la negava a se stesso; e questo era il più gran paradosso della natura. Quello spirito ardente era dominato dalla filosofia fredda e incresciosa del monismo materialistico. Quando tentavo di confutare le sue idee, dicendogli che misuravo la sua immortalità dal volo della sua anima, e che mi sarebbero occorsi secoli per conoscerla a fondo, rideva, e le sue braccia si tendevano a me; mi chiamava la sua dolce metafisica, e ogni stanchezza spariva dai suoi occhi; io vi intravedevo quella fiamma d'amore che, da sola, era una nuova e sufficiente affermazione della sua immortalità.

Altre volte mi chiamava la sua cara dualista e mi spiegava come Kant, per mezzo della ragion pura, aveva abolito la ragione al fine di adorare Dio. Stabiliva un parallelo, e mi accusava di macchiarmi della stessa colpa. E quando io, colpevole, difendevo quel modo di pensare perché profondamente razionale, lui si limitava a stringermi più forte e rideva come soltanto potrebbe farlo un amante di Dio. Ero, personalmente, portata a negare che eredità e ambiente spiegassero la sua originalità e il suo genio non più che gli aridi tentativi della scienza di afferrare, analizzare e classificare la fuggevole essenza che si nasconde nella formazione stessa della vita.

Sostenevo che lo spazio è un'apparizione di Dio, e l'anima una proiezione della sua essenza; e quando lui mi chiamava la sua dolce metafisica, io lo chiamavo il mio immortale materialista; e ci amavamo ed eravamo felici. Io gli perdonavo il suo materialismo in virtù dell'opera sconfinata compiuta nel mondo senza darsi pensiero del progresso personale; in virtù anche di quell'eccessiva modestia spirituale che gli impediva di inorgoglirsi e perfino di avere coscienza e regale fierezza del suo animo veramente eccezionale.

Ma orgoglio ne aveva. Come potrebbe non averne un'aquila?

Sosteneva che era più bello per un'infima molecola mortale sentirsi divina che per un dio sentirsi, appunto, divino, e in tal modo esaltava quella che lui considerava la propria mortalità. Gli piaceva citare i versi di un certo poema. Non lo aveva mai conosciuto per intero e aveva cercato invano di scoprirne l'autore. Riporto qui i versi non solo perché li prediligeva, ma perché esprimono il paradosso che era nel suo spirito. Perché come può uno, con fremito, ardore ed esaltazione, recitare questi versi e restare insieme mortale, creatura effimera e forma evanescente?

Eccoli: Gioia su gioia e conquista su conquista sono i diritti destinatimi per nascita, e grido la lode dei miei giorni infiniti all'echeggiante limite della terra.

Dovessi soffrire ogni morte umana sino alla fine ultima del tempo, il calice delle mie gioie l'avrò alfine vuotato, in ogni tempo e luogo.

Schiuma dell'Orgoglio, sapere del Potere, dolce gusto della Femminilità!

Scolo sino alla feccia, in ginocchio, perché sì, dà gusto questo bere:

brindo alla Vita, brindo alla Morte e schiocco le labbra col canto, perché quando morrò un altro "Io" porgerà oltre la coppa.

Colui che scacciasti dall'Eden ero io, Signore, io, e là tornerò ancora quando terra e aria saran squarciate dal mare al cielo; perché quello è il mio mondo, il mio mondo stupendo degli affanni miei più cari, dal primo lieve vagito di neonato al tormento delle doglie di femmina.

Carico dell'energia di una razza increata, combattuto da un desiderio mondano, l'irruente flusso del mio giovane sangue scatenato spegnerebbe il fuoco del Giudizio.

Io sono l'Uomo, I'Uomo, dalla carne fremente alla polvere della mia terrena aspirazione, dal covante buio del grembo pregno allo splendore dell'anima mia nuda.

Ossa delle mie ossa, carne della mia carne, il mondo tutto s'apprende al mio desiderio, e la sete insaziata di un Eden maledetto tormenterà la terra affinché sia esaudito.

Onnipossente Dio, quando vuoto il calice della vita di tutti i raggi luminosi del suo arcobaleno, l'ingrato impegno della notte eterna non sarà troppo lungo per i miei sogni.

Colui che scacciasti dall'Eden ero io, Signore, io, e là tornerò ancora quando terra e aria saran squarciate dal mare al cielo; perché quello è il mio mondo, il mio mondo stupendo degli affanni miei più cari, dal luminoso bagliore della corrente artica al buio della mia notte amorosa.

Ernest lavorò sempre troppo. Era sostenuto solo dalla robusta costituzione, che però non cancellava la stanchezza nello sguardo.

I suoi cari occhi stanchi! Non dormiva più di quattro ore e mezzo per notte, e nonostante questo, non trovava mai il tempo di fare tutto quello che avrebbe voluto. Neppure un istante interruppe la sua attività di propagandista, ed era sempre impegnato, con molto anticipo, per conferenze a organizzazioni operaie. Poi ci fu la campagna elettorale, alla quale si dedicò fino al limite del possibile. La soppressione delle case editrici socialiste lo privò dei suoi diritti d'autore, e fu costretto a lavorare duro per procurarsi da vivere, perché oltre a tutti gli altri lavori, doveva anche darsi da fare per guadagnarsi la vita. Traduceva molto per riviste scientifiche e filosofiche; rincasava tardi la sera, già stanco per la lotta elettorale, e si dedicava a quell'occupazione fino alle prime ore del mattino. E soprattutto coltivava i suoi studi! Li continuò fino alla morte; e studiava follemente.

Nonostante questo, trovava il tempo per amarmi e rendermi felice.

Io fondevo tutta la mia vita con la sua. Imparai la stenografia e la dattilografia e diventai la sua segretaria. Mi diceva spesso che ero riuscita ad alleggerirlo di metà del lavoro, e così imparai a capire le sue opere. I nostri interessi divennero comuni, lavoravamo insieme e ci distraevamo insieme.

I minuti di tenerezza rubati al lavoro: una semplice parola, una rapida carezza, uno sguardo d'amore; e questi minuti erano tanto dolci, quanto più furtivi. Vivevamo sulle vette, dove l'aria è pura e frizzante, dove ci si impegna per l'umanità, dove il sordido egoismo non potrebbe respirare. Amavamo l'amore che per noi si coloriva delle tinte più belle. E, di tutto, questo rimane:

non fallii il mio scopo. Gli diedi un po' di riposo, a lui che si prodigava per gli altri, al mio caro mortale dagli occhi stanchi!

NOTE:

1) Una delle prime navi che trasportarono coloni in America, dopo la scoperta del Nuovo Mondo. Per lungo tempo, i discendenti di costoro andarono straordinariamente orgogliosi della loro origine; poi, quel sangue prezioso si diffuse a tal punto, che ormai praticamente circola nelle vene di tutti gli americani.

Capitolo 12

IL VESCOVO

Fu dopo il mio matrimonio che ebbi occasione di rivedere il vescovo Morehouse. Bisogna, però, che racconti con ordine i fatti.

Dopo il suo sfogo al convegno dell'I.P.H. il vescovo, anima dolce e mite, cedendo alle insistenze dei suoi amici, era partito per una vacanza, dalla quale era tornato più deciso che mai a predicare il messaggio della Chiesa. Con grande costernazione dei fedeli, la sua prima predica fu in tutto e per tutto simile al discorso che aveva pronunciato lì al convegno. Ripeté, citando numerosi esempi e sconvolgenti particolari, che la chiesa si era allontanata dagli insegnamenti del Maestro, e che al posto di Cristo era stato innalzato il dio Mammona. Il risultato fu che, di prepotenza, venne rinchiuso in una clinica per malattie nervose, mentre i giornali pubblicavano articoli patetici sul suo collasso nervoso, lodando al tempo stesso la santità della sua figura.

Entrato in clinica, fu tenuto prigioniero. Mi presentai più volte, ma mi fu sempre rifiutata la possibilità di vederlo. Rimasi dunque terribilmente impressionata dalla sorte di quel sant'uomo, assolutamente sano di corpo e di mente, schiacciato dalla volontà brutale della società. Perché il vescovo era sano di mente, quanto puro e nobile di cuore. Come diceva Ernest, la sua sola debolezza era l'erronea conoscenza della biologia e della sociologia, per cui aveva scelto male il modo di tentare di cambiare le cose.

Ciò che mi esasperava, era l'impotenza a difendersi di quel prelato. Se continuava a proclamare la verità così come la vedeva, era condannato all'internamento perpetuo; e ciò senza poter protestare. Il suo patrimonio, la sua posizione, la sua cultura non potevano salvarlo. Le sue idee costituivano un pericolo per la società, che non poteva concepire come conclusioni tanto pericolose potessero provenire da uno spirito sano; almeno, a me questo sembra che fosse l'atteggiamento generale.

Ma il vescovo, che, sebbene mite e d'animo puro non mancava di acume, capì chiaramente il pericolo della situazione, si vide preso in una rete, e cercò di scappare. Non potendo contare sull'aiuto dei suoi amici, come quello che mio padre, Ernest e io gli avremmo volentieri dato, era costretto a battersi da solo.

Nella solitudine forzata della clinica, guarì, recuperò l'equilibrio. I suoi occhi cessarono di contemplare visioni; la sua mente si purgò della fantastica idea che il dovere della società fosse quello di nutrire le pecorelle del signore.

Come ho già detto, guarì completamente, e i giornali e la gente di chiesa salutarono il suo ritorno con gioia. Mi recai immediatamente nella sua chiesa. La predica fu dello stesso tenore di quelle tenute un tempo, prima del suo accesso di visionario. Ne fui delusa e scossa. La lezione inflittagli l'aveva forse ridotto all'obbedienza? Era dunque un vile? Aveva abiurato per paura?

Oppure la pressione era stata troppo forte, ed egli si era lasciato schiacciare dal carro di Juggernaut (1) dell'ordine stabilito?

Andai a fargli visita nella sua bella dimora. Lo trovai tristemente mutato, dimagrito, col volto solcato da rughe, come non lo avevo mai visto. Fu chiaramente sconcertato della mia visita. Parlando, si tirava nervosamente le maniche della veste; i suoi occhi inquieti giravano da ogni parte per evitare i miei; la sua mente sembrava preoccupata. La nostra conversazione, interrotta da pause strane, da bruschi cambiamenti d'argomento, fu così incoerente, da imbarazzare. Era costui l'uomo calmo e sicuro di sé che avevo un tempo paragonato a Cristo, con i puri occhi limpidi, lo sguardo diritto, senza debolezza, come la sua anima?

Era stato malmenato e domato. Il suo spirito era troppo mite; non era abbastanza forte per far fronte alla società organizzata.

Mi sentii invasa da una tristezza indicibile. Le sue spiegazioni erano ambigue, paventava in maniera così evidente ciò che avrei potuto dire, che non ebbi cuore di rivolgergli la minima domanda.

Mi parlò della sua malattia con abbandono; parlammo apertamente della chiesa, della riparazione dell'organo, e delle scarse opere di carità. Alla fine, mi vide partire con tale piacere che ne avrei riso se il mio cuore non fosse stato gonfio di lacrime.

Povero debole eroe. Se avessi saputo, però! Lui combatteva come un gigante e io non lo sospettai nemmeno. Solo, interamente solo in mezzo a milioni di suoi simili, combatteva a modo suo. Sospeso fra l'orrore del manicomio e la sua fedeltà alla verità e alla giustizia, si aggrappava disperatamente a quest'ultima, ma era così solo che non aveva neppure osato fidarsi di me. Aveva imparato troppo bene la lezione!

Non passò molto, che rimasi invece edificata. Un bel giorno il vescovo sparì, senza aver avvertito nessuno della sua partenza. Le settimane passavano senza che tornasse: circolarono molte voci sul suo conto; si disse persino che si era ucciso in un accesso di pazzia. Ma queste voci tacquero quando si seppe che aveva venduto tutto quello che aveva, la casa in città, quella di campagna, a Menlo Park, i quadri, le raccolte d'arte e perfino la sua cara biblioteca. Aveva liquidato tutto in segreto, prima di partire.

Questo accadde quando anche su di noi si era abbattuta la sorte avversa. Solo quando ci fummo stabiliti nella nuova casa, avemmo il tempo di chiedere di lui. Improvvisamente tutto si chiarì. Una sera presto, verso l'imbrunire, corsi all'angolo a comprare delle costolette per la cena di Ernest. Perché, nel nostro nuovo ambiente, chiamavamo cena l'ultimo pasto del giorno.

Proprio mentre uscivo dal macellaio, un uomo varcava la soglia della drogheria vicina, che faceva angolo con la strada. Una strana impressione di familiarità mi spinse a guardarlo meglio. Ma aveva già voltato l'angolo, e camminava a passo svelto. C'era, nell'insieme delle spalle e nella corona dei capelli argentati che si intravedevano fra il colletto e il cappello dall'ala rialzata, un non so che che mi risvegliò vaghi ricordi. Invece di riattraversare la strada, seguii quell'uomo. Affrettai il passo, cercando di controllare le idee che si affollavano in testa. No, impossibile, non poteva essere lui, vestito a quel modo, con un vecchio vestito di tela, con i calzoni troppo lunghi, sfilacciati in fondo.

Mi fermai, ridendo di me stessa, e stavo per abbandonare quel folle inseguimento. Ma quella schiena e quei capelli d'argento mi erano troppo noti. Lo raggiunsi e, sorpassandolo, gettai uno sguardo di sbieco al suo viso, poi mi voltai bruscamente, e mi trovai a faccia a faccia con il... vescovo.

Anche lui si fermò, altrettanto bruscamente, sorpreso. Un grosso pacco di carta che aveva in mano gli cadde a terra squarciandosi e spargendo sul marciapiede una grande quantità di patate. Mi guardò con stupore e spavento, poi sembrò vinto; le spalle gli si abbassarono e trasse un profondo sospiro.

Gli tesi la mano. La prese; la sua era madida. Tossì con aria imbarazzata, e la fronte gli si imperlò di grosse gocce di sudore.

Evidentemente, era molto turbato.

"Le patate", mormorò con voce spenta, "sono preziose!". Le raccogliemmo e le rimettemmo nella busta lacerata, che lui teneva ora con cura nel cavo del gomito.

Cercai di esprimergli la mia gioia nel vederlo, e l'invitai a venire subito in casa nostra.

"Mio padre sarà contento di rivederla", dissi. "Abitiamo a due passi da qui".

"Impossibile", rispose. "Devo andare, arrivederci". Si guardò intorno con aria inquieta, come se temesse di essere riconosciuto, e fece l'atto d'incamminarsi. Poi, vedendomi decisa a seguirlo, a non perderlo di vista, aggiunse:

"Mi dia il suo indirizzo, verrò a trovarvi più in là".

"No", risposi con fermezza. "Deve venire subito".

Guardò il sacchetto delle patate che gli dondolava dal braccio e i pacchetti che aveva nell'altra mano.

"E' impossibile, davvero", disse. "Scusi la scortesia, se avessi saputo".

Mi guardò come se fosse sul punto di commuoversi, ma un attimo dopo si riprese. "E poi ho questa roba con me", proseguì. "E' proprio un caso pietoso, terribile. Si tratta di una vecchia alla quale devo portarla subito. Ha fame, bisogna che corra da lei.

Capisce? Verrò dopo. Glielo prometto".

"Vengo con lei", dissi. "E' lontano?".

Sospirò, infine si arrese.

"Solo due isolati", disse. "Affrettiamoci".

Accompagnata dal vescovo, feci la conoscenza del quartiere in cui abitavo. Non avrei mai immaginato che contenesse miserie così grandi! Naturalmente la mia ignoranza veniva dal fatto che non mi occupavo di carità. Ero convinta che Ernest avesse ragione quando paragonava la beneficenza a un cauterio su una gamba di legno, e la miseria a un'ulcera che bisognava togliere, invece di mettervi su un impiastro. Il suo rimedio era semplice. Dare all'operaio il prodotto del suo lavoro, e una pensione a coloro che sono invecchiati lavorando; non ci sarebbe stato più bisogno di elemosine. Persuasa della bontà di questo ragionamento, cospiravo con lui per la rivoluzione, e non spendevo la mia energia per sollevare le miserie sociali che nascono, costantemente, dall'ingiustizia del sistema sociale.

Seguii il vescovo in una piccola stanza di circa quattro metri per tre. Vi trovammo una povera vecchietta tedesca, di sessantaquattro anni, a quanto mi disse. Fu sorpresa di vedermi, ma mi fece un cenno cordiale col capo, senza smettere di cucire un paio di calzoni da uomo che teneva sulle ginocchia. In terra, vicino a lei, ce n'erano parecchi altri. Il vescovo, accortosi che non c'erano più né legna né carbone, uscì per comprarne.

Raccolsi un paio di pantaloni ed esaminai il lavoro della vecchia.

"Sei centesimi, signora", disse lei scuotendo il capo leggermente e continuando a cucire. Cuciva lentamente, ma senza smettere un istante. Sembrava condannata a cucire in eterno.

"Per questo lavoro, pagano sei centesimi?" chiesi stupita. "Quanto tempo c'impiega?" "Sì, tanto mi danno", rispose. "Sei centesimi per la finitura, e ciascuno richiede due ore di lavoro. Ma il padrone non lo sa questo", aggiunse vivacemente, lasciando trasparire il timore di avere delle noie. "Non sono svelta: ho l'artrite alle mani. Le giovani sono molto più abili di me: impiegano metà del tempo, per finire ogni pezzo.

Il padrone è un brav'uomo; mi lascia portare il lavoro a casa, ora che sono vecchia e il rumore delle macchine mi stordisce. Se non fosse così gentile, morirei di fame... Sì, quelle che lavorano all'officina prendono otto centesimi. Ma che vuole? Non c'è abbastanza lavoro per le giovani, e non c'è bisogno delle vecchie... Spesso ho un solo paio di calzoni da finire prima di sera".

Le domandai quante ore lavorasse, e mi disse che dipendeva dalla stagione.

"D'estate, quando ci sono molte ordinazioni, lavoro dalle cinque del mattino fino alle nove di sera. Ma d'inverno fa troppo freddo e non riesco a sgranchirmi le mani, allora devo lavorare di più, qualche volta sin dopo la mezzanotte.

Sì, l'estate scorsa è andata male. I tempi sono duri. Il buon dio deve essere in collera. Questo è il primo lavoro che il padrone mi ha dato in tutta la settimana. E quando non c'è lavoro non si mangia! Mi sono abituata. Ho cucito tutta la vita; al mio vecchio paese, un tempo, poi qui, a San Francisco, da trent'anni...

Quando si può guadagnare il denaro per l'alloggio, tutto va bene.

Il proprietario è molto buono, ma alla scadenza pretende l'affitto. Vuole solo tre dollari per questa stanza. Non è caro.

Eppure è una fatica a mettere insieme tre dollari".

S'interruppe, senza smettere di cucire, e scosse il capo.

"Dovrà stare bene attenta a come spende", osservai.

Fece un cenno di assenso. "Una volta pagato l'affitto, le cose non vanno male. Naturalmente non posso comprare la carne, né il latte per il caffè. Ma faccio sempre un pasto al giorno e qualche volta anche due".

Aveva pronunciato le ultime parole con una punta d'orgoglio, un vago senso di vittoria. Ma mentre continuava a cucire in silenzio, vidi addensarsi nei suoi occhi buoni una grande tristezza, e gli angoli della bocca abbassarsi. Il suo sguardo vagò lontano. Poi si stropicciò gli occhi in fretta, altrimenti non avrebbe visto a cucire.

"Non è la fame che mi spezza il cuore", spiegò. "Ci si abitua.

Piango per mia figlia, uccisa dalla fabbrica. E' vero che lavorava molto, ma non posso capire come abbia potuto morire, perché era robusta. Era giovane, aveva solo quarant'anni, e lavorava da trenta. Aveva cominciato presto, è vero, ma mio marito era morto per lo scoppio di una caldaia. Che potevamo fare? Aveva solo dieci anni, ma era molto sviluppata per la sua età. La macchina per cucire l'ha uccisa; lei lavorava più svelta di tutte le altre. Ho pensato tanto a questo, e so tutto, perciò non posso più andare in fabbrica: la macchina per cucire mi fa male, sembra dirmi: l'ho uccisa io! l'ho uccisa io! Canta questo ritornello tutto il giorno. Allora penso a mia figlia e non riesco assolutamente a lavorare".

I suoi occhi stanchi si erano velati di nuovo, e dovette asciugarli prima di riprendere il lavoro. Udii il vescovo arrancare su per le scale e aprii la porta. In che stato era!

Portava sulle spalle mezzo sacco di carbone, e sopra, della legna.

Aveva il viso coperto di fuliggine, e il sudore, per lo sforzo compiuto, gli gocciolava dalla fronte. Lasciò cadere il carico in un angolo vicino alla stufa e si asciugò la faccia con un fazzoletto di tela grezza. Stentavo a credere ai miei occhi. Il vescovo, nero come un carbonaio, aveva una rozza camicia di cotone, una tuta. Questa era la cosa più assurda di tutte: la tuta! alla quale mancava persino un bottone. Era quanto di più incongruo vi potesse essere, sdrucita in fondo, e trattenuta alla vita da una cintura di cuoio.

Se il vescovo aveva caldo, le mani gonfie della povera vecchia erano intirizzite per il freddo. Prima di lasciarla, il vescovo accese il fuoco, mentre io sbucciavo le patate e le mettevo a bollire. Dovevo imparare poi, col tempo, che di questi casi ce n'erano parecchi, e molti anche peggiori nascosti negli orribili interni delle case del quartiere.

Rientrando, trovammo Ernest in pensiero per la mia assenza.

Passata la prima sorpresa dell'incontro, il vescovo si sdraiò in una poltrona, allungò le gambe coperte di tela azzurra e mandò, certamente, un sospiro di sollievo. Eravamo, disse, i primi tra i suoi vecchi amici che rivedeva dopo la sua fuga: nelle ultime settimane, la solitudine gli era pesata enormemente. Ci raccontò molte cose, ma soprattutto espresse la gioia che provava nel mettere in pratica i precetti del suo divino Maestro. "Perché ora veramente", disse, "nutro i suoi agnelli. E ho imparato una gran cosa: non si può curare l'anima finché lo stomaco non è pieno. Gli agnelli di dio devono essere nutriti con pane, patate e carne; solo così le loro menti sono pronte a ricevere un cibo elevato".

Mangiò volentieri il pranzo che avevo preparato. Non aveva avuto mai tanto appetito, alla nostra mensa. Parlammo dei giorni passati, e ci disse che in vita sua non era mai stato così bene come nella sua nuova condizione.

"Vado sempre a piedi, ora", disse, e arrossì al ricordo del tempo in cui girava in carrozza, come se fosse stato un peccatore imperdonabile.

"La mia salute è ottima", aggiunse in fretta, "e sono felicissimo, veramente felicissimo. Ora veramente ho coscienza di essere un eletto del Signore".

Eppure il suo viso serbava costante un'impronta di tristezza, perché ora si era fatto carico dei dolori del mondo. Vedeva la vita sotto una luce ben diversa da come l'aveva intravista nei libri della sua biblioteca.

"E il responsabile di tutto questo è lei, giovanotto", disse rivolto a Ernest che parve imbarazzato e intimidito.

"L'avevo... l'avevo avvertita", balbettò.

"Non ha capito", rispose il vescovo. "Non è un rimprovero, ma un ringraziamento. Le sono grato d'avermi mostrato la mia vita. Dalle teorie sulla vita, lei mi ha condotto alla vita stessa. Ha squarciato i veli, e strappato le maschere. Ha portato la luce nella mia notte, e ora anch'io vedo la luce del giorno. E sono felice, tranne..." esitò, dolorosamente, e come un velo di sofferenza gli oscurò lo sguardo, "tranne questa persecuzione. Non faccio male a nessuno. Perché non mi lasciano in pace? Ma non si tratta neppure di questo quanto piuttosto del tipo di persecuzione. Accetterei persino di essere fustigato, bruciato in una graticola o crocifisso con la testa in giù; ma il manicomio:

mi spaventa! Pensate: una casa di pazzi! E' ripugnante! Ho visto dei casi, là in clinica: dei pazzi furiosi. Mi si gela il sangue al solo ricordo. Essere rinchiuso tutta la vita, fra urli e scene violenti! No, no, sarebbe troppo...!".

Era commovente: le mani gli tremavano: tutto il corpo rabbrividiva e fremeva al pensiero della scena evocata. Ma ben presto riacquistò la calma.

"Scusatemi", disse in tutta semplicità, "sono i miei nervi. E se a tanto dovesse condurmi il servizio di Dio, sia fatta la sua volontà. Chi sono mai, da avere il diritto di lagnarmi?".

Guardandolo, fui quasi sul punto di esclamare: "Oh, grande e buon pastore! Eroe, eroe di Dio!".

Nel corso della serata, apprendemmo altre cose sul suo conto.

"Ho venduto la casa, o meglio le mie case, e tutti i miei possedimenti. Sapevo di doverlo fare di nascosto, altrimenti mi avrebbero preso tutto. Sarebbe stato terribile. Spesso mi meraviglio per la gran quantità di patate, pane, carne, carbone e legna che si può comprare con una somma che va dai due ai trecentomila dollari".

E si rivolse a Ernest:

"Lei aveva ragione, ragazzo mio: il lavoro è pagato tremendamente poco. Non ho mai fatto il più piccolo lavoro in vita mia tranne quello di esortare i farisei. Credevo di predicar loro il messaggio divino... e valevo mezzo milione di dollari. Non sapevo cosa significasse quella somma prima d'aver visto quanta roba si può comprare. Allora ho capito qualcosa di più: ho capito che tutte quelle patate e quel pane e quel latte mi appartenevano e che non avevo fatto mai niente per produrli. Mi è sembrato chiaro, allora, che altri avevano lavorato per produrli e ne erano stati privati poi. E quando sono sceso in mezzo ai poveri, ho trovato quelli che erano stati derubati, quelli che erano affamati e miserabili perché derubati".

Lo riportammo alla sua storia.

"Il denaro? L'ho depositato in banche diverse con nomi diversi.

Non potranno mai togliermelo, perché non lo scopriranno mai. E' tanto utile il denaro! Serve per comprare tanta roba. Prima ignoravo completamente a cosa potesse servire il denaro!".

"Almeno ne avessimo per la nostra propaganda", disse Ernest sovrappensiero. "Potrebbe esserci di molto aiuto".

"Credete?" disse il vescovo. "Non ho molta fiducia nella politica:

temo di non intendermene".

Ernest era molto timido in fatto di soldi. Non insistette pur conoscendo benissimo le difficoltà nelle quali si dibatteva il partito socialista, per mancanza di fondi.

"Vivo in una stanza a buon mercato", continuò il vescovo, "ma ho sempre paura, e non sto a lungo nello stesso posto. Ho pure in affitto due camere in case operaie, in quartieri diversi della città. E' una stranezza, lo so, ma è necessario. Rimedio in parte cucinando da me; ma a volte trovo da mangiare per poco nelle caffetterie. E ho fatto una scoperta: i tamales (2) sono ottimi quando fa fresco, la sera. Soltanto, sono cari: ho scoperto un posto dove ne danno tre per dieci centesimi; non sono buoni come gli altri, ma soddisfano. E così ho finalmente trovato la mia missione nel mondo, e lo debbo a lei, giovanotto. E' la missione del mio divino Maestro". Mi guardò con occhi lucenti: "Mi ha sorpreso mentre stavo nutrendo un suo agnello, come sa:

naturalmente, manterrete il segreto, tutti e due".

Lo disse con tono disinvolto che rivelava però, in fondo, un vero timore. Promise di ritornare da noi.

Ma una settimana dopo, i giornali c'informarono del triste caso del vescovo Morehouse che era stato rinchiuso in un manicomio di Napa; il suo stato lasciava però, a quanto pareva, qualche speranza.

Inutilmente cercammo di vederlo, inutilmente ci demmo da fare perché fosse sottoposto a un'inchiesta. Non potemmo avere altre notizie di lui, se non reiterate dichiarazioni che non bisognava sperare nella sua guarigione.

"Cristo disse al giovane ricco di vendere tutto ciò che possedeva", disse Ernest, con amarezza. "Il vescovo ha obbedito al comando, ed è stato rinchiuso in un manicomio. I tempi sono cambiati dall'epoca di Cristo! Oggi il ricco che dà tutto al povero è un pazzo. Non ci sono dubbi al riguardo. E' il verdetto della società".

NOTE:

1) Idolo del dio indiano Vishnu, sotto il cui carro i devoti s'immolavano.

2) Piatto messicano del quale si parla spesso nella letteratura del tempo. Sembra che fosse condito con molte spezie.

La ricetta non è giunta sino a noi.

Capitolo 13

LO SCIOPERO GENERALE

Ernest venne eletto al Congresso con la grande avanzata socialista che si verificò nell'autunno del 1912. Uno dei grossi fattori che contribuirono ad accrescere il numero dei voti per i socialisti fu l'eliminazione di Hearst (1). Riuscirci fu facile per la plutocrazia. Hearst spendeva diciotto milioni di dollari l'anno per mandare avanti i suoi innumerevoli giornali, somma che gli era ripagata in abbondanza dalla borghesia sotto forma di pubblicità.

La sua forza finanziaria era alimentata dunque dalla borghesia. I trust non gli affidavano pubblicità (2). Per distruggerlo, perciò, bastava togliergli la pubblicità.

La classe media non era ancora completamente vinta: conservava un'ossatura massiccia, ma era inerte. I piccoli industriali e gli uomini d'affari che si ostinavano a sopravvivere, privi di potere, erano in balia della plutocrazia. Appena l'alta finanza fece loro un cenno, tolsero dunque la pubblicità dalla stampa di Hearst.

Costui si batté eroicamente: fece stampare i suoi giornali in pura perdita, rimettendoci di tasca sua un milione e mezzo di dollari al mese, e continuò a pubblicare annunci che non gli venivano pagati. Allora, per nuovo ordine della plutocrazia, la sua meschina clientela lo inondò di un fiume di ingiunzioni a smettere la pubblicità gratuita. Hearst si ostinò. Fu allora citato, e siccome persisteva nel suo rifiuto di obbedire, fu condannato a sei mesi per offesa alla Corte, mentre veniva spinto al fallimento da un diluvio di azioni per danni e interessi. Non aveva vie d'uscita. L'alta banca lo aveva condannato; aveva in mano sua i magistrati che dovevano confermare la sentenza. Con lui, crollò il partito democratico che aveva da poco irretito.

Questa doppia disfatta pose davanti ai suoi seguaci solo due strade: quella che conduceva al partito socialista e l'altra, quella che conduceva al partito repubblicano. Fu così che noi raccogliemmo i frutti della propaganda cosiddetta socialista, di Hearst; la grande maggioranza dei suoi seguaci venne infatti a ingrossare le nostre file.

L'espropriazione degli agricoltori, che ebbe luogo a quel tempo, ci avrebbe procurato un altro forte aumento di voti senza la breve e futile vita del partito degli agricoltori. Ernest e i capi socialisti fecero sforzi disperati per attirare a sé gli agricoltori; ma la distruzione dei giornali e delle case editrici socialiste costituiva un ostacolo formidabile, e la propaganda orale non era ancora sufficientemente organizzata. Successe dunque che politicanti del tipo del signor Calvin, che non erano altro che agricoltori, da lungo tempo espropriati, attirarono gli altri agricoltori dalla propria parte, e sprecarono la loro forza politica in un'inutile campagna.

"Poveri agricoltori!" esclamò una volta Ernest, con un riso sardonico. "I trust li hanno in pugno e li fanno rigare dritto".

La situazione era proprio questa. I sette grandi trust agendo insieme, avevano fuso i loro enormi capitali e avevano costituito un trust agricolo. Le ferrovie, che controllavano le tariffe, i banchieri e gli speculatori di borsa che controllavano i prezzi, avevano da tempo dissanguato gli agricoltori, costringendoli a indebitarsi fino al collo. Dall'altra parte, i banchieri e gli stessi trust avevano prestato loro grosse somme: quindi erano nella rete. Non restava che gettarli a mare; e il trust agricolo si accinse a farlo. La crisi del 1912 aveva già provocato un terribile crollo dei prezzi sul mercato dei prodotti agricoli.

Essi furono ancora deliberatamente ridotti a prezzi di fallimento, mentre le ferrovie, con tariffe proibitive, spezzavano la spina dorsale all'agricoltore. In questo modo, i fittavoli erano obbligati a contrarre nuovi prestiti, non potendo pagare i vecchi debiti. Fu allora decretata la chiusura delle ipoteche e il recupero obbligatorio degli effetti sottoscritti; in tal modo gli agricoltori furono costretti dalla necessità a cedere le loro terre ai trust. Quindi furono ridotti a lavorare per conto dei trust, come gerenti, sovrintendenti, capomastri e semplici braccianti, e tutti salariati. In una parola, diventarono schiavi, servi della gleba, con un salario di fame. Non potevano abbandonare i loro padroni, che appartenevano tutti alla plutocrazia, né andare a stabilirsi in città, dove questa regnava ugualmente. Se abbandonavano la terra, avevano una sola alternativa: fare i giramondo, ossia la libertà di morire di fame.

Ma anche questo fu loro impedito da leggi drastiche contro il vagabondaggio, applicate rigorosamente.

Naturalmente, qua e là, ci furono agricoltori e intere comunità di agricoltori che sfuggirono all'espropriazione grazie a circostanze eccezionali; ma furono casi sporadici che non avevano alcun valore, e l'anno successivo, in un modo o nell'altro, subirono la stessa sorte (3).

Si spiega così lo stato d'animo dei socialisti, nell'autunno del 1912. Tutti, tranne Ernest, erano convinti che il capitalismo fosse giunto alla fine. L'intensità della crisi, il numero dei disoccupati, la repressione degli agricoltori e della media borghesia, la sconfitta decisiva inflitta su tutta la linea ai sindacati, lasciavano credere nell'imminente condanna della plutocrazia.

Ahimé, come ci ingannavamo sulla forza dei nostri nemici!

Dappertutto, i socialisti, dopo un'esposizione esatta sullo stato delle cose, proclamavano la loro prossima vittoria alle urne. La plutocrazia accettò la sfida e, pesate e valutate le cose, ci inflisse la sconfitta dividendo le nostre forze. Dai suoi agenti segreti, fece diffondere dappertutto la voce che il socialismo era una dottrina sacrilega e atea, e attirando nelle sue file le varie chiese, specialmente quella cattolica, ci privò di un buon numero di voti di lavoratori. Sempre attraverso i suoi agenti segreti, incoraggiò quindi il partito agrario e gli fece propaganda perfino nelle città e negli ambienti della borghesia soccombente.

Ma l'avanzata del socialismo si verificò ugualmente, solo, invece del trionfo che ci avrebbe assicurato i posti chiave, e la maggioranza in tutti i corpi legislativi, ottenemmo la minoranza.

Cinquanta dei nostri candidati furono eletti al Congresso, ma quando presero possesso del loro seggio, nella primavera del 1913, si trovarono completamente esautorati. E tuttavia ebbero più fortuna degli agricoltori, i quali, pur avendo conquistato una dozzina di seggi, non poterono neppure esercitare le loro funzioni, perché i titolari in carica rifiutarono loro di cedere il posto e la magistratura era controllata dall'oligarchia. Ma non è il caso di anticipare gli avvenimenti, devo ancora raccontare dei disordini dell'inverno del 1912.

La crisi nazionale aveva provocato un'enorme riduzione dei consumi. I lavoratori, disoccupati, senza denaro, non facevano acquisti. Di conseguenza, la plutocrazia si trovò così a disporre come mai prima di allora, di un'eccedenza di beni. Fu costretta a smerciarla all'estero, e aveva bisogno di fondi per attuare i suoi disegni giganteschi. I suoi sforzi animosi per buttare queste eccedenze sul mercato mondiale, la misero in competizione con la Germania. I conflitti economici degeneravano quasi sempre in conflitti armati e anche questa volta si la regola si verificò. I guerrafondai tedeschi si tennero pronti e altrettanto fecero gli Stati Uniti.

Questa minaccia di guerra era sospesa come una nube di temporale, e tutto era predisposto per una catastrofe mondiale; perché tutto il mondo era teatro di crisi, sommosse, rivalità d'interessi, dappertutto soccombeva la borghesia, dappertutto sfilavano cortei di scioperanti, dappertutto s'udiva il rombo della rivoluzione sociale (4).

L'oligarchia voleva la guerra contro la Germania, per molte ragioni; perché aveva molto da guadagnare negli avvenimenti vari che avrebbe suscitato un simile conflitto, in quello scambio di trattati internazionali e nella firma di nuove alleanze. Inoltre, il periodo delle ostilità doveva portare un consumo notevole di surplus nazionale, ridurre le fila degli scioperanti che minacciavano tutti i paesi e dare all'oligarchia il tempo di maturare i suoi disegni e attuarli. Un conflitto di quel genere l'avrebbe messa virtualmente in possesso di un mercato mondiale.

Le avrebbe dato un esercito permanente che non avrebbe ormai più dovuto congedare. Infine, nella mente del popolo, il motto:

"America contro Germania" avrebbe dovuto sostituire l'altro:

"Socialismo contro Oligarchia".

E la guerra avrebbe dato effettivamente tutti questi frutti, se non ci fossero stati i socialisti. Un'adunanza segreta di dirigenti dell'Ovest fu convocata nelle nostre quattro stanzette di Pell Street. In essa fu esaminato prima l'atteggiamento che il partito doveva assumere. Non era la prima volta che veniva discussa la possibilità di un conflitto armato (5). Ma era la prima volta che succedeva negli Stati Uniti. Dopo la nostra riunione segreta, entrammo in contatto con l'organizzazione nazionale, e ben presto furono scambiati telegrammi in codice attraverso l'Atlantico, fra noi e l'Internazionale.

I socialisti tedeschi erano disposti ad agire con noi. Erano più di cinque milioni, di cui molti appartenenti all'esercito regolare, e in buoni rapporti con i sindacati. Nei due paesi, i socialisti elevarono una fiera protesta contro la guerra e minacciarono lo sciopero generale, al quale nel frattempo si prepararono. Inoltre, i partiti rivoluzionari di tutti i paesi, proclamarono pubblicamente il principio socialista che la pace internazionale doveva essere mantenuta a tutti i costi, anche con le sommosse e le rivoluzioni in ogni paese.

Lo sciopero generale fu l'unica grande vittoria di noi socialisti americani. Il 4 dicembre il nostro ambasciatore fu richiamato da Berlino. Quella stessa notte, la flotta tedesca attaccò Honolulu, affondò tre incrociatori americani e un cacciatorpediniere, e bombardò la città. Il giorno dopo, la guerra fra Germania e Stati Uniti era dichiarata, e in meno di un'ora i socialisti avevano proclamato lo sciopero generale nei due Paesi.

Per la prima volta, il dio tedesco della guerra affrontò gli uomini della sua nazione, cioè quelli che ne sostenevano l'impero e senza i quali egli stesso non avrebbe potuto sostenerlo. La novità di quello stato di cose stava nella passività della loro rivolta. Non si battevano; non facevano nulla, e la loro inerzia legava le mani al loro Kaiser, il quale cercava solo un pretesto per sguinzagliare i suoi mastini e dare addosso al proletariato ribelle; ma il pretesto non venne mai. Non poté né mobilitare l'esercito per la guerra contro lo straniero, né scatenare la guerra civile per punire i suoi sudditi recalcitranti. Non una ruota del meccanismo del suo impero si muoveva, i treni non viaggiavano e i telegrammi non erano trasmessi perché i telegrafisti e i ferrovieri sostenevano lo sciopero, come il resto della cittadinanza.

Lo stesso avvenne negli Stati Uniti: i lavoratori, organizzati, avevano finalmente imparato la lezione: sbaragliati sul terreno da essi scelto, lo abbandonarono e passarono su quello, politico, dei socialisti, perché lo sciopero generale era uno sciopero politico.

Inoltre, le organizzazioni del lavoro erano state così duramente battute che non importava loro più niente: si unirono allo sciopero per pura disperazione. I lavoratori abbandonarono il lavoro a milioni, soprattutto i metalmeccanici si distinsero: le loro teste ancora sanguinavano, la loro organizzazione era apparentemente distrutta, eppure marciarono compatti con i loro alleati, i metallurgici.

Perfino i semplici manovali e tutti i lavoratori indipendenti interruppero il lavoro. Lo sciopero generale aveva organizzato tutto in modo che nessuno potesse lavorare. Le donne furono le più attive propagandiste dello sciopero. Fecero fronte contro la guerra; non volevano che i loro uomini venissero mandati al macello. Ben presto l'idea dello sciopero generale s'impadronì dell'anima popolare e vi risvegliò la vena umoristica; da quel momento si propagò con rapidità contagiosa. I fanciulli di tutte le scuole scioperarono, e i professori a scuola trovarono le aule deserte. Lo sciopero prese l'aspetto di una grande scampagnata nazionale. L'idea della solidarietà nel lavoro, messa in rilievo sotto quella forma, colpì l'immaginazione di tutti. Infine, non si correva nessun pericolo in quella colossale monelleria. Chi poteva essere punito quando tutti erano colpevoli?

Gli Stati Uniti erano paralizzati.

Nessuno sapeva ciò che accadeva: non c'erano più né giornali né posta, né telegrammi. Ogni comunità era isolata dalle altre come se miglia di deserto l'avessero separata dal resto del mondo.

Praticamente, il mondo aveva cessato di esistere, e rimase in quello strano modo per un'intera settimana. A San Francisco ignoravano perfino quello che succedeva dall'altra parte della baia, a Oakland o a Berkeley.

L'impressione prodotta sulle nature sensibili era fantastica, opprimente: sembrava che fosse morto qualcosa di grande, che una forza cosmica fosse scomparsa. Il polso del paese non batteva più, la Nazione giaceva inanimata. Non si sentivano più correre i tram, né i camion per le vie; non si udiva il fischio delle sirene, né il ronzio dell'elettricità nell'aria, né il grido dei giornalai:

niente, tranne il passo furtivo di persone isolate che a rari intervalli scivolavano via come fantasmi oppressi e resi irreali dal silenzio.

In quella lunga settimana silenziosa, l'oligarchia imparò la lezione e l'imparò molto bene. Lo sciopero fu un avvertimento. Non avrebbe dovuto più ripetersi; ci avrebbe pensato l'oligarchia.

Alla fine della settimana, com'era stato prestabilito, i telegrafisti della Germania e degli Stati Uniti ripresero il lavoro. Per mezzo loro i dirigenti socialisti dei due Paesi presentarono il loro ultimatum ai governanti. La dichiarazione di guerra fu revocata, e le popolazioni dei due paesi ripresero il lavoro.

Questo ritorno alla pace determinò un patto di alleanza fra la Germania e gli Stati Uniti. In realtà, quest'ultimo trattato fu concluso fra l'imperatore e l'oligarchia, per poter affrontare il comune nemico: il proletariato rivoluzionario dei due Paesi.

Quest'alleanza fu poi rotta proditoriamente in seguito, dall'oligarchia, quando i socialisti tedeschi si sollevarono e scacciarono il loro imperatore dal trono. Era esattamente lo scopo che si era proposto l'oligarchia in tutta la vicenda: distruggere il grande rivale sul mercato mondiale. Messo da parte l'imperatore, la Germania non avrebbe avuto più beni in eccesso da vendere all'estero, perché, per la natura stessa di uno stato socialista, la popolazione tedesca avrebbe consumato tutto ciò che avrebbe prodotto. Naturalmente, avrebbe continuato a scambiare con l'estero alcuni prodotti che produceva con altri che non produceva, il che era ben diverso da un surplus non consumato.

"Scommetto che l'oligarchia troverà una giustificazione", disse Ernest quando seppe del tradimento nei confronti dell'imperatore tedesco. "Come sempre, sarà persuasa di aver agito lealmente e per il giusto".

Infatti, l'oligarchia dichiarò pubblicamente di aver agito per il bene del popolo americano, scacciando dal mercato mondiale l'odiato rivale e permettendo così di riversare sul mercato il nostro surplus.

"Il colmo dell'assurdità", disse Ernest, a questo proposito, "è che siamo ridotti a un tale punto di impotenza che quegli idioti dispongono liberamente dei nostri interessi. Ci hanno messo nella condizione di vendere di più all'estero; il che significa che saremo obbligati a consumare di meno qui in patria".

NOTE:

1) William Randolph Hearst, giovane milionario della California, divenne il più potente proprietario di giornali del paese. I suoi giornali, pubblicati in tutte le più importanti città, si rivolgevano alla borghesia in declino e al proletariato.

La sua clientela era così vasta, che riuscì a impadronirsi del guscio vuoto del vecchio partito democratico. La sua era una posizione anomala, predicava una specie di socialismo alla buona mitigato da una non ben precisata forma di capitalismo borghese, come un miscuglio di acqua e olio. Non aveva nessuna probabilità di riuscire, ma durante un breve periodo fu fonte di serie preoccupazioni per la plutocrazia.

2) Il costo della pubblicità era iperbolico in quei tempi calamitosi. La concorrenza esisteva solo fra piccoli capitalisti, che ricorrevano perciò alla pubblicità, della quale i trust non sentivano il bisogno.

3) La distruzione dei piccoli proprietari terrieri romani fu molto meno rapida di quella degli agricoltori e piccoli capitalisti americani, perché nel secolo ventesimo ci fu una spinta in tal senso che non ci fu ai tempi dell'antica Roma.

Moltissimi agricoltori, spinti dalla passione per la terra e desiderosi di mostrare fin dove potevano giungere nel ritorno alla vita selvaggia, cercarono di sfuggire all'espropriazione desistendo da qualsiasi accordo commerciale. Non vendevano né compravano più nulla. Fra loro cominciò a rinascere un sistema primitivo di scambio in natura. Le loro privazioni e sofferenze furono orribili, ma resistettero e il movimento acquistò una certa importanza.

La tattica con cui furono sconfitti, fu quanto mai logica e semplice: la plutocrazia, forte del controllo del governo, aumentò le imposte. E i tributi erano il punto debole degli agricoltori.

Avendo cessato di comprare e di vendere, non avevano denaro, cosicché alla fine dovettero vendere le terre per pagare i tributi.

4) Da tempo si udiva quel rombo. Fin dal 1906 Lord Areburg aveva detto alla Camera dei Lords: "L'inquietudine dell'Europa, il propagarsi del socialismo e la sinistra apparizione dell'anarchia, sono avvertimenti fatti ai governi e alle classi dirigenti e segno che la condizione delle classi operaie diventa intollerabile, e che se si vuole evitare una rivoluzione, bisogna fare in modo di aumentare i salari, ridurre le ore di lavoro e abbassare il prezzo dei beni indispensabili". Il "Wall Street Journal", organo degli speculatori, commentava in questi termini il discorso di Lord Arebury: "Queste parole sono state pronunciate da un aristocratico, da un membro dell'organo più conservatore d'Europa.

Perciò hanno più valore. La politica economica che egli raccomanda ha molto più valore di quella insegnata nella maggior parte dei libri: è questo un segnale d'allarme. Fatene tesoro, signori del ministero della guerra e della marina!". Nello stesso tempo, Sydney Brooks scriveva in America, nell'"Harper's Veekly": "Non volete sentir parlare di socialisti a Washington. Perché? Gli uomini politici sono sempre gli ultimi del paese a vedere ciò che accade sotto il loro naso. Rideranno della mia predizione, ma io dico con certezza che alle prossime elezioni presidenziali, i socialisti avranno più di un milione di voti.

5) Fu al principio del secolo ventesimo che l'organizzazione socialista internazionale formulò definitivamente la condotta da seguire in caso di guerra, e che si può riassumere così: "Perché i lavoratori di un paese combatterebbero contro i lavoratori di un altro paese? Per il bene del loro padroni capitalisti?". Il 21 maggio 1905, quando si parlava d'una guerra tra Austria e Italia, i socialisti d'Italia, di Austria e d'Ungheria tennero un congresso a Trieste e lanciarono la minaccia d'uno sciopero generale dei lavoratori dei tre paesi, se la guerra fosse stata dichiarata. Quell'avvertimento fu rinnovato l'anno dopo, quando l'"Affare del Marocco" minacciò di trascinare in guerra la Francia, la Germania e l'Inghilterra.

Capitolo 14

IL PRINCIPIO DELLA FINE

Sin dal mese di gennaio del 1913, Ernest si era reso perfettamente conto della piega che prendevano le cose; ma non gli fu mai possibile convincere gli altri dirigenti socialisti che l'avvento del Tallone di Ferro era imminente. Erano troppo fiduciosi, e gli eventi precipitavano troppo rapidamente. La crisi era scoppiata in tutto il mondo. Virtualmente padrona del mercato mondiale, l'oligarchia americana escludeva da esso una ventina di nazioni sovraccariche di prodotti esuberanti, che non potevano né consumare né vendere; cosicché a queste non rimaneva altra via di scampo se non una riorganizzazione radicale. Non potevano continuare nella sovrapproduzione; per quel che risultava loro, il sistema capitalistico era fallito.

La riorganizzazione di questi paesi prese la forma della rivoluzione. Fu un'epoca di confusione e di violenza. Istituzioni e governi traballavano dovunque. Dappertutto, tranne in due o tre paesi, gli ex padroni, i capitalisti, lottavano con accanimento per conservare i loro beni. Ma il potere fu loro tolto dal proletariato militante. Finalmente, si avverava la profezia classica di Karl Marx: "Suonerà l'ora della fine della proprietà privata capitalistica, e gli espropriatori saranno a loro volta espropriati". Infatti, appena i governi capitalistici crollavano, sorgevano al loro posto governi di repubbliche cooperative.

"Perché mai gli Stati Uniti rimangono indietro?". "Rivoluzionari americani, svegliatevi"."Che succede, dunque, in America?". Tali erano i messaggi che ci mandavano i compagni vittoriosi degli altri paesi. Ma noi non potevamo mantenerci al passo. L'oligarchia ci sbarrava il cammino con la sua possente mole.

"Aspettate, entreremo nella lotta in primavera", rispondevamo, "allora vedrete!".

La nostra risposta nascondeva un segreto pensiero. Eravamo riusciti ad attirare a noi gli agricoltori e, in primavera, una dozzina di stati sarebbero passati in loro potere, in base ai risultati dell'autunno precedente. Subito dopo, questi stati avrebbero dovuto costituirsi in repubbliche cooperative; il resto sarebbe venuto da sé.

"E se il partito agrario non ce la fa?" chiese Ernest. E i suoi compagni lo chiamavano profeta di sventure.

In realtà, quella possibilità non era il male peggiore che angustiava Ernest; lui prevedeva e temeva soprattutto la diserzione di alcuni grandi sindacati operai e il sorgere delle caste.

"Ghent ha indicato agli oligarchi il modo d'agire", diceva.

"Scommetterei che hanno per breviario il suo 'Benevolent Feudalism'" (1).

Non dimenticherò mai la serata in cui, dopo una vivace discussione in casa nostra con una mezza dozzina di dirigenti sindacali, Ernest si rivolse a me e mi disse tranquillamente: "Ormai è fatta.

Il Tallone di Ferro ha vinto. La fine è vicina".

Quella piccola riunione in casa nostra non aveva carattere ufficiale, ma Ernest, d'accordo con gli altri compagni, cercò di ottenere dai dirigenti sindacali la promessa che avrebbero fatto partecipare i loro uomini al prossimo sciopero generale. Dei sei dirigenti presenti, O'Connor, presidente dell'associazione dei metalmeccanici, era stato il più ostinato nel rifiutare questa promessa.

"Eppure, sapete quale terribile bastonata vi ha procurato la vostra superata tattica nello sciopero e nel boicottaggio", disse Ernest.

O'Connor e gli altri annuirono.

"E avete imparato cosa si può ottenere con uno sciopero generale", continuò Ernest. "Abbiamo impedito la guerra con la Germania. Non si era mai vista una così bella prova di unione solidale da parte dei lavoratori. Essi possono e devono reggere il mondo. Se vuoi continuare a stare con noi, segneremo la fine del capitalismo. E' la nostra sola speranza, e ciò che più importa, la vostra unica via di scampo. Qualunque cosa facciate secondo la vostra vecchia tattica, siete già condannati alla sconfitta, non foss'altro che per il semplice motivo che i tribunali sono controllati dai vostri padroni" (2).

"Tu corri troppo", rispose O'Connor. "Voi non conoscete tutte le vie di scampo. Ce n'è un'altra. Sappiamo quel che facciamo. Ne abbiamo abbastanza degli scioperi. In questo modo ci hanno schiacciati, ma credo che non avremo più bisogno di far scioperare i nostri uomini".

"E come farete, dunque?" chiese bruscamente Ernest.

O'Connor si mise a ridere, scuotendo la testa. "Vi posso dire questo: non abbiamo mai dormito. E non stiamo sognando neppure ora".

"Spero che non vi sarà nulla da temere e nessun motivo di arrossire", disse Ernest, con diffidenza.

"Credo che conosciamo meglio il fatto nostro", fu la risposta.

"Da come lo tenete nascosto, dev'essere un fatto oscuro", replicò Ernest con calore.

"Abbiamo pagato la nostra esperienza con sudore e sangue, e ci saremo guadagnati ciò che otterremo", rispose l'altro. "La vera carità comincia da se stessi".

"Hai paura di dirmi come vi salverete. Ebbene, te lo dico io", e la collera di Ernest divampò. "Vi siete accordati col nemico, ecco cosa avete fatto. E avrete la vostra parte di bottino. Avete venduto la causa dei lavoratori, di tutti i lavoratori. Disertate il campo di battaglia come i vili".

"Non dico nulla", rispose O'Connor, con aria crucciata. "Soltanto, mi pare che sappiamo un po' meglio di voi ciò che dobbiamo fare".

"E non vi curate affatto dei bisogni del resto dei lavoratori. Con un calcio, mandate all'aria la solidarietà".

"Non ho niente da dire", replicò O'Connor, "solo che sono presidente dell'associazione dei metalmeccanici ed è mio dovere difendere gli interessi degli uomini che rappresento: ecco tutto".

Dopo la partenza dei sindacalisti, con una calma che ricordava quella che segue la tempesta, Ernest mi espose il corso degli eventi futuri.

"I socialisti predicevano con gioia l'avvento del giorno in cui il lavoro organizzato, sconfitto sul terreno industriale, si sarebbe unito su quello politico. Ora il Tallone di Ferro ha sconfitto i sindacati sul loro campo e li ha spinti verso il nostro, ma questo per noi, anziché ragione di gioia, sarà fonte di guai. Il Tallone di Ferro ha imparato la lezione. Gli abbiamo mostrato la nostra potenza, con lo sciopero generale, e s'è preparato a impedirne un secondo".

"Ma come potrà impedirlo?" domandai.

"Semplicemente sovvenzionando i grandi sindacati. Questi non si uniranno a noi nel prossimo sciopero generale, e di conseguenza lo sciopero non sarà generale".

"Ma il Tallone di Ferro non potrà sostenere all'infinito una politica così dispendiosa".

"Oh, non ha assoldato tutti i sindacati: non è necessario! Ecco che cosa accadrà: i salari saranno aumentati e le ore di lavoro diminuite nei sindacati delle ferrovie, degli operai metallurgici, dei macchinisti e dei metalmeccanici. In questi sindacati continueranno a prevalere migliori condizioni; l'appartenenza a essi equivarrà a un posto in paradiso".

"Ma ancora non capisco. Che cosa ne sarà degli altri sindacati? Ce ne sono molti di più fuori di questa nuova lega".

"Tutti gli altri sindacati saranno sfruttati e lentamente spariranno, perché, osserva bene, i macchinisti, i metalmeccanici e i metallurgici fanno tutto quanto è assolutamente indispensabile nella nostra civiltà delle macchine. Sicuro della loro fedeltà, il Tallone di Ferro può ridere degli altri lavoratori. Il ferro, l'acciaio, il carbone, le macchine, i trasporti costituiscono l'ossatura dell'organismo industriale".

"Ma, e il carbone?" chiesi. "Ci sono circa un milione di minatori".

"Praticamente si tratta di lavoratori non specializzati, non avranno alcun peso. I loro salari saranno ridotti e le ore di lavoro aumentate. Saranno schiavi, come tutto il resto dell'umanità, e diventeranno i più abbrutiti. Saranno obbligati a lavorare come i contadini per i loro padroni che hanno loro rubato la terra. E sarà lo stesso per gli altri sindacati non aderenti alla lega. Li vedremo vacillare e morire. I loro appartenenti saranno condannati ai lavori forzati dal loro stomaco vuoto e dalla legge del paese.

Sai cosa ne sarà di Farley (3) e dei suoi crumiri? Te lo dico subito: il loro mestiere, come tale, sparirà, perché non vi saranno più scioperi. Vi saranno solo rivolte di schiavi. Farley e la sua banda saranno promossi a guardiani di schiavi. Certo non verranno chiamati così; si dirà che faranno osservare la legge che prescrive il lavoro obbligatorio. Il tradimento dei grandi sindacati prolungherà la lotta, ma dio sa dove e quando trionferà la rivoluzione.

Con una combinazione potente come quella dell'oligarchia con i grandi sindacati, come sperare che la rivoluzione possa trionfare?

Quella combinazione potrebbe durare in eterno".

Ernest scosse il capo.

"Una delle nostre solite generalizzazioni è che ogni sistema fondato sulle classi e sulle caste contiene in sé il germe della propria dissoluzione. Quando una società è fondata sulle classi, come si può impedire il formarsi delle caste? Il Tallone di Ferro non può impedirlo e ne sarà alla fine distrutto. Gli oligarchi hanno già formato una casta fra loro; ma aspetta che i sindacati privilegiati sviluppino la loro. Ciò non può tardare. Il Tallone di Ferro farà il possibile per impedirlo ma non ci riuscirà.

I sindacati privilegiati contengono il fior fiore dei lavoratori americani: uomini forti e capaci, entrati nei sindacati nella lotta per il posto migliore. Tutti i migliori operai degli Stati Uniti aspireranno a diventare membri dei sindacati privilegiati.

L'oligarchia incoraggerà queste ambizioni e le rivalità che ne deriveranno. Così quegli uomini forti, che avrebbero potuto diventare dei rivoluzionari, saranno avvinti dall'oligarchia e ricorreranno alla forza per sostenerla.

D'altra parte, le caste operaie, i membri dei sindacati privilegiati, si sforzeranno di trasformare le loro organizzazioni in vere e proprie corporazioni, e ci riusciranno. La qualità di membro vi diverrà ereditaria. I figli succederanno ai padri, e il sangue cesserà di affluire da quel serbatoio di forza che è il popolo. Ne risulterà una degradazione delle caste operaie, che diventeranno sempre più deboli. Nello stesso tempo, formando un'istituzione, acquisteranno una certa potenza temporanea pari a quella delle guardie palatine nell'antica Roma; ci saranno rivoluzioni di palazzo, finché le caste operaie avranno in mano le redini del potere. Questi conflitti accelereranno l'inevitabile indebolimento delle caste, finché un giorno risorgerà il potere del popolo".

Non bisogna dimenticare che questo quadro della lenta evoluzione sociale venne tracciato da Ernest nel primo momento di abbattimento provocato dalla defezione dei grandi sindacati. Io non ho mai accettato questo suo modo di vedere, e dissento ancor più mentre scrivo queste righe, perché ora, sebbene Ernest non sia più, ci troviamo alla vigilia di una rivoluzione che spazzerà tutte le oligarchie.

Ho riferito la profezia di Ernest, perché fatta da lui. Pur credendovi, non cessò mai di lottare come un gigante per impedirne l'attuazione, e più di ogni altro al mondo rese possibile la rivolta di cui aspettava il segnale (4).

"Ma se l'oligarchia rimane", lo interrogai, "cosa ne sarà della ricchezza enorme che accumulerà di anno in anno?".

"Dovrà spenderla, in un modo o nell'altro, e sii sicura che troverà il modo. Saranno costruite strade magnifiche; la scienza e soprattutto l'Arte avranno uno sviluppo straordinario. Quando gli oligarchi avranno domato completamente il popolo, avranno tempo da perdere per le cose. Diventeranno adoratori del bello, amanti delle arti: incoraggiati da loro e generosamente pagati, gli artisti si metteranno all'opera. Ne risulterà un'apoteosi del Genio; gli uomini di talento non saranno più obbligati, come finora, a seguire il cattivo gusto borghese delle classi medie.

Sarà un'età d'oro per l'arte, lo predico: sorgeranno città di sogno, in confronto alle quali le vecchie città sembreranno meschine e volgari. E in quelle meravigliose città, gli oligarchi risiederanno e adoreranno la Bellezza (5).

Così il surplus sarà speso via via che il lavoro produrrà. La costruzione di quelle opere d'arte e di quelle grandi città porterà alla loro spettanza di fame i milioni di lavoratori comuni, perché l'immensità della spesa richiederà immensità di ricchezza. Gli oligarchi costruiranno per mille, per diecimila anni forse. Costruiranno come non sognarono mai di fare gli egizi, i babilonesi, e quando non esisteranno più, le loro città meravigliose rimarranno, e la fratellanza dei lavoratori prenderà il loro posto (6).

Queste opere, gli oligarchi le faranno perché non potranno fare altrimenti. Queste grandi opere saranno una forma d'investimento del surplus, come le classi dominanti dell'antico Egitto erigevano i tempi e le piramidi con la ricchezza rubata al popolo. Sotto l'oligarchia fiorirà non una casta sacerdotale, ma una casta di artisti, mentre le caste operaie prenderanno il posto della nostra borghesia mercantile. E, sotto, vi sarà l'abisso, dove fra carestia e peste, marcirà e si riprodurrà costantemente il popolo comune, la maggioranza della popolazione. E un giorno, chissà quando, il popolo sorgerà dall'abisso; le caste operaie e l'oligarchia andranno in rovina, e allora, finalmente, dopo un lavoro di secoli, verrà il tempo dell'uomo vero. Avevo sperato di vederlo, quel giorno, ma so, ora, che non lo vedrò".

Fece una pausa e mi guardò, a lungo, poi aggiunse:

"L'evoluzione sociale è troppo lenta, non trovi, mia cara?".

Lo circondai con le mie braccia; la sua testa mi si posò sul cuore.

"Cullami", mormorò come un bambino viziato, "vorrei dimenticare questa mia visione dell'avvenire".

NOTE:

1) L'"Our Benevolent Feudalism" apparve nel 1902. Si è sempre detto e sostenuto che fu Ghent a far nascere l'idea dell'oligarchia nelle menti dei capitalisti. Questa convinzione persiste nella letteratura dei tre secoli del Tallone di Ferro e perfino nel primo secolo della Fratellanza Umana. Oggi sappiamo cosa pensare di quel principio; ma rimane il fatto che Ghent fu uno degli innocenti più calunniati di tutta la storia.

2) Quale esempio dell'ostilità dei giudici contro la classe operaia citiamo i seguenti casi. L'impiego dei bambini era un fatto normale nelle regioni minerarie; in Pennsylvania, nel 1905 i lavoratori riuscirono a fare approvare una legge per la quale la dichiarazione giurata dei parenti circa l'età e il grado d'istruzione dei fanciulli doveva, da allora in poi, essere confermata da documenti. Questa legge fu immediatamente denunciata come incostituzionale dal tribunale della contea di Luzerne, con il pretesto che violava il Quattordicesimo emendamento stabilendo una distinzione fra persone della stessa classe, ossia fra i minori di circa quattordici anni; e la Corte di Stato confermò tale decisione. La corte di New York, nella sessione speciale dell'A. D. 1905, denunciò come incostituzionale la legge che proibiva alle donne e ai minori di lavorare nelle officine dopo le nove di sera, col pretesto che si trattava di "una legislazione di classe". Anche a quel tempo, essendo i panettieri oppressi da un lavoro eccessivo, le sessioni Riunite della Corte di New York emanarono una legge che limitava il lavoro di questi operai a dieci ore al giorno. Ma nel 1906, la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò questa legge incostituzionale, adducendo, fra gli altri motivi, che: "Non v'è ragione valida per limitare la libertà delle persone o dei contratti, stabilendo le ore di lavoro nel mestiere del fornaio".

3) James Farley, celebre crumiro dell'epoca, era un uomo dotato di grande capacità, e di coraggio più che di moralità. Si innalzò molto sotto il regime del Tallone di Ferro, e finì col farsi ammettere nella casta degli oligarchi.

Fu assassinato nel 1932, da Sarah Jenkins, il cui marito era stato ucciso trent'anni prima dai crumiri di Farley.

4) Le previsioni sociali di Everhard erano degne di nota. Con chiarezza alla luce degli avvenimenti, prevedeva la defezione dei sindacati privilegiati, la nascita e la lenta decadenza delle caste operaie, come la lotta fra queste e l'oligarchia, per il controllo della grande macchina governativa.

5) Dobbiamo ammirare l'intuito di Everhard. Molto prima che la semplice idea di città meravigliose, come Ardis e Asgard, nascesse nella mente degli oligarchi, lui intravide queste città splendide e la necessità della loro creazione.

6) Da quel giorno, sono passati tre secoli di Tallone di Ferro, e oggi percorriamo le strade e abitiamo le città edificate dagli oligarchi. E' vero che abbiamo continuato a costruire, ma le città degli oligarchi sussistono; io scrivo queste righe, a Ardis, una delle più belle fra tutte.

Capitolo 15

ULTIMI GIORNI

Verso la fine di gennaio del 1913, l'atteggiamento dell'oligarchia nei confronti dei sindacati privilegiati cambiò. I giornali annunciarono un aumento di salario senza precedenti e, nello stesso tempo, una riduzione delle ore lavorative per i dipendenti delle ferrovie, i lavoratori del ferro e dell'acciaio, i metalmeccanici e i macchinisti. Ma gli oligarchi non permisero che tutta la verità fosse immediatamente divulgata. In realtà, i salari erano stati aumentati molto di più e i privilegi concessi erano maggiori di quanto non si sapesse. Tutto questo era segreto, ma i segreti finiscono sempre col trapelare. Gli operai privilegiati si confidarono con le loro mogli, le quali a loro volta chiacchierarono, e in breve tutti i lavoratori seppero ciò che era accaduto.

Era lo sviluppo logico e semplice di quello che nel diciannovesimo secolo si chiamava "partecipazione al furto". Nella lotta che si svolgeva tra le industrie di quel tempo si era tentato pure la ripartizione degli utili fra gli operai; ossia, alcuni capitalisti avevano tentato di calmare i lavoratori facendoli partecipare ai profitti. Ma la partecipazione agli utili era, come sistema, una cosa assurda e impossibile. Poteva riuscire solo in alcuni casi isolati, nell'ambito di un sistema di lotte industriali, perché se tutto il lavoro e tutto il capitale si fossero divisi i profitti, le cose sarebbero ritornate al punto di partenza.

In questo modo, dall'idea inattuabile di una partecipazione ai guadagni, nacque l'idea pratica di partecipazione al furto.

"Pagateci di più e rifatevi sul pubblico", divenne il grido di guerra dei sindacati forti. E questa politica egoistica riuscì qua e là. Facendo pagare al pubblico si faceva pagare alla gran massa del lavoro non organizzato, o debolmente organizzato. Erano in realtà i lavoratori che procuravano un maggior aumento di salario ai loro compagni, membri dei monopoli sindacali. Quest'idea, come ho detto, fu spinta alla sua conclusione logica, su vasta scala, dall'unione degli oligarchi con i sindacati privilegiati (1).

Appena la defezione dei sindacati privilegiati fu risaputa, nel mondo dei lavoratori sorsero mormorii e proteste. Poi i sindacati privilegiati si ritirarono dalle organizzazioni internazionali e si sciolsero da ogni impegno di organizzazione e di solidarietà.

Ne nacquero torbidi e violenze. I loro membri furono bollati come traditori: nei bar e nei bordelli, nelle strade e nelle fabbriche, ovunque, furono assaliti dai compagni che essi avevano con tanta perfidia abbandonato.

Ci furono numerose teste rotte e parecchi morti. Nessun privilegiato era ormai al sicuro. Per recarsi al lavoro o per ritornarne, dovevano unirsi in gruppi. Camminavano sempre al centro della strada, perché sul marciapiede correvano il pericolo di ricevere in testa mattoni o pietre lanciati dall'alto. Ebbero così il permesso di armarsi, e le autorità li aiutarono in tutti i modi. I loro persecutori furono condannati a lunghi anni di carcere, o furono trattati crudelmente; nessuna persona estranea ai sindacati privilegiati aveva diritto di portare armi, e ogni infrazione a questa legge era considerata un grave reato e come tale punita.

Tutti i lavoratori danneggiati continuarono a vendicarsi dei rinnegati. Subito comparvero all'orizzonte nuove caste. I figli dei traditori erano perseguitati dai figli dei lavoratori traditi, al punto che non potevano più giocare nelle strade e andare a scuola. Le mogli e le famiglie dei rinnegati erano condannate all'ostracismo; al punto che il droghiere del rione era boicottato se vendeva loro qualcosa.

Come risultato, respinti da ogni parte, i traditori e le loro famiglie formarono dei clan. Essendo impossibile vivere sicuri in mezzo al proletariato ostile, si trasferirono in nuove località abitate esclusivamente da loro. Questo movimento fu favorito dagli oligarchi: furono costruite per loro case igieniche e moderne, circondate da giardini, i loro figli frequentavano scuole create per loro con corsi speciali di insegnamento manuale e scienze applicate. Così fin da principio, e fatalmente quasi, da quell'isolamento nacque una casta. I membri dei sindacati privilegiati diventarono gli aristocratici del lavoro e furono separati dagli altri operai. Meglio alloggiati, meglio vestiti, meglio nutriti, meglio trattati, essi presero parte alla divisione del bottino, con frenesia.

Nel frattempo, il resto della classe operaia era trattato più duramente che mai. Alla maggioranza furono tolti molti piccoli privilegi di cui godeva; i salari e il livello economico si abbassarono rapidamente, le scuole pubbliche ben presto decaddero e, lentamente, l'educazione cessò di essere obbligatoria. Il numero degli analfabeti della nuova generazione crebbe in modo impressionante.

La conquista da parte degli Stati Uniti del mercato mondiale aveva scosso il resto del mondo. Istituzioni e governi cadevano e si trasformavano dappertutto. La Germania, l'Italia, la Francia, l'Australia e la Nuova Zelanda stavano organizzandosi in repubbliche cooperative. L'Impero britannico crollava a pezzi.

L'Inghilterra era stremata. L'India era in piena rivolta. Il grido di tutto l'Oriente era "L'Asia agli asiatici". E dall'Estremo Oriente, il Giappone spingeva le razze gialle e brune contro la bianca, e mentre sognava un impero continentale e si sforzava di avverare il sogno, distruggeva la sua stessa rivoluzione proletaria. Fu una semplice guerra di caste, di coolies contro samurai, e i lavoratori socialisti furono giustiziati in massa.

Quarantamila furono uccisi nella battaglia per le strade di Tokio, e nell'inutile assalto al palazzo del Mikado. A Kobe, vi fu un macello; il massacro dei filatori di cotone, a raffiche di mitragliatrici, è diventato l'esempio classico e terribile della capacità di sterminio delle moderne macchine di guerra.

L'oligarchia giapponese, nata dal sangue, fu la più feroce di tutte. Il Giappone dominò l'Oriente e conquistò tutta la parte asiatica del mercato mondiale, tranne l'India.

L'Inghilterra riuscì a domare la rivoluzione dei suoi proletari e a conservare l'India a costo d'uno sforzo che per poco non la distrusse. Dovette abbandonare le grandi colonie; perciò i socialisti poterono far dell'Australia e della Nuova Zelanda delle repubbliche cooperative e il Canada fu perduto per la madre patria. Ma il Canada soffocò la rivoluzione socialista con l'intervento del Tallone di Ferro; il quale aiutava nello stesso tempo il Messico e Cuba a reprimere le loro rivolte.

Il Tallone di Ferro, dopo aver saldato in un solo blocco politico tutta l'America del Nord, dal Canale di Panama all'Oceano Artico, si trovò solidamente piantato nel Nuovo Mondo.

L'Inghilterra, sacrificando le sue grandi colonie, era riuscita a salvare l'India, ma anche questa fu una vittoria momentanea; rimandò semplicemente la sua guerra per l'India col Giappone e il resto dell'Asia. Era destinata, entro breve tempo, a perdere quella penisola, e quell'avvenimento a sua volta sarebbe stato causa di una lotta fra l'Asia unificata e il resto del mondo.

Mentre la Terra intera era dilaniata dai conflitti, negli Stati Uniti l'avvento della pace era sempre lontano. La defezione dei grandi sindacati aveva impedito la rivolta dei nostri proletari, ma la violenza regnava dappertutto. Oltre i torbidi dei lavoratori, oltre il malcontento degli agricoltori e dei pochi superstiti della classe media, sorgeva e si diffondeva una rinascita religiosa. Un ramo della setta degli Avventisti del Settimo Giorno era sorto, e s'era subito sviluppato notevolmente.

I suoi fedeli proclamavano la fine del mondo.

"Non ci mancava che questa, nella confusione generale", esclamò Ernest. "Come sperare che ci sia solidarietà, fra tante tendenze contrarie e divergenti?".

E, in verità, il movimento religioso andò assumendo uno sviluppo allarmante. Il popolo, a causa della miseria e della profonda delusione per tutte le cose terrene, era preparato, pronto e infiammato per un cielo dove i suoi tiranni industriali sarebbero entrati non più che un cammello attraverso la cruna di un ago.

Predicatori dagli occhi torvi vagabondavano di paese in paese e, malgrado le proibizioni delle autorità civili e le persecuzioni, la fiamma di questo fanatismo religioso era mantenuta viva da innumerevoli riunioni segrete.

Erano gli ultimi giorni, proclamavano, l'inizio della fine del mondo! I quattro venti erano scatenati: dio agitava i popoli spingendoli alla guerra. Erano tempi di visioni e miracoli, di veggenti e profeti, a legioni. La gente, a centinaia di migliaia, abbandonava il lavoro e fuggiva verso le montagne ad aspettare l'imminente venuta di dio e l'ascensione dei centoquarantaquattromila eletti. Ma dio non appariva e loro morivano in gran parte di fame. Nella disperazione, razziavano le fattorie, e il tumulto e l'anarchia, invadendo anche le campagne, non facevano altro che esasperare le pene dei poveri agricoltori espropriati.

Ma poiché le fattorie e i granai erano proprietà del Tallone di Ferro, numerose truppe furono mandate nei campi e i fanatici, con la punta delle baionette, vennero ricondotti al lavoro nelle città. Ma continuavano a sollevarsi. I loro capi furono giustiziati per sedizione, o rinchiusi in manicomi. I condannati andavano al supplizio con la gioia dei martiri. Furono tempi di follia. L'inquietudine si estese. Perfino nei deserti, nelle foreste, nelle paludi, dalla Florida all'Alaska, piccoli gruppi di indiani sopravvissuti erravano come fantasmi in attesa dell'avvento dell'atteso Messia.

In questo caos, continuava a innalzarsi con serenità e sicurezza quasi prodigiose, la sagoma del mostro dei mostri: l'oligarchia.

Con ferrea determinazione il Tallone di Ferro dominava quel groviglio di milioni di esseri, faceva uscire l'ordine dalla confusione, e poneva le proprie fondamenta sullo stesso caos.

"Aspettate che subentriamo noi", ripetevano gli agricoltori, e così ci disse anche Calvin, nel nostro appartamento di Pell Street. Guardate quanti stati abbiamo conquistato. Con l'appoggio di voi socialisti, faremo cantare loro un'altra canzone, appena saremo subentrati a loro.

"Abbiamo dalla nostra milioni di malcontenti e poveri", replicavano i socialisti. "Alle nostre file si sono aggiunti i contadini, la borghesia e i braccianti. I capitalismo cadrà in pezzi. Fra un mese manderemo cinquanta rappresentanti al Congresso. Fra due anni, tutte le cariche ufficiali saranno nostre, da quella di presidente a quella municipale di accalappiacani".

Al che Ernest replicava, scuotendo il capo: "Quanti fucili avete?

Sapete dove trovare il piombo in gran quantità? Quanto alla polvere, credetemi, le combinazioni chimiche sono migliori dei pasticci meccanici".

NOTE:

1) Tutti i sindacati dei lavoratori ferroviari entrarono in questa associazione. E' interessante notare che la prima vera applicazione della politica della "partecipazione al furto" era stata fatta nel secolo diciannovesimo da un sindacato di ferrovieri, vale a dire la Fratellanza dei Macchinisti, della quale un certo P. M. Arthur era da vent'anni il capo. Dopo lo sciopero della Pennsylvania Railroad nel 1877, costui sottopose ai macchinisti un progetto che prevedeva un accordo con le ferrovie staccandosi dagli altri sindacati. Questo disegno egoistico riuscì perfettamente; da qui la parola "Arthurisation", per indicare la partecipazione dei sindacati al furto. L'origine di questa parola è stata per molto tempo incerta per gli studiosi, ma ora sembra sia ben chiara.

Capitolo 16

LA FINE

Quando per Ernest e per me arrivò il momento di andare a Washington, mio padre non ci accompagnò: si era appassionato alla vita proletaria. Considerava il nostro misero rione un vasto laboratorio sociologico, e sembrava travolto in una sola e interminabile orgia di ricerche. Fraternizzava con gli operai ed era ammesso confidenzialmente in numerose famiglie; faceva inoltre vari lavori che rappresentavano per lui, oltre che una distrazione, una vera e propria indagine scientifica. Vi prendeva gusto e ritornava a casa con le tasche piene di appunti, sempre pronto a raccontare qualche nuova avventura. Era il perfetto scienziato.

Non era obbligato a lavorare, perché Ernest con le sue traduzioni guadagnava abbastanza da mantenere tutti e tre; ma mio padre si ostinava a inseguire il suo fantasma preferito che, a giudicare dalla varietà dei lavori che faceva, doveva essere una specie di Proteo. Non dimenticherò mai la sera in cui ci portò il suo inventario di merciaio ambulante, venditore di lacci e bretelle, né il giorno in cui entrai per comprare della merce in drogheria sull'angolo e fui servita da lui. In seguito, senza molta sorpresa, seppi che era stato per tutta una settimana garzone nel bar di fronte a noi. Fu successivamente guardiano notturno, rivenditore ambulante di patate, incollatore di etichette in una fabbrica di scatolame, facchino in una fabbrica di scatole di cartone, portatore d'acqua in una squadra impiegata nella costruzione di una linea tranviaria; e seppi pure che aveva fatto parte dell'Unione dei Lavapiatti, poco tempo prima che venisse sciolta.

Credo che fosse rimasto affascinato dall'esempio del vescovo, o perlomeno dalla sua tuta, perché ne portava una anche lui, con una stretta cintura in vita e, sotto, una camicia di cotone grezzo.

Della sua vita precedente, conservò solo l'abitudine di cambiarsi l'abito per il pranzo, o meglio per la cena.

Quanto a me, insieme con Ernest mi trovavo bene dappertutto; quindi, la felicità di mio padre, in quelle condizioni, non poteva che accrescere la mia.

"Da piccolo", diceva, "ero molto curioso. Volevo sapere tutti i perché e i come. Fu così che diventai fisico. Oggi la vita m'incuriosisce come allora, ed è questa curiosità che ce la rende degna di essere vissuta".

A volte si spingeva a nord di Market Street, nel quartiere dei negozi e dei teatri, e là vendeva giornali, faceva commissioni e procacciava taxi. Un giorno, chiudendo appunto lo sportello di un taxi, si trovò faccia a faccia con il signor Wickson. Con grande giubilo ci raccontò di quell'incontro la sera stessa.

"Mi ha guardato fisso e a lungo mentre chiudevo lo sportello, e ha mormorato: 'Che il diavolo mi porti!'. Proprio così si è espresso:

Che il diavolo mi porti! Era arrossito e così confuso, che ha dimenticato di darmi la mancia, ma ha ripreso subito il controllo di sé perché, dopo pochi metri, il taxi è tornato indietro con lui che si sporgeva dal finestrino: 'Professore', ha esclamato, 'questo è troppo! Cosa posso fare per lei?'. 'Ho chiuso il suo sportello', ho risposto, 'secondo l'uso potrebbe darmi una piccola mancia'. 'Non si tratta di questo', ha brontolato, 'voglio dire, fare qualcosa di utile'. Diceva sul serio: chissà, qualche rimorso di coscienza. Così per qualche attimo sono rimasto a riflettere.

Quando ho aperto la bocca, è stato a sentirmi attentamente: ma avreste dovuto vederlo alla fine. 'Ebbene', gli ho detto, 'potrebbe forse restituirmi la casa e le mie azioni delle Filande Sierra'".

Mio padre s'interruppe.

"Che cosa ha risposto?" domandai con impazienza.

"Nulla: che cosa poteva rispondere? Ma ho ripreso la parola:

'Spero che sia felice'. Mi guardava con curiosità e sorpresa. Ho insistito: 'Dica, è felice?'. Immediatamente, ha ordinato al tassista di partire, e l'ho sentito bestemmiare furiosamente. Quel malnato non mi ha dato la mancia e tanto meno mi ha restituito la casa e le azioni. Come vedi, cara, la carriera di factotum di tuo padre è piena di delusioni".

E fu così che mio padre rimase nel nostro appartamento di Pell Strett, mentre Ernest e io andavamo a Washington. Sennonché, il colpo di grazia stava per giungere prima di quanto immaginassi.

Contrariamente alla nostra aspettativa, non fu fatto nessun ostruzionismo per impedire ai socialisti eletti di prendere possesso dei loro seggi al Congresso. Sembrava che tutto filasse liscio, e io ridevo di Ernest che vedeva perfino in questa facilità un sinistro presagio.

Trovammo i nostri compagni socialisti pieni di fiducia nelle loro forze e pieni di disegni ottimisti.

Alcuni membri del partito agrario eletti al Congresso avevano accresciuto la nostra forza ed elaborammo con loro un programma particolareggiato su quello che c'era da fare. Ernest partecipava lealmente ed energicamente a questi lavori, pur non potendo fare a meno di ripetere, ogni tanto, e apparentemente fuori proposito:

"Quanto alla polvere, le combinazioni chimiche sono migliori dei pasticci meccanici, credetemi!".

I guai cominciarono prima per gli agrari, nei vari stati che avevano conquistato alle ultime elezioni; si trattava di una dozzina di stati, ma ai nuovi eletti non fu permesso di prendere possesso della loro carica. I perdenti si rifiutarono i cedere il posto, e con il pretesto di brogli elettorali crearono una quantità di ostacoli legali. Gli agrari furono ridotti all'impotenza: i tribunali, loro ultima speranza, erano nelle mani dei nemici. Se gli agrari, delusi, fossero ricorsi alla violenza, tutto sarebbe stato perduto. Quanto ci demmo da fare, noi socialisti, per trattenerli. Per giorni e notti Ernest non chiuse occhio. I maggiori dirigenti degli agrari capirono e collaborarono pienamente con noi. Ma non servì a nulla: l'oligarchia voleva la violenza e scatenò i suoi agenti provocatori, i quali, indiscutibilmente, provocarono la Rivolta dei Contadini.

Essa scoppiò in dodici stati. Gli agrari espropriati si impadronirono con la forza del governo degli stati. La cosa, naturalmente, era incostituzionale e gli Stati Uniti misero in moto l'esercito; gli agenti del Tallone di Ferro eccitavano dovunque la popolazione, travestiti da artigiani, fittavoli o contadini. A Sacramento, capitale della California, gli agrari erano riusciti a mantenere l'ordine, quando una fitta banda di agenti segreti si rovesciò sulla città condannata. Gruppi composti esclusivamente da spie incendiarono e saccheggiarono diversi edifici e officine, e infiammarono le menti del popolo a tal punto che esso si unì a loro nel saccheggio. Per alimentare questo incendio, nei quartieri poveri fu distribuito alcool a fiumi. Poi, quando tutto fu pronto, entrarono in scena le truppe degli Stati Uniti, che erano in realtà i soldati del Tallone di Ferro.

Undicimila tra uomini, donne e bambini furono fucilati per le strade di Sacramento, o assassinati nelle case. Il governo federale prese il posto del governo dello Stato, e tutto fu perduto per la California. Anche altrove le cose andarono nello stesso modo. Tutti gli stati conquistati dagli agrari furono domati con la violenza e affogati nel sangue. Come sempre, dapprima il disordine era scatenato dagli agenti segreti e dalle Centurie Nere, e subito dopo venivano chiamate le truppe. La sommossa e il terrore regnavano in tutti i distretti rurali.

Giorno e notte, il fumo degli incendi delle fattorie, delle città e dei villaggi riempì completamente il cielo. Si ricorse all'uso della dinamite: si fecero saltare ponti e gallerie e deragliare i treni. I poveri contadini furono fucilati e impiccati in massa. Le rappresaglie furono terribili: numerosi plutocrati e ufficiali furono massacrati. I cuori erano assetati di sangue e di vendetta.

L'esercito regolare combatteva gli agrari con l'accanimento che avrebbe usato contro i pellirosse, né gli mancavano le scuse.

Duemilaottocento soldati erano stati annientati nell'Oregon da una spaventosa serie di esplosioni di dinamite, e numerosi treni militari erano stati distrutti nello stesso modo, così che i soldati difendevano la loro pelle, proprio come gli agricoltori.

Quanto alla milizia, la legge del 1903 venne applicata e i lavoratori di ogni stato furono obbligati, pena la morte, a fucilare i loro compagni degli altri stati. Naturalmente all'inizio le cose non andarono lisce: molti ufficiali e soldati della milizia furono uccisi o mandati a morte da stolte corti marziali. La profezia di Ernest nel caso dei signori Kowalt e Asmunsen si avverò con agghiacciante puntualità. Tutti e due, dichiarati idonei per la milizia, furono arruolati in California per la spedizione repressiva contro gli agricoltori del Missouri.

Tutti e due rifiutarono dl prestar servizio: ma non venne loro neppure concesso il tempo di confessarsi: portati davanti a una stolta corte marziale, furono condannati. Morirono entrambi con la schiena rivolta al plotone di esecuzione.

Molti giovani, per non servire nella milizia, si rifugiarono nelle montagne diventando fuorilegge, e solo quando la pace fu ristabilita ebbero la loro punizione. Non avevano guadagnato nulla aspettando, perché il governo fece un proclama invitando i cittadini al di fuori della legge ad abbandonare le montagne entro il termine massimo di tre mesi. Alla scadenza del termine, mezzo milione di sodlati furono mandati nelle regioni montane, e non ci fu né processo, né giudizio: ogni uomo che incontravano era ucciso sul posto. La truppa agiva in base al criterio che solo i proscritti erano rimasti in montagna. Qualche gruppo, trincerato in forti posizioni, resistette valorosamente, ma alla fine tutti i disertori furono sterminati.

Nella mente della popolazione venne intanto impressa una lezione più immediata con il castigo inflitto alla milizia ribelle del Kansas. Il grande ammutinamento del Kansas si verificò proprio all'inizio delle operazioni militari contro gli agrari. Seimila uomini della milizia si sollevarono: da parecchie settimane erano inquieti e scontenti ed erano tenuti in consegna per questo motivo. E' fuori dubbio, però, che la prima rivolta fu anticipata da agenti provocatori.

Nella notte del 22 aprile, gli uomini di truppa si ammutinarono e uccisero gli ufficiali, di cui solo pochi poterono sfuggire al massacro. Questo oltrepassava il programma del Tallone di Ferro, i cui agenti avevano lavorato sin troppo bene. Ma tutto faceva gioco per la plutocrazia, ormai pronta per l'esplosione: l'uccisione di tanti ufficiali fornì una giustificazione per quanto avvenne in seguito. Come per magia, sbucarono fuori quarantamila uomini dell'esercito regolare che circondarono l'accampamento, o meglio, la trappola. Gli infelici militi si accorsero che le cartucce prese al deposito non erano del calibro dei loro fucili, e innalzarono la bandiera bianca per arrendersi, ma inutilmente: nessuno di loro sopravvisse. I seimila furono sterminati fino all'ultimo uomo. Dapprima bombardati a distanza con obici e granate, furono poi falciati a colpi di mitragliatrice mentre si lanciavano disperatamente contro le schiere che li circondavano.

Ho parlato con un testimone oculare: mi ha detto che neppure un milite poté avvicinarsi a meno di cinquanta metri da quella macchina micidiale. Il suolo era cosparso di cadaveri. In una carica finale di cavalleria, i feriti furono massacrati a colpi di sciabola e di rivoltella e schiacciati sotto gli zoccoli dei cavalli.

Mentre avveniva l'annientamento degli agrari, scoppiava la rivolta dei minatori, ultimo rantolo d'agonia del lavoro organizzato.

Dichiararono sciopero in centocinquantamila. Ma erano troppo dispersi in tanti paesi, per trarre vantaggio della loro forza numerica. Furono isolati nei loro distretti, battuti e obbligati a sottomettersi. Fu la prima operazione di reclutamento di schiavi, in massa. Pocock vi guadagnò i galloni di capociurma supremo, e insieme un odio inestinguibile da parte del proletariato (l). La sua vita fu soggetta a numerosi attentati: ma sembrava che possedesse un talismano contro la morte. I minatori devono a lui l'introduzione di un sistema di passaporto alla russa, che tolse loro la libertà di spostarsi all'interno del paese.

Nel frattempo, i socialisti resistevano. Mentre gli agrari cadevano fra le fiamme e il sangue, mentre il sindacalismo era smantellato, noi rimanevamo compatti e perfezionavamo le nostre organizzazioni segrete. Inutilmente gli agrari ci rimproveravano.

Noi rispondevamo, e con ragione, che qualunque rivolta da parte nostra sarebbe stata la fine di ogni rivoluzione, per sempre. Il Tallone di Ferro, dapprima titubante circa il modo di agire verso l'intero proletariato, avrebbe trovato le cose più semplici e lisce di quanto non si aspettasse, e non avrebbe desiderato altro, per finirla una buona volta, che una sollevazione da parte nostra.

Ma noi lo prevenimmo, nonostante gli innumerevoli agenti provocatori nelle nostre file, che usavano sistemi molto grossolani, a quei tempi, e avevano molto da imparare. I nostri Gruppi di Combattimento li eliminarono a poco a poco.

Fu un compito arduo e sanguinoso, ma lottavamo per la nostra vita e per la Rivoluzione, ed eravamo obbligati a combattere il nemico con le sue stesse armi. Però noi combattevamo con lealtà. Nessun agente del Tallone di Ferro fu giustiziato senza processo. Può darsi che siano stati commessi errori, ma se vi furono, furono molto rari. I nostri Gruppi di Combattimento erano formati dai migliori compagni, dai più arditi, dai più disposti al sacrificio.

Un giorno, dopo dieci anni, Ernest fece un calcolo: avvalendosi dei dati forniti dai capi di questi gruppi, calcolò che la durata media di vita degli iscritti, uomini e donne, non oltrepassasse i cinque anni. Tutti i compagni dei Gruppi di Combattimento erano eroi; e il più strano è che a tutti ripugnava attentare alla vita umana. Quegli amanti della libertà, facevano violenza alla loro natura, pensando che nessun sacrificio era troppo grande per una causa tanto nobile.

Lo scopo che ci eravamo prefissi era triplice. Volevamo innanzitutto liberare le nostre file dagli agenti provocatori; in seguito, organizzare i Gruppi di Combattimento all'infuori dell'organizzazione segreta e generale della Rivoluzione; per ultimo, introdurre i nostri agenti scelti in tutti i rami dell'oligarchia, nelle caste operaie, specialmente i telegrafisti, segretari e commessi, nell'esercito, fra le spie e i guardia- schiavi. Era un'opera lenta e pericolosa, e spesso i nostri sforzi fallivano dolorosamente.

Il Tallone di Ferro aveva trionfato nella guerra aperta; ma noi stavamo all'erta, nell'altra guerra, sotterranea, sconcertante e terribile, che avevamo intrapreso. In questa lotta tutto era invisibile, quasi tutto imprevisto: come una lotta fra ciechi, ma svolta con molto ordine, secondo uno scopo e una direttiva. I nostri agenti si insinuavano fra gli ingranaggi di tutta l'organizzazione del Tallone di Ferro mentre la nostra era permeata di agenti avversari; secondo una tattica tortuosa e oscura, piena di intrighi e cospirazioni, complotti e controcomplotti. E dietro tutto questo, sempre minacciosa, si ergeva la morte, la morte violenta e terribile. Uomini e donne sparivano, i nostri migliori, i nostri più cari compagni.

Scomparivano da un giorno all'altro e non li rivedevamo più, apprendevamo che erano morti.

Non esistevano più né sicurezza né fiducia. L'uomo che complottava con noi poteva essere un agente del Tallone Ferro, per quel che ne sapevamo. Ma era lo stesso dalle due parti; eppure eravamo costretti a basarci sulla fiducia e la certezza. Fummo spesso traditi; la natura umana è debole. Il Tallone di Ferro poteva offrire denaro e divertimenti e le gioie e i piaceri che le sue meravigliose città riposanti consentivano; noi non avevamo altro da offrire che la soddisfazione di essere fedeli a un nobile ideale, e questa lealtà non aspettava altra ricompensa che il continuo pericolo, la tortura e la morte.

L'uomo è debole, ho detto, e a causa di questa debolezza eravamo costretti a offrire l'unica ricompensa che ci era consentita: la morte. Era una necessità per noi punire i traditori. Quando accadeva che uno dei nostri ci tradisse, uno o più vendicatori fedeli erano lanciati alle sue calcagna. Poteva accadere di fallire nell'esecuzione dei nostri decreti contro nostri nemici, come nel caso di Pocock, ma la punizione era infallibile quando si trattava di castigare i falsi fratelli. Alcuni compagni si lasciarono corrompere col nostro permesso, per avere accesso nelle città meravigliose e eseguirvi le nostre sentenze contro i veri traditori. Ma, in fondo, esercitavamo un tale timore che era più pericoloso tradirci che restarci fedeli.

La Rivoluzione assunse un carattere profondamente religioso.

Adoravamo davanti all'altare della Rivoluzione, che era quello della Libertà. Il suo spirito divino ci rischiarava. Uomini e donne si consacravano alla Causa e a essa votavano i loro nati, come un tempo al servizio di dio. Eravamo gli adoratori dell'Umanità.

NOTE:

1) Albert Pocock, altro famoso crumiro degli anni precedenti, che fino alla morte riuscì a tenere soggetti tutti i minatori del paese. Gli successe il figlio, Levis Pocock, e durante cinque generazioni quella famosa razza di schiavisti regnò sulle miniere di carbone.

Pocock il vecchio, conosciuto con il nome di Pocock primo, è stato descritto così: "Una testa lunga sottile, per metà circondata da una frangia di capelli scuri e grigi, con zigomi sporgenti e un grosso mento... Colorito pallido, occhi grigi senza splendore, voce metallica e un atteggiamento languido". Era nato da genitori poveri e aveva cominciato la sua carriera come garzone di bar.

Divenne in seguito poliziotto privato al servizio di una società ferroviaria e si trasformò a poco a poco in crumiro di professione. Pocock quinto, ultimo della schiatta, morì per lo scoppio di una bomba durante una rivolta di minatori nel Territorio Indiano. Questo avvenne nel 2073 dell'era cristiana.

2) Quei gruppi d'azione furono modellati in genere sul tipo delle organizzazioni dei combattenti della Rivoluzione Russa e, malgrado gli sforzi incessanti del Tallone di ferro, resistettero tre secoli, cioè per tutto il periodo della sua esistenza.

Composti da uomini e donne ispirati da ideali sublimi, e impavidi davanti alla morte, i Gruppi di Combattimento esercitarono una prodigiosa influenza e moderarono la brutalità dei governanti. La loro opera non si limitò a una guerra invisibile contro gli agenti dell'oligarchia. Gli stessi oligarchi, e spesso persino i subordinati degli oligarchi, gli ufficiali dell'esercito e i capi delle caste operaie, furono obbligati a prendere in considerazione i decreti dei Gruppi, e quando disobbedivano erano puniti con la morte. Le sentenze di questi rivendicatori organizzati erano conformi alla più rigorosa giustizia; soprattutto era notevole la loro procedura imparziale e perfettamente giuridica. Non c'erano giudizi improvvisati. Quando un uomo era preso, era giudicato lealmente e aveva la possibilità di difendersi. Necessariamente, molti furono processati e condannati in contumacia, come nel caso del generale Lampton, nel 2138 d.C. Questi era forse il più sanguinario e il più crudele dei mercenari dell'oligarchia. Fu informato dai Gruppi di Combattimento che era stato giudicato, riconosciuto colpevole e condannato a morte; e questo avvertimento gli venne dato dopo averlo tre volte esortato a cessare dal trattare ferocemente il proletariato. Alla notizia della condanna Lampton prese ogni precauzione possibile e immaginabile, e per anni i Gruppi di Combattimento si sforzarono invano di eseguire la loro sentenza. Molti compagni, uomini e donne, fallirono nel loro tentativo e furono crudelmente condannati dall'oligarchia. Fu proprio il caso del generale Lampton a far riesumare la crocifissione come mezzo di esecuzione legale. Ma alla fine il condannato trovò il suo giustiziere nella persona di una giovane di diciassette anni, Madeline Provence, che per ottenere il suo scopo serviva da due anni nel palazzo come guardarobiera. Essa morì, dopo torture orribili e prolungate in una cella. Oggi la sua statua di bronzo sorge nel Pantheon della Fratellanza, nella meravigliosa città di Serles.

Noi che ignoriamo gli spargimenti di sangue, non dobbiamo giudicare troppo severamente gli eroi dei Gruppi di Combattimento.

Essi hanno dato la loro vita per l'umanità, per la quale nessun sacrificio sembrava troppo grande. D'altra parte, una necessità inesorabile li costringeva a dare al loro sentimento, in un'epoca sanguinaria, una forma sanguinosa. I Gruppi di Combattimento furono l'unica freccia nel fianco che il Tallone di Ferro non poté estirparsi. A Everhard spetta la paternità di questo strano esercito. I suoi successi e la sua resistenza, durante trecento anni, mostrano la saggezza con la quale egli organizzò, e la solidità delle basi da lui gettate perché le generazioni successive vi costruissero sopra. Da un certo punto di vista, questa organizzazione può essere considerata la sua opera principale, a parte il grande valore dei suoi contributi economici e sociali e le sue gesta di massimo dirigente della Rivoluzione.

Capitolo 17

LA LIVREA SCARLATTA

Con la devastazione degli stati agrari, i rappresentanti di questo partito sparirono dal Congresso. Furono istituiti processi per alto tradimento e il loro posto fu occupato da creature del Tallone di Ferro. I socialisti vennero a trovarsi in pietosa minoranza e capirono che la loro fine era vicina. Il Congresso e il Senato erano ormai pure e semplici finzioni, delle farse. I problemi pubblici vi erano dibattuti con gravità e votati secondo le forme tradizionali, ma servivano solo a convalidare con una procedura costituzionale gli atti dell'oligarchia.

Ernest si trovava nel fitto della mischia quando sopraggiunse la fine. Fu durante la discussione di un disegno di legge per l'assistenza agli scioperanti. La crisi dell'anno prima aveva ridotto vaste masse del proletariato a un livello ancora più basso di quello della fame, e il propagarsi e prolungarsi dei disordini le sprofondavano sempre più in basso. Milioni di persone morivano di fame, mentre gli oligarchi e i loro sostenitori si rimpinzavano a dismisura (1). Chiamavamo quegli infelici, il popolo dell'abisso (2): e per alleviare le loro sofferenze, i socialisti avevano presentato quel disegno di legge, che al Tallone di Ferro non piacque. Aveva infatti il suo modo di vedere, per quanto riguardava la sistemazione di milioni di esseri, e siccome questa concezione non era la nostra, aveva dato ordini affinché questo progetto venisse respinto.

Ernest e i suoi compagni sapevano che il loro sforzo sarebbe stato vano ma, stanchi di essere tenuti nell'incertezza, desideravano una decisione, qualunque essa fosse. Non riuscendo a ottenere nulla, speravano almeno di porre termine a quella farsa legislativa in cui eravamo costretti a recitare un ruolo passivo.

Ignoravamo quale aspetto avrebbe assunto la scena finale; ma non l'avremmo mai immaginata più drammatica di quanto fu poi in realtà.

Quel giorno mi trovavo nella tribuna riservata al pubblico.

Sapevamo tutti che sarebbe accaduto qualcosa di terribile. Era nell'aria, e la sua presenza era resa visibile dalle truppe allineate nei corridoi e dagli ufficiali raggruppati davanti alle porte dello stesso Congresso. L'oligarchia stava evidentemente per sferrare il gran colpo.

Ernest aveva preso la parola e descriveva le sofferenze dei disoccupati, come se accarezzasse la folle speranza di intenerire quei cuori e quelle coscienze: ma i membri repubblicani e democratici sogghignavano e si burlavano di lui, interrompendolo con esclamazioni e rumori.

Improvvisamente, Ernest cambiò tattica: "So benissimo che nulla di quanto dico potrà influire su di voi", esclamò: "non avete anima.

Siete degli invertebrati, dei rammolliti. Vi chiamate pomposamente repubblicani e democratici, ma non esiste un partito di questo nome: in questa Camera non ci sono né repubblicani né democratici.

Non siete altro che degli adulatori e ruffiani delle creature della plutocrazia. Parlate all'antica del vostro amore per la libertà, voi che indossate la livrea scarlatta del Tallone di Ferro".

La sua voce fu coperta dalle grida: "Abbasso, abbasso!" e lui aspettò, sdegnosamente, che il clamore si calmasse. Allora, aprendo le braccia, come per abbracciarli tutti, volgendosi verso i compagni gridò:

"Ascoltate il muggito delle bestie ben pasciute!".

Scoppiò un pandemonio. Il presidente batteva sul tavolo per ottenere il silenzio e lanciava occhiate agli ufficiali ammucchiati davanti alle porte. Ci furono delle grida di "Sedizione!" e un membro di New York, noto per la sua rotondità, lanciò l'epiteto di "Anarchico!".

L'aspetto di Ernest non era dei più rassicuranti: tutto il suo spirito combattivo vibrava, la sua espressione era quella di un animale aggressivo. E tuttavia rimaneva calmo e padrone di sé.

"Ricordate", gridò con voce che copriva il tumulto, voi non mostrate alcuna pietà per il proletariato, ricordate che verrà il giorno in cui il proletariato non avrà pietà di voi".

Le grida di Sedizioso! Anarchico! raddoppiarono.

"So che non voterete questo disegno di legge", continuò Ernest.

"Avete avuto dai vostri padroni l'ordine di votare contro. E osate trattarmi da anarchico, voi che avete distrutto il governo del popolo, voi che apparite in pubblico con la vostra vergognosa livrea scarlatta! Non credo nel fuoco dell'inferno, ma a volte mi spiace e sono tentato di crederci; in questo momento, per esempio, perché lo zolfo e la pece non sarebbero una punizione eccessiva per i vostri delitti. Finché esisteranno i vostri simili, l'inferno sarà una necessità cosmica".

Ci fu un movimento alle porte. Ernest, il presidente e tutti i deputati si volsero a guardare in quella direzione.

"Perché non ordinate ai vostri soldati di entrare, di compiere il loro lavoro, signor presidente?" chiese Ernest. "Essi obbedirebbero subito".

"Ci sono altri piani", fu la risposta, "per questo i soldati sono qui".

"Piani contro di noi, immagino", schernì Ernest. "Assassinio o qualcosa del genere".

Alla parola "assassinio" il tumulto ricominciò. Ernest non riusciva più a farsi sentire, rimase tuttavia in piedi, aspettando che tornasse la calma. In quel momento avvenne. Dal mio posto in tribuna vidi soltanto il lampo di un'esplosione. Il rumore mi stordì: vidi Ernest vacillare e cadere in una nube di fumo, mentre i soldati si precipitavano nei corridoi tra i seggi. I suoi compagni balzarono in piedi, inferociti, pronti a qualsiasi violenza, ma Ernest li calmò per qualche attimo, e agitò le braccia per imporre il silenzio.

"E' un complotto", urlò, mettendo in guardia i compagni. "Non vi muovete o sarete tutti uccisi".

Detto questo, si afflosciò lentamente, proprio quando i soldati giungevano sino a lui. Un istante dopo, fecero sgombrare le tribune e non vidi più nulla.

Sebbene fosse mio marito, non mi permisero di avvicinarlo; anzi, appena detto il mio nome fui arrestata. Contemporaneamente, furono arrestati tutti i membri socialisti del Congresso presenti a Washington, compreso l'infelice Simpson, obbligato a letto in albergo da una febbre tifoidea.

Il processo fu rapido: tutti erano già condannati. Quanto a Ernest, lo straordinario è che non fu giustiziato. Fu uno sbaglio dell'oligarchia, e le costò caro. A quel tempo era troppo sicura di sé; inebriata dal successo, non credeva che un manipolo di eroi potesse avere la forza di minare la sua solida base. Domani, quando scoppierà la grande rivolta, e tutto il mondo risuonerà dei passi in marcia di milioni e milioni, l'oligarchia capirà, ma troppo tardi, fino a che punto si sia ingigantita quella banda di eroi.

Come rivoluzionaria, una che era all'interno del partito e conosceva le speranze, i timori e i piani segreti dei rivoluzionari, sono in grado, come pochi, di rispondere all'accusa lanciata contro di loro di aver fatto esplodere quella bomba nel Congresso. E posso affermare tranquillamente, senza riserve né dubbi, che i socialisti, sia quelli del Congresso sia quelli di fuori, erano estranei all'esplosione. Non sappiamo chi abbia lanciato l'ordigno, siamo però sicuri che non fu lanciato da nessuno dei nostri.

D'altra parte, diversi indizi tendono a dimostrare che il Tallone di Ferro sia il responsabile di quell'atto. Naturalmente, non possiamo provarlo, e la nostra conclusione è solo fondata su induzioni. Ma ecco i fatti, quali ci risultano. Il presidente della Camera era stato informato dagli agenti segreti del governo, che i membri socialisti del Congresso sarebbero passati alla tattica terroristica e che avevano già fissato il giorno del loro esordio, che era esattamente quello dell'esplosione. Per precauzione, il Campidoglio era stato circondato dalla truppa.

Poiché noi non sapevamo nulla della faccenda della bomba, poiché una bomba era scoppiata realmente, e le autorità avevano preso le debite misure di sicurezza, è più che naturale concludere che il Tallone di Ferro fosse informato di tutto. Sosteniamo inoltre che il Tallone di Ferro fu il vero colpevole di quell'attentato, che preparò e eseguì con lo scopo di farne cadere la colpa su di noi, causando la nostra rovina.

Dal presidente, la notizia trapelò a tutti i membri della Camera che indossavano la livrea. Durante il discorso di Ernest, sapevano dunque che sarebbe stato commesso un atto di violenza; e bisogna render loro giustizia: essi credevano sinceramente che sarebbe stato commesso dai socialisti. Al processo, sempre in buona fede, molti dichiararono di aver visto Ernest prepararsi a lanciare la bomba, scoppiata poi anzitempo. Naturalmente non avevano visto niente, ma nella loro fantasia, stimolata dalla paura, credettero di aver visto veramente.

Come dichiarò Ernest al processo: "E' ragionevole pensare che se avessi avuto intenzione di lanciare una bomba, avrei mai scelto una così piccola bomba inoffensiva? Non conteneva neppure polvere sufficiente. Ha fatto molto fumo senza ferire nessuno all'infuori di me. E' scoppiata proprio ai miei piedi e non mi ha ucciso.

Credetemi, quando mi metterò a lanciare bombe, farò danni sul serio. I miei petardi non faranno solo fumo".

Il pubblico ministero replicò che la debolezza dell'ordigno era dovuta a errore dei socialisti, e così l'esplosione intempestiva, avendo Ernest lasciato cadere l'ordigno per nervosismo. E quest'argomentazione fu confermata dalla testimonianza di coloro che pretendevano di aver visto Ernest maneggiare la bomba e lasciarla cadere.

Dal canto nostro, nessuno sapeva come fosse stata lanciata. Ernest mi disse che un attimo prima dell'esplosione l'aveva sentita e vista cadere a terra vicino a lui. Lo affermò pure al processo, ma nessuno gli credette. D'altronde la cosa era "cucinata", secondo l'espressione popolare. Il Tallone di Ferro aveva deciso di distruggerci, e non esisteva difesa possibile.

Secondo un proverbio, la verità finisce sempre con il trionfare (4): comincio a dubitarne. Diciannove anni sono trascorsi, e con tutti i nostri sforzi incessanti, non siamo riusciti a scoprire chi lanciò veramente la bomba. Evidentemente dovette essere stato un agente del Tallone di Ferro, ma non siamo mai riusciti a raccogliere il benché minimo indizio sulla sua identità, e oggi non rimane che classificare la cosa fra i misteri della storia.

NOTE:

1) Condizioni simili si osservano in India, nel secolo diciannovesimo, sotto il dominio britannico. Gli indigeni morivano di fame a milioni, mentre i loro padroni li privavano del frutto del lavoro che spendevano in cerimonie e cortei feticisti. Non possiamo non vergognarci, in questo secolo di lumi, della condotta dei nostri antenati, e dobbiamo limitarci a pensare filosoficamente che nell'evoluzione sociale lo stadio capitalistico sta, pressapoco, come l'età scimmiesca all'epoca dell'evoluzione animale. L'Umanità doveva superare quei periodi per uscire dal fango degli organismi inferiori; e le era naturalmente difficile liberarsi interamente di quella viscida feccia.

2) Questa espressione è una trovata dovuta al genio di H. G.

Wells, che visse alla fine del secolo diciannovesimo. Fu un veggente in fatto di sociologia, uno spirito sano e normale, e nello stesso tempo un cuore veramente umano. Numerosi frammenti delle sue opere sono giunti fino a noi, e due delle sue opere migliori: "Anticipations" e "Mankind in the Making" ci sono arrivate intatte.

Prima degli oligarchi, e prima di Everhard, Wells aveva previsto la costruzione di città meravigliose di cui parla nei suoi libri chiamandole città del piacere.

3) Persuasa che le sue memorie fossero state lette dai suoi contemporanei, Avis Everhard non accenna al risultato del processo per alto tradimento. Ci sono nel manoscritto molte altre lacune del genere. Cinquantadue membri socialisti del Congresso furono processati e giudicati colpevoli. Stranamente nessuno fu condannato a morte. Everhard e undici altri, fra cui Theodore Donnelson e Matthew Kent, furono condannati all'ergastolo.

Gli altri quaranta furono condannati, chi a trenta chi a quarantacinque anni, mentre Arthur Simpton, che il manoscritto dice ammalato di tifoidea al momento dell'esplosione, non ebbe che quindici anni di carcere. Secondo la tradizione, fu lasciato morire di fame nella sua cella per punirlo della sua intransigenza ostinata e del suo odio ardente e indefettibile per tutti servi del dispotismo. Morì a Cabanas, nell'isola di Cuba, dove tre altri suoi compagni erano detenuti. I cinquantadue socialisti del Congresso furono rinchiusi nelle fortezze militari sparse in tutti gli Stati Uniti: così, Dubois e Woods furono rinchiusi a Porto Rico; Everhard e Merryweather nell'isola di Alcatraz, nella baia di San Francisco, che da molto tempo serviva da prigione militare.

4) Avis Everhard avrebbe dovuto aspettare molte generazioni per ottenere la rivelazione del mistero. Quasi cento anni fa e quindi più di seicento anni dopo la sua morte, fu scoperta negli archivi segreti del Vaticano la confessione di Pervaise. Non sarà forse inopportuno fare qualche accenno a quest'oscuro documento, sebbene ormai non abbia più per gli storici alcun valore.

Pervaise, un americano di origine francese, nel 1913 era in prigione a New York, in attesa di essere processato per omicidio.

Sappiamo, dalla sua confessione, che senza essere un criminale incallito, aveva un carattere impulsivo, impressionabile e appassionato. In un impeto di folle gelosia aveva ucciso la moglie, cosa abbastanza diffusa a quel tempo. Il terrore della morte s'impadronì di lui, come raccontò in seguito lui stesso, e per sfuggirne sarebbe stato disposto a fare qualunque cosa. Gli agenti segreti, per ridurlo alle loro mire, gli confermarono che si era reso colpevole di omicidio di primo grado, delitto che era punito con la pena capitale. Il condannato veniva legato a una apposita sedia e, sotto il controllo di medici specialisti, ucciso dalla corrente elettrica. Questo tipo di esecuzione, chiamato sedia elettrica, era molto in voga, a quel tempo: solo in seguito fu sostituito dall'anestesia. Costui, brav'uomo in fondo, ma natura superficiale improntata a una animalità violenta, aspettando in una cella l'inevitabile morte, si lasciò facilmente convincere a gettare una bomba nel Congresso. Dichiara, anzi, nella sua confessione, che gli agenti del Tallone di Ferro gli assicurarono che l'ordigno sarebbe stato inoffensivo, e che non avrebbe ucciso nessuno. Fu introdotto di nascosto in un palco, ufficialmente chiuso per riparazioni. Avrebbe dovuto scegliere lui il momento opportuno per gettare la bomba, ma confessa, ingenuamente, che fu talmente preso dal discorso di Ernest e dal tumulto da esso suscitato, che per poco non dimenticò il compito affidatogli.

Non solo Pervaise fu scarcerato, ma gli fu concessa una pensione a vita. Non doveva godersela a lungo, però: nel settembre del 1914 fu colpito da reumatismo al cuore e morì dopo tre giorni. Mandò a chiamare un prete cattolico, al quale si confessò. Padre Durban, considerandola molto grave, rimise la sua confessione per scritto e la firmò come testimone. Noi possiamo soltanto fare delle congetture su quanto avvenne dopo. Il documento era certo abbastanza importante per trovare la via di Roma. Potenti influenze furono messe in movimento per evitarne la divulgazione.

Soltanto nel secolo scorso, Lorbia, il celebre scienziato italiano, durante le sue ricerche, lo scoprì. Oggi, dunque, non rimane alcun dubbio che il Tallone di Ferro sia responsabile dell'esplosione del 1913. E anche se la confessione di Pervaise non fosse mai venuta alla luce, non vi sarebbe stato alcun dubbio ragionevole: quell'episodio che mandò in prigione cinquanquantadue deputati, è della stessa natura di tanti altri, sanguinosi, commessi dagli oligarchi e, prima di essi, dai capitalisti.

Come esempio classico di massacri di innocenti, commessi con ferocia e indifferenza, bisogna citare quello dei cosiddetti anarchici di Haymarket, a Chicago, nella penultima decade del secolo diciannovesimo. Esempio a sé, è poi l'incendio doloso e la distruzione dei possedimenti capitalistici compiuti dai capitalisti medesimi. Per delitti di questo genere furono puniti numerosi innocenti "incastrati" come si usava dire a quel tempo.

Durante le sommosse operaie della prima decade del secolo ventesimo, nei disordini fra i capitalisti e la Federazione Occidentale dei Minatori, fu usata una tattica simile, ma più sanguinosa. Gli agenti dei capitalisti fecero saltare in aria la stazione ferroviaria di Independence: tredici uomini furono uccisi e molti altri feriti. I capitalisti che guidavano il meccanismo legislativo e giudiziario dello stato del Colorado, accusarono di questo delitto i minatori e per poco non li fecero condannare.

Romaines, uno degli strumenti di questo "affare", era in prigione in un altro stato, nel Kansas, quando gli agenti dei capitalisti gli proposero il colpo. Ma le confessioni di Romaines, al contrario di quelle di Pervaise furono pubblicate quando era ancora in vita. Nello stesso tempo, vi fu ancora il caso di Moyer e Haywood, due dirigenti sindacali forti e risoluti: l'uno presidente e l'altro segretario della Federazione Occidentale dei Minatori. L'ex governatore dell'Idaho era stato assassinato misteriosamente: i socialisti e i minatori avevano apertamente incolpato di questo delitto i proprietari delle miniere. Ma, violando le norme costituzionali statali, in seguito a una intesa fra i governatori dell'Idaho e del Colorado, Moyer e Haywood furono presi, gettati in carcere e accusati di omicidio. Questo provocò la seguente dichiarazione di Eugene V. Debs, dirigente dei socialisti americani di quel tempo: "I dirigenti sindacali che non si possono corrompere si arrestano, e si assassinano. Moyer e Haywood, sono colpevoli soltanto del reato di fedeltà, tenace e incorrotta, alla classe operaia. I capitalisti hanno spogliato il nostro paese, corrotto la nostra politica, disonorato la nostra giustizia; ci hanno calpestato e ora si propongono dl ammazzare coloro che non sono così abietti da sottomettersi al loro brutale dominio. I governatori del Colorado e dell'Idaho non fanno che eseguire gli ordini dei loro padroni, i plutocrati. La lotta è incominciata fra i lavoratori e la plutocrazia. Questa può, sì, sferrare il primo colpo violento, ma noi sferreremo l'ultimo".

Capitolo 18

ALL'OMBRA DELLA SONOMA

Di me, durante quel periodo, non ho molto da dire. Fui tenuta sei mesi in carcere senza alcuna imputazione. Ero una "sospetta", parola tremenda che doveva essere ben presto conosciuta da tutti i rivoluzionari. Ma il nostro servizio segreto, appena organizzato, cominciava a funzionare. Verso la fine del secondo mese di prigionia, uno dei miei carcerieri mi si rivelò come un rivoluzionario in rapporto con la nostra organizzazione. Alcune settimane dopo, Joseph Parkhurst, che era appena stato nominato medico delle carceri, si fece conoscere come membro di uno dei nostri Gruppi di Combattimento.

Così, attraverso tutta la trama dell'oligarchia, la nostra organizzazione tesseva insidiosamente la sua tela. Ero informata di quanto avveniva all'esterno, e ognuno dei nostri dirigenti reclusi era in contatto con i nostri bravi compagni, che si celavano sotto la livrea del Tallone di Ferro. Quantunque Ernest fosse rinchiuso a tremila miglia lontano, sulla costa del Pacifico, ero continuamente in comunicazione con lui, così che potemmo corrispondere con perfetta regolarità.

I nostri dirigenti, prigionieri o liberi, potevano dunque discutere e dirigere il movimento. Sarebbe stato facile, dopo alcuni mesi, far evadere parecchi di loro, ma poiché il carcere non limitava la nostra attività, risolvemmo di evitare ogni tentativo prematuro. Cinquantadue parlamentari e più di trecento dirigenti rivoluzionari erano in prigione. Decidemmo di liberarli tutti insieme. L'evasione di pochi avrebbe allarmato gli oligarchi, e, forse, impedito la liberazione degli altri. D'altra parte, pensavamo che quella fuga collettiva, organizzata in tutto il paese, avrebbe avuto sul proletariato un grosso effetto psicologico, e che quella dimostrazione della nostra forza avrebbe ispirato fiducia a tutti.

Si convenne, dunque, quando fui rilasciata dopo sei mesi, che avrei dovuto sparire e preparare un rifugio sicuro per Ernest. Ma non era facile appena in libertà, le spie del Tallone di Ferro mi si misero alle calcagna. Bisognava far perdere le tracce e andare in California. Ci riuscimmo, alla fine, in maniera abbastanza divertente. Il sistema dei passaporti, copiato dai russi, stava già sviluppandosi; se volevo rivedere Ernest dovevo far perdere completamente le mie tracce, perché se fossi stata seguita lo avrebbero riacciuffato. D'altro canto, non potevo neppure viaggiare vestita da proletaria; non mi rimaneva altro espediente se non quello di fingermi membro dell'oligarchia. Gli oligarchi supremi erano pochi, ma migliaia di persone di minor valore, come Wickson, per esempio, che possedevano milioni, erano i satelliti degli altri maggiori. Poiché le mogli e le figlie di questi oligarchi minori erano numerosissime, fu deciso che mi sarei spacciata per una di loro. Anni dopo, la cosa sarebbe stata impossibile, perché il sistema dei passaporti fu così perfezionato che tutti, uomini donne e bambini, furono registrati, e seguiti nei loro spostamenti.

Al momento opportuno, i miei pedinatori furono sviati dalla mia pista. Un'ora dopo Avis Everhard non esisteva più, mentre una certa signora Felice Van Verdighan, accompagnata da due cameriere e da un cagnolino, nonché un'altra cameriera per detto cagnolino (1), saliva su un vagone pullman (2) che, qualche istante dopo, filava verso occidente.

Le tre cameriere che mi accompagnavano erano tre rivoluzionarie, di cui due facevano parte dei Gruppi di Combattimento, e la terza, Grace Holbrook, ammessa l'anno seguente a far parte di un gruppo, fu giustiziata sei mesi dopo dal Tallone di Ferro. Era lei che serviva il cagnolino. Delle altre due, una, Bertha Stole, scomparve dodici anni dopo; l'altra, Anna Roylston, vive ancora e ha parte sempre più importante nella rivoluzione (3).

Attraversammo gli Stati Uniti, senza il minimo incidente fino alla California. Quando il treno giunse a Oakland, alla stazione della Sedicesima Strada, scendemmo e Felice Van Verdighan scomparve per sempre, con le due cameriere, il cane e la cameriera del cane. Le tre giovani andarono con dei compagni fidati, altri si incaricarono di me. Mezz'ora dopo essere sbarcata dal treno, ero a bordo di un piccolo battello da pesca nelle acque della baia di San Francisco. Sbalzati da terribili raffiche di vento, andammo alla deriva per quasi tutta la notte, ma vedevo le luci di Alcatraz, dove Ernest era rinchiuso, e quella vicinanza mi confortava. All'alba, a forza di remi, raggiungemmo le Marin Islands. Là rimanemmo nascosti tutto il giorno; la notte seguente, portati dalla marea e spinti dal vento, attraversammo in due ore la baia di San Pablo e risalimmo il Petaluma Creek.

Un altro compagno mi aspettava con i cavalli, e senza indugi ci mettemmo in cammino, al lume delle stelle. A nord vedevo la massa indistinta della Sonoma Mountain, verso la quale eravamo diretti.

Lasciammo alla nostra destra la vecchia città di Sonoma e risalimmo un canyon che sprofondava tra i primi contrafforti della montagna. La strada da carreggiabile divenne sentiero e poi una semplice mulattiera, che finì col perdersi tra i pascoli dell'alta montagna. Raggiungemmo a cavallo la cima del monte Sonoma. Era questo il cammino più sicuro, perché là nessuno poteva osservare il nostro passaggio.

L'alba ci sorprese sulla cresta del versante settentrionale, e nella luce grigia ci inoltrammo, giù in discesa, tra sequoie e canyon ancora lambiti dal calore dell'estate morente. Era quello il mio paesaggio, lo conoscevo e lo ammiravo, e ben presto divenni io la guida. Era il mio nascondiglio, l'avevo scelto io. Ci inoltrammo su un pascolo d'altura e l'attraversammo; poi, oltrepassata una piccola altura ricoperta di querce, scendemmo su un pascolo più piccolo e risalimmo un'altra cresta, questa volta all'ombra dei mandronos e dei manzanitas dorati. I primi raggi del sole ci colpirono alla schiena mentre salivamo. Un volo di quaglie si levò con un frullo dal bosco; un grosso coniglio ci tagliò la strada a salti rapidi e silenziosi; un daino al quale il sole indorava il collo e le spalle, valicò la cresta davanti a noi e scomparve. Seguimmo per un tratto la pista dell'animale, discendemmo poi a picco, seguendo un sentiero a zig-zag che l'animale aveva disegnato, nel folto di un magnifico gruppo di sequoie che contornava uno stagno dalle acque rese scure dai minerali che contenevano. Conoscevo quel cammino sin nei minimi particolari perché un tempo uno scrittore, mio amico, aveva posseduto là una fattoria. Anche lui era diventato rivoluzionario, ma con minore fortuna di me, perché era già sparito, e nessuno aveva saputo dove né come fosse morto. Lui solo conosceva il nascondiglio verso il quale mi dirigevo. Aveva comprato la fattoria per la bellezza pittoresca del posto, e l'aveva pagata cara, con grande scandalo dei fattori del luogo. Si divertiva a raccontarmi che quando diceva il prezzo pagato quelli scuotevano il capo costernati e, dopo una serie di calcoli mentali, esclamavano: "Non potrà ricavarne neppure il sei per cento".

Ma era morto, e i suoi figli non avevano ereditato la fattoria.

Caso strano, essa apparteneva ora al signor Wickson che possedeva tutto il pendio orientale e settentrionale della Sonoma Mountain, dalla proprietà degli Spreckels fino alla linea di demarcazione della Bennett Valley. Ne aveva fatto un magnifico parco di daini, che si stendeva per migliaia di acri di prateria in pendio dolce, di boschi e canyon, dove gli animali s'aggiravano in libertà come se fossero allo stato selvaggio. Gli antichi proprietari del terreno erano stati scacciati, e un asilo per menomati mentali era stato demolito per far posto ai daini.

Come se tutto questo non bastasse, il padiglione di caccia del signor Wickson era situato a un quarto di miglio dal mio rifugio.

Ma questo, anziché un pericolo, costituiva una garanzia di sicurezza. Saremmo stati sotto la protezione di un oligarca minore. Bastava questo ad allontanare ogni sospetto. L'ultimo posto al mondo, in cui le spie del Tallone di Ferro potevano pensare di cercare Ernest e me, era certo il parco dei daini del signor Wickson.

Legammo i nostri cavalli tra le sequoie, vicino allo stagno. Da un nascondiglio fatto in un tronco marcio, il mio compagno tirò fuori varie cose: un sacco di farina di cinquanta libbre, cibi in scatola di ogni tipo, utensili da cucina, coperte di lana, tele cerate, libri e l'occorrente per scrivere, un grosso pacco di lettere, un bidone di cinque galloni di petrolio e un gran rotolo di grossa corda. Si trattava di una tale provvista di roba che sarebbero occorsi vari viaggi per trasportarla al nostro rifugio.

Per fortuna non era lontano. Presi il rotolo di corda e mi avviai avanti, inoltrandomi in un fitto di arbusti e virgulti che formavano, fra due alture boscose, una specie di viale verde che finiva bruscamente davanti alla riva scoscesa di un torrente. Era un piccolo corso d'acqua alimentato da sorgenti sotterranee che neppure nella più calda estate si seccava. Da ogni parte sorgevano alture boscose: ce n'erano molte, e sembravano gettate là dal gesto negligente di un Titano. S'innalzavano di qualche trentina di metri, erano prive di base rocciosa, composte solo di terra vulcanica rossa, la famosa terra color vino della Sonoma. Fra questi rialzi, il piccolo torrente si era scavato un letto molto scosceso e profondamente incassato.

Bisognò calarsi giù, per scendere fino al letto del torrente, d'una buona trentina di metri; dopo di che arrivammo al grande buco. Nulla rivelava l'esistenza di quel baratro, che non era un buco nel vero senso della parola. Ci si trascinava carponi, fra un'inestricabile confusione di arbusti e tronchi, e ci si trovava di colpo sul margine del baratro. Lungo e largo una sessantina di metri, era profondo circa la metà. Forse per qualche remota causa geologica, all'epoca della formazione delle alture, e certo per effetto di un'erosione capricciosa, l'escavazione era avvenuta nel corso dei secoli, causata dallo scolo delle acque. Di terra neppure l'ombra; tutto era immerso nella vegetazione: dalla sottile verginella alle felci dorate e alle imponenti sequoie e ai pini giganti. Questi grandi alberi s'innalzavano persino sulle pareti del baratro. Alcuni erano inclinati di quarantacinque gradi, ma la maggior parte svettavano diritti dalle pareti quasi perpendicolari e soffici.

Era un nascondiglio ideale. Nessuno si spingeva mai fin lì, neppure i ragazzi del villaggio di Glen Ellen. Se l'incavo fosse stato nel letto di un canalone di uno o più miglia di lunghezza, sarebbe stato conosciuto, ma non era così. Da un capo all'altro, il corso d'acqua non aveva più di cinquecento metri di lunghezza.

Nasceva a trecento metri a monte della trincea, da una sorgente in fondo a una prateria, e a cento metri a valle sboccava in aperta campagna, arrivando al fiume attraverso un terreno erboso e ondulato.

Il mio compagno girò la corda attorno a un albero e, dopo avermi ben legata, mi fece scendere. In un istante fui in fondo. Poco dopo, lui mi mandò giù, con lo stesso sistema, tutte le provviste del nascondiglio. Poi ritirò la corda, la nascose, e prima di partire mi mandò un cordiale arrivederci.

Prima di continuare devo dire qualche parola su questo compagno, John Carlson, umile eroe della Rivoluzione, uno degli innumerevoli fedeli che costituivano le file dell'esercito. Lavorava per Wickson, nelle stalle del padiglione di caccia; infatti avevamo traversato la Sonoma sui cavalli di Wickson. Per circa vent'anni, fino al momento in cui scrivo, John Carlson è stato la guardia del rifugio e durante tutto questo tempo sono sicura che non un solo pensiero sleale ha sfiorato la sua mente neppure in sogno. Era di carattere calmo e grave, a tal punto che non si poteva fare a meno di chiedersi che cosa la Rivoluzione rappresentasse per lui.

Eppure l'amore della libertà proiettava una luce tranquilla in quell'anima oscura. Sotto certi aspetti era meglio che non fosse dotato di immaginazione. Non perdeva mai la testa. Obbediva agli ordini e non era né curioso né chiacchierone. Un giorno gli chiesi come mai avesse scelto di fare il rivoluzionario.

"Sono stato soldato da giovane", rispose. "Ero in Germania. Là tutti i giovani devono far parte dell'esercito e nel reggimento al quale appartenevo avevo un compagno della mia età. Suo padre era ciò che voi dite un agitatore, ed era stato messo in prigione per delitto di lesa maestà, cioè per aver detto il vero sull'Imperatore. Suo figlio mi parlava spesso del popolo, del suo lavoro e del modo con cui viene derubato dai capitalisti. Mi diede una nuova prospettiva alla vita e diventai socialista. Quel che diceva era giusto e bene, e non l'ho mai dimenticato. Venuto negli Stati Uniti, mi misi in contatto con i socialisti e mi feci accogliere come membro di una sezione. Era il tempo del S.L.P.

(4). In seguito, quando ci fu la scissione, entrai a far parte del S.P. locale. Lavoravo allora per un noleggiatore di cavalli a San Francisco, prima del terremoto. Ho pagato le mie quote per ventidue anni. Sono sempre membro e pago sempre la mia quota, anche se oggi si deve farlo in grande segretezza. Adempirò sempre questo dovere, e quando verrà la Repubblica Cooperativa sarò contento".

Rimasta sola, preparai la colazione sul fornello a petrolio e misi in ordine la mia nuova dimora. Spesso, di buon mattino o verso sera, Carlson veniva al rifugio e vi lavorava per una o due ore.

Agli inizi, il mio tetto fu la tela cerata, in seguito drizzammo una piccola tenda, dopo, quando fummo certi della sicurezza del nostro eremo, costruimmo una piccola casa. Era completamente nascosta allo sguardo di chi si affacciasse sull'abisso; la vegetazione lussureggiante di quell'angolo riparato formava una difesa naturale. Inoltre, la casa si appoggiava alla parete verticale e, in quello stesso muro, scavammo due piccole camere, puntellate da forti travi di quercia, ben areate e asciutte.

Avevamo tutte le comodità. Quando, in seguito, il terrorista tedesco Biedenbach venne a nascondersi con noi, vi installò un apparecchio che distruggeva il fumo; così, le sere d'inverno potevamo sedere intorno al fuoco crepitante.

A questo punto bisognerà che parli anche di questo terrorista dall'animo dolce, che fu certamente il più incompreso dei nostri compagni rivoluzionari. Biedenbach non ha mai tradito la causa, e non è stato giustiziato dai suoi compagni, come si crede. E' una frottola inventata dai servi dell'oligarchia. Il compagno Biedenbach era molto distratto e di poca memoria. Fu ucciso da una delle nostre sentinelle nel rifugio sotterraneo di Carmel perché aveva dimenticato la parola d'ordine. Fu un errore deplorevole, certo; ma è assolutamente falso affermare che avesse tradito il suo Gruppo di Combattimento. Mai uomo più sincero e leale ha lavorato per la Causa (5).

Sono ormai circa diciannove anni che il rifugio scelto da me è quasi sempre abitato, e per tutto questo tempo, con una sola eccezione, non è mai stato scoperto da estranei. Eppure era solo a un quarto di miglio dal padiglione di caccia di Wickson, e a un miglio appena dal villaggio di Glen Ellen. Tutte le mattine e tutte le sere, sentivo il treno arrivare e partire, e regolavo il mio orologio sulla sirena della fabbrica di mattoni (6).

NOTE:

1) Questa scena ridicola costituisce un documento tipico dell'epoca, e illustra bene la condotta di quei padroni senza cuore. Mentre il popolo moriva di fame, i cagnolini di lusso avevano delle cameriere particolari. Questo di Avis Everhard era un travestimento molto pericoloso, ma era una questione di vita o di morte, ed era in gioco la causa, quindi è da considerarsi veritiero.

2) Si chiamavano così le vetture più lussuose dei treni di quel tempo, dal nome del loro inventore.

3) Nonostante i continui e quasi inconcepibili pericoli, Anna Royalston raggiunse la bella età di novantun anni. Come i Pocock sfuggirono agli esecutori dei Gruppi da Combattimento, essa sfidò quelli del Tallone di Ferro. Prospera in mezzo ai pericoli, la sua vita sembrava protetta da un sortilegio. Lei stessa era una giustiziera per conto dei Gruppi da Combattimento: la chiamavano Vergine Rossa e diventò una delle eroine della Rivoluzione.

All'età di sessantanove anni uccise Halcliffe "Il sanguinario", nonostante fosse scortato da una guardia del corpo, e se la cavò senza una scalfittura. Morì di vecchiaia nel suo letto, in un rifugio segreto e sicuro di rivoluzionari, sui monti Ozark.

4) Socialist Labor Party.

5) Nonostante tutte le ricerche sui documenti dell'epoca, non abbiamo trovato nessuna documentazione su questo personaggio. Se ne parla soltanto nel manoscritto di Avis Everhard.

6) Il viaggiatore curioso che si dirigesse verso il Sud, partendo da Glen Ellen, si troverebbe su un viale che segue precisamente l'antica strada di sette secoli fa. A un quarto di miglio da Glen Ellen, superato il secondo ponte, vedrebbe a destra una barranca che si estende come una cicatrice, attraverso un gruppo di alture boscose. Questa barranca è il posto dove si esercitava l'antico diritto di pedaggio che esisteva in quel tempo di proprietà private, sui terreni di un certo signor Chauvet, pioniere francese venuto in California all'epoca dei cercatori d'oro. Le alture boschive sono quelle di cui parla Avis Everhard.

Il grande terremoto del 2368, staccò il fianco di uno di quei rialzi che riempì la trincea nella quale gli Everhard avevano il loro rifugio. Ma dopo la scoperta del manoscritto sono stati fatti degli scavi ed è stata trovata la casa con le due camere interne contenenti gli utensili accumulati durante una lunga permanenza.

Tra gli altri resti degni di nota, è stato trovato l'apparecchio distruttore del fumo di cui si parla in questo racconto. Gli studiosi che si interessassero all'argomento in questione, potrebbero leggere il volume di Arnold Bentham, che uscirà in questi giorni.

A un miglio a nord ovest delle alture, si trova l'area della Wake Robin Lodge, alla confluenza della Wild Water e della Sonoma.

Osserviamo di sfuggita che la Wild Water si chiamava un tempo Graham Greek, come si legge in alcune vecchie carte. Ma il nuovo nome rimane. A Wake Robin Lodge, Avis Everhard dimorò poi a parecchie riprese, quando, camuffata da agente provocatore del Tallone di Ferro, poté rappresentare impunemente la sua parte in mezzo agli uomini e agli avvenimenti. Il permesso ufficiale le fu concesso niente di meno che dal signor Wickson, l'oligarca minore di cui parla il manoscritto.

Capitolo 19

TRASFORMAZIONE

"Bisogna che tu ti trasformi completamente", mi scriveva Ernest.

"Bisogna cessare di esistere e diventare un'altra donna, non solo cambiando modo di vestire, ma perfino pelle sotto l'abito nuovo.

Bisogna che tu ti rifaccia completamente di modo che neppure io possa riconoscerti, mutando voce, gesti, modo di fare, andatura, tutta, insomma".

Obbedii, esercitandomi parecchie ore al giorno a seppellire definitivamente l'Avis Everhard di un tempo sotto la pelle d'una donna nuova che potrei chiamare il mio altro io. A questo risultato si può arrivare solo lavorando con tenacia: mi applicavo infatti quasi senza interruzione persino intorno ai particolari minimi della intonazione di voce, sinché quella del mio nuovo essere non fu stabile e meccanica. Possedere quest'automatismo era la condizione prima ed essenziale per riuscire nello scopo.

Bisognava arrivare al punto d'ingannare me stessa. Si prova qualcosa di simile quando s'impara una nuova lingua, il francese, per esempio. Agli inizi la si parla in modo cosciente, con uno sforzo di volontà; si pensa in inglese e si traduce in francese, oppure si legge in francese ma si traduce in inglese prima di capire. Poi lo sforzo diventa automatico; lo studente si trova su un terreno solido: legge, scrive e pensa in francese senza più ricorrere all'inglese.

Così, per i nostri travestimenti, era necessario che ci esercitassimo fino a che la nostra parte artificiale fosse diventata reale al punto che, per ridiventare noi stessi, occorresse uno sforzo di attenzione e di volontà. In principio, naturalmente, andavamo un po' alla cieca e ci smarrivamo spesso.

Stavamo creando un'arte nuova, e c'era molto da scoprire. Ma il lavoro progrediva, dappertutto; nuovi maestri sorgevano in quest'arte, e si veniva formando a poco a poco tutta una serie di trucchi e di espedienti. Questa esperienza divenne una specie di manuale che passava di mano in mano e faceva parte, per così dire, del programma di studio della scuola della Rivoluzione (1).

Fu a quel tempo che mio padre scomparve. Le sue lettere che mi erano sempre giunte regolarmente, cessarono. Non fu più visto nel nostro appartamento di Pell Street. I compagni lo cercarono dappertutto: tutte le prigioni del paese furono esplorate dai nostri informatori segreti; ma rimase irreperibile, come se la terra l'avesse inghiottito, e fino a oggi non è stato possibile avere il minimo indizio su come morì (2).

Passai mesi di solitudine, lì nel rifugio, ma non furono vani. La nostra organizzazione progrediva rapidamente e montagne di lavoro da sbrigare si ammucchiavano ogni giorno. Dalla prigione, Ernest e gli altri dirigenti decidevano ciò che si doveva fare, e spettava a noi, che eravamo fuori, eseguire. Il nostro programma comprendeva, per esempio, la propaganda a voce, l'organizzazione del sistema di spionaggio, con tutte le sue ramificazioni; la fondazione di tipografie clandestine, il nostro treno sotterraneo, come lo chiamavamo, ossia la possibilità di comunicazione fra i nostri nuovi rifugi, che erano migliaia, quando venivano a mancare gli anelli della catena creata in tutto il paese.

Per questo, come dissi, il lavoro non finiva mai. Dopo sei mesi, il mio isolamento fu interrotto dalla venuta di due compagne: due ragazze, due brave e buone creature, amanti appassionate della libertà: Lora Peterson, che sparì nel 1922, e Kate Bierce, che sposò poi Du Bois (3), e che vive ancora con noi, in attesa della nuova aurora.

Giunsero in uno stato febbrile, come si può ben immaginare in due ragazze sfuggite a un pericolo improvviso di morte. Tra l'equipaggio del battello da pesca che le trasportava attraverso la baia di San Pablo, c'era una spia, una creatura del Tallone di Ferro; un tale che era riuscito a farsi credere rivoluzionario e ad avere accesso ai segreti della nostra organizzazione. Senza dubbio era sulle mie tracce, perché sapevano da tempo che la mia scomparsa aveva preoccupato seriamente il servizio segreto dell'oligarchia. Per fortuna, come si vide in seguito, non aveva rivelato a nessuno la sua scoperta. Evidentemente aveva rimandato il suo rapporto a più tardi, sperando di condurre a buon fine l'impresa di trovare il mio rifugio e impadronirsi della mia persona. Le sue informazioni perirono con lui. Con un pretesto qualsiasi, quando le ragazze sbarcarono a Petaluma Creek e montarono a cavallo, anche lui abbandonò il battello.

Quasi a metà strada della Sonoma, John Carlson lasciò che le ragazze andassero avanti sul suo cavallo, e ritornò indietro a piedi. Gli erano sorti dei sospetti. Catturò la spia, e dal racconto che ci fece potemmo farci un'idea di quanto era avvenuto.

"L'ho sistemato", disse semplicemente. "L'ho sistemato", ripeté; una luce sinistra brillava nei suoi occhi e le mani, deformate dal lavoro, gli si aprivano e chiudevano in modo eloquente. "Non ha fatto rumore. Ora l'ho nascosto, e questa notte lo seppellirò come si deve".

Durante quel periodo, mi stupivo spesso della mia metamorfosi che, a volte mi sembrava perfino inverosimile sia forse perché ero vissuta nella tranquillità di una città universitaria, sia perché ero diventata una rivoluzionaria abituata alle scene di violenza e di morte. L'uno o l'altro mi sembrava impossibile: se l'uno era vero, l'altro doveva essere un sogno; ma quale delle due cose era vera? La mia vita attuale di rivoluzionaria nascosta in fondo a una scarpata era forse un sogno? Oppure potevo credermi una ribelle che sognava un'esistenza precedente in cui non avevo conosciuto nulla di più eccitante del tè o del ballo, delle società benefiche e delle conferenze? Ma, dopo tutto, credo che fosse un'esperienza comune a tutti i compagni schierati sotto la bandiera rossa della fratellanza umana.

Ricordavo spesso persone di quell'altra vita e, stranamente, esse apparivano e sparivano di tanto in tanto nella mia nuova vita.

Come il vescovo Morehouse. Invano l'avevamo cercato, dopo lo sviluppo della nostra organizzazione; era stato trasferito di manicomio in manicomio. Avevamo seguito le sue tracce dal manicomio di Napa a quello di Stockton e di là al manicomio di Santa Clara Valley, chiamato Agnews, ma a questo punto si perdevano le tracce. Il suo atto di morte non esisteva. Doveva essere riuscito in qualche modo a fuggire. Non immaginavo affatto le terribili circostanze nelle quali lo avrei rivisto, la visione passeggera e rapida che avrei avuto di lui, nel turbine della carneficina della Comune di Chicago.

Non rividi più Jackson, l'uomo che aveva perso un braccio nelle Filande Sierra e che era stato la causa occasionale della mia conversione alla Rivoluzione, ma sapevamo tutti ciò che aveva fatto prima di morire. Non si era mai unito ai rivoluzionari.

Inasprito dal destino avverso, covando nel cuore il ricordo del male che gli avevano fatto, diventò anarchico, non nel senso filosofico ma come un qualunque animale spinto dall'odio e dal desiderio di vendetta. E si vendicò, e bene. Una notte, mentre tutti dormivano in casa Pertonwaithe, eludendo la vigilanza delle sentinelle, fece saltare in aria il palazzo. Neppure uno sfuggì al massacro, neppure le sentinelle. Poi lui, in prigione, in attesa del processo, si soffocò sotto le coperte.

Ben diversi furono i destini del dottor Hammerfield e del dottor Ballingford: rimasti fedeli al loro padrone, furono ricompensati con palazzi vescovili, dove vivono in pace col mondo. Tutt'e due sono difensori ed esaltatori dell'oligarchia, e tutti e due sono diventati grassi.

"Il dottor Hammerfield", spiegò un giorno Ernest, "è riuscito a modificare la sua metafisica in modo da poter assicurare al Tallone di Ferro la sanzione divina, poi a farvi entrare l'adorazione della bellezza, e in ultimo a ridurre allo stato di spettro invisibile il vertebrato gassoso di cui parla Haeckel. La differenza fra il dottor Hammerfield e il dottor Ballingford sta nel fatto che quest'ultimo concepisce il dio degli oligarchi come un po' più gassoso e un po' meno vertebrato".

Peter Donnelly, capo-operaio delle Filande Sierra, che avevo incontrato durante la mia inchiesta sul caso Jackson, preparò a tutti una sorpresa. Nel 1918 assistevo a una riunione dei Rossi di San Francisco. Di tutti i nostri Gruppi di Combattimento era questo il più formidabile, il più feroce e spietato. Non faceva esattamente parte della nostra organizzazione; i suoi membri erano dei pazzi fanatici; al punto che noi non osavamo incoraggiare il loro stato d'animo. Però eravamo in rapporti amichevoli, sebbene non li considerassimo dei nostri. Ero là, quella sera, per una faccenda di capitale importanza; in mezzo a una ventina di uomini, ero la sola non mascherata. Sbrigata la faccenda, fui accompagnata da uno di loro. Passando in un corridoio buio, la mia guida accese un fiammifero, l'avvicinò al viso e si tolse la maschera.

Intravidi i lineamenti appassionati di Peter Donnelly, poi il fiammifero si spense.

"Volevo solo farle vedere che ero io", disse nell'oscurità.

"Ricorda Dallas, il direttore?".

Ricordai la faccia di volpe di quell'uomo.

"Ebbene, l'ho sistemato come si meritava, per primo", disse Donnelly con orgoglio. "Poi mi sono fatto accogliere tra i Rossi".

"Ma come mai è qui?" domandai. "E sua moglie? E i suoi figli?" "Morti", rispose. "Per questo, sono qui... No", aggiunse in fretta, "non per vendicarli: sono morti tranquillamente, nel loro letto... di malattia... Capirete, un giorno o l'altro doveva accadere! Finché erano vivi ho avuto le mani legate; ora che non ci sono più vendico la mia virilità sprecata. Un tempo ero Peter Donnelly, capo-operaio, ma oggi sono il Numero 27 dei Rossi di San Francisco. Venga, la farò uscire".

Udii parlare ancora di lui parecchio tempo dopo. Aveva detto la verità a modo suo, dicendomi che tutti i suoi erano morti: uno invece era vivo, Timothy, ma lui lo considerava morto, perché si era arruolato nei Mercenari del Tallone di Ferro. Ogni membro dei Rossi di San Francisco s'impegnava, con giuramento, di compiere dodici esecuzioni all'anno, e di uccidersi se non fosse riuscito nell'intento. Le esecuzioni non erano però arbitrarie. Quel gruppo di esaltati si riuniva spesso e pronunciava sentenze in serie contro membri e servi dell'oligarchia che si erano esposti alla sua vendetta. Il compito delle esecuzioni veniva poi assegnato a sorte.

La faccenda che mi aveva condotto là, quella sera, era per l'appunto un verdetto del genere. Uno dei nostri compagni, che da molti anni era riuscito a mantenere il suo posto come commesso nell'ufficio locale del servizio segreto del Tallone di Ferro, aveva destato i sospetti dei Rossi di San Francisco, che l'avevano condannato. La sentenza sarebbe stata letta quel giorno stesso.

Naturalmente lui non era presente e i suoi giudici ignoravano che fosse uno dei nostri. La mia missione era di testimoniare sulla sua identità e lealtà. Ci si domanderà come fossi informata di questa faccenda. La spiegazione è molto semplice: uno dei nostri agenti segreti faceva parte dei Rossi di San Francisco. Era infatti necessario seguire le mosse sia degli amici, che dei nemici; e quel gruppo di fanatici era troppo importante per sfuggire alla nostra sorveglianza.

Ma ritorniamo a Peter Donnelly e a suo figlio. Tutto andò bene per il padre fino al giorno in cui, nel gruppo estratto a sorte fra i condannati da giustiziare, la cui esecuzione spettava a lui, trovò il nome del figlio. Allora gli si risvegliò quell'istinto paterno un tempo così forte in lui. Per salvare suo figlio tradì i compagni. Il suo disegno fu in parte sventato: ciò nonostante, una dozzina di Rossi di San Francisco furono giustiziati e il Gruppo venne quasi distrutto. Per rappresaglia, i sopravvissuti fecero fare a Donnelly la fine che meritava. Suo figlio non gli sopravvisse a lungo; i Rossi di San Francisco s'impegnarono con giuramento solenne a sopprimerlo. L'oligarchia fece tutti gli sforzi per salvarlo: lo trasferì da una parte all'altra del paese; tre Rossi persero la vita per catturarlo. Il gruppo si componeva solo di uomini, ma alla fine ricorsero a una donna, a una delle nostre compagne, Anna Roylston. Il nostro gruppo le proibì di accettare quella missione; ma da lei, che aveva sempre avuto una volontà propria e sdegnava ogni disciplina, e inoltre era intelligente e attirava la simpatia, non si poteva ottenere nulla.

Rappresentava un tipo a sé, diverso da qualsiasi altra rivoluzionaria. Nonostante il nostro divieto, si ostinò e volle compiere questo atto.

Anna Roylston era una creatura veramente affascinante, le bastava un cenno per sedurre un uomo. Aveva già infiammato i cuori di numerosi nostri giovani compagni e aveva attratto altri alla nostra organizzazione. Tuttavia, rifiutava sempre di sposarsi.

Amava teneramente i bambini, ma riteneva che un figlio l'avrebbe distratta dalla Causa alla quale aveva dedicato la vita.

Fu un gioco facilissimo per Anna Roylston conquistare Timothy Donnelly. Non provò nessun rimorso di coscienza, perché proprio in quel tempo avvenne il massacro di Nashville, nel quale i Mercenari, agli ordini di Donnelly, assassinarono ottocento tessitori di quella città. Ma lei non uccise Donnelly con le sue mani; lo consegnò ai Rossi di San Francisco. Questo successe l'anno scorso. Ora Anna è stata ribattezzata: i rivoluzionari la chiamano la "Vergine Rossa" (5).

Il colonnello Ingram e il colonnello Van Gilbert sono altri due personaggi noti che conobbi in seguito. Il colonnello Ingram s'innalzò molto nell'oligarchia e diventò ambasciatore in Germania, profondamente detestato dal proletariato dei due paesi.

Lo conobbi a Berlino, quando, accreditata spia internazionale del Tallone di Ferro, mi ricevette in casa sua e mi diede un prezioso aiuto. Posso dichiarare ora che il mio doppio ruolo mi permise di compiere vari incarichi importanti per la Rivoluzione.

Il colonnello Van Gilbert era noto come "Ringhio" Van Gilbert. Suo merito principale fu la collaborazione alla stesura del nuovo codice, dopo la Comune di Chicago. Ma già prima, come giudice, si era attirato una condanna a morte per la sua diabolica crudeltà.

Io fui una delle persone che lo giudicarono e condannarono: e Anna Roylston eseguì la sentenza.

Ancora un fantasma della mia vita passata: l'avvocato di Jackson.

Joseph Hurd era davvero l'ultima persona che mi aspettassi di rivedere, e il nostro fu uno strano incontro. Due anni dopo la Comune di Chicago, una sera tardi, Ernest e io arrivammo insieme al rifugio di Benton Harbour nel Michigan, sulla riva del lago opposta a quella di Chicago, proprio quando stava terminando il processo di una spia. La sentenza di morte era stata pronunciata e stavano portando via il condannato. Appena ci vide, sfuggì ai guardiani e si precipitò ai miei piedi, stringendomi le ginocchia come in una morsa, implorando pietà come in delirio. Quando alzò verso di me il suo viso spaventato, riconobbi Joseph Hurd. Ora, di tutte le scene terribili che ho visto, nessuna mi ha commosso quanto lo spettacolo di quella creatura disperata che implorava la grazia. Attaccato disperatamente alla vita, si avvinghiava a me nonostante gli sforzi di molti compagni per staccarlo. Quando alla fine lo trascinarono via, io caddi a terra svenuta. E' meno terribile veder morire uomini forti, che sentire un vile implorare per aver salva la vita (6).

NOTE:

1) A quell'epoca il travestimento diventò una vera arte. I rivoluzionari avevano scuole di recitazione in tutti i loro rifugi. Sdegnavano gli accessori degli artisti ordinari, come false barbe e parrucche, che erano una trappola. Il travestimento doveva essere fondamentale, intrinseco, doveva costituire nell'individuo una sorta di seconda natura. Si racconta che la Vergine Rossa divenne bravissima in quest'arte, alla quale dovette il successo della sua lunga carriera.

2) Queste sparizioni erano uno degli orrori dell'epoca. Se ne parlava continuamente nelle canzoni e nelle storie. Erano un risultato inevitabile della guerra insidiosa che infuriò durante quei tre secoli. La cosa era però frequente anche presso gli oligarchi e le classi operaie. Senza preavviso, senza rumore, uomini, donne e bambini sparivano; non si rivedevano più, e la loro fine rimaneva avvolta nel mistero.

3) Il Du Bois, attuale bibliotecario di Ardis, discende in linea diletta da quella coppia di rivoluzionari.

4) Oltre alle caste operaie c'era la casta militare, costituita da un esercito regolare di soldati di professione, i cui ufficiali erano membri dell'oligarchia, conosciuti tutti col nome di Mercenari. Questa istituzione sostituiva la milizia, divenuta impossibile sotto il nuovo regime. Era stato istituito un servizio segreto di Mercenari, oltre a quello del Tallone di Ferro, che era una via di mezzo fra l'esercito e la polizia.

5) Solo dopo che la Seconda Rivolta fu schiacciata, il gruppo dei Rossi di San Francisco rifiorì e per due generazioni imperversò. A quel tempo, un agente del Tallone di Ferro riuscì a farsi ammettere in esso e a entrare in tutti i segreti conducendolo così alla fatale distruzione. Ciò accadde nel 2002. I membri del gruppo furono giustiziati, uno per uno, a tre settimane d'intervallo, e i loro cadaveri furono esposti nel ghetto operaio di San Francisco.

6) Il rifugio di Benton Harbour era una catacomba la cui entrata era abilmente dissimulata da un pozzo. E' conservata in buono stato, i visitatori possono in realtà percorrere il labirinto di corridoi fino alla sala delle riunioni, dove certamente avvenne la scena descritta da Avis Everhard. Più in là, sono le celle dove erano tenuti i prigionieri e la camera della morte dove avevano luogo le esecuzioni; più oltre ancora, il cimitero: un insieme di lunghe e tortuose gallerie scavate nella roccia, aventi, su ogni lato, nicchie dove riposano i Rivoluzionari ivi deposti dai compagni ormai da tanti anni.

Capitolo 20.

UN OLIGARCA IN MENO

I ricordi della vita passata mi hanno spinto troppo oltre nella storia di quella nuova. La liberazione in massa dei nostri amici prigionieri avvenne piuttosto tardi, nel corso del 1915. Sebbene complessa, simile impresa avvenne senza incidenti, con un successo che fu per noi un onore e un incoraggiamento. Da una quantità di prigioni, carceri militari, fortezze disseminate da Cuba alla California, liberammo in una sola notte cinquantuno dei nostri Congressisti su cinquantadue, e più di trecento altri dirigenti.

Non ci fu il minimo incidente: non solo scapparono tutti, ma tutti raggiunsero i ricoveri preparati. Il solo dei nostri rappresentanti che non facemmo evadere fu Arthur Simpson, già morto a Cabanyas dopo crudeli torture.

I diciotto mesi che seguirono segnano forse il periodo più felice della mia vita con Ernest, per tutto quel tempo non ci lasciammo un istante, mentre più tardi, rientrati nel mondo, abbiamo spesso dovuto vivere separati. L'impazienza con cui aspettavo quella sera l'arrivo di Ernest era grande come quella che provo oggi davanti alla rivolta imminente. Ero stata così a lungo senza vederlo che impazzivo quasi all'idea che il minimo contrattempo nei nostri disegni potesse tenerlo ancora prigioniero nella sua isola. Le ore mi sembravano secoli. Ero sola. Biedenbach e tre altri giovani anch'essi nascosti nel nostro ricovero si erano appostati dall'altro lato della montagna, armati e pronti a tutto. Credo infatti che quella notte, in tutto il paese, tutti i compagni fossero fuori dai loro rifugi .

Appena il cielo impallidì per l'avvicinarsi dell'aurora, udii dall'alto il segnale convenuto e mi affrettai a rispondere.

Nell'oscurità per poco non abbracciai Biedenbach che scendeva per primo, ma un istante dopo ero nelle braccia di Ernest. Mi accorsi in quel momento, tanto la trasformazione era profonda, che dovevo fare uno sforzo di volontà per ridiventare l'Avis Everhard di un tempo, con i suoi modi, il suo sorriso, le sue frasi e le sue intonazioni di voce. Solo controllandomi riuscivo a conservare la mia antica identità. Non potevo permettermi di abbandonarmi anche solo un attimo, tanto automaticamente imperativa era diventata la nuova personalità che mi ero creata.

Quando fummo all'interno della nostra piccola capanna, vidi il volto di Ernest alla luce della lampada. Tranne il pallore, acquistato durante la permanenza in carcere, non c'era - o mi pareva di non vedere - alcun cambiamento in lui. Era sempre lo stesso: il mio amante, mio marito, il mio eroe. Solo una certa aria ascetica gli affinava un po' i tratti del volto, conferendogli un'espressione di nobiltà che ingentiliva l'eccesso di vitalità impetuosa che aveva sempre segnato i tratti del suo volto. Forse era diventato un po' più grave, ma una luce allegra gli brillava sempre negli occhi. Anche se dimagrito di una decina di chili, conservava una forma perfetta, avendo sempre allenato i muscoli durante la prigionia: ed erano di acciaio. In realtà, era in condizioni migliori di prima di entrare in carcere. Trascorsero parecchie ore prima che la sua testa si posasse sul guanciale e che si addormentasse sotto le mie carezze. Io non chiusi occhio:

ero troppo felice e non avevo diviso con lui le fatiche dell'evasione e della corsa a cavallo.

Mentre dormiva, mi cambiai d'abito, mi pettinai diversamente, ripresi la mia nuova personalità. Quando Biedenbach e gli altri compagni si svegliarono, mi aiutarono a preparare un piccolo scherzo. Tutto era pronto ed eravamo nella piccola camera sotterranea che fungeva da cucina e sala da pranzo, quando Ernest aprì l'uscio ed entrò. In quel momento, Biedenbach mi chiamò col nome di Mary, e io mi rivolsi a lui per rispondergli. Guardai Ernest con l'interesse curioso che una giovane compagna manifesterebbe vedendo per la prima volta un eroe tanto noto della Rivoluzione. Ma lo sguardo di Ernest si fermò appena su di me e fece il giro della stanza, cercando con impazienza qualcun altro.

Gli venni allora presentata col nome di Mary Holmes.

Per completare lo scherzo, avevamo preparato un posto in più a tavola e, sedendoci, lasciammo una sedia vuota. Mi sarei messa a gridare dalla gioia nel veder crescere l'ansia di Ernest. E non riuscii a trattenermi a lungo.

"Dov'è mia moglie?" disse lui bruscamente.

"Dorme ancora", risposi.

Era il momento critico, ma la mia voce gli risultò nuova, non riconobbe nulla di familiare in essa. Il pasto continuò. Parlai molto, con esaltazione, come avrebbe potuto fare l'ammiratrice di un eroe, mostrando chiaramente come il mio eroe fosse lui. Giunsi così al colmo dell'ammirazione e dell'entusiasmo e, prima che lui potesse intuire la mia intenzione, gli gettai le braccia al collo e lo baciai sulla bocca. Mi allontanò, e lanciò intorno uno sguardo incerto e seccato... I quattro uomini scoppiarono a ridere; seguirono le spiegazioni. Ernest rimase dapprima incredulo: mi scrutò attentamente e sembrava quasi convinto, poi scosse il capo, per niente disposto a credere. Solo quando, ridiventata l'Avis Everhard di un tempo, gli mormorai all'orecchio i segreti noti esclusivamente a me e a lui, finì con l'accettarmi come sua moglie.

Dopo, durante il giorno, mi prese fra le braccia, dicendo di sentirsi bigamo.

"Sei la mia cara Avis", disse, "ma sei pure un'altra. Essendo due donne in una, costituisci il mio harem. Comunque, per il momento siamo al sicuro. Ma se gli Stati Uniti diventassero per noi troppo pericolosi, avrei tutto il diritto di diventare cittadino turco" (l).

Conobbi allora la perfetta felicità, lì nel nostro rifugio.

Dedicavamo lunghe ore a lavori seri, ma lavoravamo insieme. Fummo l'uno dell'altra per un lungo periodo di tempo, e il tempo ci sembrava prezioso. Non ci sentivamo isolati, perché i nostri compagni andavano e venivano portando l'eco sotterranea di un mondo di intrighi rivoluzionari, o il racconto di lotte ingaggiate su tutto il fronte della battaglia. L'allegria non mancava.

Sopportavamo molto lavoro e molte sofferenze, ma i vuoti delle nostre file erano presto colmati e avanzavamo sempre, e fra i colpi e i contraccolpi della vita e della morte, trovavamo il tempo di ridere e di amare. C'erano, fra noi, artisti, scienziati, studenti, musicisti e poeti; in quella fucina d'intelletti fioriva una cultura più nobile e più raffinata che nei palazzi e nelle città meravigliose degli oligarchi. D'altronde, molti dei nostri compagni s'erano professionalmente dedicati ad abbellire quei palazzi e quelle città di sogno (2).

D'altra parte, non eravamo confinati nel nostro rifugio. Spesso, la notte, per fare del moto, percorrevamo a cavallo la montagna, usando le cavalcature di Wickson. Se solo sapesse quanti rivoluzionari hanno portato le sue bestie! Organizzavamo persino delle merende nei posti più solitari che conoscevamo, dove rimanevamo dall'alba al tramonto, tutto il giorno. Ci servivamo pure della panna e del burro di Wickson; e Ernest non si faceva alcuno scrupolo ad ammazzare le sue quaglie e i conigli e persino, se gli capitava, qualche giovane daino (3).

In realtà era un rifugio delizioso. Credo però di aver detto che fu scoperto una volta, e ciò m'induce a parlare della scomparsa del giovane Wickson. Ora che è morto posso dire liberamente la verità. C'era in fondo al nostro rifugio un angolo, invisibile dall'alto, dove il sole batteva per parecchie ore. Ci avevamo portato un po' di sabbia del fiume, di modo che c'era un caldo secco che rendeva piacevole, a chi volesse, stare disteso al sole.

In quel punto, un giorno, dopo pranzo, mi ero mezzo assopita, tenendo in mano un volume di Mendenhall (4). Stavo così comoda e mi sentivo così tranquilla che neppure il lirismo infiammato del poeta riusciva a commuovermi.

Fui richiamata alla realtà da una zolla di terra che cadde ai miei piedi; poi, sentii in alto uno stropicciare precipitoso di piedi e un istante dopo vidi un giovane che, fatto un ultimo scivolone lungo la parete brulla, atterrava davanti a me.

Era Philip Wickson, che allora non conoscevo. Mi guardò tranquillamente, ed emise un leggero fischio per la sorpresa.

"Oh, bella!" esclamò e, togliendosi il cappello, quasi subito aggiunse: "Le chiedo scusa, non mi aspettavo di trovare qualcuno qui".

Ebbi meno sangue freddo di lui. Ero ancora una principiante in fatto di comportamento in circostanze disperate. Se avessi avuto l'esperienza che acquistai in seguito, quando diventai spia internazionale, mi sarei mostrata meno confusa, ne sono sicura.

Invece mi alzai di colpo e lanciai il grido di allarme.

"Che succede?" chiese lui, guardandomi incuriosito. "Perché grida?".

Era evidente che non aveva neppure sospettato la nostra presenza, scendendo laggiù. Me ne accorsi con vero sollievo.

"Perché crede che abbia gridato?" replicai. Ero proprio inetta a quel tempo.

"Non so", rispose, scuotendo il capo. "Probabilmente avrà degli amici, là. In ogni modo bisogna spiegarmi questa faccenda. C'è qualcosa di losco. Lei è su una proprietà privata: questo terreno è di mio padre e...".

Ma in quel momento Biedenbach, sempre corretto e dolce, gli ingiunse alle spalle, a bassa voce:

"Mani in alto, giovanotto!" Il giovane Wickson alzò prima le mani, poi si voltò per vedere in faccia Biedenbach che gli puntava addosso un fucile automatico 30.30. Wickson rimase tranquillissimo.

"Oh! Oh!" fece, "un nido di rivoluzionari, addirittura un vespaio, a quanto pare. Ebbene, non rimarrete a lungo qui, posso assicurarvelo".

"Forse ci rimarrà lei, e abbastanza per cambiar opinione, rispose tranquillamente Biedenbach. Intanto devo pregarla di venire dentro, con me".

"Dentro?" il giovanotto era stupito. "Avete dunque una catacomba, qui? Ho sentito parlare di cose di questo genere".

"Entri e vedrà", rispose Biedenbach, col suo accento più corretto.

"Ma è illegale", protestò l'altro.

"Sì, secondo la vostra legge", rispose il terrorista in tono significativo. "Ma secondo la nostra legge, invece, è permesso.

Bisogna bene che si metta in mente che lei è entrato in un mondo del tutto diverso da quello in cui è vissuto finora, dominato dall'oppressione e dalla brutalità".

"Vedremo", mormorò Wickson.

"Ebbene, rimanga con noi per discutere la questione".

Il giovane si mise a ridere, e seguì il suo rapitore nell'interno della casa. Fu condotto nella camera più interna, sotto terra, e guardato da uno dei compagni, mentre noi discutevamo sul da farsi in cucina.

Biedenbach, con le lacrime agli occhi, disse che bisognava ucciderlo, e sembrò molto sollevato quando la maggioranza respinse la sua terribile proposta. D'altronde, non era neanche il caso di pensare di lasciar libero il giovane oligarca.

"Vi dirò io cosa dobbiamo fare: teniamolo con noi ed educhiamolo", disse Ernest.

"Se è così, chiedo il privilegio di illuminarlo in materia di giurisprudenza", esclamò Biedenbach.

Tutti risero a questa proposta. Avremmo dunque tenuto prigioniero Philip Wickson e gli avremmo insegnato la nostra morale e la nostra sociologia. Nel frattempo c'era altro da fare: bisognava far sparire ogni traccia del giovane oligarca, incominciando da quelle che aveva lasciato sul pendio friabile della scarpata. Il compito spettò a Biedenbach, il quale, sospeso a una corda, lavorò abilmente per tutto il resto della giornata e fece sparire ogni segno. Cancellò pure tutte le impronte, incominciando dal bordo della scarpata fino al canalone. Poi, al crepuscolo, John Carlson chiese le scarpe al giovane Wickson.

Non voleva darle, e si mostrò disposto a lottare per difenderle.

Ma Ernest gli fece sentire il peso della sua mano da maniscalco.

In seguito, Carlson si lagnò delle numerose bolle e scorticature dovute alla strettezza delle scarpe, ma con esse aveva fatto un lavoro ardito e importantissimo. Partendo dal punto in cui avevamo smesso di cancellare le tracce del giovanotto, Carlson, dopo aver calzato le scarpe del giovane Wickson, si era diretto a sinistra, e aveva camminato per miglia e miglia, contornando monticelli, valicando cime, arrampicandosi lungo i canaloni, sino a far perdere le tracce nell'acqua corrente di un ruscello. Toltesi le scarpe, percorse il letto del ruscello per un certo tratto, poi rimise le proprie. Una settimana dopo, il giovane Wickson ritornò in possesso delle sue scarpe.

Quella notte, la muta di caccia fu sguinzagliata e non si poté dormire nel rifugio. Il giorno dopo, per molte volte i cani scesero lungo il canalone abbaiando ma si lanciarono a sinistra, seguendo la falsa traccia lasciata da Carlson, e i loro latrati si persero lontano, tra le gole della montagna. Intanto, i nostri uomini aspettavano nel rifugio, con le armi in pugno; avevano rivoltelle automatiche e fucili nonché una mezza dozzina di ordigni infernali fabbricati da Biedenbach. Quale sorpresa per i cercatori se si fossero avventurati nel nostro nascondiglio!

Ho rivelato ora la verità sulla scomparsa di Philip Wickson, un tempo oligarca e poi fedele servitore della rivoluzione. Perché finimmo per convertirlo. Aveva una intelligenza pronta e plasmabile e una natura fondamentalmente sana. Parecchi mesi dopo gli facemmo valicare la Sonoma su uno dei cavalli di suo padre, fino al Petaluma Creek, dove s'imbarcò su una piccola scialuppa da pesca. Con un viaggio felice, a tappe, grazie alla nostra ferrovia segreta, lo mandammo sino al rifugio di Carmel.

Là rimase due mesi, trascorsi i quali non voleva più abbandonarci, per due motivi: primo, s'era innamorato di Anna Roylston; secondo, era diventato dei nostri. Solo dopo essersi convinto dell'inutilità del suo amore cedette ai nostri desideri e acconsentì a ritornare a casa di suo padre. Benché abbia finto fino alla morte di essere un oligarca, fu in realtà uno dei nostri agenti più preziosi. Molte e molte volte il Tallone di Ferro fu sorpreso per l'insuccesso dei suoi disegni e delle sue operazioni contro di noi.

Se avesse saputo quanti dei suoi membri lavoravano per si sarebbe spiegato anche i suoi insuccessi. Il giovane Wickson fu sempre fedele alla Causa (5). La sua stessa morte è dovuta a questa sua fedeltà al dovere. Durante la grande tempesta del 1927, contrasse la polmonite di cui morì per assistere a una riunione dei nostri dirigenti.

NOTE:

1) A quell'epoca la poligamia era ancora praticata in Turchia.

2) Non si tratta di vanteria da parte di Avis Everhard: il fior fiore del mondo artistico e intellettuale era composto di rivoluzionari. Fatta eccezione di pochi musicisti e cantanti e di qualche oligarca, tutti i grandi creatori dell'epoca, tutti quelli i cui nomi sono giunti sino a noi, erano rivoluzionari.

3) Fino allora, la panna e il burro si estraevano ancora dal latte di mucca, con procedimenti grossolani. La preparazione chimica dei cibi ancora non esisteva.

4) Nei documenti letterari dell'epoca si parla spesso dei poemi di Rudolph Mendenhall, che i suoi compagni chiamavano "La fiamma". Era indubbiamente un genio; ma, fatta eccezione di qualche frammento di poemi citato da altri autori, di suo non ci è giunto altro. Fu giustiziato dal Tallone di Ferro nel 1928.

5) Il caso di questo giovane non è eccezionale. Molti figli d'oligarchi, per ragioni morali o per romanticismo, votarono la loro vita all'ideale rivoluzionario, spinti da un sentimento d'onestà o dal fatto che la loro fantasia era stata sedotta dall'aspetto glorioso della rivoluzione. Già prima molti figli di nobili russi avevano fatto lo stesso, durante la lunga rivoluzione di quel paese.

Capitolo 21

LA BESTIA RUGGENTE DELL'ABISSO

Durante la nostra prolungata permanenza nel rifugio, fummo regolarmente informati di tutto quanto avveniva nel mondo esterno, così che potemmo valutare con precisione la forza dell'oligarchia contro cui lottavamo. Col flusso dei mutamenti, le nuove istituzioni acquistavano forme più precise e i caratteri e gli attributi della stabilità. Gli oligarchi erano riusciti a inventare una macchina governativa tanto estesa quanto complessa, ma che continuava a funzionare, malgrado i nostri sforzi per intralciarla e distruggerla.

Questa fu una sorpresa per molti rivoluzionari che non l'avevano ritenuto possibile. Ciò nonostante, l'attività del paese continuava. Molti lavoravano nei campi e nelle miniere, ma erano, naturalmente, gli schiavi. Quanto alle industrie fondamentali, prosperavano su tutta la linea. Gli appartenenti alle grandi caste operaie erano soddisfatti e lavoravano volentieri. Per la prima volta in vita loro conoscevano la pace industriale. Non si preoccupavano più di riduzioni di orari, scioperi, serrate, timbri di sindacati; vivevano in case più comode, in graziose villette di proprietà, veramente deliziose in confronto alle soffitte abitate una volta. Il loro nutrimento era migliore, avevano meno ore di lavoro, vacanze più lunghe, una scelta più variegata di piaceri e svaghi intellettuali. Né si preoccupavano dei loro fratelli e sorelle meno fortunati, dei lavoratori sfavoriti dalla sorte, del popolo caduto nell'abisso. Si annunciava, per l'umanità, un'era di egoismo. E tuttavia, neppure questo è esatto, perché le caste operaie formicolavano di nostri agenti, di uomini che avevano, al di là dei bisogni pratici, le radiose visioni di Libertà e Fratellanza.

Un'altra grande istituzione che aveva preso forma e funzionava perfettamente era quella dei Mercenari. Questa truppa che traeva origine dall'antico esercito regolare, contava ormai un milione di uomini, senza tener conto delle forze coloniali. Abitavano in città a loro destinate e amministrate da un governo praticamente autonomo, e godevano di numerosi privilegi. Questi Mercenari consumavano gran parte del problematico surplus. Persero però ogni simpatia da parte del resto della popolazione e svilupparono una loro coscienza e moralità particolari. Anche fra loro avevamo migliaia di agenti (1).

L'oligarchia stessa si sviluppò in modo notevole e, bisogna confessarlo, inaspettato. Come classe, si diede una disciplina; ognuno dei suoi membri ebbe un incarico preciso, con l'obbligo di svolgerlo. Non ci furono più giovani ricchi e oziosi; la forza dei giovani serviva a consolidare quella dell'oligarchia. Servivano sia come ufficiali superiori nell'esercito sia come capitani o direttori nell'industria. Facevano carriera nelle scienze applicate, e molti di loro diventarono ottimi ingegneri. Facevano parte di numerose amministrazioni pubbliche, assumevano impieghi nelle colonie ed erano arruolati a migliaia nei diversi servizi segreti. Venivano iniziati, se così si può dire, all'insegnamento, alle arti, alla religione, alla scienza e alla letteratura; e in questi diversi campi svolgevano una funzione importante, modellando la mentalità nazionale in modo d'assicurare la continuità dell'oligarchia.

Si insegnava loro, e più tardi essi stessi insegnavano agli altri, che ciò che facevano era giusto. Assimilavano le idee aristocratiche fin dal principio, quando, da bambini iniziavano la loro esperienza del mondo esterno. E di queste idee erano intessute le loro fibre, sin nel profondo dell'animo. Si consideravano domatori di bestie feroci. Sotto di loro, però, ruggiva sempre il brontolio sotterraneo della rivolta. E tra loro, furtivamente, si aggirava senza tregua la morte violenta: bombe, pallottole, coltelli, erano le zanne di quella bestia ruggente dall'abisso che essi dovevano domare per la sopravvivenza dell'umanità. Si credevano i salvatori del genere umano e si consideravano lavoratori eroici che si sacrificavano per il suo bene.

Erano convinti che la loro classe fosse l'unico sostegno della civiltà e che, se avessero ceduto un solo istante, il mostro li avrebbe inghiottiti nel suo ventre cavernoso e viscido, con tutto ciò che vi è di bello, buono, piacevole e meraviglioso al mondo.

Senza di loro, l'anarchia avrebbe regnato sovrana e l'umanità sarebbe ricaduta nella notte primordiale dalla quale era emersa con tanta fatica. L'orribile spettro dell'anarchia era costantemente posto davanti agli occhi dei loro figli, fino a che, ossessionati da quel timore, fossero a loro volta pronti a ossessionare i loro discendenti. Quella era la bestia che bisognava calpestare, e la sua distruzione costituiva il dovere supremo dell'aristocratico. Insomma, con i loro sforzi e sacrifici incessanti, essi costituivano l'unico ostacolo fra la debole umanità e il mostro vorace; e di questo erano convinti, fermamente.

Non insisterò mai abbastanza su questa profonda presunzione morale di tutta la classe degli oligarchi. E' stata la forza del Tallone di Ferro; e fin troppi compagni hanno impiegato molto tempo a capirlo. Molti di essi hanno attribuito la forza del Tallone di Ferro al suo sistema di ricompense e punizioni. E' un errore. Il cielo e l'inferno possono essere i fattori primi dello zelo religioso di un fanatico, ma per la grande maggioranza si tratta di semplici accessori nei confronti del bene e del male. L'amore del bene, il desiderio del bene, l'insoddisfazione nei confronti di tutto ciò che non è del tutto bene, in una parola, la buona condotta, ecco il primo fattore della religione. E altrettanto si può dire dell'oligarchia. Il carcere, l'esilio, la degradazione, da un lato, dall'altro gli onori, i palazzi, le città meravigliose, non sono che contingenze. La grande forza motrice della oligarchia è la convinzione di far bene. Non badiamo alle eccezioni, non teniamo conto dell'oppressione e dell'ingiustizia tra le quali il Tallone di Ferro nacque; tutto questo è noto, ammesso, sottinteso. Il punto è che la forza dell'oligarchia consiste, attualmente, nella convinzione e soddisfazione della propria rettitudine.

Ma, d'altra parte, anche la forza della Rivoluzione durante questi ultimi e terribili anni è consentita soprattutto nella consapevolezza di essere nel giusto. Non si spiegano altrimenti i nostri sacrifici né l'eroismo dei nostri martiri. Per questo solo motivo l'animo di Mendenhall si infiammò per la Causa, per questo solo scrisse il suo meraviglioso canto del cigno in quell'ultima notte della sua vita. Per questo solo, Hurlbert morì sotto la tortura, rifiutando fino all'ultimo di tradire i compagni. Per questo solo Anna Roylston rinunciò alla felicità della maternità, e John Carlson è rimasto senza alcun compenso guardiano fedele del rifugio di Glen Ellen. Senza distinzioni, uomini o donne, giovani o vecchi, illustri o umili, intelligenti o semplici, si uniscono agli altri compagni della Rivoluzione, e la forza che li muove sarà sempre un profondo e imperturbabile desiderio di giustizia.

Ma mi sono allontanata dal mio racconto, divagando. Prima di abbandonare il nostro rifugio, Ernest e io avevamo compreso perfettamente che la potenza del Tallone di Ferro andava sviluppandosi. Le caste operaie, i Mercenari e le schiere innumerevoli di poliziotti e agenti di ogni specie, erano interamente asserviti all'oligarchia. Tutto sommato, non contando la perdita della libertà, vivevano meglio di prima. D'altra parte, la grande massa disperata del popolo, del popolo dell'abisso, sprofondava in un abbrutimento apatico fatto di assuefazione a tanta squallida miseria. Dei proletari di forza eccezionale che si distinguevano dal gregge, gli oligarchi si impadronivano, migliorando le loro condizioni e ammettendoli nelle caste operaie o fra i Mercenari. Spariva in questo modo ogni malcontento, e il proletariato si ritrovava privo dei suoi capi naturali.

La condizione del popolo nell'abisso era pietosa. La scuola comune non esisteva più; viveva come bestie in grandi e squallidi ghetti operai, marciva nella miseria e nel degrado. Tutte le antiche libertà erano state abolite. A questi schiavi del lavoro era negata persino la scelta del lavoro. Allo stesso modo, veniva loro anche negato il diritto di spostarsi da un posto all'altro o di possedere armi. Erano servi, non della terra, come gli agricoltori, ma della macchina e del lavoro. Quando, di rado, si aveva bisogno di loro per un'impresa straordinaria come la costruzione di grandi strade, linee elettriche, canali, gallerie, passaggi sotterranei e fortificazioni, venivano reclutati in massa nei ghetti e decine di migliaia di servi, volenti o nolenti, erano trasportati sul luogo del lavoro. Un vero esercito di schiavi lavora attualmente per la costruzione di Ardis, e sono alloggiati in miserabili baracche, dove la vita di famiglia non esiste e dove la decenza è sostituita da una bestiale promiscuità. E lì, nel ghetto, rugge la bestia dell'abisso, tanto temuta dagli oligarchi, che pure l'hanno creata e l'alimentano, impedendo la scomparsa della scimmia e della tigre nell'uomo.

E anche ora corre voce di un nuovo reclutamento per la costruzione di Asgard, la città meravigliosa che quando sarà finita dovrà superare tutti gli splendori di Ardis (3). Noi rivoluzionari cureremo la continuazione di quest'opera colossale, che però non sarà compiuta da miserabili schiavi. Le mura, le torri e le guglie di questa città di sogno, s'innalzeranno al ritmo delle canzoni, e la sua bellezza incomparabile sarà cementata, invece che da gemiti e sospiri, dall'armonia e dalla gioia.

Ernest era molto impaziente di ritrovarsi nel mondo e di riprendere la sua attività, perché i tempi sembravano maturi per la nostra Prima Rivolta, quella che fallì tanto miseramente con la Comune di Chicago. Ma io m'impegnavo a disciplinare il suo animo alla pazienza, e per tutto il tempo che durò il suo tormento, mentre Hadly, fatto venire apposta dall'Illinois, lo trasformava in un altro uomo (4), lui concepiva i grandi progetti di organizzazione del proletariato istruito, e preparava i piani per mantenere almeno un principio di educazione nel popolo dell'abisso, qualora, naturalmente, si fosse avverata l'ipotesi di uno scacco della Prima Rivolta.

Solo nel gennaio del 1917 abbandonammo il nostro rifugio. Tutto era pronto. Immediatamente, prendemmo il nostro posto di agenti provocatori nel gioco del Tallone di Ferro. Io passavo per sorella di Ernest. Quel posto ci era stato dato dagli oligarchi o dai nostri autorevoli compagni tra le loro schiere. Eravamo in possesso di tutti i documenti necessari, persino il nostro passato era in regola. Con l'aiuto necessario, non era difficile perché nel regno d'ombre in cui era tenuto sempre il servizio segreto, l'identità rimaneva più o meno nebulosa. Simili a fantasmi, gli agenti andavano e venivano, obbedivano a ordini, adempivano il loro dovere, seguivano tracce, facevano rapporti a funzionari che essi non vedevano mai, o cospiravano con altri agenti che non avevano mai visto prima e mai avrebbero rivisto.

NOTE:

1) I Mercenari svolsero un ruolo importante negli ultimi tempi del Tallone di Ferro. Essi mantenevano l'equilibrio del potere nei conflitti fra oligarchi e caste operaie, gettando il peso della loro forza da una parte o dall'altra, secondo il gioco degli intrighi e delle cospirazioni.

2) Dall'inconsistenza e incoerenza morale del capitalismo, gli oligarchi trassero tuttavia una nuova etica coerente e compiuta, decisa e rigida come l'acciaio, la più assurda, la meno scientifica e nello stesso tempo la più possente che abbia mai servito una classe di tiranni. Gli oligarchi credevano nella loro morale, sebbene fosse smentita dalla biologia e dall'evoluzione, e per tre secoli poterono arrestare la possente marea del progresso umano: esempio profondo, terribile, sconcertante per il moralista metafisico; e che deve ispirare al materialista molti dubbi e riconsiderazioni.

3) Ardis fu terminata nel 1942 e Asgard nel 1984 dell'era cristiana. La costruzione di quest'ultima durò cinquantadue anni, e occorse il lavoro ininterrotto di mezzo milione di servi. In certi periodi, il loro numero superò il milione, senza tener conto delle centinaia di migliaia di lavoratori privilegiati e di artisti.

4) Fra i rivoluzionari, c'erano numerosi chirurghi che avevano acquistato una grande abilità nella vivisezione. Secondo le stesse parole di Avis Everhard, potevano letteralmente trasformare un uomo in un altro. Per essi, l'eliminazione di cicatrici e deformità era un gioco. Mutavano i tratti del volto con tale precisione che non rimaneva alcuna traccia dell'intervento. Il naso era uno degli organi preferiti per simili interventi. Innestare la pelle e trapiantare capelli era una cosa ordinaria per loro, che ottenevano cambiamenti di espressione con abilità straordinaria e modificavano radicalmente gli occhi, le sopracciglia, le labbra, la bocca, le orecchie. Con abili interventi alla lingua, alla gola, alla laringe, alle fosse nasali, poteva essere modificato persino il modo di parlare. In quell'epoca di disperazione occorrevano rimedi disperati, e i medici rivoluzionari erano all'altezza dei tempi. Tra gli altri prodigi, c'era la possibilità di allungare un adulto di cinque o dieci centimetri, e di accorciarlo di quattro o cinque. La loro arte oggi è andata perduta. Non ne abbiamo più bisogno.

Capitolo 22

LA COMUNE DI CHICAGO

La nostra qualità di agenti provocatori non solo ci permetteva di viaggiare molto, ma ci metteva in contatto col proletariato e con i nostri compagni rivoluzionari. Eravamo contemporaneamente nei due campi avversi, servendo con ostentazione il Tallone di Ferro, ma lavorando segretamente e con tutto l'ardore per la Causa. I nostri erano numerosi nei vari servizi segreti dell'oligarchia, e malgrado i rimaneggiamenti e le riorganizzazioni subiti dai servizi segreti, non sono mai stati eliminati del tutto.

Ernest aveva contribuito in massima parte al piano della Prima Rivolta, fissata per i primi giorni della primavera del 1918.

Nell'autunno del 1917, eravamo tutt'altro che preparati, e la Rivolta, scoppiando prematuramente, era destinata a fallire.

Naturalmente, in un piano così complicato, la fretta può essere fatale. Il Tallone di Ferro l'aveva previsto, e si era preparato.

Avevamo stabilito di lanciare il primo attacco contro il sistema nervoso dell'oligarchia. Questa non aveva dimenticato la lezione ricevuta al tempo dello sciopero generale e si era premunita contro la defezione dei telegrafisti installando stazioni telegrafiche protette dai Mercenari. Dal lato nostro, avevamo preso tutte le misure per parare questa mossa. Al segnale convenuto, da tutti i rifugi sparsi nel paese, da tutte le città, dai villaggi e dai baraccamenti, sarebbero usciti compagni fedeli che avrebbero fatto saltare le stazioni telegrafiche. In questo modo, fin dal primo urto il Tallone di Ferro sarebbe stato messo a terra e praticamente smembrato.

Nello stesso tempo, altri compagni avrebbero dovuto far saltare con la dinamite i ponti e le gallerie, interrompendo l'intera rete ferroviaria. Gruppi speciali avrebbero rapito gli ufficiali dei Mercenari e della polizia, come pure alcuni oligarchi di particolare rilievo o che esercitavano importanti funzioni. Così i capi nemici sarebbero stati allontanati dal campo di battaglia. E questa non avrebbe tardato a accendersi dappertutto.

Molte cose dovevano succedere contemporaneamente appena la parola d'ordine fosse stata data. I patrioti del Canada e del Messico, di cui il Tallone di Ferro non immaginava neppure la vera forza, si erano impegnati a imitare la nostra tattica. C'erano poi i compagni (le donne, perché gli uomini sarebbero stati impiegati diversamente) incaricati di affiggere i proclami stampati nelle nostre tipografie clandestine. Quelli fra noi che ricoprivano importanti impieghi nel Tallone di Ferro, avrebbero dovuto cercare con ogni mezzo di far precipitare nel disordine e nell'anarchia tutto i loro uffici. Avevamo migliaia di compagni fra i Mercenari.

Il loro compito consisteva nel far saltare i depositi e distruggere il delicato meccanismo dell'intera macchina bellica.

Operazioni analoghe sarebbero state compiute nelle città dei Mercenari e tra le caste operaie.

In una parola, volevamo assestare un colpo improvviso, magistrale e definitivo. L'oligarchia sarebbe stata distrutta prima di potersi riavere dallo stupore. Ci sarebbero stati momenti terribili e il sacrificio di molte vite, ma nessun rivoluzionario si lascia fermare da questo tipo di considerazione. Nel nostro piano, dipendevamo molto persino dal popolo non organizzato dell'abisso, che doveva essere sguinzagliato verso i palazzi e le città dei padroni. Che cosa importavano la perdita di vite e la distruzione delle proprietà? La bestia dell'abisso avrebbe ruggito, la polizia e i Mercenari avrebbero ucciso. Ma la bestia dell'abisso avrebbe ruggito per qualunque causa e gli sterminatori di professione avrebbero ucciso con ogni mezzo. Così, i vari pericoli che ci minacciavano si sarebbero neutralizzati a vicenda.

Nel frattempo, noi avremmo fatto il nostro lavoro, in gran parte indisturbati, e avremmo conquistato il controllo della macchina della società.

Tale era il nostro piano; ogni particolare, prima elaborato in segreto, era poi, via via che si avvicinava il momento dell'esecuzione, comunicato a un numero sempre crescente di compagni. Questo allargamento progressivo del complotto era il suo punto debole, pericoloso. Ma non ci si arrivò mai. Tramite il suo servizio di spionaggio, il Tallone di Ferro ebbe notizia della Rivolta, e si preparò a infliggerci una nuova e sanguinosa lezione. Chicago fu il posto scelto per la dimostrazione, che fu esemplare.

Di tute le città, Chicago era la più matura per la Rivoluzione (1). Chicago, chiamata un tempo la "città del sangue", avrebbe meritato di nuovo quel soprannome. Troppi scioperi vi erano stati soffocati al tempo del capitalismo perché gli operai potessero dimenticare o perdonare. La rivolta covava perfino tra le caste operaie della città. Sebbene queste avessero mutato condizione e avessero ottenuto molti favori, conservavano tuttavia un odio inestinguibile per la classe dominante. Questo stato d'animo aveva contaminato anche i Mercenari, tre reggimenti dei quali erano pronti a unirsi a noi, in massa.

Chicago era sempre stata un centro di conflitti fra lavoro e capitale, una città dove si combatteva nelle vie, dove le morti violente erano frequentissime, dove la coscienza di classe e l'organizzazione erano sviluppate tanto nei lavoratori quanto nei capitalisti; dove, un tempo, persino gli insegnanti formavano dei sindacati affiliati alla Confederazione Americana del Lavoro, insieme a quelli dei manovali e dei muratori. Chicago, dunque, divenne l'epicentro di quella prematura Prima Rivolta.

La situazione venne fatta precipitare dal Tallone di Ferro. Fu un'operazione molto abile. Tutta la popolazione, comprese le caste dei lavoratori privilegiati, fu sottoposta a un trattamento oltraggioso. Impegni e accordi furono violati: furono inflitti castighi severi per errori insignificanti. Il popolo dell'abisso fu svegliato a colpi di frusta dalla sua apatia. Il Tallone di Ferro in realtà si preparò a far ruggire la bestia.

Contemporaneamente, mostrò un'incredibile noncuranza per le misure di sicurezza più elementari. La disciplina s'era allentata fra i Mercenari rimasti sotto le armi mentre parecchi reggimenti erano stati trasferiti e sparsi in varie parti del paese.

Non ci volle molto per portare a termine questo programma: fu una faccenda di poche settimane. Noi rivoluzionari avemmo sentore che qualcosa stava succedendo, ma non disponevamo di elementi sufficienti per comprendere la verità. Pensavamo in realtà che si trattasse di uno spirito di rivolta spontaneo che avremmo dovuto incanalare e mai pensavamo che potesse essere invece preparato deliberatamente e così segretamente, nell'ambito del Tallone di Ferro, da non lasciar trapelare nulla a noi. L'organizzazione di quel movimento controrivoluzionario fu perfetta, come pure la sua esecuzione.

Ero a New York, quando ricevetti l'ordine di recarmi immediatamente a Chicago. L'uomo che mi trasmise quest'ordine era un oligarca, lo capii sentendolo parlare. Sebbene non conoscessi il suo nome, e non vedessi che il suo viso, quelle istruzioni erano troppo chiare perché potessi sbagliare. Chiaramente, mi resi conto che la nostra cospirazione era stata scoperta, e che eravamo stati anticipati. Tutto era pronto per l'esplosione e gli innumerevoli agenti del Tallone di Ferro, me compresa, avrebbero fatto scattare la scintilla, da lontano o recandosi sul posto. Mi vanto di aver conservato il mio sangue freddo, sotto lo sguardo scrutatore dell'oligarca; ma il cuore mi batteva all'impazzata.

Prima che avesse finito di dare i suoi ordini implacabili, avevo già voglia di urlare e di stringergli la gola fra le mani.

Appena via dalla sua presenza, feci il calcolo del tempo disponibile. Se la fortuna mi assisteva, potevo disporre di qualche minuto per mettermi in contatto con qualche dirigente locale, prima di saltare sul treno. Badando bene a non farmi pedinare, corsi come una pazza all'Ospedale di Pronto Soccorso, ed ebbi la fortuna di essere ricevuta immediatamente dal direttore sanitario, il compagno Galvin. Con l'affanno, stavo per comunicargli la notizia, quando mi interruppe:

"So tutto", disse, con una calma che contrastava col lampo dei suoi occhi irlandesi. "So perché sei venuta, ho ricevuto la notizia un quarto d'ora fa, e l'ho già trasmessa. Qui faremo tutto il possibile per tener calmi i compagni. Chicago, solo Chicago dev'essere sacrificata".

"Hai tentato di metterti in comunicazione con Chicago?" domandai.

Scosse la testa: "Nessuna comunicazione telegrafica è possibile.

Chicago è isolata dal resto del mondo, e vi si scatenerà l'inferno".

Tacque un istante, e lo vidi stringere i pugni. Poi esclamò:

"Perdio, vorrei andarci, però!".

"C'è ancora una possibilità per impedirlo", dissi, "se il mio treno non ha incidenti e arriva in tempo, oppure se altri compagni del servizio segreto che hanno saputo la verità fanno in tempo ad arrivarci".

"Voialtri vi siete lasciati sorprendere stavolta", disse.

"Il segreto era molto ben custodito", risposi. "Solo i massimi capi lo sapevano, fino a oggi. Poiché fino a loro ancora non siamo arrivati, eravamo dunque al buio. Se almeno Ernest fosse qui!

Forse è a Chicago ora, e allora tutto andrà bene".

Il dottor Calvin scosse il capo.

"Secondo le ultime notizie, dev'essere stato mandato a Boston o a New Haven. Il servizio segreto per il nemico lo deve urtare enormemente, ma è meglio che restare rinchiusi in un rifugio".

Mi alzai per andare, e Galvin mi strinse forte la mano.

"Fatti forza", mi raccomandò, salutandomi. "Se la prima rivolta è perduta, ne faremo una seconda, e saremo più prudenti. Arrivederci e buona fortuna. Non so se ti vedrò ancora. Dev'essere terribile laggiù, ma darei volentieri dieci anni di vita per esserci".

Il Twentieth Century (2) lasciava New York alle sei di sera per arrivare a Chicago alle sette del mattino. Quella sera era molto in ritardo. Seguivamo un altro treno. Nel mio vagone pullman fra gli altri passeggeri c'era il compagno Hartman, anche lui, come me, nel servizio segreto del Tallone di Ferro. Mi parlò del treno che ci precedeva. Era una replica del nostro, ma senza passeggeri a bordo. In caso di attentato al Twentieth Century, sarebbe saltato in aria il treno vuoto. A bordo del nostro, però, non c'era molta gente: contai appena dodici o tredici passeggeri nella nostra vettura.

"Devono esserci personaggi importanti su questo treno", disse Hartman, a mo' di conclusione. "Ho notato una carrozza riservata, in coda".

Era già notte, quando ci fu il primo cambio di locomotiva. Scesi sul marciapiedi per respirare un po' d'aria pura e per guardarmi un po' intorno. Dai finestrini del vagone riservato, intravidi tre uomini che conoscevo. Hartman aveva ragione: uno era il generale Altendorff, gli altri due, Mason e Vanderbold, che costituivano il cervello del servizio segreto dell'oligarchia.

Era una bella notte di luna piena, ma mi sentivo agitata e non potevo dormire. Alle cinque del mattino mi alzai e mi vestii .

Chiesi alla cameriera della toeletta quanto ritardo avevamo e mi rispose: "Due ore". Era una mulatta. Osservai che aveva i lineamenti tirati e gli occhi cerchiati, come dilatati da un'ansia continua.

"Cosa le succede?" domandai.

"Nulla, signorina, non ho dormito bene", rispose.

La guardai più attentamente, e tentai uno dei nostri segni convenzionali. Rispose, e mi assicurai così che era dei nostri.

"Sta per succedere qualcosa di terribile a Chicago", disse. "Siamo preceduti da un finto treno. Questo e quelli militari ci causano ritardo".

"Treni militari?".

Fece cenno di sì.

"La linea ne è piena. Li abbiamo incontrati tutta la notte. E tutti diretti a Chicago. Hanno tutti la precedenza e questo significa che c'è sotto qualcosa. Ho un amico a Chicago", soggiunse, con tono di scusa, "è uno dei nostri. E' fra i Mercenari, e temo per lui".

Povera ragazza! Il suo innamorato apparteneva a uno dei tre reggimenti infedeli.

Hartman e io facemmo colazione nel vagone restaurant, e io mi sforzai di mangiare. Il cielo era coperto e il treno filava con un cupo tuono nella prima luce grigia del giorno. Persino i negri che ci servivano sapevano che si stava preparando qualcosa di tragico.

Avevano perduto la loro solita spensieratezza e sembravano depressi. Erano lenti nel servire, avevano la mente rivolta altrove e bisbigliavano incupiti fra loro, in fondo al vagone, vicino alla cucina. Per Hartman la situazione era disperata.

"Che possiamo fare?" chiese per la ventesima volta, alzando le spalle. Poi, indicando il finestrino: "Ecco, tutto è pronto. Puoi star certa che ce n'è una fila così lungo tutta la strada ferrata".

Alludeva ai treni militari schierati sui binari morti. I soldati preparavano il rancio sui fuochi accesi vicino ai binari e guardavano, incuriositi, il nostro treno che proseguiva senza rallentare la sua corsa velocissima.

Quando entrammo in Chicago, tutto era tranquillo. Evidentemente niente di anormale era ancora accaduto. Alla periferia portarono a bordo i giornali del mattino. Non dicevano niente di nuovo, eppure chi sapeva poteva leggere fra le righe molte cose che sfuggivano al lettore comune. Si avvertiva lo scaltro intervento del Tallone di Ferro in ogni colonna. Si lasciavano intravedere alcuni punti deboli nell'armatura dell'oligarchia ma, s'intende, nulla di definitivo; si voleva che il lettore trovasse la spiegazione da sé, attraverso le allusioni. Tutto era raggiunto con molta destrezza. Come in letteratura, i giornali del mattino del 27 ottobre erano dei capolavori.

Mancavano le notizie locali, e questo di per sé era già un colpo maestro. Avvolgeva Chicago nel mistero, e suggeriva al lettore comune l'idea che l'oligarchia non osasse darne. C'erano accenni a sommosse, inventate naturalmente, atti di insubordinazione commessi un po' dappertutto, accompagnati da compiaciute allusioni ai provvedimenti repressivi da prendere. Si parlava di stazioni telegrafiche fatte saltare in aria, e di grossi premi per chi avesse collaborato alla scoperta degli autori. Naturalmente, nessuna stazione telegrafica era saltata in aria. Veniva dunque data notizia di molti colpi del genere, perfettamente rispondenti ai disegni dei rivoluzionari. Tutto questo doveva dare ai compagni di Chicago l'impressione che una rivolta generale stesse per cominciare, e nello stesso tempo creare una gran confusione mediante particolari su scacchi parziali. Chi non era ben informato non poteva sfuggire alla vaga ma certa sensazione che tutto il paese era pronto per una sommossa già cominciata.

Veniva annunciato che la defezione dei Mercenari in California era diventata così seria, che una mezza dozzina di reggimenti erano stati sbandati e dispersi, e che i soldati con le loro famiglie erano stati espulsi dalle loro città e rigettati nei ghetti operai. Ora i Mercenari di California erano, in realtà, i più fedeli di tutti ai loro padroni. Ma cosa ne sapevano a Chicago, isolata com'era dal resto del mondo ? Un dispaccio, mutilato durante la trasmissione, descriveva la sollevazione della cittadinanza di New York, che s'era unita alle caste operaie, e finiva affermando (la cosa doveva passare per un bluff) che le truppe avevano il sopravvento.

E non solo con la stampa gli oligarchi avevano tentato di divulgare notizie false. Venimmo a sapere dopo che, a più riprese, sul far della notte, erano giunti messaggi telegrafici destinati unicamente a essere intercettati dai rivoluzionari.

"Credo che il Tallone di Ferro non avrà bisogno di noi", osservò Hartman, mettendo via il giornale che stava leggendo, quando il treno entrò nella stazione centrale. "Era inutile mandarci qui. I loro piani sono riusciti meglio di quanto sperassero. L'inferno si scatenerà da un momento all'altro".

Mentre scendeva, si voltò a guardare in fondo al treno.

"L'immaginavo", disse. "Hanno sganciato il vagone riservato quando hanno portato a bordo i giornali".

Era prostrato. Tentai d'incoraggiarlo, ma non fece caso ai miei sforzi. A un tratto, mentre attraversavamo la stazione, si mise a parlare svelto a bassa voce. Sulle prime non capii.

"Non ne ero sicuro, e non ne ho parlato con nessuno", disse. "Da settimane tento l'impossibile, e ancora non sono sicuro. Stia attenta a Knowlton. Dubito di lui. Conosce il segreto di molti nostri rifugi. Ha in mano la vita di centinaia di noi, e credo che sia un traditore. La mia è solo un'impressione, finora, ma da un po' di tempo ho notato un certo cambiamento in lui. E' possibile che ci abbia venduti o, se non l'ha fatto, ha intenzione di farlo.

Ne sono quasi certo. Non potevo svelare i miei sospetti a nessuno ma, non so perché, sento che non lascerò vivo Chicago. Tenga d'occhio Knowlton. Cerchi di attirarlo in trappola. Lo smascheri.

Non so niente di più. E' solo un'intuizione, non ho nessun indizio".

In quel momento uscivamo dalla stazione.

"Ricordi", concluse Hartman, con tono frettoloso. "Tenga d'occhio Knowlton".

E aveva ragione: non trascorse un mese, e Knowlton pagò con la vita il suo tradimento. Fu formalmente giustiziato dai compagni del Milwaukee.

Le strade erano tranquille, troppo tranquille. Chicago sembrava morta. Non si sentiva il rombo e il frastuono del traffico, non passavano macchine. I tram erano fermi e la soprelevata non funzionava. Ogni tanto s'incontrava qualche passante solitario che tirava via alla svelta, verso una meta ben definita. S'indovinava tuttavia nella sua andatura un'indecisione strana, come se temesse che le case potessero crollare o che il marciapiede gli sprofondasse sotto i piedi. Qua e là, però, oziavano dei ragazzini e nei loro occhi si leggeva un'attesa contenuta, come se aspettassero avvenimenti meravigliosi e commoventi.

Da qualche parte, lontano a sud, giunse il rumore sordo di un'esplosione. Poi, più nulla. La calma ritornò; ma i ragazzini, allarmati, tendevano l'orecchio come giovani daini nella direzione del suono. Le porte delle case erano chiuse, le saracinesche dei negozi abbassate. Ma c'erano molti poliziotti e guardie in giro e ogni tanto una pattuglia di Mercenari sfrecciava in automobile.

Di comune accordo, Hartman e io giudicammo inutile presentarci ai capi locali del servizio segreto. Sapevamo che saremmo stati giustificati dagli avvenimenti successivi. Ci dirigemmo dunque verso il grande ghetto operaio della Zona Sud con la speranza di avvicinare qualcuno dei nostri compagni. Era troppo tardi. Ma non potevamo restare senza far niente in quelle strade spettrali e silenziose. Dov'era Ernest? Non facevo che chiedermelo. Cosa succedeva nelle caste operaie e in quelle dei Mercenari della città? E nella fortezza?

Come in risposta a questi interrogativi, s'udì nell'aria un rombo prolungato, un brontolio un po' attutito dalla distanza ma punteggiato da una serie di rapide detonazioni.

"E' la fortezza", esclamò Hartman. "Il cielo abbia pietà di quei tre reggimenti!".

A un incrocio, notammo, in direzione dei macelli, una gigantesca colonna di fumo. Al successivo ne vedemmo parecchie altre che s'innalzavano al cielo, dalla parte della Zona Ovest. Sopra la città dei Mercenari si librava un rosso pallone frenato che scoppiò proprio mentre lo guardavamo, lasciando cadere da ogni parte i suoi brandelli in fiamme. Nulla, però, lasciava pensare a una tragedia aerea, perché non sapevamo se nel pallone c'erano amici o nemici. Un vago rumore ci giunse agli orecchi, simile al ribollire lontano di una pentola gigantesca. Hartman disse che era il crepitio delle mitragliatrici e dei fucili automatici.

Ciò nonostante, intorno a noi c'era ancora calma. Passarono dapprima agenti di polizia e pattuglie in macchina, poi una mezza dozzina di autopompe che ritornavano evidentemente da un incendio.

Un ufficiale, a bordo di un'automobile, interrogò i pompieri, di cui uno rispose: "Non c'è acqua. Hanno fatto saltare le condutture principali".

"Abbiamo distrutto la provvista dell'acqua", osservò Hartman, entusiasta. "Se possiamo far questo in un tentativo di rivolta prematura, isolato e fallito sul nascere, immaginiamo cosa si può fare in un tentativo collettivo e concorde in tutto il paese!".

La macchina dell'ufficiale che s'era rivolto ai pompieri si allontanò rapidamente. All'improvviso scoppiò un fragore assordante: la vettura, col suo carico umano, fu sollevata in un turbine di fumo, poi precipitò in un mucchio di rottami e di cadaveri.

Hartman esultava. "Bene, bene", ripeteva a bassa voce. "Oggi il proletariato riceve una lezione, ma ne dà anche una".

La polizia accorse sul luogo del disastro. Un'altra pattuglia in auto s'era fermata. Quanto a me, ero come intontita dall'avvenimento improvviso. Non capivo che fosse accaduto sotto i miei occhi, e m'ero appena accorta che eravamo stati accerchiati dalla polizia. A un tratto, vidi un agente che stava per abbattere Hartman; ma questi, con sangue freddo, gli diede la parola d'ordine: vidi la rivoltella vacillare, poi abbassarsi, e sentii il poliziotto brontolare deluso. Era in collera e malediceva l'intero servizio segreto. Dichiarò che quella era gente sempre fra i piedi. Hartman gli rispose col caratteristico tono altezzoso degli agenti segreti, spiegandogli gli errori della polizia.

Poco dopo mi resi conto di quanto era accaduto. Parecchi curiosi si erano fermati, e due uomini stavano per sollevare l'ufficiale ferito per portarlo nell'altra automobile, ma furono presi da panico improvviso e tutti, spaventati, si sparpagliarono in varie direzioni. I due avevano lasciato cadere di colpo il ferito e correvano come gli altri. Anche l'agente che aveva bestemmiato si mise a correre, e Hartman e io facemmo lo stesso, senza sapere perché, spinti da un cieco terrore ad allontanarci al più presto da quel luogo fatale.

Non era successo nulla di particolare in quel momento; eppure mi spiegavo tutto. I fuggitivi ritornavano timidamente, ma, ogni tanto, alzavano gli occhi con apprensione verso le finestre delle alte case che dominavano da ogni parte la strada, come le pareti d'una gola dirupata. La bomba era stata lanciata da una di quelle innumerevoli finestre: ma quale? Non c'era stata una seconda bomba, soltanto la paura.

Dopodiché, scrutammo attentamente e con timore le finestre. La morte poteva essere in agguato dietro una di esse. Ogni casa poteva nascondere un'insidia. Era guerra, in quella giungla moderna che è una grande città. Ogni strada poteva essere un canyon, ogni edificio una montagna. Nulla era cambiato dai tempi dell'uomo primitivo, nonostante le autoblindo che ci ronzavano intorno.

Nel girare un angolo ci imbattemmo in una donna stesa a terra in un lago di sangue. Hartman si chinò su di lei. Io mi sentii svenire. Dovevo vedere molti morti, quel giorno, ma l'eccidio in massa non mi colpì come quel primo cadavere abbandonato là, ai miei piedi, sul lastricato.

"Colpita al petto", dichiarò Hartman.

La donna stringeva, sotto il braccio, un pacco di manifesti, come fosse un bambino. Anche morendo non aveva voluto staccarsi da quella che era stata la causa della sua morte. Infatti, quando Hartman riuscì a toglierle il pacco, vedemmo che era formato da grandi fogli stampati: erano i proclami dei rivoluzionari.

"Una compagna!" esclamai.

Hartman si limitò a maledire il Tallone di Ferro, e continuammo per la nostra strada. Fummo fermati più volte da agenti e pattuglie, ma le parole d'ordine ci permisero di proseguire. Non cadevano più bombe dalle finestre: sembrava che gli ultimi passanti fossero svaniti e le strade fossero tornate più tranquille che mai. Ma la gigantesca pentola continuava a ribollire in lontananza, il rumore sordo delle esplosioni giungeva da ogni parte, e colonne di fumo sempre più numerose levavano sempre più in alto i loro sinistri pennacchi.

NOTE:

1) Chicago era l'inferno industriale del diciannovesimo secolo. A questo proposito, è giunto fino a noi uno strano aneddoto di John Burns, grande dirigente socialista inglese ed ex membro del gabinetto. Stava visitando gli Stati Uniti quando, a Chicago, un giornalista gli domandò cosa pensasse di quella città:

"Chicago", rispose, "è un'edizione tascabile dell'inferno". Poco tempo dopo, mentre s'imbarcava per ritornare in Inghilterra, un altro giornalista lo avvicinò per chiedergli se aveva cambiato opinione su Chicago: "Sì, certamente", rispose John Burns. "Ora la mia opinione è che l'inferno sia un'edizione tascabile di Chicago".

2) Letteralmente: ventesimo secolo. Così si chiamava il treno ritenuto a quel tempo il più veloce del mondo. Era molto famoso.

Capitolo 23

IL POPOLO DELL'ABISSO

Improvvisamente le cose cambiarono; un fremito di animazione sembrò vibrare nell'aria. Passarono sfrecciando due, tre, una dozzina di auto con a bordo persone che ci gridavano avvertimenti.

All'incrocio successivo, una delle macchine fece una svolta stretta senza rallentare e un istante dopo, al posto che aveva appena lasciato e dal quale era già lontana, I'esplosione di una bomba scavava una gran buca. Vedemmo la polizia sparire correndo per le vie laterali: sapevamo che qualcosa di spaventoso si avvicinava. Ne sentivamo il brontolio crescente.

Potemmo già vedere la testa della colonna che occupava la strada da un marciapiede all'altro, mentre l'ultima autoblindo sfrecciava via. Poi, giunta alla nostra altezza, questa si fermò. Ne scese in fretta un soldato: recava qualcosa che depose con molta precauzione nel rigagnolo del marciapiede, poi ritornò con un balzo al suo posto. L'autoblindo ripartì, girò all'angolo e scomparve. Hartman corse verso il rigagnolo e si chinò sull'oggetto.

"Non si avvicini", mi gridò.

Lo vidi armeggiare febbrilmente. Quando mi raggiunse, aveva la fronte imperlata di sudore.

"Ho tolto l'innesco", disse, "e al momento giusto. Quel soldato è un incapace: l'aveva destinata ai nostri compagni, ma non aveva calcolato il tempo giusto. Sarebbe scoppiata prima. Ora non scoppierà più".

Gli avvenimenti precipitavano. Dall'altro lato della via, un po' più lontano, alle finestre di un caseggiato, distinguevo delle persone che guardavano. Avevo appena finito di farlo osservare a Hartman, quando fiamme e fumo si svilupparono su quella parte della facciata, e l'aria fu scossa da un'esplosione. In alcuni punti, l'intonaco caduto mostrava l'armatura di ferro al di sotto.

Poco dopo, la facciata della casa di fronte era dilaniata da altre esplosioni simili. Nell'intervallo si sentirono crepitare pistole e fucili automatici. Quel duello durò parecchi minuti, poi si spense. Evidentemente i nostri compagni occupavano uno dei caseggiati, e i Mercenari quello di fronte, e gli avversari si combattevano attraverso la strada; ma non potevamo sapere da quale parte fossero i nostri.

In quel momento, la colonna che procedeva sulla strada era giunta quasi alla nostra altezza. Appena le prime file passarono sotto le finestre delle case rivali, il bombardamento riprese con forza. Da un lato si gettavano bombe nella strada, dall'altro se ne lanciavano contro la casa di fronte, che rispondeva al fuoco. Ora sapevamo quale fosse la casa occupata dai nostri, i quali facevano un buon lavoro, difendendo la gente della strada dalle bombe del nemico.

Hartman mi prese per un braccio e mi tirò dentro un vasto androne.

"Non sono i nostri compagni", mi disse all'orecchio.

Le porte interne sotto quell'androne erano chiuse e sprangate. Non avevamo via di scampo. In quel momento la testa della colonna passò. Non era una colonna, ma una confusa massa di gente, un torrente inquieto che riempiva la via; era il popolo dell'abisso esaltato e assetato che s'era levato ruggendo per chiedere il sangue dei padroni. L'avevo già visto, quel popolo dell'abisso, avevo attraversato i suoi ghetti e credevo di conoscerlo, eppure mi sembrava di vederlo per la prima volta. La sua muta apatia era svanita: dava ora uno spettacolo affascinante e terribile. Mi si levava ora davanti in vere ondate di rabbia, ruggendo e brontolando, carnivoro, ebbro del whiskey dei depositi assaliti, ebbro d'odio e della sete di sangue. Uomini, donne e bambini, in cenci e stracci, feroci e cupe intelligenze senza più sembianze umane nei volti, ma bestiali, tigri ormai, incarnati anemici e gran ciuffi di peli, volti pallidi a cui la società vampiro aveva succhiato la linfa vitale; megere appassite e vecchi barbuti dalla testa di morto, gioventù corrotta e vecchiaia cancrenosa, facce di demoni, asimmetriche e torve, corpi deturpati dalla malattia e dal morso d'una eterna carestia, feccia e schiuma della vita, orde urlanti, epilettiche, arrabbiate, diaboliche.

Poteva forse essere altrimenti? Il popolo dell'abisso non aveva nulla da perdere, fuorché la sua miseria e la pena di vivere. E che cosa aveva da guadagnare? Null'altro che un'orgia finale e terribile di vendetta. Mi venne da pensare che in quel torrente di lava umana ci fossero degli uomini, dei compagni, degli eroi, la cui missione era stata quella di sollevare la bestia dell'abisso affinché il nemico potesse domarla.

Allora mi accadde una cosa sorprendente; avvenne in me una trasformazione. La paura della morte, mia o degli altri, mi aveva abbandonata. Per una strana esaltazione, mi sentivo una creatura nuova in una nuova vita. Nulla aveva importanza. La Causa era perduta, questa volta, ma avrebbe potuto trionfare domani, più giovane e ardente che mai. Così potei osservare con calmo interesse gli orrori che si scatenarono nelle ore successive. La morte non significava nulla, ma la vita non significava di più.

Ora osservavo gli avvenimenti con attenta obiettività; trascinata dalla corrente, vi prendevo parte con la stessa curiosità. La mia mente s'era levata alla fredda altezza delle stelle e aveva colto, impassibile, una nuova scala dei valori. Se non avessi fatto così credo che sarei morta.

Mezzo miglio già di folla era sfilato quando fummo scoperti. Una donna, vestita di stracci incredibili, con le guance infossate e gli occhi neri, profondi, ci scoprì. Subito mandò un mugolio acuto e si precipitò verso di noi, trascinandosi dietro parte della folla. Mi sembra ancora di vederla mentre avanzava a balzi davanti agli altri, con i capelli grigi svolazzanti, il sangue che le colava dalla fronte e dalle ferite al capo. Brandiva un'ascia in una mano, mentre l'altra, secca e rugosa, sembrava stringere convulsamente il vuoto, come artigli di uccello da preda. Hartman si lanciò davanti a me. Il momento non era adatto alle spiegazioni. Eravamo vestiti decentemente, e ciò bastava.

Il suo pugno colpì la donna fra gli occhi, che, per la forza del colpo, fu rigettata indietro; ma incontrato il muro dei compagni che avanzavano rimbalzò avanti, stordita e confusa, mentre l'ascia si abbatteva senza forza sulla spalla di Hartman.

Un attimo dopo non capii più nulla. Ero sommersa dalla folla. Lo stretto spazio in cui eravamo risuonava di imprecazioni, urla e bestemmie. Colpi mi piovevano addosso. Mani mi strappavano e laceravano gli abiti e la carne. Ebbi la sensazione di essere fatta a pezzi. Sul punto d'essere rovesciata, soffocata, ecco una mano vigorosa afferrarmi per una spalla e trarmi violentemente.

Sopraffatta dalla sofferenza, svenni. Hartman non uscì vivo da quell'androne; per difendermi aveva affrontato lui il primo urto.

Questo mi aveva salvato, perché subito dopo la calca era diventata così fitta, che non era stato possibile fare altro contro di me che agitare mani e stringere pugni.

Ripresi coscienza nel mezzo di una sfrenata agitazione; intorno a me tutto s'agitava. Ero trascinata da una mostruosa ondata che mi portava, non sapevo dove. L'aria fresca mi accarezzava la fronte e dava forza ai polmoni. Stordita e debole, sentivo vagamente che un braccio solido mi circondava la vita, sollevandomi e portandomi avanti. Vedevo agitarsi davanti a me la parte posteriore di un soprabito d'uomo che, con una spaccatura dall'alto al basso, lungo la cucitura centrale, palpitava come un polso regolare, aprendosi e chiudendosi al ritmo dell'andatura. Quel fenomeno mi affascinò, finché non ripresi completamente coscienza. Poi sentii mille punture di spilli nelle guance e nel naso, e mi accorsi che il viso mi grondava sangue. Il mio cappello era sparito e i capelli, disfatti, ondeggiavano al vento. Un forte dolore alla testa mi fece ricordare di una mano che nella mischia mi aveva strappato i capelli. Il petto e le braccia erano coperti di lividi e doloranti.

Le idee mi si chiarivano. Senza fermarmi nella corsa mi voltai a guardare l'uomo che mi sosteneva e che mi aveva strappata alla folla e salvata. Lui notò il mio movimento.

"Tutto bene", esclamò con voce rauca. "L'ho subito riconosciuta".

Io non lo riconoscevo ancora; ma prima di dire una parola mi accorsi di camminare su qualcosa di vivo, che si contrasse sotto il mio piede. Spinta da quelli che mi seguivano, non potei chinarmi a vedere, ma seppi che era una donna caduta che migliaia di piedi calpestavano senza tregua sul selciato.

"Tutto bene", ripeté l'uomo. "Sono Garthwaite".

Era barbuto, magro e sudicio, ma potei riconoscere in lui il robusto giovane che tre anni prima aveva passato qualche mese nel nostro rifugio di Glen Ellen. Mi diede la parola d'ordine del servizio segreto del Tallone di Ferro per farmi capire che anche lui ne faceva parte.

"La libererò io, appena ne avrò l'occasione", mi disse. "Ma cammini con precauzione, e stia attenta a non fare un passo falso, e a non cadere: ne va di mezzo la vita!".

Tutto succedeva all'improvviso, quel giorno: bruscamente, di colpo, la folla si fermò. Urtai violentemente una donna che mi precedeva (l'uomo dal cappotto con lo spacco era scomparso) e quelli che mi seguivano mi piombarono addosso. L'inferno s'era scatenato, con una cacofonia di urli, maledizioni, grida d'agonia, che dominavano il crepitio delle mitragliatrici e delle fucilate.

La donna che mi precedeva si piegò su se stessa, stringendosi il ventre con una stretta disperata. Contro le mie gambe un uomo si dibatteva negli spasimi della morte.

Mi accorsi che eravamo alla testa della colonna. Non ho mai saputo come mai fosse scomparso quel mezzo miglio di umanità che ci precedeva, e mi chiedo ancora se sia stato distrutto da qualche spaventosa macchina da guerra e ridotto a pezzi, o se abbia potuto fuggire disperdendosi. Il fatto è che eravamo là, in testa alla colonna, e non più in mezzo, e che in quel momento eravamo falciati da una sibilante pioggia di piombo.

Appena la morte fece un po' di vuoto, Garthwaite, che non aveva abbandonato il mio braccio, si precipitò alla testa di una colonna di sopravvissuti verso il largo porticato di un palazzo di uffici.

Fummo schiacciati contro le porte da una massa di creature ansanti, trafelate, e rimanemmo a lungo in quell'orribile posizione.

"Che cosa ho mai fatto!" si lamentava Garthwaite. "L'ho trascinata in una bella trappola. Nella strada potevamo avere qualche speranza, qui non ne abbiamo alcuna. Non ci rimane altro che gridare: Vive la Révolution!". Poi ebbe inizio quel che c'era da aspettarsi. I Mercenari uccidevano senza tregua. La spaventosa pressione esercitata prima su di noi, diminuiva in proporzione alle uccisioni. I morti e i moribondi, cadendo, facevano largo.

Garthwaite mise la bocca sul mio orecchio e mi gridò delle parole che non riuscii a cogliere in mezzo a quel chiasso assordante.

Senza aspettare oltre, mi prese, mi gettò a terra e mi coprì col corpo di una donna agonizzante. Poi, a forza di spingere e stringere, scivolò vicino a me, riparandomi in parte, col suo corpo.

Morti e moribondi si ammucchiavano sopra di noi e su quel mucchio, i feriti si trascinavano gemendo. Ma quei movimenti cessarono ben presto e regnò un mezzo silenzio, interrotto da gemiti, sospiri e rantoli.

Sarei rimasta schiacciata senza l'aiuto di Garthwaite, eppure, nonostante i suoi sforzi, mi sembra incredibile che abbia potuto sopravvivere a una simile compressione. Tuttavia, a parte la sofferenza, ero vinta da un senso di curiosità. Come sarebbe andata a finire? Che cosa avrei provato morendo? In questo modo ricevetti il battesimo di sangue, il battesimo rosso, nella strage di Chicago. Sino ad allora, avevo considerato la morte in teoria, ma da allora essa fu per me un fatto senza importanza, tanto è facile.

Ma i Mercenari non erano ancora soddisfatti. Invasero il portico per finire i feriti e cercare gli scampati che, come noi, si fingevano morti. Sentii un uomo, strappato di sotto un mucchio, implorare pietà, sinché un colpo di rivoltella non gli spezzò la parola a metà. Una donna si lanciò da un altro mucchio grondando sangue e, spianando la rivoltella, sparò. Prima di soccombere scaricò sei volte l'arma, con quale risultato non seppi, perché seguivamo quelle tragedie solo con l'udito. A ogni istante ci giungevano folate di rumori di scene simili, di cui ognuna finiva con un colpo di arma da fuoco. Negli intervalli sentivamo i soldati parlare e bestemmiare fra i cadaveri, incitati dai loro ufficiali.

Finalmente, si rivolsero al nostro mucchio e sentimmo la pressione diminuire man mano che toglievano i morti e i feriti. Garthwaite pronunciò la parola d'ordine. Dapprima non lo udirono. Alzò un po' più la voce.

"Ascoltate", disse un soldato. E subito si udì l'ordine breve di un ufficiale.

"Attenzione là: fate piano".

Oh, quella prima boccata d'aria mentre ci liberavano! Garthwaite parlò per primo, ma dovetti sottostare anch'io a un breve interrogatorio per provare che ero proprio al servizio del Tallone di Ferro.

"Sono proprio agenti provocatori", concluse l'ufficiale.

Era un giovane imberbe, un cadetto di qualche grande famiglia di oligarchi.

"Brutto mestiere", brontolò Garthwaite. "Darò le mie dimissioni e cercherò di entrare nell'esercito. Siete fortunati, voialtri!".

"Lo meriterebbe", rispose l'ufficialetto. "Posso darle una mano e cercare di sistemare la cosa. Basterà che dica come vi ho trovati".

E, segnato il nome e il numero di Garthwaite, si volse dalla mia parte:

"E lei?".

"Oh! io mi sposo", risposi con disinvoltura, "e mando tutto a quel paese".

Così ci mettemmo a chiacchierare tranquillamente, mentre i feriti attorno a noi venivano finiti. Tutto questo oggi mi sembra un sogno, ma in quel momento mi sembrava la cosa più naturale del mondo. Garthwaite e l'ufficialetto si impegolarono in una vivace discussione sulla diversità fra i metodi di guerra moderni e quella guerriglia urbana tra strade e grattacieli. Io li ascoltavo mentre mi pettinavo e aggiustavo alla meglio con degli spilli gli strappi della gonna. Intanto, il massacro dei feriti continuava. A volte i colpi di rivoltella coprivano la voce di Garthwaite e dell'ufficiale e li obbligavano a ripetersi.

Ho passato tre giorni in quel carnaio della Comune di Chicago, e posso dare un'idea della sua incredibilità dicendo che in quei tre giorni non vidi altro che il massacro del popolo dell'abisso e le battaglie da un grattacielo all'altro. In realtà, non ho visto nulla dell'opera eroica compiuta dai nostri. Ho sentito l'esplosione delle loro mine e delle loro bombe, ho visto il fumo degli incendi appiccati da loro e nient'altro. Però ho seguito in parte una grande azione, l'attacco alle fortezze in pallone, operato dai nostri compagni. Ciò avvenne il secondo giorno. I tre reggimenti ribelli furono distrutti fino all'ultimo uomo. Le fortezze erano zeppe di Mercenari; il vento soffiava in direzione favorevole e i nostri aerostati partivano da un caseggiato della City.

Il nostro amico Biedenbach, dopo la sua partenza da Glen Ellen, aveva inventato un esplosivo potentissimo battezzato da lui col nome di "espredite". Quei palloni erano certo muniti delle sue cariche infernali. Erano semplici mongolfiere, gonfiate con aria calda, grossolanamente costruite in fretta, ma che bastarono alla loro missione. Seguii la scena da un tetto vicino. Il primo pallone mancò completamente il bersaglio e scomparve nella campagna. In seguito però, ne avremmo sentito ancora parlare. Era pilotato da Burton e O'Sullivan, che scesero, lasciandosi andare alla deriva, sopra una ferrovia proprio mentre passava un treno militare lanciato a tutta velocità verso Chicago. I due lasciarono cadere tutto il carico di espredite sulla locomotiva, i cui rottami ostruirono la strada per parecchi giorni. Il bello è che il pallone, alleggerito del carico di esplosivo, fece un salto in aria e atterrò solo una dozzina di miglia lontano, di modo che i nostri due eroi furono sani e salvi.

Il secondo pallone finì tragicamente. Volava male e troppo basso, perciò fu colpito dalle fucilate e crivellato come un colabrodo, prima di giungere alla fortezza. Aveva a bordo Hertford e Guinnes, che saltarono in aria insieme con il campo su cui si abbatterono.

Biedenbach ne fu disperato (tutto questo ci fu detto dopo), tanto che s'imbarcò da solo sul terzo pallone. Anche lui volò troppo basso, ma la sorte gli fu favorevole, perché i soldati non riuscirono a danneggiare il pallone. Mi sembra di rivedere tutta la scena come la seguii allora dal tetto del grattacielo. Il sacco gonfio in alto e l'uomo appeso di sotto come un puntino nero. Non riuscivo a scorgere la fortezza, ma quelli che erano con me sul tetto dicevano che era proprio sotto il pallone. Non vidi cadere il carico di espredite, ma vidi il pallone fare un balzo in alto.

Un attimo dopo una colonna di fumo s'innalzò nell'aria, e solo dopo udii il tuono dell'esplosione. Il mite Biedenbach aveva distrutto una fortezza. Dopo, due altri palloni si levarono contemporaneamente. Uno fu distrutto dall'esplosione dell'espredite, l'altro, spaccato dal contraccolpo, cadde proprio sulla fortezza che era rimasta ancora intatta e la fece saltare in aria. Non poteva andar meglio, sebbene due compagni ci rimettessero la vita.

Ma ritorniamo al popolo dell'abisso, perché in realtà ebbi contatto solo con esso. Quella gente massacrò con rabbia, distrusse tutto il centro della città e fu distrutta a sua volta, ma non riuscì a raggiungere la Zona Ovest, la città degli oligarchi. Questi s'erano ben premuniti: per quanto terribile potesse essere la devastazione al centro, essi, con le loro mogli e i loro bambini, dovevano uscirne incolumi. Si dice che durante quelle giornate, i loro figli si divertissero nei parchi, e che il tema favorito dei loro giochi fosse l'imitazione dei grandi che schiacciavano sotto i piedi il proletariato.

Ma per i Mercenari non fu facile affrontare il popolo dell'abisso e al tempo stesso combattere anche contro i nostri. Chicago restò fedele alle sue tradizioni, e se tutta una generazione di rivoluzionari fu distrutta, essa trascinò con sé, nella sua caduta, quasi una generazione di nemici. Naturalmente, il Tallone di Ferro tenne segreta la cifra delle proprie perdite, ma anche a voler essere cauti si può calcolare in centotrentamila il numero dei Mercenari uccisi. Sfortunatamente, i nostri compagni non avevano speranza di successo. Invece che sostenuti da una rivolta di tutto il paese, erano soli, e l'oligarchia poteva disporre, contro di loro, della totalità delle sue forze. In quell'occasione, ora per ora, giorno per giorno, treno per treno, a centinaia di migliaia furono riversate truppe a Chicago. Ma il popolo dell'abisso era infinito.

Stanchi di uccidere, i soldati intrapresero una vasta manovra avvolgente che doveva finire col cacciare la plebaglia, come bestiame, nel lago Michigan. Appunto agli inizi di questa manovra, Garthwaite e io avevamo incontrato l'ufficialetto. Il piano fallì, grazie al lavoro meraviglioso dei compagni. I Mercenari, che speravano di riunire tutta la massa in un solo gregge, riuscirono a precipitare nel lago non più di quaranta infelici. Accadeva spesso che mentre qualche gruppo era trascinato verso il molo, i nostri amici creavano una diversione e la folla scappava da qualche breccia praticata nelle file.

Ne avemmo un esempio, poco dopo il nostro incontro con l'ufficiale. La colonna di cui avevamo fatto parte e che era stata respinta, trovò la ritirata chiusa verso sud e verso est da forti contingenti di truppe. Intanto, quelle che avevamo incontrato verso sud stringevano ora dal lato ovest. Il nord rimaneva l'unica via aperta, e appunto verso il nord s'incamminò la colonna, ossia verso il lago, tormentata sugli altri tre lati dal tiro delle mitragliatrici e dei fucili automatici. Ignoro se quel gruppo presentì la propria sorte o se il fatto avvenne per un sussulto istintivo del mostro; comunque sia, la folla improvvisamente si incolonnò per una traversale, verso ovest, poi al primo incrocio ritornò indietro, e si diresse a sud, verso il grande ghetto.

In quel preciso momento, Garthwaite e io tentavamo di raggiungere l'ovest per uscire dalla zona dei combattimenti, e ripiombammo nel pieno della mischia. Svoltando un angolo, vedemmo la moltitudine urlante che si precipitava verso di noi. Garthwaite mi prese per un braccio. Stavamo per metterci a correre quando mi trattenne in tempo per impedirmi di essere travolta dalle ruote di una mezza dozzina di autoblindo armate di mitragliatrici che accorrevano a tutta velocità, seguite da soldati armati di fucili automatici.

Mentre prendevano posizione, ecco che la folla gli si precipitò contro, come per sommergerli prima che potessero aprire il fuoco.

Qua e là qualche soldato scaricò il suo fucile, ma quegli spari isolati non facevano nessun effetto sulla turba che continuava ad avanzare, muggendo di furore. Evidentemente era difficile manovrare le mitragliatrici. Le autoblindo sulle quali erano montate sbarravano la via, in modo che i soldati dovevano prender posizione in mezzo a esse o sul marciapiede. Altri soldati sopraggiungevano, in numero sempre crescente, e noi due non riuscivamo a tirarci fuori da quel pasticcio. Garthwaite mi teneva sempre per un braccio, e tutt'e due eravamo quasi schiacciati contro la facciata di una casa.

La folla era a meno di dieci metri, quando le mitragliatrici aprirono il fuoco. Nessuno poteva sopravvivere a quella mortale scarica di piombo. La calca aumentava sempre, ma la folla non avanzava più, si ammucchiava in un enorme cumulo, in un'onda sempre crescente di morti e moribondi. Quelli che stavano dietro spingevano gli altri avanti, e la colonna, da un marciapiede all'altro, pareva rientrare in se stessa come un cannocchiale. I feriti, uomini e donne, rigettati sopra la cresta di quell'orribile flusso, arrivavano dibattendosi fin sotto le ruote delle autoblindo, fra i piedi dei soldati che li trafiggevano con le baionette. Vidi però uno di quegli infelici rimettersi in piedi e saltare addosso a un soldato e morderlo alla gola. Tutt'e due, soldato e schiavo, rotolarono, strettamente allacciati, nel fango.

Il fuoco cessò. Il lavoro era finito. La calca era stata arrestata nel suo folle tentativo di aprirsi un varco. Fu dato l'ordine di sgombrare le vie delle autoblindo. Ma non potevano avanzare su quel mucchio di cadaveri, e l'ordine fu di imboccare una strada traversale. I soldati stavano per levare i corpi di sotto alle ruote, quando successe il fatto. Venimmo a sapere dopo com'era avvenuto. In fondo all'isolato c'era un edificio occupato da un centinaio di compagni, i quali, avanzando sui tetti da un edificio all'altro, erano arrivati proprio sopra i Mercenari ammassati nella via. Allora avvenne il contro-massacro.

Senza alcun preavviso, una pioggia di bombe cadde dall'alto dell'edificio. Le autoblindo furono fatte a pezzi, e con esse molti soldati. Insieme con i sopravvissuti, noi due ci ritirammo in una folle corsa. All'estremità opposta dell'isolato fu ancora aperto il fuoco su di noi dall'alto di un altro edificio. I soldati avevano coperto di cadaveri la strada; toccava a loro, ora, di far da tappeto. Garthwaite e io sembravamo protetti da una magia. Come prima, ci rifugiammo sotto un portico, ma questa volta il mio compagno non intendeva lasciarsi prendere. Quando lo scoppio delle bombe cessò, gettò uno sguardo a destra e a sinistra.

"La plebaglia ritorna", mi gridò. "Bisogna uscire da qui".

Corremmo, tenendoci per mano, sul marciapiede insanguinato, scivolando, affrettandoci verso l'angolo tranquillo più vicino.

Nella strada traversale scorgemmo alcuni soldati che scappavano.

Non c'era nessun pericolo: la via era libera. Ci fermammo a guardare indietro. La folla avanzava ora lentamente, era intenta ad armarsi dei fucili dei morti e a finire i feriti. Vedemmo la fine dell'ufficialetto che ci aveva salvati. Si sollevò a fatica su un gomito e scaricò la sua pistola automatica.

"Ecco la mia probabilità di promozione che se ne salta!" disse Garthwaite ridendo, mentre una donna si lanciava sul ferito, brandendo un coltello da macellaio. "Andiamocene. E' la direzione sbagliata, ma ne usciremo in qualche modo".

Fuggimmo verso est, attraverso strade tranquille, e a ogni svolta ci tenevamo pronti a ogni eventualità. Verso sud, un immenso incendio illuminava il cielo; era il grande ghetto che bruciava.

Alla fine crollai sull'orlo del marciapiede, sfinita, incapace di fare più un solo passo. Ero piena di lividi e scorticature, e il corpo mi doleva tutto. Eppure, trovai la forza di ridere quando Garthwaite disse, arrotolando una sigaretta:

"So che mi sono cacciato in un grande pasticcio per cercare di salvarla, perché non vedo proprio nessuna soluzione. E' un vero e proprio caos. Ogni volta che cerchiamo di uscirne, succede qualcosa che ci ributta dentro. Siamo ad appena uno o due isolati dal luogo in cui l'ho salvata. Amici e nemici, sono tutti confusi insieme. E' un caos. Non si sa da chi siano occupati questi maledetti edifici. Se cerchi di scoprirlo, ti becchi una bomba in testa. Se cammini tranquillamente, t'imbatti nella plebaglia e sei falciato dalle mitragliatrici, oppure incappi nei Mercenari e sei fatto a pezzi dai compagni appostati su un tetto. E per giunta, la plebaglia arriva e ti uccide".

Scosse malinconicamente la testa, accese una sigaretta e sedette accanto a me.

"E come se non bastasse, ho una fame..." soggiunse. "Mangerei le pietre".

Un attimo dopo, era in piedi per cercare effettivamente una pietra in mezzo alla strada: la prese per rompere la vetrina di un negozio.

"E' un pianterreno e non vale niente", spiegò mentre mi aiutava a passare per l'apertura praticata. "Ma non possiamo cercare di meglio. Ora lei si farà un sonnellino e io andrò in ricognizione.

Finirò bene per toglierla dall'impaccio, ma ci vorrà tempo, chissà quanto... e qualcosa da mangiare".

Eravamo in una bottega di finimenti. Mi improvvisò un letto con delle coperte da cavallo nell'ufficio sul retro. Sentivo sopraggiungere una terribile emicrania e fui felice di chiudere gli occhi per tentare di dormire.

"Ritorno subito", disse lui, lasciandomi. "Non assicuro che troverò un'automobile, ma certo porterò qualcosa da mangiare".

E quella fu l'ultima volta che lo vidi. Lo incontrai solo tre anni dopo! Non ritornò: fu mandato in un ospedale, con una pallottola in un polmone e un'altra nella nuca.

Capitolo 24

INCUBO

Non avevo chiuso occhio la notte prima sul Twentieth Century, e questo, unito alla stanchezza, fece sì che ora mi addormentai profondamente. Quando mi svegliai la prima volta, era già notte.

Garthwaite non era ritornato. Avevo perso l'orologio e non avevo idea di che ora fosse. Distesa lì, con gli occhi chiusi udivo lo stesso cupo rombo di lontane esplosioni. L'inferno ancora infuriava. Mi trascinai attraverso la bottega fino all'ingresso. I riflessi nel cielo di grossi incendi illuminavano la strada a giorno, al punto che si sarebbe potuto leggere facilmente i caratteri più minuti. Da vari isolati di distanza giungeva il crepitio delle bombe a mano e delle mitragliatrici, e da più lontano l'eco di una serie di forti esplosioni. Ritornai al mio letto di coperte e mi riaddormentai.

Quando mi svegliai di nuovo, una luce gialla, debole, filtrava fino a me. Era l'alba del secondo giorno. Ritornai verso l'ingresso del negozio: il cielo era coperto da una nube di fumo striata da lampi lividi. Dall'altro lato della strada, stava avanzando un povero schiavo. Con una mano premuta su un fianco, si lasciava dietro una scia di sangue. Gli occhi, pieni di spavento, giravano in tutte le direzioni e si fissarono un istante su di me.

Il volto aveva l'espressione patetica e muta di un animale ferito e perseguitato. Mi vide, ma non si stabilì nessun legame fra noi, né, da parte sua almeno, la minima simpatia. Si piegò su se stesso, e si trascinò oltre. Non poteva aspettarsi nessun aiuto al mondo: era una delle prede perseguitate in quella grande caccia organizzata dai padroni. Tutto ciò che poteva sperare, tutto ciò che cercava era un buco dove nascondersi come una bestia selvatica. Lo scampanio di un'ambulanza che passava all'angolo lo fece sussultare. Le ambulanze non erano fatte per i suoi simili.

Con un gemito, si lanciò nell'ombra di un portico. Un attimo dopo, riprese il suo cammino disperato.

Ritornai alle mie coperte e aspettai ancora per un'ora il ritorno di Garthwaite. Il mal di testa non era scomparso, anzi aumentava.

Dovevo compiere uno sforzo di volontà per aprire gli occhi, e quando li volevo fissare su un oggetto, era una vera tortura. Il cervello mi pulsava dolorosamente. Debole e vacillante, uscii in strada passando dalla vetrina rotta, cercando istintivamente e a caso di sfuggire a quell'orribile massacro. Da quel momento vissi in un incubo. Il ricordo di ciò che successe nelle ore successive è quello di un incubo. Alcuni avvenimenti mi sono rimasti nettamente impressi, con immagini indelebili separate da intervalli di incoscienza, durante i quali avvennero cose che ignoro e che non saprò mai.

Ricordo di essere inciampata sull'angolo nelle gambe di un uomo:

era il povero diavolo di poco prima, che si era trascinato fin là e s'era steso a terra. Rivedo distintamente le sue povere mani nodose, simili più a zampe e artigli che a mani, tutte storte e deformate dal lavoro quotidiano, con i palmi coperti da enormi calli. Ripreso il mio equilibrio, guardai la faccia di quel disgraziato e vidi che era ancora vivo; i suoi occhi mi fissavano vagamente e mi vedevano.

Dopo, nella mia mente non ci sono altro che benefiche lacune. Non sapevo più nulla, non vedevo più nulla: mi trascinavo semplicemente in cerca di un rifugio. Poi, l'incubo continuò, alla vista di una strada coperta di cadaveri. Mi ci trovai improvvisamente, come un vagabondo che incontri inaspettatamente un corso d'acqua. Ma quel fiume non scorreva: indurito dalla morte, uguale, uniforme, si stendeva da un capo all'altro della strada e copriva perfino i marciapiedi. A intervalli, come ghiacci stratificati, dei mucchi di cadaveri ne rompevano la superficie.

Quella povera gentei dell'abisso, quei poveri servi perseguitati giacevano là come conigli di California dopo una battuta (l).

Osservai quella strada di morte nelle due direzioni; non un movimento, non un rumore. Gli edifici, muti, guardavano la scena con le loro numerose finestre. Una volta però, una volta sola, vidi un braccio muoversi in quel fiume letargico. Avrei giurato che quel braccio si contorceva in un gesto di agonia; e con esso si levò una testa insanguinata, orribile spettro che mi borbottò parole inarticolate e ricadde e non si mosse più.

Vedo ancora un'altra strada fiancheggiata da case tranquille, e ricordo il panico che mi richiamò violentemente alla ragione quando mi ritrovai davanti al popolo dell'abisso: questa volta era una corrente che si riversava verso di me. Poi mi accorsi che non avevo nulla da temere. La corrente se ne andava lentamente e dalla sua profondità sorgevano gemiti, lamenti, maledizioni, discorsi insensati per intontimento o isterismo. Essa trascinava con sé giovanissimi e vecchi, deboli, ammalati, impotenti e disperati, tutti i rifiuti dell'abisso. L'incendio nel grande ghetto della Zona Sud li aveva vomitati nell'inferno della lotta in strada, e non ho mai saputo dove andassero né ciò che accadde di loro (2).

Ho il vago ricordo di aver rotto una vetrina e di essermi nascosta in una bottega, per sfuggire a una folla inseguita dai soldati. In un altro momento, una bomba mi scoppiò vicino, in una via tranquilla dove, sebbene guardassi in tutti i sensi, non scorsi anima viva. Ma il successivo, nitido, ricordo comincia con un colpo di fucile; mi accorsi improvvisamente che servivo da bersaglio a un soldato che era a bordo di un'automobile. Mi mancò e allora istantaneamente, mi misi a gridare la parola d'ordine. Il ricordo della mia corsa in quell'automobile rimane avvolto da una nube interrotta da un nuovo lampo; un colpo di fucile tirato dal soldato seduto vicino a me mi fece aprire gli occhi: vidi George Milford, che avevo conosciuto un tempo a Pell Street, crollare sul marciapiede. Nello stesso istante, il soldato sparò di nuovo, e Milford si piegò in due, poi cadde in avanti, a braccia e gambe aperte. I soldati sghignazzarono e l'automobile sfrecciò oltre.

Di tutto ciò che avvenne in seguito, ricordo questo: immersa in un profondo sonno, fui svegliata da un uomo che camminava su e giù vicino a me. Aveva i lineamenti tirati e la fronte imperlata di sudore, che gli gocciolava sul naso. Con una mano premeva l'altra contro il petto, e il sangue colava a terra a ogni passo.

Indossava l'uniforme dei Mercenari. Attraverso un muro giungeva il rombo attutito degli scoppi delle bombe. La casa dove mi trovavo era evidentemente impegnata in un duello con un'altra casa.

Quando un dottore venne a medicare il soldato ferito seppi che erano le due del pomeriggio. Poiché il mal di testa durava, il medico sospese il lavoro per darmi un rimedio energico che doveva calmare il cuore e darmi sollievo. Mi addormentai di nuovo, e quando mi svegliai ero sul tetto dell'edificio. Nelle immediate vicinanze la battaglia era finita, e stavo guardando l'assalto dei palloni contro la fortezza. Qualcuno mi teneva un braccio intorno alla vita, e io mi ero rannicchiata contro di lui. Mi sembrava naturale che fosse Ernest, e mi chiedevo perché avesse le sopracciglia e i capelli arrossati.

Per puro caso ci eravamo ritrovati in quell'orribile città. Lui ignorava che avevo lasciato New York e, passando nella camera dove dormivo, non aveva potuto credere ai suoi occhi. Da quell'ora non vidi più granché della Comune di Chicago. Dopo aver osservato l'attacco dei palloni, Ernest mi ricondusse nell'interno della casa, dove dormii tutto il pomeriggio e tutta la notte seguente.

Là trascorremmo anche il terzo giorno, e il quarto abbandonammo Chicago, dato che Ernest aveva ottenuto il permesso dalle autorità e un'automobile.

La mia emicrania era passata, ma ero stanca di corpo e di animo, molto stanca. Nell'automobile, addossata a Ernest, osservavo con occhio distaccato i soldati che cercavano di portare la macchina fuori della città. La battaglia continuava, ma solo con scontri isolati. Qua e là, interi distretti ancora in mano ai nostri, erano circondati e guardati da forti contingenti di truppe. Così i compagni si trovavano chiusi in centinaia di trappole isolate, mentre l'opera di sterminio continuava. La resa significava morte perché non si dava quartiere. Combatterono, eroicamente fino all'ultimo uomo (3).

Ogni volta che ci avvicinavamo a una di queste trappole, le guardie ci fermavano e ci obbligavano a fare un largo giro. Una volta capitò che non restava altra via per oltrepassare due roccaforti dei compagni, se non passando attraverso una zona incendiata che si trovava nel mezzo. Da ogni lato sentivamo il rombo e il ruggito della battaglia, mentre l'automobile s'apriva un varco fra rovine fumanti e mura cadenti. Spesso le strade erano bloccate da vere montagne di rottami, che dovevamo aggirare. Ci smarrivamo in un labirinto di macerie, e la nostra marcia era lenta.

I macelli (ghetto, impianti e tutto il resto) erano rovine fumanti. Lontano, sulla destra, un denso velo di fumo oscurava il cielo. Il soldato autista ci disse che era la città di Pullman o, per lo meno, ciò che ne rimaneva, perché era stata distrutta da cima a fondo. C'era andato con la macchina a portare dei dispacci nel pomeriggio del terzo giorno. Era, disse, uno dei luoghi dove la battaglia si era scatenata con più furore; strade intere erano diventate impraticabili per i mucchi di cadaveri.

Nel voltare intorno alle mura rovinate di un edificio nella zona dei macelli, la macchina dovette fermarsi davanti a una barriera di corpi, si sarebbe detta una grossa onda pronta a infrangersi.

Indovinammo facilmente quello che era successo. Nel momento in cui la folla, lanciata all'attacco, svoltava l'angolo, era stata decimata a breve distanza da una mitragliatrice che sbarrava la strada laterale. Ma neppure i soldati s'erano sottratti alla carneficina: una bomba doveva essere scoppiata in mezzo a loro, perché la folla, trattenuta un istante dal mucchio dei morti e dei feriti, si era poi precipitata come un'onda vivente e fremente.

Mercenari e schiavi giacevano mescolati, mutilati e squarciati, sui rottami delle automobili e delle mitragliatrici.

Ernest scese dalla vettura. Il suo sguardo era stato attratto da una frangia familiare di capelli bianchi, che scendevano su delle spalle ricoperte solo da una camicia di cotone. Non guardai; solo quando mi fu di nuovo vicino e l'automobile si mosse, mi disse:

"Era il vescovo Morehouse".

Fummo presto in aperta campagna, e gettai un ultimo sguardo al cielo coperto di fumo. Il tuono appena percettibile di un'esplosione ci giunse da molto lontano. Allora nascosi il volto sul cuore di Ernest e piansi in silenzio per la Causa che era perduta. Il suo braccio mi strinse con amore, più eloquente di qualsiasi parola.

"Perduta per questa volta, cara", mormorò; "ma non per sempre.

Abbiamo imparato molte cose. Domani la Causa si rialzerà più forte, per saggezza e disciplina".

L'automobile si fermò alla stazione dove dovevamo prendere il treno per New York. Mentre aspettavamo lungo la banchina, tre direttissimi lanciati verso Chicago passarono con un rumore di tuono. Erano carichi di lavoratori stracciati, gente dell'abisso.

"Leve di schiavi per la ricostruzione della città" disse Ernest.

"Tutti quelli di Chicago sono stati uccisi".

NOTE:

1) A quell'epoca la popolazione era così rada che pullulavano le bestie selvatiche ed erano un vero flagello. In California si introdusse l'uso delle battute di caccia contro i conigli. In un dato giorno tutti gli agricoltori della zona si riunivano e percorrevano la campagna in linee convergenti spingendo i conigli a decine di migliaia verso un recinto preparato prima dove uomini e ragazzi li uccidevano a colpi di randello.

2) Si è a lungo discusso se il ghetto della Zona Sud fosse stato incendiato incidentalmente o volontariamente dai Mercenari.

Oggi è assodato che furono questi ad appiccare l'incendio per ordine dei loro capi.

3) Molti edifici resistettero più di una settimana; uno resistette fino a undici giorni. Ogni edificio fu preso d'assalto come un forte, e i Mercenari furono obbligati ad attaccare piano per piano. Fu una lotta micidiale. Non si chiedeva né si concedeva tregua. In quel genere di combattimento, i rivoluzionari avevano il vantaggio di essere in alto. Furono alla fine distrutti, ma a prezzo di forti perdite. Il fiero proletariato di Chicago si mostrò degno della sua antica fama. Tanti morti ebbe, altrettanti nemici uccise.

Capitolo 25

I TERRORISTI

Soltanto alcune settimane dopo il nostro ritorno a New York, Ernest e io potemmo renderci pienamente conto della portata del disastro che si era abbattuto sulla Causa. La situazione era amara e sanguinosa. In molti posti sparsi in tutto il paese erano scoppiate rivolte e avvenuti massacri di schiavi. La lista dei martiri cresceva rapidamente. Innumerevoli esecuzioni avevano avuto luogo un po' dappertutto. Le montagne e le contrade deserte rigurgitavano di reietti e di fuggiaschi inseguiti senza pietà. I nostri stessi rifugi erano strapieni di compagni sulla cui testa pendeva una taglia. A opera delle spie, molti dei nostri rifugi furono invasi dai soldati del Tallone di Ferro.

Molti compagni erano scoraggiati e favorevoli a una tattica terroristica. Il crollo di ogni speranza li rendeva, è il caso di dire, disperati. Molte organizzazioni terroristiche che non avevano niente a che fare con noi saltarono fuori dal nulla e ci causarono molti guai (1). Questi traviati, pur prodigando follemente la loro vita, facevano spesso fallire i nostri disegni e ritardare la nostra ricostruzione.

In tutto questo, il Tallone di Ferro proseguiva impassibile verso il suo scopo, scuotendo il tessuto sociale, epurando i Mercenari, le caste operaie e i servizi segreti per espellerne i compagni, punendo senza odio e senza pietà, accettando in silenzio tutte le rappresaglie e riempiendo i vuoti tra le proprie file appena si formavano. Contemporaneamente, Ernest e gli altri dirigenti lavoravano con dedizione per organizzare le forze della Rivoluzione. Si comprenderà la portata di questo compito, tenendo conto di...(2).

NOTE:

1) Gli annali di questa breve epoca di sconforto furono scritti col sangue. La vendetta era il motivo dominante; i membri delle organizzazioni terroristiche non si preoccupavano affatto della loro vita e non sapevano nulla dell'avvenire. I "Danites", che prendevano nome dagli angeli vendicatori della mitologia dei Mormoni, e si fermarono sulle montagne del Grande Ovest, si sparsero lungo tutta la costa del Pacifico da Panama all'Alaska.

Le "Valchirie" erano un'organizzazione femminile, e la più terribile di tutte. Non era ammessa nell'organizzazione se non colei che avesse avuto parenti prossimi assassinati dall'oligarchia. Avevano la crudeltà di torturare i loro prigionieri fino alla morte. Un'altra famosa organizzazione femminile era quella delle Vedove di Guerra. I "Berserkers" (guerrieri invulnerabili della mitologia scandinava) formavano un gruppo affine a quello delle Valchirie, composto da uomini che non davano valore alla vita. Furono essi a distruggere completamente la città dei Mercenari chiamata Bellona, abitata da oltre centomila persone. I "Bedlamiti" e gli "Helldamiti" erano associazioni gemelle di schiavi. Una nuova setta religiosa, che non prosperò a lungo, si chiamava "L'ira di Dio". Questi gruppi di gente terribilmente seria, avevano i nomi più fantastici; fra gli altri: Cuori sanguinanti, Figli dell'alba, Stelle mattutine, Fenicotteri, Tre triangoli, Le tre barre, I Rubonici, I Vendicatori, gli Apaches e gli Erebusiti.

2) Questa è la fine del Manoscritto Everhard. S'interrompe bruscamente, a metà d'una frase. Avis dovette essere avvisata dell'arrivo dei Mercenari, perché fece in tempo a mettere in salvo il manoscritto prima di scappare o di essere fatta prigioniera.

C'è da rammaricarsi che non sia vissuta abbastanza da portarlo a termine, poiché avrebbe certamente fatto luce sul mistero che da settecento anni avvolge la condanna e la morte di Ernest Everhard.