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Le Tesi

SULLA QUESTIONE DELL'IMPERIALISMO


L'imperialismo e la crisi mondiale

L'imperialismo è la forma che il capitalismo assume nella sua espansione mondiale.
Il mercato mondiale, e il modo di produzione capitalistico che ne è al tempo stesso la causa e il prodotto, hanno reso universali e reciproci i rapporti sociali tra gli uomini: ogni evento storico particolare riflette le sue conseguenze, in misura maggiore o minore, su tutta l'umanità.
Questa è la ragione di fondo per cui la rivoluzione comunista, cioè il processo che porta al superamento del modo di produzione capitalistico, non può che avere dimensioni mondiali: cioè coinvolgere, seppure in forme, e tempi differenti, ma come tappe e parti di un unico processo, tutta l'umanità.
Diciamo che la rivoluzione è un processo internazionale in un duplice senso.
In primo luogo, ogni singola rivoluzione — che è il processo che porta il proletariato di una nazione a distruggere lo stato, cioè la macchina repressiva borghese del proprio paese — trova le condizioni della propria realizzazione nella situazione internazionale.
La tendenza prevalente della nostra epoca è la rivoluzione. Questa tendenza affonda le sua radici nelle stesse condizioni in cui le affonda la tendenza opposta: quella alla reazione, al colpo di stato, all'acutizzazione dell'aggressività imperialista, alla guerra. Queste condizioni sono costituite dalla crisi mondiale; dalla fine di quel periodo di relativa stabilità economica, sociale e politica che ha accompagnato l'espansione capitalistica nei venticinque anni successivi alla seconda guerra mondiale.
Alla radice della crisi mondiale ci sono soprattutto due fattori: il mutamento dei rapporti di forza tra proletariato e borghesia, determinato dalla enorme espansione quantitativa che il proletariato, e soprattutto la classe operaia, hanno attraversato su scala mondiale e dal graduale ma continuo logoramento del potere di comando sul lavoro in tutti í paesi capitalistici sviluppati; la perdita, da parte dei centri decisionali del capitale, e soprattutto degli stati, del controllo sui meccanismi con cui la prima tendenza era stata neutralizzata e regolamentata: l'inflazione, la spesa pubblica, la politica anticiclica, cioè il contenimento dell'ampiezza dell'oscillazione tra i periodi di espansione e quelli di recessione.
Questi fattori, a loro volta, hanno messo in moto, in forma estremamente accelerata, una generale tendenza alla ristrutturazione, alla trasformazione delle tecnologie e alla modificazione su scala mondiale, della tradizionale divisione del lavoro; ed hanno prodotto una acutizzazione della concorrenza capitalistica internazionale destinata a coinvolgere in misura crescente i singoli stati nazionali: entrambe queste misure in tanto sono efficaci in quanto i costi che esse comportano si scaricano sul livello di vita e sulle condizioni di lavoro della classe operaia, contribuendo così ad acutizzare, su scala mondiale e in forme sostanzialmente omogenee, la contraddizione tra borghesia e proletariato.
In secondo luogo, la lotta rivoluzionaria del proletariato di ogni paese ha di fronte a sé una prospettiva di vittoria solo in quanto si iscrive all'interno di un processo generale che porta alla erosione, al ridimensionamento e alla distruzione del potere complessivo della borghesia a livello mondiale, cioè dell'imperialismo. La concezione vietnamita della guerra rivoluzionaria, come processo che si sviluppa su di un triplice fronte, politico, diplomatico e militare, è la più ampia e matura espressione dell'internazionalismo proletario.

La contraddizione tra USA e URSS

L'assetto politico e istituzionale che domina la situazione internazionale a partire dalla seconda guerra mondiale è quello della ripartizione del mondo in due zone di influenza tra gli USA e l'URSS. Questo assetto ha la sua data di nascita ufficiale, anche se simbolica, nella conferenza di Yalta del 1944, ed è rimasto sostanzialmente inalterato, passando attraverso il periodo della guerra fredda, quello della distensione e quello della cooperazione economica; esso è stato solo in parte infranto dalla emancipazione della Cina popolare e di altri paesi socialisti dalle regole delle « zone di influenza », e solo perifericamente alterato dalla lenta ma inarrestabile disgregazione del controllo USA su tutto l'occidente capitalistico.
Seppure con un rapporto di forze reciproco che non è di parità, USA e URSS sono e resteranno per molto tempo le due uniche potenze mondiali in grado di fronteggiarsi sul piano economico, politico e militare. Per questa ragione, sia le contraddizioni intercapitalistiche e interimperialistiche — quelle che nascono, cioè, dal progressivo coinvolgimento degli stati nella concorrenza capitalistica internazionale — sia le contraddizioni tra paesi socialisti e imperialismo — quelle che nascono cioè tra il sistema degli stati imperialisti e il proletariato di una singola nazione una volta che questo sia riuscito a spezzare la macchina statale borghese — sono destinate, in ultima analisi, ad entrare in rapporto e ad alimentare la contraddizione tra USA e URSS.
Questo processo può avvenire sia nella forma diretta di un « passaggio di campo »; sia nella forma di un ridimensionamento relativo dell'ingerenza da parte di una delle massime potenze; sia, infine, nel tentativo di realizzare una completa autonomia o una minore dipendenza, sfruttando a tal fine i contrasti tra le due massime potenze. In tutti i casi, queste contraddizioni sono destinate a riflettersi in una acutizzazione di quelle tra USA e URSS; perciò, in questo campo, la tendenza dominante è quella al confronto, allo scontro e alla guerra e non quella alla distensione, alla collaborazione, alla pace; e questo nonostante che quest'ultima tendenza venga continuamente riproposta dalla necessità dei rispettivi gruppi dirigenti di difendere il proprio dominio di classe attraverso un allargamento, economico e politico, delle sue basi di consenso. Come dicono i compagni cinesi, « la distensione non è che il vento che soffia attraverso la torre ».
Gli sviluppi di questa contraddizione fanno sì che gli USA non possano accettare di abbandonare, o rinunciare a difendere, la propria superiorità economica, politica e militare nei confronti dell'Unione Sovietica. D'altra parte, lo scarto nei rapporti di forza reciproci tra gli USA e gli altri paesi dell'Occidente capitalistico è tale da rendere inconcepibile il suo superamento nel corso della nostra epoca; quindi gli USA sono destinati a rimanere, per tutta una fase, e a meno del loro crollo, la principale e più forte potenza imperialista del mondo, cioè il nemico numero uno dei popoli, dei proletari e della rivoluzione in tutto il mondo. Questo fa sì, inoltre, che la crisi e la distruzione dell'imperialismo USA rappresentino l'obiettivo a partire dal quale vanno definite e misurate le singole fasi del processo rivoluzionario su scala mondiale.

La natura sociale dell'URSS

Di fronte agli USA si trova una potenza socialimperialista: l'URSS. La forma specifica che in URSS ha assunto il processo di accumulazione — il capitalismo di stato — e le caratteristiche storiche del suo espansionismo mondiale — quello che i compagni cinesi chiamano « egemonismo » — non alterano i tratti fondamentali del sistema sociale dell'URSS: si tratta di un sistema fondato sulla produzione di merci, sullo sfruttamento del lavoro salariato e sulla accumulazione del capitale, per quanto concerne la definizione dei rapporti di produzione che dominano al suo interno; di un sistema che ha adattato la forma e gli strumenti dello stato alle esigenze del sostegno e dell'espansione di questi rapporti, per quanto riguarda il suo carattere di potenza imperialista.
Questa verità incontrovertibile non deve però offuscare le peculiarità storiche e sociali dell'URSS, che ne condizionano in modo rilevante la politica e alle quali ci riferiamo quando parliamo di « socialimperialismo ».
La prima caratteristica è data dai rapporti di forza tra operai e capitale in URSS e dalla forma che essi hanno assunto. L'operaio sovietico è l'erede di una grande rivoluzione proletaria e da allora non è mai stato sconfitto in campo aperto. Se lo sviluppo degli avvenimenti, fin dai primi anni, lo ha rapidamente espropriato del potere politico, il .suo legame di continuità con quel grande rivolgimento sociale gli ha lasciato in eredità un rapporto con il lavoro che rende impossibile sia una intensificazione sistematica dello sfruttamento come quella su cui si è fondata gran parte dello sviluppo capitalistico occidentale in questo dopoguerra, sia il ricorso massiccio, per ottenere questo risultato, al ricatto di un esercito industriale di riserva, o all'uso continuato della forza, come accade invece, in forme diverse, in tutto l'occidente.
Anche per queste ragioni, oltre che per la sua particolare struttura politica e militare, non è pensabile che l'URSS possa costituire una sorta di grandioso sbocco di mercato e di investimenti all'economia imperialistica U.S.A., con quel ruolo svolto prima dall'Europa e poi dal 3° Mondo. Tutt'al contrario, l'iniziale, recente coinvolgimento nella crisi di alcuni settori della zona influenzata dall'Urss (quelli periferici, più legati all'economia occidentale) ci offre un'indicazione importante: nella misura in cui aumenta l'integrazione dei paesi dell'Est europeo nel mercato mondiale, estendendo anche al loro interno il principio della divisione internazionale del lavoro, sono destinati a propagarsi anche qui i caratteri tipici del ciclo capitalistico. I prossimi anni ci diranno quanto ciò potrà incidere nel far riemergere in questa zona forme di vera e propria lotta di classe.

La tendenza alla guerra

La natura insopprimibile delle contraddizioni che alimentano lo scontro fra USA e URSS — la concorrenza capitalistica, da un lato, la lotta rivoluzionaria del proletariato contro il capitalismo e l'imperialismo, dall'altro — rende permanente all'interno dell'attuale assetto internazionale la tendenza alla guerra, che può assumere nella nostra epoca dapprima la forma dell'ingerenza militare negli affari interni dei singoli stati, poi quella del conflitto locale, infine quella della guerra globale.
Il giudizio sul carattere inevitabilmente aggressivo dell'imperialismo, e sullo sbocco violento e distruttivo delle sue contraddizioni è sempre stato una discriminante fra i rivoluzionari e i riformisti.
Le armi nucleari e il loro ruolo in questi anni, lungi dal costituire la smentita del giudizio dei rivoluzionari, lungi del costituire una specie di deterrente al di sopra delle classi capace di ricondurre alla ragione gli imperialisti, non sono che la conferma di quel giudizio.
La proliferazione di ordigni nucleari in nazioni sempre nuove, gli stessi recenti accordi sulla « non proliferazione » fra le grandi potenze — che in realtà rappresentano un incentivo reale alla corsa agli armamenti, in un quadro di acutizzazione degli scontri interimperialistici — non sono che uno dei tanti segni di come il capitalismo abbia trasformato il mondo in una immensa polveriera.
Solo la rivoluzione mondiale, in quanto colpisce al cuore l'imperialismo e il socialimperialismo, e impedisce di portare alle ultime conseguenze la loro reciproca aggressività, può evitare la guerra imperialista e salvare l'umanità dalla distruzione.

La contraddizione tra Stati nell'occidente capitalistico

All'interno dell'occidente capitalistico, la lotta di classe, la crisi economica, e lo sviluppo diseguale dei diversi paesi alimentano tensioni crescenti tra gli stati capitalisti sviluppati, per il dominio dei mercati, e tra gli stati maggiormente soggetti al potere imperialista ed i loro oppressori, per una diversa ripartizione del potere e dei frutti dell'accumulazione capitalista.
L'unità del mercato mondiale realizzata sotto l'egemonia USA negli anni successivi alla seconda guerra mondiale ha alimentato una espansione capitalistica senza precedenti. Dal momento in cui la lotta di classe e la crisi hanno cominciato a minare l'espansione economica, questa stessa unità viene rimessa in forse. Gli sbocchi che la produzione capitalistica prima trovava in una domanda mondiale gonfiata dall'inflazione (alimentata, a sua volta, dalle spese degli USA all'estero, e dalle spese di tutti gli stati capitalistici) ora devono essere trovati attraverso una maggiore aggressività di ogni singolo paese sui mercati esteri.
L'origine delle contraddizioni tra gli stati capitalistici sta nella natura stessa del capitalismo, che non può esistere senza che i vari capitali si facciano concorrenza tra loro, e che ha piegato lo stato e i suoi strumenti al servizio di questa concorrenza.
Il capitalismo non esiste senza concorrenza; a questo si riduce, in ultima analisi, il carattere anarchico del modo di produzione capitalistico. La concentrazione del capitale, il passaggio dal capitalismo ottocentesco a quello monopolistico, e da questo a quello di stato, l'istituzione di organismi economici internazionali, non eliminano né la concorrenza né l'anarchia capitalistiche, ma non fanno che spostarle a nuovi livelli. Anche l'avvento delle società multinazionali, lungi dall'annullare la concorrenza internazionale (che è la scala a cui nella nostra epoca è arrivata la concorrenza capitalistica) non fa che esaltarla scatenando, tra i diversi gruppi, una lotta serrata per accrescere la propria influenza sugli stati.
Ma, a differenza di quanto accade tra USA e URSS, le contraddizioni tra i vari stati dell'occidente capitalistico trovano un limite invalicabile nella sproporzione delle forze tra gli USA e tutti gli altri paesi. Questa sproporzione annulla, per tutta questa fase, la possibilità di una guerra dei paesi capitalistici dell'occidente contro gli USA; limita in modo drastico le divergenze sul piano politico, e quindi la ricerca di una reale autonomia da parte dei singoli stati borghesi; fa sì che la concorrenza economica, che è il principale terreno su cui queste contraddizioni si manifestano, mentre tende continuamente a riprodursi in forme nuove e sempre più acute, trovi gli USA sempre in grado, anche se con un costo complessivo sempre più alto, di ridimensionare la forza contrattuale dei paesi concorrenti.
Questo vale tanto per i paesi capitalistici sviluppati quanto per quelli appartenenti al cosiddetto terzo mondo, all'interno dei quali esiste ormai un ampio ventaglio di posizioni. La differenza sta nella forza produttiva, finanziaria, politica e militare dei vari paesi. Ma l'interdipendenza strettissima delle maggiori economie capitalistiche e la forza strutturale della classe operaia limita drasticamente, per le borghesie dei paesi più sviluppati, la possibilità di portare a fondo una sfida economica contro gli USA; mentre la unilateralità dei rapporti economici e la debolezza della classe operaia e dello stesso proletariato nei paesi del « 3° mondo » rendono questa sfida meno difficile.
Nella nostra epoca, in ogni caso, la borghesia capitalistica non è in grado di portare avanti in forma conseguente una lotta per l'indipendenza nazionale. Il moltiplicarsi dei conflitti di interessi con gli Stati Uniti, che è un fatto essenziale del processo di disgregazione dell'imperialismo, mentre può portare ad uno spregiudicato uso tattico dei contrasti fra USA e URSS o addirittura ad un « cambiamento di campo » nei paesi capitalistici del « 3° mondo » retti da regimi di « borghesia nazionale », trova un limite invalicabile nei paesi capitalistici sviluppati, per il fatto che la sopravvivenza dell'attuale assetto istituzionale e dello stesso dominio di classe borghese è in essi indissolubilmente legato, a causa della forza della classe operaia e della conseguente instabilità politica, alla salvaguardia dei più stretti rapporti con gli USA.

Le contraddizioni in Europa

In Europa la crisi e — al suo interno — l'offensiva USA hanno bloccato la tendenza all'unificazione politica ed economica, mettendo in moto un processo di differenziazione fra i singoli paesi, di spinte centrifughe e di polarizzazione fra aree deboli e aree forti, che ha le sue radici, in ultima istanza, nei rapporti di forza fra le classi.
Negli « anelli deboli », che più preoccupano l'imperialismo in questa zona (l'Italia, il Portogallo, la Spagna e la Grecia in primo luogo) le conseguenze della crisi e della tendenza alla « disgregazione dell'impero » si sono manifestate nel modo più ampio, su tutti i terreni: economico, sociale, istituzionale. Nei paesi capitalistici del centro Europa, gli effetti della crisi sono stati assai meno preoccupanti, per due ragioni principalmente: la prima, destinata a non durare, è la capacità di mantenere sostanzialmente intatto — finora — il controllo di una quota rilevante del mercato internazionale. La seconda è di poter contare su un mercato del lavoro molto più ampio e articolato di quello degli altri paesi, grazie al ricorso massiccio e selezionato alla forza-lavoro proveniente dalle aree del sottosviluppo europeo e mediterraneo. Questa possibilità di controllo, che già oggi è investita da profonde tensioni per la dimensione stessa della crisi, sarà nei prossimi anni il terreno principale su cui si giocherà la stabilità di questi paesi.


Imperialismo e terzo mondo

È nei paesi del cosiddetto « terzo mondo » che il peso della crisi si scarica con più violenza sulle condizioni di vita delle masse. Gli effetti della crisi energetica, sovrapponendosi a quelli della crisi mondiale, hanno aperto una divaricazione profonda all'interno dei paesi del « terzo mondo »: accanto a pochi paesi che, in misura maggiore o minore, ne hanno beneficiato, la stragrande maggioranza di questi paesi, spesso quelli più popolati del mondo, hanno subito e subiscono un aggravamento estremo delle condizioni di vita. Da un lato ciò provoca la crescita delle tensioni di massa, d'altro lato si riflette sugli assetti di quei regimi, sulle loro alleanze. Due fattori vanno valutati. In primo luogo, la crescita d'importanza della lotta dei popoli dell'Asia, dell'Africa, dell'America Latina in questo dopoguerra: dalla lotta vittoriosa del popolo vietnamita, al processo rivoluzionario cinese, a quello cubano, alla lotta per la indipendenza dei popoli della Guinea Bissau, Mozambico e Angola (con i suoi effetti sulle sorti del fascismo portoghese e sugli equilibri sia della Africa australe che dell'area mediterranea), all'esperienza cilena.
In secondo luogo, se questi casi ci si presentano con particolare chiarezza, la contraddizione fra i centri dell'imperialismo e i paesi ex-coloniali, la polverizzazione dell'impero e lo stesso processo di proletarizzazione a livello mondiale provocano in continuazione anche altre forme di contraddizione, su singole questioni, fra stati o fronti di stati e gli interessi USA: esse sono certo secondarie, complesse ed ambigue, ma tali da accentuare il carattere di instabilità dell'imperialismo in questa fase.

La politica estera cinese

Tutto ciò deve essere tenuto presente, anche per inquadrare correttamente la politica estera dello stato cinese. Essa si fonda sui cinque principi della coesistenza (reciproco rispetto dell'integrità e della sovranità territoriale degli stati, non aggressione, non ingerenza, eguaglianza e vantaggi reciprochi, coesistenza pacifica) e, nei suoi rapporti con i paesi del terzo mondo, sugli otto principi per l'aiuto economico. Essa si oppone fermamente all'egemonismo delle superpotenze e appoggia le lotte dei popoli per la liberazione e l'indipendenza nazionale. Nel corso degli ultimi anni, la politica estera cinese ha colto alcuni significativi successi e ha fatto della Cina uno dei protagonisti della scena internazionale. La politica estera cinese ha contribuito ad aggravare le contraddizioni interimpeialistiche, ha favorito la trasformazione dell'ONU da docile strumento della politica americana in una tribuna spesso utilizzata da governi progressisti per esprimere posizioni antimperialiste; ha favorito la formazione di fronti internazionali, obiettivamente contraddittori nei confronti dell'imperialismo, su temi specifici come la fame, lo sviluppo demografico, le materie prime, le acque territoriali, ecc. In questi e in altri casi la Cina ha incoraggiato utilmente le tendenze centrifughe presenti nell'impero americano. Così pure la politica estera cinese racchiude come suo elemento positivo la definizione di alcuni principi di fondo, quali: il rilievo che assumono nella nostra epoca le contraddizioni interimperialiste, la tendenza all'aggravarsi della contraddizione tra USA e URSS e il permanere del pericolo di guerra, la non esistenza di un « campo socialista ». Il principio di fondo che dai compagni cinesi stessi abbiamo appreso, e che facciamo nostro, è e rimane: contare sulle proprie forze. Da parte nostra, dovrà essere oggetto di un'analisi sempre più approfondita il problema del rapporto fra la politica di uno stato, nel quale il proletariato ha preso il potere, e la lotta per costruire il comunismo, cioè gli interessi generali del proletariato.

Il Mediterraneo e la NATO

Molte delle contraddizioni della nostra epoca, quella tra borghesia e proletariato, resa più acuta e omogenea dallo sviluppo della crisi mondiale, quella tra USA e URSS, quella tra paesi sviluppati dell'occidente capitalistico (Europa e USA), e quella tra paesi del « 3° mondo » e USA, in particolare per quello che riguarda la lotta per le materie prime, sembrano convergere e concentrarsi nell'area del Mediterraneo.
La guerra del Medio Oriente, la crisi energetica, la guerra cipriota, la crisi monetaria internazionale e le altre forme di concorrenza interimperialistica, la lotta tra USA e URSS per il controllo dei Balcani, l'avvio di un processo sociale di portata storica in Portogallo, il crollo del fascismo in Grecia, Portogallo e la crisi del fascismo in Spagna, la leadership assunta dall'Algeria nella battaglia mondiale per il prezzo delle materie prime, e quella assunta dalla Jugoslavia nel rilancio di una politica neutralistica e di indipendenza dai blocchi, il valore esemplare per tutto l'occidente capitalistico, infine, assunto dalla lotta operaia in Italia fanno del Mediterraneo uno dei punti più « caldi » del mondo.
In questa situazione l'Italia torna ad essere, in modo esplicito, un paese « di frontiera » nel suo duplice senso, territoriale e di classe.
Dal punto di vista territoriale, la guerra e l'instabilità politica in Medio Oriente e nel Mediterraneo Orientale fanno dell'Italia, dopo la crisi nei rapporti fra NATO e Grecia, un avamposto della presenza militare USA. Nella stessa direzione spinge lo scontro per il controllo della Jugoslavia che tende ad acutizzarsi in tempi brevi. E ancora, nella stessa direzione spinge la minaccia che il crollo del fascismo in Spagna metta capo ad un processo sociale analogo a quello che si è sviluppato in Portogallo.
Dal punto di vista di classe, la « frontiera » non è più quella con una lotta operaia egemonizzata dal PCI, e quindi rigidamente subordinata all'URSS, com'era al tempo della guerra fredda, ma con una autonomia di classe che è un punto di riferimento decisivo per la riscossa operaia in tutta l'Europa.
Il peso del PCI, pur in un quadro nazionale e internazionale diverso, è aumentato e non diminuito rispetto agli anni della guerra fredda, tanto da rendere estremamente contraddittorio per l'imperialismo USA, anche in una ipotesi di stabilizzazione politica e sociale, accettare il PCI come elemento di ricambio a livello governativo.
La conseguenza di tutto ciò sta nella progressiva e rapida internazionalizzazione della politica del governo italiano, una politica che è sempre stata strettamente subordinata agli USA, ma che oggi si trova sottoposta a una pressione che tende a sottrarle quegli stessi spazi di manovra che sono l'alimento essenziale della democrazia borghese.
In questa situazione il proletariato e le forze rivoluzionarie non possono porsi il problema del governo, come tappa necessaria del passaggio a una fase successiva della lotta di classe che ponga all'ordine del giorno la presa del potere, se non affrontando, al tempo stesso, i problemi posti dall'internazionalizzazione della politica italiana.
La rivendicazione della neutralità e della indipendenza nazionale, come sbocco necessario di una lotta contro la Nato e la dipendenza del-l'Italia dagli USA, non è solo una parola d'ordine giusta, è una prospettiva reale che trova un ampio terreno di convergenza in processi sociali e politici da tempo in corso in altri paesi del Mediterraneo: la Jugoslavia, la Grecia, l'Albania, Cipro, l'Algeria, il Portogallo.