Biblioteca Multimediale Marxista


3.

SECCHIA AL POSTO DI COMANDO


Per ogni campanile deve essere organizzata una sezione comunista...
Secchia (rapporto al V Congresso del Pci, 1945)


Un partito comunista, un partito rivoluzionario deve avere due organizzazioni, una larga articolata di massa visibile a tutti, ed una ristretta segreta. Questo anche in tempi della più ampia democrazia e legalità perché non si può mai fare affidamento sui piani del nemico...
Secchia (in A.P.S., p. 587)


La ragazza alzò la testa dalla macchina da scrivere, posando accanto a sé la lente d'ingrandimento di cui si serviva per decifrare, e poi copiare le pagine dei Quaderni che il fondatore del suo partito aveva scritto in carcere. L'attenzione con la quale si dedicava a quel lavoro per ore e ore, quasi fino allo stordimento, le trasmetteva una emozione, una serenità che non aveva mai conosciuto prima. Aveva vent'anni ed era stata una studentessa di matematica molto brillante fino al giorno in cui aveva deciso di mettersi al servizio del partito della classe operaia. Ed ora realizzava finalmente se stessa, in quel lavoro di copiatura a macchina solo apparentemente modesto.
Aveva sentito la porta dell'ufficio socchiudersi e suonare, contemporaneamente, il campanello. Sulla soglia apparve un uomo di media statura, una folta capigliatura nera, gli occhi un po' allucinati dietro gli occhiali. "Sono Pietro Secchia" disse. E le sorrise, scoprendo brutti denti ricoperti di ferro.
Era un giorno della metà di giugno del 1945. Anche la ragazza che batteva a macchina sapeva, come tutti, che Pietro Secchia era stato, assieme a Luigi Longo, il capo della Resistenza e dell'Insurrezione: dunque, una figura di leggenda. Ma non sapeva molto di più. La storia del partito, una storia fatta anche di polemiche scontri e sospetti, era un libro tutto chiuso. E le vite dei Capi, proposte in opuscoletti diffusi a centinaia di migliaia di copie erano tutte esemplari, come le vite dei Santi.
La Direzione del Pci era sistemata allora in un edificio a pochi passi da Piazza dell'Esedra, al n. 243 di Via Nazionale, quasi di fronte a un albergo da tempo requisito per gli ufficiali alleati. Il vecchio palazzo umbertino, con un largo androne, due rampe di scale e gli ascensori esterni a gabbia, era abitato da famiglie della buona borghesia romana, ospitava uno studio notarile, uno medico e la direzione del Pci che occupava il terzo e il quarto piano della rampa di destra. Gli uffici erano sistemati in un seguito di stanze d'appartamento; in quelle che erano state le cucine avevano trovato posto i ciclostile; nelle anticamere lavoravano le dattilografe, gracili parioline che avevano abbandonato gli studi per "servire il partito" e allegre ragazze di periferia figlie di vecchi militanti. Non esistevano orari e gli uffici restavano aperti anche la domenica. Al piano superiore c'era la mensa che serviva regolarmente, a mezzogiorno, una minestra di farina di piselli e talvolta per secondo carne in scatola; qualche stanza era stata trasformata in foresteria a disposizione dei compagni di passaggio.
Gli uffici erano diretti da personaggi circondati da una sorta di stupefatta ammirazione: uomini come Grieco, Terracini, Negarville, Spano, lo stesso Togliatti sembravano emersi all'improvviso da un passato di cui i più giovani non sapevano quasi nulla. C'era anche molto disordine: corridoi e stanze erano ingombri di uomini e di carte. Dal Mezzogiorno arrivavano, per frequentare la scuola del partito, compagni che portavano con sé in vecchie valigie di fibra l'olio e il formaggio necessari per il mese del corso; dalle zone liberate arrivavano i partigiani, giovanotti con il fazzoletto rosso al collo e i pantaloni corti che si incontravano per le scale con gli studenti comunisti romani che, arruolatisi nell'esercito italiano, partivano per le zone di guerra un po' imbarazzati nella divisa con le stellette.
In un clima che, pur nel rigore e nella severità proprie del costume comunista, aveva già assunto qualche connotato tipicamente romano - una certa dolcezza di rapporti, una certa mancanza di formalità e qualche indulgenza - l'arrivo di Secchia, chiamato a dirigere la commissione d'organizzazione, segnò subito un cambiamento. Organizzare era per lui una vocazione, una passione, un destino. Le sue capacità in questo campo erano fuori discussione: adesso aveva modo di metterle alla prova, alla luce del sole, in tutta Italia. Non era un compito facile.
Se si esclude Roma, dove una struttura organizzativa abbastanza consolidata era il risultato di nove mesi di lavoro clandestino prima e poi di un anno di attività legale, nel resto dell'Italia meridionale il Pci stentava a organizzarsi, non tanto per mancanza di iscritti (erano già circa 300.000) quanto piuttosto per mancanza di quadri, di disciplina, di metodo. E se in alcuni importanti centri urbani del Sud avevano già aderito al Pci gruppi di giovani intellettuali, in intere province il termine "comunista" era sinonimo di bracciante, di disoccupato, di affamato. Nel Nord il problema era del tutto diverso: si trattava di trasformare rapidamente una organizzazione che aveva caratteristiche di struttura militare e paramilitare in un partito legale, capace di iniziativa, di flessibilità, di movimento. I comunisti, nell'aprile del 1945, nel Nord erano almeno centomila; nei due mesi successivi alla liberazione il loro numero era già andato tumultuosamente aumentando.
Nel Nord come nel Sud cresceva intorno al Pci un clima di grandi speranze e di grandi paure. C'era l'entusiasmo di una ripresa, un riallacciare legami e rinverdire esperienze di venti anni prima, ma anche un tentare strade del tutto nuove di vita democratica. Organizzare il Pci significava amalgamare esperienza e vite diverse, aspirazioni e livelli diversi di coscienza politica, dare a tutti - al maggior numero di militanti - un orientamento, la capacità di incidere sulla realtà, di fare politica.
L'organizzazione è quello che decide: lo ha detto Lenin, lo ha detto Stalin, lo dicono e lo ripetono tutti i dirigenti del Pci. Lo ripete e anzi ne ha fatto la sua divisa Pietro Secchia.
Arrivato a Roma, una città che conosce poco e che ha in qualche sospetto, Secchia si guarda attorno con attenzione: molti dei compagni venuti al partito in quei mesi, subito dopo la liberazione o negli anni immediatamente precedenti, gli sono ignoti e un po' misteriosi. Sono giovani che hanno vestito la divisa fascista, che hanno fatto il saluto romano, che nelle organizzazioni di Mussolini hanno avuto anche gradi, riconoscimenti e promozioni nello stesso periodo in cui lui, Pietro Secchia e tanti altri come lui, stavano in galera o al confino o in esilio. Anche Secchia conosce, naturalmente, l'apologo che vuole che si uccida l'agnello più grasso del gregge per il figliol prodigo che ritorna. Ma questi, che si aggirano per gli uffici di Via Nazionale e per i corridoi dell'Unità sono tanti: bisogna proprio fidarsene? Bisogna, secondo Secchia, metterli alla prova.
Secchia non ha nei confronti dei giovani intellettuali, ancora freschi di Littoriali o di rivistine dei Guf, l'atteggiamento di indulgenza e di compiacimento di Togliatti (cui piace tenerseli accanto e discuterci, magari di letteratura) ma nemmeno il pregiudiziale sospetto di D'Onofrio che sarà un durissimo dirigente dell'Ufficio Quadri. A Milano, durante la Resistenza, Secchia ha conosciuto Elio Vittorini e attraverso di lui si è fatto un'opinione abbastanza precisa degli intellettuali comunisti: uomini pieni di slanci e di entusiasmi, capaci anche di grandi sacrifici personali, ma scarsamente affidabili nel lavoro quotidiano. Tuttavia, pensa Secchia, il rigore la disciplina la severità nel grigio lavoro di tutti i giorni si possono anche imparare.
Secchia ha un buon carattere, anche se va soggetto talvolta a improvvisi scoppi d'ira. Sul lavoro è molto esigente, con se medesimo e con gli altri; ma si concede volentieri la sosta di una risata, di un atto di cordialità non formale, di un'attenzione affettuosa. Il suo rigore non è né grigio né stupido, è temperato da un certo piacere di vivere che si esprime in modi semplici, senza raffinatezze certo, ma anche senza volgarità.
Vive in una casa molto modesta, in Via Capo d'Africa, dietro il Colosseo con Alba, "la sua compagna", come si diceva allora, che aveva conosciuto a Milano durante la Resistenza; l'unica donna, per quanto ne sappiamo, della sua vita. Alba era alta, grossa, bionda, di qualche anno più anziana di lui. Originaria di un piccolo paese dell'Emilia, figlia di contadini poveri, ricordava della sua infanzia solo una lunghissima fame. Parlando di se stessa bambina, della fame dolorosa che aveva sofferto, ancora adesso piangeva. Piangeva anche quando parlava di suo marito Luigino, tipografo del Corriere della Sera e militante comunista che, arrestato dai tedeschi nell'inverno del 1944, era stato deportato in Germania in un lager da cui non era più tornato. Piangeva anche perché non sapeva bene se al suo Luigino lei gli aveva fatto un torto o no: quando, una notte, a Milano aveva ceduto alle insistenze di Pietro, suo marito Luigino era ancora vivo o no? L'incertezza le aveva lasciato un po' di rimorso.
I due, Pietro ed Alba, sono fatti della stessa pasta semplice e sana. Per loro è già una festa una cena all'osteria con un paio di amici: Matteo, Antonio e più tardi Nino. "Una bella mangiata e poi una bella cavalcata": rideva Pietro con tutti i suoi denti di ferro, dando pacche vigorose ai fianchi della sua donna e guardandole goloso il petto.
Secchia ha abitudini regolari. Esce tutte le mattine alle otto da Via Capo d'Africa per raggiungere con pochi minuti di macchina il suo ufficio di Via Nazionale. Poi, quando la direzione si trasferisce nel grande palazzo delle Botteghe Oscure, Secchia, sempre accompagnato dalla sua guardia del corpo, qualche volta ci va a piedi, attraverso Via dei Fori Imperiali e Piazza Venezia. Ma non è di quelli che si commuove alla vista del Palatino o della scalinata dell'Ara Coeli. Il Campidoglio per lui è soprattutto un luogo da conquistare, dove innalzare prima o poi la bandiera rossa.
Questo "prima o poi" dipende anche da lui, dal suo lavoro. Ancora una volta gli è stato affidato il compito dell'organizzazione, un compito apparentemente subordinato al far politica, ma dai contorni non precisi e facilmente dilatabili. "Quando la giusta linea politica è fissata, l'organizzazione è ciò che decide. Nulla dunque si può realizzare, neppure la più semplice delle iniziative se non per mezzo dell'organizzazione": così, citando Stalin, lo stesso Secchia spiega, in un articolo su Rinascita del dicembre 1945, in cosa consista "l'arte dell'organizzazione".
E un'arte ambigua: "serva" della politica o sua padrona? L'incertezza, che permane anche in quella definizione, si risolve di fatto, con la gestione di Secchia tutta a favore della seconda ipotesi. L'organizzazione diventa rapidamente, nel Pci, il momento più alto del far politica, il momento cioè in cui le idee si tramutano in forza, diventano capaci di muovere gli uomini e di cambiare i dati della realtà, senza di che la politica non è che declamazione, cicaleccio, retorica. L'organizzazione dunque è la concretezza, l'asse robusto cui tutto si collega, il motore che consente a questa macchina ancora scassata o in assemblaggio, che è il Pci, di camminare nella società italiana e, camminando, rafforzarsi.
E l'organizzatore, lo specialista di quest'arte ambigua e sottile, colui che sceglie, decide, verifica e controlla diverrà, di fatto, pian piano il padrone, a tutti i livelli, del partito; È lui che sceglie, dal centro alla periferia, cosa è più importante e urgente; è lui che programma l'attività non solo del partito ma degli organismi di massa che ne dipendono (sindacati, Udi, Comitati della Pace o della Terra); è lui che, conoscendo meglio degli altri gli uomini, ne stabilisce la destinazione negli apparati.
"Un organizzatore politico" scrive Secchia nell'articolo già citato "dev'essere un uomo dotato di facoltà di osservazione e di analisi, capace di scorgere, abbracciare e coordinare i dettagli; deve possedere energia, dinamicità, resistenza al lavoro. Ma tutto questo non basta. Deve possedere conoscenza e capacità di comprensione dell'elemento umano. Deve saper scoprire le qualità che esistono in ogni individuo, saper bene utilizzare queste qualità, studiare i pregi e le insufficienze di ogni compagno, saper collocare ognuno al posto che meglio risponde alle sue attitudini..." E conclude con un ammonimento: "...l'organizzazione non è un passatempo, un divertimento consistente nel mutar di posto alle pedine... Il conservatorismo è nocivo ad un'organizzazione come la ruggine in un ingranaggio. Ma non si devono neppure introdurre importanti innovazioni nell'organizzazione con facile leggerezza..." (10)
E infatti lo schema organizzativo che il Pci adotta appena uscito dall'illegalità è quello tradizionale basato sulle cellule, le sezioni, le federazioni, uno schema che consente la trasmissione rapida delle direttive e degli impulsi dal vertice alla periferia e prevede una organizzazione e una mobilitazione capillare degli iscritti, la cui fedeltà e il cui corretto orientamento vengono verificati, settimana per settimana, attraverso la riunione di cellula. Il partito di "tipo nuovo" predicato da Togliatti si viene dunque strutturando secondo lo schema tipico dei vecchi partiti della Terza Internazionale, schema che incontra notevoli difficoltà di applicazione, specie nel Sud.
Se il Nord partigiano infatti aveva già vissuto nella Resistenza una sua pratica di organizzazione (quasi un riflesso della disciplina di fabbrica e militare), nel Mezzogiorno, percorso da vecchie tendenze anarchiche, il partito appariva turbolento, inquieto, sempre in bilico tra passività e velleità insurrezionali, e comunque riluttante alla griglia organizzativa proposta da Secchia.
Mentre i compagni di Benevento fidavano tanto nello Stato da chiedere a Giorgio Amendola, allora sottosegretario agli Interni, di "mandargli un prefetto rosso", a poche centinaia di chilometri altri comunisti, in modo più sbrigativo, risolvevano il problema della democratizzazione conquistando un municipio e costituendo una Repubblica dei soviet. Due facce, diverse è contraddittorie di una stessa realtà, nella quale il Pci dovrà intervenire, da Roma, come un elemento del tutto nuovo, educativo e disciplinante.
Di questo divario tra Nord e Sud, del pericolo che il Sud rappresenti una vera e propria palla al piede per lo sviluppo delle lotte future, il gruppo dirigente del Pci (formato allora prevalentemente da settentrionali) si rende ben conto e pensa di superarlo con un eccezionale sforzo organizzativo che si concreta nell'invio di quadri, "ispettori" e "costruttori" che hanno il compito di introdurre in una realtà disgregata e arretrata il germe dell'organizzazione e della coscienza di classe.
Partono quindi per la Sicilia, per la Calabria, per la Lucania, per gli Abruzzi, uomini e donne che vengono dalle carceri, dal confino o dall'esilio in Urss, giovani e ragazze che vengono dall'esperienza della lotta clandestina e partigiana. Sono "costruttori" che assomigliano a missionari, che hanno difficoltà a capire la lingua, i costumi, le necessità delle popolazioni locali, ma che a furia di sacrifici e di riunioni, di scoramento e di esaltazione riusciranno spesso a mettere salde radici in quelle realtà.
Alla fine del 1945, quando si celebra a Roma il V Congresso del Pci, gli iscritti al partito sono già più che triplicati rispetto all'aprile. Sono 1.800.000, organizzati in 7000 sezioni e 30.000cellule; al VI Congresso nel 1948, gli iscritti sono 2.250.000 e le cellule sono diventate 50.000. Se nessuno, e tanto meno Secchia, avrebbe mai pensato di attribuirsi tutto il merito di questa crescita, è pur vero che in massima parte proprio a lui, ai suoi metodi e al suo stile di lavoro - e alla capacità di trasmettere questo stile a centinaia e migliaia di quadri - va ascritto quel successo.
Non erano tutti dei piccoli Secchia i dirigenti periferici che applicavano le sue direttive o coloro che lavoravano con lui, al quarto piano delle Botteghe Oscure. Ma cercavano tutti di essere un po' come lui: entusiasti, tenaci, ordinati, disciplinati, ricchi di iniziativa, rigorosi nel controllo dell'esecuzione del lavoro.
Il mito dell'organizzazione, di una macchina funzionante perfettamente a tutti i livelli, che non lascia nulla all'improvvisazione, o al caso, si diffonde rapidamente nel partito. Per garantire il funzionamento questa macchina, che ha bisogno di migliaia di "rivoluzionari professionali", ma anche di decine di migliaia di militanti disposti a un lavoro volontario quotidiano, bisogna naturalmente guardarsi come la peste da coloro che, per temperamento o origine di classe, siano portatori di valori diversi o da coloro che, portatori di quei valori, non siano disposti a liberarsene.
Ordine, disciplina, spirito pratico, tenacia: all'organizzatore si richiede non solo grande capacità di lavoro e spirito di sacrificio, ma anche e soprattutto rinuncia allo spirito critico, la disponibilità ad accettare e trasmettere moduli molto semplici quasi catechistici di interpretazione della realtà. Questa rinuncia, in qualche caso, una vera lacerazione della personalità e della coscienza, viene compiuta da molti giovani intellettuali persino con una certa intima soddisfazione in nome dei superiori interessi del partito. Ordine, spirito pratico, disciplina, tenacia e una certa schematica, elementare visione del mondo e delle sue contraddizioni non rappresentano, a ben vedere, le tipiche caratteristiche della classe operaia? Dunque il giovane intellettuale che, uscito dai licei classici o dalle università, ambisce a fare il rivoluzionario professionale, deve, se già non li ha (e, ahimè, generalmente non li aveva) acquisire i connotati della classe che intende servire. Se è disordinato e distratto dovrà acquistare il gusto della precisione fino alla mania, se ha scarti d'umore deve acquistare un sereno autocontrollo, se è presuntuoso deve acquistare una severa coscienza dei propri limiti. Solo riverificando se stesso come si sottopone a verifica una macchina utensile, il giovane intellettuale, già diventato rivoluzionario professionale, potrà ambire a entrare nel piccolo più selezionato gruppo degli organizzatori. Coloro che nonostante i loro sforzi non ce la fanno potranno occuparsi di propaganda, di enti locali, di problemi agrari o verranno destinati a dirigere qualche organismo di massa, un sindacato o una cooperativa. Solo i migliori dunque diventano, a livello provinciale, i "responsabili di organizzazione".
Secchia li conosce uno per uno e, sia pure di lontano, li tiene d'occhio. E, quando li aveva tenuti d'occhio per un po' e si era convinto che avevano tutte le qualità che gli sembravano necessarie, allora li chiamava a Roma e li teneva con sé, nel suo ufficio al quarto piano per un certo periodo.
I "giovanotti" di Secchia poi hanno fatto tutti una brillante carriera nel Pci. Uno dei migliori era Nando Di Giulio, chiamato da Grosseto quando non aveva ancora venticinque anni, promosso rapidamente a viceresponsabile della Commissione di Organizzazione, poi membro della Direzione e morto in ancor giovane età come capogruppo dei deputati comunisti. Uno dei più intelligenti era Paolo Bufalini, venuto al Pci con un gruppo di studenti romani nel 1939, che aveva fatto la guerra partigiana in Jugoslavia, e che sarà chiamato via via a sempre più importanti incarichi. Seguirono questa trafila, per non fare che alcuni nomi, anche Armando Cossutta, Elio Quercioli, Giuseppe D'Alema.
Alle dipendenze di Secchia c'erano una serie di uffici. Il "nucleo fondamentale" era costituito dai suoi vecchi compagni di sempre, Celso Ghini, Arcangelo Valli, Antonio Cicalini, Armando Fedeli, vecchi militanti che portavano nel lavoro legale la severità, l'attenzione, la riservatezza cui erano stati allenati nei venti anni d'illegalità. Erano compagni di totale affidabilità, la cui dedizione alla classe operaia, al Pci, all'Urss era assoluta.
Attorno a loro i "giovanotti" che dovevano ancora imparare, che lavoravano molto ed erano convinti - glielo ripeteva lo stesso Secchia - di svolgere il compito in assoluto più importante che si potesse svolgere alle Botteghe Oscure. Il resto, i discorsi di Togliatti, le trovate propagandistiche di Pajetta, le elucubrazioni di Grieco e di Sereni erano appunto discorsi, trovate, elucubrazioni ; che non avrebbero lasciato alcun segno se lui, Secchia e i "giovanotti" che lavoravano con lui e gli "ispettori" e i segretari regionali che da Secchia strettamente dipendevano e i segretari federali che dipendevano da quelli regionali e i responsabili delle varie commissioni di organizzazione, non avessero funzionato come una macchina perfetta che era la spina dorsale del partito, forse il partito tout-court.
C'era in quei giovani che lavoravano con lui e in tutti coloro che da Roma fino alla lontana periferia dipendevano dalla Commissione di Organizzazione, molto spirito di corpo, molto orgoglio del proprio lavoro, molto senso di responsabilità e di disciplina e, non di rado, un certo complesso di superiorità nei confronti di coloro che facevano un altro lavoro.
I funzionari della Commissione d'Organizzazione percorrevano instancabilmente l'Italia, partecipavano alle riunioni dei Comitati Federali e delle Commissioni di Organizzazione provinciale, intervenivano a correggere incertezze ed errori, a risolvere situazioni di difficoltà, a sostenere le organizzazioni più deboli che si trovassero impegnate in iniziative e in lotte che avevano risonanza nazionale.
Per garantirsi il funzionamento del lavoro e il suo controllo (in tempi in cui si usava poco il telefono e non esistevano le dichiarazioni alla Tv e le interviste ai settimanali) c'era uno strumento interno a cadenza settimanale che per anni conobbe una straordinaria diffusione: il "Quaderno dell'Attivista" (11). Un testo fortemente prescrittivo che indicava a tutti i militanti (fino ai segretari delle cellule e ai membri dei direttivi della cellula) cosa andava fatto e come. Assai simile al vecchio libro dei "Compiti per le vacanze", il "Quaderno dell'Attivista" propone, settimana per settimana, gli obiettivi da raggiungere, orienta, consiglia e controlla.
Nulla è lasciato al caso. La vita del partito si articola secondo un calendario fisso: il lunedì si farà in federazione la riunione dei segretari di sezione, il martedì la riunione del direttivo di sezione, il mercoledì la riunione dei segretari di cellula, il giovedì le assemblee di sezione, il venerdì tutte le riunioni di cellula e la domenica la diffusione dell'Unità. Restava libero solo il sabato che però, secondo il "Quaderno dell'Attivista", era opportuno dedicare allo svolgimento di un corso ideologico in sezione.
Nulla è lasciato al caso. Settimana per settimana viene proposto il tema dell'assemblea che si svolgerà in tutte le sezioni in tutta Italia; lo schema della conversazione appare già sviluppato punto per punto sul "Quaderno" così che al "compagno oratore" sarà sufficiente studiarlo con attenzione per essere in grado di ripeterlo alla assemblea. E se qualcuno dei presenti volesse fare delle domande? Niente paura: il "Quaderno dell'Attivista" prevede anche le domande e fornisce, naturalmente, le adeguate risposte.
Nulla è lasciato al caso. C'è l'elenco dei libri da leggere, i consigli sulle lingue da studiare: "mi sembra veramente ridicolo" ammonisce un dirigente nazionale "che alcuni compagni studino ancora l'inglese o il francese anziché il russo". Ci sono molti consigli pratici (come preparare un giornale morale, quali autorizzazioni chiedere per un comizio, come montare un altoparlante o un proiettore) ma anche consigli e ammonimenti di carattere morale("un dirigente deve avere pazienza, deve saper ascoltare, non deve mai essere saccente, non deve montare in cattedra").
L'incitamento a raggiungere gli obiettivi (nel tesseramento, nella diffusione dell'Unità, nell'organizzazione delle feste o delle riunioni) è sostenuto dall'uso dei premi e dei biasimi: i meritevoli, coloro che hanno raggiunto gli obiettivi, vengono iscritti in una lista "rossa", i negligenti in una lista "nera". Per insegnare "come si fa", il "Quaderno" ricorre alle vignette e ai fumetti. Per mettere alla prova e stimolare l'intelligenza politica degli attivisti, il "Quaderno" propone settimanalmente una "Caccia all'errore" con un premio per i vincitori. Eccone un esempio: (12) una vignetta riproduce l'interno di un teatro con un palco pronto per una manifestazione d'amicizia con la Jugoslavia. C'è il tavolo della presidenza, gli striscioni, le bandiere. Dov'è l'errore? Lo scopre il compagno Alfio Caponi di Frosinone che rileva che le bandiere innalzate attorno al palcoscenico sono solo rosse. "E' un errore" scrive "che non ci siano anche le bandiere italiane." Il compagno Caponi viene quindi segnalato come meritevole nella lista rossa e vince il premio.
Uno schema di questo tipo, che oggi appare semplicistico e dogmatico, non poteva avere successo che sulla base di una adesione di tipo pressoché religioso all'impegno politico, e, a sua volta, alimentava un adesione di questo tipo. Ogni militante, così istruito, si muove nella società alla conquista degli infedeli e, corazzato della sua sicurezza come un crociato, non sarà raggiungibile dalle ragioni degli altri.
Il lavoro di costruzione del partito assorbe totalmente Secchia; i dubbi che nutre nei confronti di una linea politica che giudica troppo flessibile, non vengono, per ora, confidati nemmeno ai più intimi. E, per trovare in un documento ufficiale il segno di una divergenza con Togliatti, bisogna attendere un anno, l'analisi dei risultati delle elezioni del 2 giugno del 1946.
Quei risultati hanno duramente ridimensionato le speranze e le illusioni della sinistra. A un anno appena dalla Insurrezione del 25 Aprile, la Repubblica ha vinto, ma di stretta misura, confermando la spaccatura tra il Nord (dove la Repubblica conquista il 65% dei voti) e il Sud (dove la monarchia ne conquista il 68%).
Più amaro è l'esito delle elezioni per la Costituente. Contrariamente a tutte le aspettative, il primo partito si rivela la Dc con il 35% dei voti, il secondo partito il Psi con il 20.7% e il terzo (soltanto il terzo!) il Pci con il 19%. E persino nel Nord, nel mitico Nord, che è stato il teatro di tante battaglie e il luogo della vittoria partigiana, persino lì, il primo partito è la Dc, il secondo il Psi (con il 28.5%) e solo terzo il Pci con il 22.4%.
Secchia, ma non solo Secchia aveva sperato in un ben diverso risultato. Molti avevano pensato, a ragione, di meritarselo. Perché dunque un risultato atteso preparato e, come dire?, in qualche modo "dovuto" al partito per la sua storia la sua azione e il suo sacrificio, perché dunque questo risultato era mancato?
Secchia prende il toro per le corna. "Siamo andati male nei centri industriali" dice alla prima riunione della Direzione del partito dopo il 2 giugno "ma spiegare questo solo con difetti di organizzazione mi sembra che sia un errore... No, no" insiste "io ritengo di poter trovare un'altra spiegazione di certi insuccessi elettorali: nella delusione della classe operaia dopo la lotta di liberazione e la guerra partigiana. Cosa ha avuto in questo primo anno di pace la classe operaia? È stata sulla difensiva. Ha avuto salari di fame. Si è ottenuto il blocco dei licenziamenti, ma anche questo è pura opera difensiva e gli operai vivono sempre sotto la minaccia dei licenziamenti. I consigli di gestione non sono stati riconosciuti, la funzione e i poteri dei comitati di liberazione sono andati via via esaurendosi..."
È quindi una critica alla politica unitaria condotta, alla insufficienza delle azioni di lotta, ai cedimenti di fronte all'avversario che Secchia ha sempre disapprovato, così come ha disapprovato (anche se non lo ha detto a suo tempo) la linea di de-ideologizzazione del partito sancita dal V Congresso. Se non lo ha detto allora, però, può ben dirlo adesso: "Va bene che siamo per la libertà di propaganda religiosa, ma non so perché dobbiamo essere contrari alla propaganda di princìpi filosofici materialistici!".
Ma Togliatti reagisce subito, ribatte punto per punto: "Guai se sulla base di questi risultati lasciassimo penetrare una critica alla linea del partito, che spingesse verso un estremismo classe contro classe che ci farebbe perdere la nostra fisionomia di partito nazionale, di partito che lotta per l'unità delle forze lavoratrici". E poi parte l'affondo contro i dirigenti del Nord, quelli che hanno fatto la guerra partigiana e dirigono ancora il partito in quelle zone. Secchia aveva detto che nel Nord i risultati erano stati insoddisfacenti perché alla guerra di liberazione non avevano fatto seguito risultati concreti? Togliatti gli rovescia il ragionamento. No, i risultati che ci si aspettava non si sono avuti perché durante la lotta di liberazione "vi eravate posti obiettivi molto avanzati che non potevano diventare dopo la liberazione obiettivi di tutto il popolo". E, rivolto ai dirigenti di Milano, li ammonisce: "L'insurrezione vi ha dato alla testa; non avete capito che a Milano lo strato avanzato degli operai è circondato da una massa di operai a fisionomia moderata, da un ceto medio legato alla produzione e al commercio, da professionisti e da intellettuali". (13)
Togliatti dunque utilizza il risultato del 1946 come una sorta di salutare richiamo alla ragione. Come a dire: non facciamoci illusioni, questa è la situazione, ed alle elezioni ciò che conta sono i voti, badiamo quindi a conquistare la gente, gli operai, certo, ma anche i "ceti medi" e poi le donne, così tenacemente influenzate dalla Chiesa e da un antico costume di sudditanza e poi ancora i contadini tra i quali era già la Bonomiana a comandare, e poi... e poi... e poi...
Cosa restava, a questo punto, del sogno eroico della insurrezione, del disegno giacobino della "democrazia progressiva"? Non era, questo, un puro e semplice ritorno alla democrazia parlamentare, alla democrazia borghese, una rinuncia al disegno, nutrito di sangue e di idee, della Resistenza e della lotta antifascista?
E' quello che pensano alcuni gruppi di partigiani che, proprio nell'agosto di quell'anno, esprimono in modi tutt'altro che ortodossi il loro malcontento. Immessi, subito dopo l'Insurrezione, nei ruoli della polizia e poi allontanati o emarginati, guardati con sospetto dai capireparto nelle fabbriche dove erano rientrati, indignati infine per l'amnistia concessa (dal ministro della Giustizia Togliatti!) ai delinquenti fascisti, alla fine dell'agosto del 1946 gruppi di partigiani, dissotterrate le armi che non hanno mai consegnato alle autorità, risalgono in montagna. "La protesta partigiana ha inizio ad Asti il 22 agosto. Qui un gruppo di ex partigiani della polizia ausiliaria, 30 uomini in tutto, agli ordini del capitano Lavagnino abbandona la caserma di stanza e si rifugia nella collina di S. Libera, nel comune di S. Stefano Belbo. Al piccolo gruppo di rivoltosi si unisce l'ex capo partigiano Armando con 400 uomini armati e si forma un comando generale di partigiani rivoluzionari." (14)
L'Unità commenta così questa improvvisa insorgenza militare: "È inutile voler limitare la portata di questo gesto a un atteggiamento inconsiderato e arbitrario di un gruppo isolato. A quel gesto, hanno ieri idealmente sottoscritto milioni di lavoratori, migliaia di partigiani". È un'affermazione impegnativa, una avventata solidarietà. E infatti, nei giorni immediatamente successivi, l'Unità smorza il suo entusiasmo mentre il Pci, per sedare quel focolaio di rivolta, spedisce a S. Stefano Belbo una delegazione formata da Secchia e Lajolo, accompagnati da Raf Vallone, allora redattore della terza pagina dell'Unità.
La discussione con Rocca, Lavagnino e Armando è dura, ma alla fine i partigiani si convincono a ritornare in città senza fare altre sciocchezze. L'episodio non avrà alcun seguito di carattere giudiziario e tanto meno un seguito politico, per adesso almeno. Ma Secchia ha ripreso contatto con il suo mondo, ha tastato il polso a questa gente delusa, amareggiata, arrabbiata, si è reso conto che sono ancora pronti con le loro armi. Potranno servire ancora queste armi, potranno servire ancora questi uomini?
Il problema in qualche parte d'Italia era già stato risolto senza tanto discutere. Nel senso che una parte di coloro che le armi le avevano conservate, continuarono ad usarle anche dopo il 25 Aprile in modo solitario e irregolare.
Cosa sapeva il partito ufficialmente di questi gruppi armati? Una risposta a questa domanda non potrà mai venire da documenti ufficiali, e a distanza di quarant'anni anche le testimonianze sono rare e incerte. Regolamenti di conti, duri e feroci, liquidazione fisica di fascisti e repubblichini avvennero, e numerosi ben dopo il 25 Aprile del 1945. A Milano, lo abbiamo già raccontato, ancora alla fine di maggio venivano raccolti, ogni mattina all'alba, alla periferia, cadaveri di sconosciuti fucilati durante la notte. In Emilia, nelle province dove la lotta partigiana aveva avuto un forte connotato di classe, vennero eliminati nel corso dell'estate del 1945, signorotti fascisti e proprietari terrieri. La famiglia dei Conti Manzoni - non è che un esempio - sparì all'improvviso, in quel di Ravenna (bambini e una cameriera compresa) una mattina del luglio 1945 tanto che si poté pensare che avesse volontariamente abbandonato, di fronte a un pericolo supposto, le case e i beni. Di questa come di altre famiglie furono trovati, solo dopo anni, i cadaveri e per quei delitti furono accusati, processati e spesso condannati ex partigiani comunisti. Ma nessun tribunale riuscì mai a dimostrare, nonostante tutti i tentativi fatti, una qualche responsabilità di dirigenti o organizzazioni del Pci. Generalmente difesi da avvocati del Pci, gli imputati di quei processi non dissero mai una parola che potesse in qualche modo coinvolgere nella loro vicenda il partito di cui facevano parte. Accusati, scontarono anni di carcere, quando non riuscirono a rendersi latitanti.
La presa di distanza, pubblica ed energica, del Pci da questi atti di violenza, ha salvaguardato nel tempo l'immagine di un partito tutto e solo legalitario. Ma c'è senza dubbio anche un'altra storia del Pci, più segreta, fatta di appoggio e simpatia per questi piccoli gruppi armati. Non altrimenti si spiega l'avvio clandestino, verso i paesi dell'Est, della maggior parte degli imputati di quei processi quando condannati in contumacia. A Praga, attorno alla Radio in lingua italiana, hanno vissuto e lavorato per anni molti di coloro che, dopo il 25 Aprile, non avevano rinunciato all'azione armata e agli atti di terrorismo, E lì costituirono una piccola singolare comunità che aveva rapporti regolari con il Pci.
La vicenda della Volante Rossa è da questo punto di vista esemplare, anche per la struttura che si dà, negli anni tra il 1945 e il 1949, in un singolare intreccio di attività legale e illegale, di normali attività sportive e ricreative e di operazioni terroristiche. Può accadere così che alcuni che fanno parte della Volante in quanto circolo ricreativo non sappiano nulla delle attività illegali del suo nucleo più ristretto cui involontariamente offrono copertura. E se è certo che molti dirigenti Pci di Milano conoscono questa attività segreta della Volante Rossa, è altrettanto certo che la maggior parte degli iscritti al Pci a Milano e in Italia ne sono totalmente all'oscuro, sono convinti che le notizie che appaiono sui giornali borghesi sono delle "montature" e prestano fede, con un po' d'ingenuità, alle ripetute sollecitazioni del quotidiano del partito che invita a "respingere tutti i tentativi di provocazione".
La Volante Rossa è diretta da Alvaro, un operaio di vent'anni, che aveva comandato, nel corso della Resistenza, la 118^ Brigata Garibaldi. (15) Essa, ha una faccia legale: ufficialmente si presenta come un circolo ricreativo che ha sede presso la Casa del Popolo di Lambrate e svolge attività alle quali partecipano una cinquantina di giovani non solo comunisti, Tra quei cinquanta c'è però un gruppo ristretto che, nella clandestinità più assoluta, porta avanti una serie di azioni contro quei fascisti che non erano stati raggiunti nei giorni dell'insurrezione. Quante sono le esecuzioni da addebitare alla Volante Rossa? E impossibile darne una cifra anche approssimativa: alcune furono azioni clamorose e in qualche modo "firmate", di altre sparizioni non fu possibile indicare la responsabilità. "Andavamo a prendere l'individuo" racconta un testimone che resta anonimo "lo portavamo dalle parti del campo Giuriati, perché allora lì era tutto prato e la mattina passava l'obitorio a ritirarlo." Alcuni fascisti vennero eliminati con una gita in barca sul Lago Maggiore; i cadaveri vennero poi ritrovati con una pietra al collo assicurata con un cavo di ferro.
Quando, all'inizio del 1946, si organizzano, clandestinamente, anche gruppi neofascisti, sequestri e sparizioni da una parte e dall'altra si configurano come un insieme violento di scontri tra due diverse organizzazioni paramilitari.
Tra le esecuzioni più famose "firmate" dalla Volante Rossa c'è quella del giornalista Franco De Agazio, fondatore e direttore del settimanale neofascista Meridiano d'Italia, compiuta da uomini a viso scoperto la sera del 14 marzo 1947 mentre sta rientrando a casa sua, in Via Strambio. Pochi mesi dopo è la volta del generale Ferruccio Gatti, che ha già messo in piedi una organizzazione terroristica neofascista. Il generale sta pranzando con la moglie, i figli e alcuni amici quando due individui, a viso scoperto, si presentano a casa sua e chiedono di parlargli. La cameriera li fa entrare; mentre il Gatti gli va incontro i due sparano, poi scendono di corsa le scale e fuggono in bicicletta.
Quando non uccide, la Volante punisce. E in questo caso vengono presi di mira soprattutto dirigenti di fabbrica, sfuggiti all'epurazione ma particolarmente invisi agli operai. L'ingegner Italo Toffanello, già vicedirettore di uno stabilimento della Falk, è uno di questi. Una notte viene prelevato a casa sua e condotto, una rivoltella puntata alla testa, in una piazzetta a fianco del Duomo; lì è denudato e lasciato tremante sotto la neve, in mutande. Il giorno dopo una telefonata alla polizia avverte che i suoi vestiti e il suo portafoglio sono in un pacchetto che è stato depositato - significativo avvertimento - ai piedi del distributore di benzina su cui è stato esposto due anni prima, impiccato per i piedi, il cadavere di Mussolini. Appuntato al pacco un biglietto: "E stata data una lezione al signor Toffanello. Ora restituiamo scrupolosamente ciò che era in suo possesso". Segue l'inventario degli oggetti e la ironica firma: "Un gruppo di bravi ragazzi".
Tollerati, se non aiutati, i "bravi ragazzi" della Volante Rossa conosceranno un momento di semiufficialità nel 1947 durante l'occupazione della Prefettura di Milano e usciranno allo scoperto il 14 luglio del 1948, durante lo sciopero e i disordini che fecero seguito all'attentato a Togliatti. Dopo di allora rientrano nell'illegalità più completa; sempre più isolati riescono ancora a portare a termine alcuni attentati, ma l'errore di uno di loro, il più giovane e inesperto, fa cadere, nel 1949, tutto il gruppo.
Che la Volante Rossa esistesse non lo sapevano però solo i dirigenti comunisti di Milano che in qualche caso se ne servirono anche come "servizio d'ordine". Lo sapevano certamente anche Secchia e i più fidati tra coloro che gli stavano vicino. Tra questi c'è da un po' di tempo un giovanotto, Giulio Seniga, detto Nino, che ad ogni notizia di un fascista liquidato si frega le mani contento: "Ne abbiamo fatti fuori pochi" dice scuotendo la testa. E aggiunge con un vecchio modo di dire partigiano: "Eccone un altro che ha perso il vizio di fumare". Nino è un bel ragazzo, alto, biondo, con gli occhi chiari, un'aria insolente. Operaio all'Alfa Romeo, ha fatto la Resistenza con Cino Moscatelli, nell'Ossola, dando prova sempre di uno straordinario coraggio. Poi a liberazione avvenuta è rientrato a Cremona, dov'è stato tra i primi a mettere in piedi l'organizzazione del partito. E' entusiasta ma irrequieto e la sua P32, per intenderci, non l'avrebbe riconsegnata alle autorità legali per tutto l'oro del mondo. Operaio, partigiano, coraggioso, fedele, lavoratore: ecco il tipo che non poteva non piacere a Secchia. E gli piace molto, infatti, quando Moscatelli glielo segnala come un elemento di grande fiducia. Secchia se lo chiama a Roma nei primi mesi del 1947 con compiti che, all'inizio, sembrano modesti: Nino per qualche tempo gli fa da autista e da guardia del corpo. Quindi è autorizzato a girare armato. Seniga è il tipo che non accetterebbe un incarico che non gli consentisse di avere sempre la pistola alla cintura. Ma la pistola ormai è simbolica. A Roma serve più che altro a far colpo sulle ragazze che lavorano alle Botteghe Oscure, mentre i giovani intellettuali che pure fanno parte dell'apparato lo guardano un po' invidiosi e un po' preoccupati. "Nino" dicono per sfotterlo "non ha ancora capito che la guerra è finita."
Ma è davvero finita la guerra? De Gasperi si accinge a buttar fuori dal governo sia Togliatti che Nenni. Cosa succederà quando la Dc romperà quella che già chiamava nei suoi documenti "la coabitazione forzata con comunisti e socialisti"?
Secchia, che come Longo del governo non ha mai fatto parte, pensa che a questa eventualità occorre prepararsi mobilitando fino in fondo le forze del partito e quelle del sindacato, organizzando il confronto duro, di piazza, lo sciopero generale politico che impedisca a De Gasperi di portare avanti l'opera di restaurazione. Ma quando dice a Togliatti che bisogna spingere di più, trasformare le lotte economiche in lotte politiche, andare a forme di scontro più avanzate, Togliatti replica con le solite raccomandazioni: "Bisogna stare attenti", "non bisogna esagerare", "e chi ci garantisce, poi contro le eventuali provocazioni?" e così via fino all'inevitabile e un po' ironico: "non vorremo mica arrivare all'insurrezione?"
Il povero Secchia a queste obiezioni tenta di rispondere che tra il nulla e l'insurrezione c'è sempre un bel tratto di strada da fare, ma Togliatti, quando non ha voglia di discutere, fa finta di non sentire. Così la discussione finiva ancora prima di cominciare. "Così," dirà Secchia più tardi "cominciammo a cedere posizioni senza combattere."
Una piccola soddisfazione, tuttavia, Secchia riesce a prendersela in quei giorni. Nel nuovo governo, che si forma nel febbraio del 1947, al ritorno di De Gasperi dall'America, propone di includere, come sottosegretari, Moscatelli e Moranino. De Gasperi non è d'accordo e chiede a Togliatti in cambio altri due nomi, naturalmente di partigiani. Ma Secchia si impunta: "No" reagisce, "devono essere proprio quei due perché sono quelli che i partigiani del Nord conoscono meglio, sono dei veri combattenti". "Ma De Gasperi non li vuole" replica Togliatti. "E' proprio perché lui non li vuole, li dobbiamo volere noi" sbotta Secchia. E questa volta è lui ad avere l'ultima parola. Alla fine infatti De Gasperi accetta quei due nomi; ma sa che non staranno molto al ministero: il suo obiettivo (che il Pci sottovaluta) è ormai quello di formare un governo senza le sinistre e ci riuscirà nel maggio dello stesso anno. Moscatelli e Moranino saranno sottosegretari solo per due mesi.
Alla sua esclusione dal governo il Pci reagisce senza nervosismo, quasi non si rendesse conto della gravità di un evento che ha portata storica, che chiude un ciclo. Il primo comunicato della Segreteria raccomanda che le eventuali manifestazioni di protesta si svolgano "nelle forme legali che sono proprie della democrazia": è un modo di avvertire il partito che altre manifestazioni sarebbero considerate provocatorie, ma è insieme un modo di rassicurare De Gasperi. Non ci sarebbe stato insomma come conseguenza della cacciata del Pci dal governo nessun eccesso di tipo più o meno insurrezionale. (16)
Tutto relativamente tranquillo, dunque, in quelle prime settimane. Solo a luglio il Comitato Centrale comincia a esaminare con malumore quello che è successo, a chiedersi cosa accadrà.
Un partito che tra il 1944 e il 1947 si era ricostituito e rafforzato come partito di governo, come avrebbe retto alla prospettiva di una lunga opposizione? E poi, bisognava davvero mettere nel conto una lunga opposizione? Come avrebbero giocato le vicende internazionali su quelle italiane?
Togliatti si sente messo in difficoltà dallo svolgimento dei fatti che egli non ha previsto, dal vero e proprio tradimento di De Gasperi che egli non si attendeva, ma reagisce di fronte alla Direzione del Pci difendendo in toto la linea politica "fondamentalmente giusta perché doveva innanzi tutto mirare all'unità nazionale". Ci sono stati errori, qualche debolezza marginale? "Questo è possibile" ammette Togliatti alzando le spalle "debolezze ed errori ci sono sempre" ma la cosa importante, quella che va sottolineata come positiva è che "siamo usciti dal governo senza dare la parola d'ordine dell'insurrezione, il che ha accresciuto il nostro prestigio in determinati strati sociali e specialmente tra i ceti medi". Secchia ascolta indignato. Dentro gli cresce l'ira, pensa che queste sono chiacchiere, che non l'insurrezione armata ma almeno uno sciopero generale si poteva certo proclamarlo. E tanto meglio se lo sciopero generale fosse stato coperto, almeno nelle grandi città del Nord, da squadre di operai e partigiani armati. Una dimostrazione della forza del Pci sarebbe servita, se non altro, a mettere sull'avviso la Dc e il nemico di classe, a fargli calcolare con maggiore accortezza il prezzo di una rottura. Nulla di questo invece era stato consentito di preparare. Quando prende la parola però, come sempre, Secchia mostra più prudenza che audacia, sfumando i motivi del contrasto. Ma quando sostiene che sarebbe stata necessaria, nella prima metà dell'anno, una più ferma azione di massa per impedire a De Gasperi di portare avanti il suo piano, raccoglie molti consensi. Togliatti finisce con l'accettare la critica, senza tuttavia darle gran peso: "Tra l'altro", conclude " come facevamo a proclamare uno sciopero se il sindacato non era d'accordo?"
Anche da questo confronto dunque Togliatti esce vincente. Vincente, ma preoccupato. Ormai, di fronte al Pci sta certamente un periodo di gravi difficoltà. Regge ancora, per fortuna, l'unità del sindacato (diretto insieme da comunisti, socialisti e democristiani) e regge ancora, nonostante la scissione di Palazzo Barberini, l'unità con il partito socialista. Su questa base si tratta di preparare le elezioni politiche previste per l'anno successivo conquistando nuovi ceti sociali, e senza rompere definitivamente nemmeno con Saragat.
Le alleanze, le alleanze... Fin dove dovranno estendersi queste alleanze? "Al ceto medio della città" ricorda in quel Comitato Centrale Togliatti "ed anche alle forze della media borghesia". Negarville ha parlato anche di Valletta, però qui bisogna stare attenti. Un'alleanza permanente con elementi schiettamente capitalistici, che appartengono al grande capitale, mi pare sia un'utopia, è possibile però un accordo temporaneo con alcuni di questi elementi per obiettivi determinati..."
Ma qualcosa sta accadendo, a livello internazionale, a rendere quasi impossibile, per un non breve arco di anni, l'ipotesi togliattiana di un processo, lento ma sicuro, di avanzata del movimento operaio. La crisi dei rapporti tra le grandi potenze che insieme avevano sconfitto il fascismo, quella che poi si chiamerà " guerra fredda ", è destinata ad avere conseguenze non secondarie anche sui partiti comunisti europei e il loro sistema di alleanze all'interno di ogni paese.
Secchia per primo viene a sapere che i sovietici intendono ristabilire in tempi brevi un organismo di collegamento tra i partiti comunisti dell'area europea. Non sarà il vecchio Comintern, sciolto ufficialmente nel 1943, ma qualcosa che gli assomiglia e che consentirà all'Urss di orientare e ordinare ai suoi interessi statuali gran parte, se non la massima parte, dell'attività dei partiti comunisti dell'Occidente. Secchia ne ha notizia da Gomulka, allora segretario del partito polacco che, nel corso di un colloquio a Varsavia, verso la fine di agosto, gli fa capire anche che sarebbe bene che a questa prima riunione partecipasse Togliatti. Secchia arrivato a Roma trasmette la notizia e l'invito, che Togliatti accoglie con freddezza. Egli non sembra entusiasta della iniziativa e, comunque, non intende partecipare a una riunione che rischia di diventare una sorta di processo ai comunisti italiani. Fa quindi sapere ai sovietici che le sue condizioni di salute non gli consentono un viaggio così lungo e faticoso e che a rappresentare il Pci andranno Longo e Reale che, membro della Direzione del partito, aveva vissuto qualche tempo a Varsavia come ambasciatore d'Italia. Una delegazione ad alto livello, dunque. Le sue istruzioni ai due sono precise: "Se vi rimproverano", avverte "perché non abbiamo saputo prendere il potere o perché ci siamo fatti cacciare via dal governo, dite loro che non potevamo trasformare l'Italia in una seconda Grecia. E ciò nell'interesse, non soltanto nostro, ma degli stessi sovietici ". (17)
Le cose si svolsero esattamente come Togliatti aveva previsto. A Szklarska Poreba, la cittadina polacca dove dal 22 al 27 settembre ebbe luogo la riunione costitutiva del Cominform, francesi e italiani vennero messi duramente sotto accusa.
È il rappresentante del partito jugoslavo, Kardelj, ad attaccare per primo: i comunisti italiani e francesi, ma i primi soprattutto, sono tacciati di opportunismo, non solo per aver collaborato al governo con la Dc, ma anche per la condotta unitaria e debole della guerra partigiana. L'ungherese Farkas irride al "cretinismo parlamentare" dei comunisti italiani che "si sono fatti ipnotizzare dalla forza numerica della Dc, mentre in Ungheria," nota soddisfatto "i comunisti, pur essendo solo il 17%, sono riusciti a rompere il fronte avversario e ad avere nel governo tutti i posti di primo piano". Altri, su questa scia, rincarano la dose. Il giorno dopo, i due imputati, Longo per gli italiani e Duclos per i francesi, devono fare ammenda. E lo fanno: Duclos "in tono miserevole e lacrimoso", Longo "con dignità ed una certa qual fierezza". "Vi assicuro" dice tra l'altro "che il nostro partito dispone di un apparato clandestino di speciali squadre che sono dotate, per il momento in cui sarà necessario, di ottimi comandanti e di adeguato armamento". Ma non basta: Zdanov, che rappresenta Stalin alla riunione e che con Stalin si tiene in quotidiano contatto telefonico, lamenta che l'autocritica dei due e gli impegni presi a rettifica degli errori passati non è sufficiente. "Non si tratta" insiste "di procedere per piccoli cambiamenti, ma di mutare radicalmente la linea politica."
E a Longo che aveva prospettato, per la primavera dopo le elezioni dell'aprile, la eventualità di un governo con la Dc, Zdanov risponde sprezzantemente: "Perché mai dovreste darglielo? De Gasperi un posto nel governo non se lo merita". E Kardelj insiste nel chiedere ironicamente a Longo e Duclos perché essi continuano a definirsi "partiti di governo" dal momento che ormai da molti mesi, al governo non ci stanno più.
L'intimazione del Cominform, dunque di Stalin, non è di quelle che si possono discutere o sottovalutare. E a Togliatti non resta - come già dovette fare nel 1929 - che "rettificare". La rettifica ancora una volta, come allora, arriva da Mosca: è certo che questo a Togliatti non piace, ma ancora una volta non gli resta che tentare di essere lui a gestire la correzione della linea se vuole mantenere la direzione di questo partito così grande, certo, ma ancora così fragile e non del tutto conquistato alla sua linea.
E che il partito o la sua maggior parte fosse disponibile, forse, in attesa di un irrigidimento della linea politica, lo si vede subito.
Le manifestazioni di piazza contro il carovita e per l'occupazione; assumono via via un tono più alto; per superare le lentezze e le difficoltà che vengono da un sindacato nel quale sono ancora presenti anche i dirigenti democristiani, il partito si fa carico in prima persona della mobilitazione di massa e questo dà alle manifestazioni un sempre più netto carattere politico.
Finalmente, Secchia può realizzare la sua linea: grandi manifestazioni di massa, senza farsi intimidire o condizionare dalla minaccia della polizia e dalle provocazioni. Non c'è, del resto, in ogni provincia un servizio d'ordine ben organizzato a garantire limiti entro i quali la manifestazione dovrà svolgersi? Il "servizio d'ordine" comincia a emergere così come un apparato separato che, formato di ex partigiani, garantisce l'avanzata e la ritirata di una guerriglia urbana di massa che da quei mesi comincia a di spiegarsi nelle principali piazze d'Italia.
L'episodio forse più alto di questa tendenza è l'occupazione della Prefettura di Milano, del 28 novembre del 1947. Il giorno prima era stata annunciata ufficialmente da Scelba la destituzione , e la destinazione ad altro incarico di Troilo, prefetto di Milano. Ultimo prefetto ancora in carica tra quanti erano stati nominati dai Cln in tutte le città del Nord dopo la liberazione, Troilo aveva un passato di glorioso partigiano ed era estremamente popolare a Milano.
Da mesi ormai la sua presenza in Prefettura è considerata un'anomalia da De Gasperi e Scelba che tentano ripetutamente di fargli dare spontaneamente le dimissioni. Ma Troilo non è disponibile ed anzi, di fronte a una lettera di deplorazione che gli giunge da Scelba, allora ministro degli Interni, reagisce con una protesta sdegnata al presidente del Consiglio. Ormai la testa di Troilo è diventata, per Scelba, una questione di principio, ma la sua permanenza a Milano è diventata, dall'altra parte, una questione di principio per tutte le forze democratiche della città che promuovono a suo favore manifestazioni, cortei, ordini del giorno. Il sindaco Greppi, socialista, manda il 26 novembre a De Gasperi un appello drammatico: "Troilo resti a Milano; le parlo in nome della città, voglio sperare che la città verrà ascoltata". Ma De Gasperi e Scelba sono decisi a non accettare pressioni e vanno allo scontro: il giorno dopo in Consiglio dei ministri si decide la sostituzione del prefetto partigiano. La città si ribella.
Nella notte tra il 27 e il 28 si mobilitano per prime le fabbriche; fin dall'alba migliaia di operai affluiscono verso Corso Monforte dove, nel settecentesco Palazzo Diotti, ha sede la Prefettura. Contemporaneamente nelle prime ore del mattino si riunisce il Consiglio Comunale che decide di dimettersi in segno di protesta. Si dimettono, per solidarietà con Troilo, anche 170 sindaci della provincia, molti dei quali democristiani. Mentre giunge, da Genova e Torino, la notizia che molte fabbriche si sono già fermate e gli operai partono per Milano, la Prefettura viene occupata da centinaia di ex partigiani. Li guida un gruppo di dirigenti politici della città, tra cui Giancarlo Pajetta, segretario regionale del Pci.
Folti gruppi di operai e di ex partigiani si sono installati nei cortili e nei corridoi. Sbarramenti sono stati formati attorno a Corso Monforte con autocarri disposti attraverso le strade. Tutta la zona circostante è pattugliata e chi vuole penetrare oltre la zona sorvegliata, deve ottenere un permesso. Venanzi, già membro del Cln lombardo, assume il comando delle forze partigiane in Prefettura e organizza i vari servizi d'ordine allo scopo di evitare violenze. I comandanti partigiani portano un bracciale tricolore come segno di riconoscimento.
Alla testa di quella che può apparire una rivolta c'è un gruppo di ex comandanti comunisti, da Alberganti a Scotti, da Venanzi a Pajetta. Ma al loro fianco ci sono numerosi socialisti e persino qualche socialdemocratico e repubblicano preso nell'ingranaggio di una "manifestazione di massa" che rischia di passare il segno della legalità.
Scelba tuttavia preferisce, per ora, non intervenire. Il silenzio del ministro preoccupa Pajetta, il quale, dopo aver diretto l'occupazione, si rende conto che la situazione rischia di marcire o, peggio, di sfuggire di mano. Fin dalla mattina, tra preoccupato e divertito, si è insediato nell'ufficio del prefetto seduto al tavolo di Troilo, che si è abbandonato pensieroso su una poltrona. A un certo punto Pajetta decide di provocare una reazione da Roma; chiama il Viminale e chiede di parlare con Scelba: "Ti avverto" dice ironicamente "che da adesso hai una prefettura in meno, quella di Milano".
Scelba ascolta e non dice una parola. Quando abbassa il microfono ha deciso: chiama il generale Capizzi e gli dà ordine di assumere tutti i poteri nella città. Nel frattempo Pajetta chiama anche Togliatti per annunciargli con spavalderia: "Abbiamo la prefettura di Milano". Dall'altra parte Togliatti, gelido, risponde: "Bravi, e adesso cosa intendete farne?".
Già, che potevano farne, i partigiani - armati o meno - che avevano occupato la prefettura di Milano? E che avrebbero potuto fare quando fossero arrivati i partigiani che da Torino e Genova si erano mossi per dare una mano ai loro compagni di battaglia?
La Volante Rossa, che questa volta è uscita allo scoperto, con i suoi uomini in divisa armati, e il suo autocarro bene riconoscibile collocato di fronte al portone di Corso Monforte, aspetta ordini. Aspettano ordini anche le squadre operaie, schierate al di là dei cavalli di frisia di fronte ai carabinieri, i cordoni dei poliziotti e i soldati della Legnano, tutti con i mitra spianati.
Si misurano da una parte squadre operaie e partigiane, dall'altra forze regolari della Repubblica, come due eserciti che tra breve dovranno entrare in contatto e non si sa chi dei due riporterà la vittoria. Mentre passano le ore e comincia a cadere una fitta pioggia invernale, i ricchi milanesi si affrettano a lasciare la città, alcuni per le loro ville sui laghi, altri puntando direttamente oltre la frontiera svizzera. Forse a Milano, da Milano scoppierà la rivoluzione.
Non si è accorto di questo pericolo Igino Mortari, già della Muti, un corpo speciale di fascisti repubblichini, che, bevendo un caffè in una tabaccheria di Via Lomazzo, insulta un gruppo di operai della Innocenti. La lite si risolve in una colluttazione, poi il Mortari viene portato via su una jeep e il giorno dopo viene trovato in un prato, nelle vicinanze di Cinisello Balsamo, con un foro alla nuca. È lui l'unica vittima di quella vicenda che per due giorni tiene l'Italia col fiato sospeso.
A notte infatti arriva a Milano il sottosegretario agli Interni, il democristiano Marazza, accompagnato dal questore Agnesina. Va in questura, e da lì chiama Troilo, chiedendogli di venire a riferire. Ma Troilo questo non lo può fare: ormai ha capito, e con lui tutti gli altri, che la prefettura dovranno abbandonarla, ma almeno un gesto, almeno una soddisfazione la vogliono. E la soddisfazione che pretendono è questa: Marazza deve venire in prefettura a spiegare e trattare. Marazza è disposto ad accettare, chiede garanzie e Pajetta gliele dà. Arriva in prefettura alle due di notte, su una jeep munita di mitragliere, tra i fischi e le urla della gente che riempie le strade. A Corso Monforte gli vengono incontro Pajetta con Venanzi e Troilo: i partigiani avrebbero una gran voglia di menare, ma tengono le mani e le armi a posto. Marazza stringe la mano ai capi della rivolta e fa finta di non vedere quello schieramento di mitragliatrici e moschetti che da tempo avrebbero dovuto trovarsi nei depositi delle autorità militari. Nello studio di Troilo si discute per ore mentre i partigiani in tutta la città aspettano attorno ai reticolati l'ordine di attaccare.
Naturalmente non attaccheranno. All'alba, la trattativa è finita. Nessuna denuncia per gli occupanti, Troilo sarà trasferito, ma la sostituzione non avverrà immediatamente. Pajetta dice ad Alberganti, segretario della federazione comunista, che vada giù nel cortile a dire a quei ragazzi di tornarsene a casa. Ma Alberganti, verde in viso, rifiuta: "Non sarò io" dice "a ordinare una ritirata". "Beh, allora ci vado io" risponde tranquillo Pajetta. E per questa volta, ancora una volta, i partigiani riposero le armi sotto la giacchetta o il giubbotto e tornarono, bestemmiando, a casa. La rivoluzione era rimandata.
Rimandata: quindi, nel frattempo occorre prepararla, attrezzarsi, essere pronti per il momento in cui arriverà, per il momento in cui qualcuno "darà il via". Bisogna insomma tenersi pronti e tenere i contatti, anche a livello nazionale, con le formazioni partigiane e i loro comandanti. Anche a questo provvederanno alcuni degli uomini più vicini a Secchia.
"Tra Longo e me" racconta Secchia "vi era allora pieno accordo e non mancammo di lavorare insieme per dare slancio al nuovo orientamento politico al quale altri si adeguavano forse con non molta convinzione." Si rinnova, in questa fase, la solidarietà d'arme che aveva già unito i due nella guerra partigiana. C'è invece chi storce il naso di fronte a questo orientamento politico che comporta necessariamente anche la messa a punto di una diversa struttura organizzativa. E tra coloro che si adeguano, per dirla con Secchia, con non molta convinzione c'è Togliatti, c'è Negarville (quello che voleva estendere le alleanze fino a Valletta!), c'è Amendola, c'è Terracini. Ma ormai le scelte sono state fatte, e altrove.
Togliatti assiste, senza batter ciglio, a questo riorganizzarsi del movimento partigiano, diretto da Longo e Secchia che partecipano a tutte le manifestazioni e, finite le manifestazioni, riuniscono a parte i vecchi comandanti dando loro disposizioni per il giorno in cui sarà necessario tornare ad agire come un tempo. Per adesso, ufficialmente, l'obiettivo della mobilitazione è la convocazione del I Congresso Nazionale della Resistenza, preparato con grandi raduni e sfilate nelle più importanti città italiane. A Modena arrivano, da tutta l'Emilia, ventimila partigiani, e duecentomila persone partecipano alla manifestazione nel corso della quale vengono decorati con una medaglia d'oro Longo, Secchia e persino Togliatti che alla Resistenza, come noto, non aveva preso parte.
Ma il punto più alto di questa mobilitazione, di questa prova di forza viene raggiunto a Roma il 6 dicembre. La città è praticamente invasa da quasi centomila partigiani, bandiere e fazzoletti rossi, uomini e donne che sfilano ricostituendo, nella marcia serrata, le loro antiche formazioni.
Uno di coloro che c'erano racconta: "Partimmo da Genova dove alla stazione funzionava perfettamente la sussistenza. A tutti fu distribuita per la notte una razione K, razioni d'emergenza delle truppe americane. A Spezia la tradotta si completava con partigiani del luogo... Nel mezzo della Maremma ci fu una sosta obbligata, penso sia stata dovuta al confluire di diversi convogli che si mettevano al passo sullo stesso binario. Dopo pochi minuti corse la voce "sabotaggio". Esasperazione. Inutilmente nel buio staffette passavano di carro in carro spiegando la ragione della sosta. Dal carro degli spezzini partì un colpo di bazooka. Per pochi secondi, ma intensissima, seguì una sparatoria infernale. Raffiche di sten, colpi di pistola e scoppi di bomba a mano. Le staffette aumentarono le corse predicando la calma, la voce era "Non consumate munizioni". Non so dire come mi si presentò Roma, era la prima volta che ci arrivavo, ma mi sembrò un acquartieramento partigiano. In stazione, sul piazzale, già si organizzavano e si inquadravano le formazioni che scendevano dai convogli. Mi ricordo che noi dovevamo ancora partire dalla stazione e già la colonna segnava il passo. Per tutto il tratto che sfilai inquadrato ricordo benissimo il daffare del vice comandante della Gaio che raccomandava sempre la calma. La città era deserta, eccetto le ali di folla plaudente, tutto era deserto. Non si vedeva né polizia né soldati, tutti erano pronti ma nelle caserme. Tanto è vero che il servizio di polizia per trattenere la folla nei punti nevralgici era fatto da squadre partigiane. Dove confluisse il corteo non ricordo. Ricordo la delusione di tutti quelli che mi circondavano quando, nel discorso ufficiale, Longo raccomandò la calma dicendo pressappoco: "con la nostra calma dimostriamo la nostra forza". Le intenzioni di tutti al basso erano ben diverse... Con chiarezza ricordo gli ordini dei capi di mantenere la calma. Da parte di tutti, invece, c'era il proposito di spaccare il mondo e a un certo punto la sensazione che si stava per concludere un qualche cosa di grosso. Ma poi la tensione cadde in un "sciogliete le righe", un appuntamento per la partenza del treno e niente altro di più... Le armi erano rimaste sotto il giubbotto, anche se non c'era timore alcuno e ogni tanto si poteva vedere, con facilità, spuntare di sotto l'abito qualche manico di rivoltella e alla meno peggio gonfiori ben definiti sagomare certe giubbe..." (18)
Già, ecco, le armi non tutte e non sempre riconsegnate agli Alleati, le armi conservate oliate accarezzate da migliaia e migliaia di partigiani, di queste armi, cosa è possibile fare? In altri termini: è ancora possibile qui, in Italia, fare la rivoluzione?

.