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9.

RITORNA IL SOGNO DELLA LOTTA ARMATA


Un marxista non può in generale ritenere anormale e demoralizzante la guerra civile o la guerra partigiana che è una delle sue forme. Il marxismo si pone sul terreno della lotta di classe e non su quello della pace sociale. In certi periodi di acuta crisi economica e politica la lotta di classe si sviluppa fino a trasformarsi in aperta guerra civile, cioè in lotta armata tra due parti del popolo. In questi periodi il marxista ha il dovere di porsi sul terreno della guerra civile. Ogni sua condanna morale è assolutamente inammissibile per il marxismo...
(Lenin, "La guerra partigiana ", 30 setto 1906, ripubblicato da Pietro Secchia in "La guerriglia in Italia", 1969)

Il rancore di cui si è per tanti anni nutrito, finalmente si placa quando, nell'agosto del 1964, a Yalta muore Togliatti. Si spegne, con Togliatti, quel "sorriso machiavellico e italianissimo", dal quale egli si è sentito controllato, inseguito dovunque si trovasse. Muore il suo avversario, l'interlocutore sfuggente al quale egli si è rivolto nel corso del tempo ora con modestia, ora con arroganza, ora con umiltà. E dal quale è stato sempre sconfitto.
La salma di Togliatti giunge a Ciampino, su un aereo speciale sovietico, nel pomeriggio del 22 agosto. "Tutto è meticolosamente, direi pignolescamente organizzato, secondo un protocollo rigoroso e un cerimoniale messo a punto dal gruppo dominante. Vi sono uomini che furono per quarant'anni compagni di lotta di Togliatti, che con lui diressero il partito per molti anni nelle condizioni più dure e difficili, ma se non portano oggi i galloni dell'attuale direzione non hanno diritto di avvicinarsi di un passo all'area riservata agli eletti... Anche il dolore e la partecipazione devono essere pesati al bilancino, misurati col tassametro. Le lacrime dei grandi non debbono confondersi con quelle dei piccoli... Piccinerie e meschinità degne di una confraternita di gesuiti."
Secchia commenta i funerali con malumore (troppi i discorsi, un po' teatrale la Pasionaria, "piatto piatto, mediocre e grigio Luigi Longo") e ne sottolinea le "note stonate" (il ringraziamento al Papa, l'assenza di una parola di condoglianze per Rita Montagnana pure presente). Altrettanto stonato giudica l'eccesso di "luci, flashes, riprese fotografiche e filmate" che accompagna l'elezione di Luigi Longo a segretario del partito. E con acidità osserva: " Sono cominciate le sviolinature per il nuovo segretario. Se ne illustra la personalità cercando di mettere in luce gli aspetti che piacciono alla gente "bene" presentandolo col volto di buon padre di famiglia, dell'uomo tollerante, tanto tollerante che aveva l'abitudine di accompagnare ogni mattina la vecchia madre alla messa. Il che dimostrerebbe tra l'altro che aveva tempo da perdere".
Siamo quasi alla fine dei diari. Con il rancore sembra venire meno, a poco a poco, anche il desiderio di annotare, quell'urgenza di scrivere che gli aveva fatto riempire, disordinatamente quaderni e quaderni di idee, di riflessioni, di memorie. Il desiderio di annotare è stato per anni (quanti? più di dieci, ormai; più degli anni passati in carcere!) quasi il sostitutivo della vita reale. Adesso, morto Togliatti, con Longo segretario, la vita può riprendere.
Forse.
Secchia ha adesso 60 anni, 61 per la precisione. Non tanti da impedirgli di sperare in un reinserimento pieno nell'attività di partito. Sta bene in salute. Non conosce acciacchi né cedimenti fisici. Ha conservato (o così pensa) tutta la sua capacità di lavoro, anche se nel corso della lunga emarginazione l'ha concentrata, affinata più nell'attività di riflessione e ricerca che in quella, a lui: più congeniale, di direzione e organizzazione.
Le speranze di reinserimento sono dunque legittime, tanto più che a dirigere il partito è stato chiamato, come previsto, l'uomo cui Secchia è stato più legato negli anni della giovinezza, dell'emigrazione, del confino, della Resistenza. Secchia non dubita che Longo, nonostante quella dose di opportunismo che gli ha consentito di attendere con pazienza la successione, sia rimasto al fondo quello di sempre. Aspetta una settimana prima di mandare al vecchio compagno di tante battaglie un messaggio di auguri; così lo può datare, 8 settembre. E, per evitare che Longo non capisca (non si sa mai! non è uomo di grandi finezze), rende esplicito il significato di quella data: "Di proposito" scrive "ho lasciato trascorrere alcuni giorni. Ti invio adesso i miei più fervidi auguri, nell'anniversario di una grande lotta, nel giorno che segnò l'inizio della riscossa nazionale e di quella resistenza culminata con la vittoria del 25 Aprile". Come a dire: è da lì, da quegli avvenimenti, da quello spirito di lotta, da quell'essere "partigiano" insomma che devi ricominciare a tessere le fila della tua nuova attività. E in questa battaglia mi avrai al tuo fianco.
L'occasione di dimostrarlo arriva subito. A novembre, sono passati solo tre mesi dalla morte di Togliatti, appare su Rinascita un articolo di Giorgio Amendola destinato a fare scandalo. È l'articolo nel quale afferma che dalla critica e dal fallimento delle due esperienze, quella della socialdemocrazia e quella del socialismo realizzato, è possibile partire per il superamento della scissione di Livorno e la definizione di una comune strategia del movimento operaio europeo. Un'ipotesi, audacissima, è quella di una riunificazione tra Pci e Psi. (49)
Dopo la morte di Togliatti direttore di Rinascita è stato nominato Giancarlo Pajetta al quale subito Secchia si rivolge per protestare e chiedere la pubblicazione di un suo articolo di risposta. L'articolo è già pronto, non c'è che metterlo in pagina. Pajetta lo ascolta, cerca di minimizzare la portata della sortita di Amendola e, alla fine, conclude: "Ho già qui una risposta di Ledda. Se pubblico prima il tuo articolo si dirà: ecco gli stalinisti che subito si rifanno vivi... È meglio aspettare".
Secchia ha già aspettato troppo. Adesso ha fretta. Va da Longo (e già questo è un segno del cambiamento dei tempi; la porta di Togliatti per lui era ormai sbarrata) e gli dice più o meno le stesse cose che ha detto a Pajetta. Longo lo ascolta, legge con attenzione l'articolo che l'altro gli ha portato. "Sono d'accordo con te" conclude nel restituirglielo, ma gli suggerisce di togliere qualche asprezza polemica. "È il solito opportunista" pensa dentro di sé Secchia che però accetta le correzioni.
Mentre l'articolo dunque appare su Rinascita come risposta alla "deviazione di destra" di Giorgio Amendola, lo stesso Secchia viene chiamato a far parte della delegazione che parteciperà a Belgrado all'VIII Congresso della Lega dei comunisti jugoslavi. Anche questa è una sorpresa e il primo a sorprendersene è lo stesso Secchia. A sorprendersene e compiacersene, naturalmente.
Che sia questo il primo segno, finalmente, che qualcosa è cambiato? L'isolamento sta dunque per finire? Sta' attento, vecchio mio, si dice Secchia, non sperare troppo, non ti illudere... Ma come non sperare, come non illudersi un poco quando per tanti anni sei stato quasi dimenticato e adesso, all'improvviso, prima trovi posto su Rinascita e poi in una delegazione a Belgrado, al massimo livello? Da tanto tempo, povero Secchia, "non andava al di là di Pralungo e Candelo" e adesso viene invitato a un lungo colloquio con Tito! Niente male, niente male. Forse si ricomincia. Ricominciare significa poter tornare a discutere, a informarsi ed essere informato, ad avere gli elementi per valutare la situazione interna e internazionale. Ogni segno di questa possibilità viene colto con un'attenzione che può apparire ingenua o patetica. "Pajetta" nota Secchia "durante il viaggio in Jugoslavia si è comportato con me con molta cordialità."
Un reinserimento pieno nella vita di partito potrebbe verificarsi già in occasione dell'XI Congresso, il primo senza Togliatti, il primo con Longo segretario. È un congresso duro nel quale, sullo sfondo della crisi del centro sinistra, si scontrano a viso aperto per la prima volta nel Pci due diverse ipotesi dello sviluppo delle lotte in Italia e due diverse concezioni della democrazia interna del partito.
Leader della destra pragmatica e possibilista è sempre Giorgio Amendola che, pur avendo lasciato da tempo la direzione della Commissione di Organizzazione, resta, come resterà fino alla fine, uno dei dirigenti più prestigiosi del Pci. Con lui ci sono non solo, Pajetta, Alicata, Bufalini, Napolitano, ma tutti o quasi i dirigenti provinciali e regionali che lo stesso Amendola ha promosso a suo tempo a incarichi di responsabilità. Leader della sinistra è Pietro Ingrao; l'uomo che fu per qualche tempo il delfino di Togliatti, attorno al quale si sono raccolti un gruppo di giovani come Reichlin, Magri, Trentin, Rossanda.
Ciò di cui si discute è il carattere della crisi italiana, lo stadio di sviluppo del capitalismo nazionale, la sua possibilità o meno di integrare la nuova classe operaia. Ma si discute anche della democrazia interna del Pci, della possibilità o meno della organizzazione di maggioranze e minoranze, della legittimità del dissenso.
Longo è preoccupato della possibilità di una lacerazione del partito. Sa di non avere il carisma di Togliatti, il suo prestigio, la sua autorità. Il suo giudizio su chi lo circonda è severo: "Amendola è avventato, improvvisatore", Pajetta "uno che pianta un mucchio di grane ", Ingrao "è studioso, serio, ma politicamente astratto. Lui e Amendola tendono di proposito a differenziarsi". La situazione è così delicata che Longo decide di confidarsi con Secchia e chiedergli aiuto. Lo chiama, gli espone le sue preoccupazioni, ma sta ben attento a non dire una parola di troppo. "Sono in difficoltà" ammette "sai... sono molto isolato. "Secchia vorrebbe sapere qualcosa di più, ma Longo non si sbottona. A Secchia sembra di capire che, a certe condizioni, sarebbe possibile un suo rientro nella Direzione del partito. Tutto rimane un po' in sospeso.
In realtà Longo vuole evitare che Secchia si schieri con Ingrao, vuole impedire cioè la saldatura tra la vecchia e la nuova sinistra, una saldatura che lo lascerebbe scoperto e appiattito sulle posizioni della destra amendoliana. Per condurre meglio la sua battaglia contro Ingrao, Longo ha bisogno del sostegno di una parte almeno, della vecchia sinistra. E chi meglio di Secchia può offrirgliela?
Ma Secchia non sta al gioco. E, mentre da una parte i suoi rapporti con Longo si fanno più stretti, dall'altra non rinuncia a polemizzare con le decisioni e le prese di posizione che non condivide. Così, al Comitato Centrale dell'ottobre 1965, dove si discutono le tesi in preparazione del Congresso e dove appare chiara l'opposizione di Ingrao, interviene a suo favore criticando il metodo adottato nella polemica ("questa non è polemica, ma intimidazione, insulto che può portare alla liquidazione politica di un compagno") e sostenendone la linea ("in questo momento costituisce una remora, un freno alla corsa verso l'opportunismo e la socialdemocratizzazione"). E non esita, anche in sede congressuale ad appoggiarlo. Ciò non salva certo Pietro Ingrao e la nuova sinistra dalla sconfitta.
"Siamo abbastanza isolati" commenta Secchia a conclusione del Congresso e in questo plurale sembrano comprendersi i vecchi settari e i giovani ingraiani, i vecchi stalinisti e i giovani neo-leninisti. "Ci tengono dentro perché sentono che fuori del Comitato Centrale daremmo più fastidio." Una nuova sconfitta insomma, ma questa volta subìta in campo aperto, quindi persino con qualche grandezza e soddisfazione, non più nell'isolamento e nell'umiliazione, ma nel contatto vivificante con altri compagni, altre idee, altre prospettive. Questo contatto, che a Secchia mancava da tanto tempo, gli fa dire persino che "il Congresso è andato abbastanza bene", giudizio davvero singolare vista la sua conclusione, che vede l'ingresso in Direzione di uomini come Chiaromonte, Di Giulio, Fanti, Galluzzi, Natta e Pecchioli e un ridimensionamento pesante della vecchia e della nuova sinistra (una parte della quale, due anni dopo, darà vita al Manifesto e sarà espulsa dal partito).
Ma è l'odore della battaglia che è piaciuto al vecchio combattente, che gli ha ridato il gusto dello scontro politico vero. E allora, poco importa che Longo sembri prigioniero della destra, che la sinistra sia stata sconfitta. Secchia non si dà per vinto, pensa che nel partito c'è ancora da fare, che la crisi politica in corso, il deteriorarsi evidente del centro sinistra con i cedimenti del Psi ai ricatti di Moro, sarà alla fine più convincente del dibattito congressuale. Alla fine Longo capirà. Nel paese già molto si muove e tutto ciò che si muove indica che nelle fabbriche è finita l'epoca della passività e sta maturando una vigorosa spinta verso sinistra.
I rapporti tra Longo e Secchia continuano così, obliqui e nervosi, tra qualche scivolamento nostalgico del primo e qualche diffidenza da parte del secondo. Ma intanto Longo interviene a favore di Matteo, il fratello di Pietro, da tempo senza lavoro: personalmente si dà da fare perché Matteo ottenga almeno una modesta pensione dal partito, un segno di stima e riconoscimento al quale può attribuirsi persino qualche significato politico. Poi Longo manda a chiamare Secchia, gli chiede di intervenire nel dibattito in corso, su Rinascita, sui venti anni dalla proclamazione della Repubblica e in un momento di abbandono gli confida: "Se non la scriviamo noi la storia del partito comunista, finisce che la scrivono gli altri..." Che tenti di riallacciare il filo di un vecchio discorso interrotto? O si tratta soltanto di una "furbizia da monferrino"? Ancora una volta comunque Secchia è disposto, sia pure con qualche riserva mentale, a dare credito al segretario. Per quanto gli risulta, del resto, anche i sovietici, nonostante gli sbandamenti revisionistici dei documenti ufficiali, hanno ancora fiducia in Longo; ed anche questo è un fatto che Secchia non può non valutare in tutta la sua importanza, in una fase in cui, a livello internazionale, la situazione appare torbida, aperta a pericoli di guerra e di colpi di Stato.
Nell'aprile del 1967 i colonnelli stroncano la democrazia ad Atene e prendono il potere. I marines combattono in Vietnam. In Italia operano indisturbati gruppi eversivi di destra collegati più o meno apertamente con ambienti di Madrid, Lisbona ed Atene. Lo scandalo Sifar rivela che i servizi segreti italiani sono profondamente inquinati, trasformati in una sorta di polizia segreta al servizio di alcuni gruppi della Dc. Prima una coraggiosa campagna di stampa, poi i lavori di una commissione parlamentare d'inchiesta portano alla luce una inquietante realtà e provano l'esistenza di un vero piano eversivo che, approntato dal generale De Lorenzo, capo del Sifar, avrebbe dovuto scattare nell'estate del 1964: erano già pronti elenchi di uomini politici da arrestare, campi di prigionia in cui rinchiuderli, proclami da trasmettere al paese. Dunque, il colpo di Stato era già stato studiato nei dettagli. Chi garantisce che anche ora e in una situazione politica più tesa un nuovo colpo di Stato non sia in preparazione? E il Pci è in grado di rispondere, e come, a questo pericolo?
"Il movimento democratico greco" dice Secchia nel Comitato, Centrale del luglio 1967 "si è fatto cogliere di sorpresa, in pigiama, dal colpo di stato dei colonnelli. Ma ritengo che l'errore più grave non è stato quello di lasciarsi prendere personalmente in casa; l'errore più grave commesso dal movimento della sinistra democratica è stato quello di essersi fatto sorprendere dagli avvenimenti, di non aver saputo prendere l'iniziativa in tempo, di aver, avuto troppa fiducia nella legalità democratica, di aver dimenticato che il pericolo fascista è sempre presente in un mondo dove, l'imperialismo, con tutte le sue forze economiche e militari, attenta permanentemente alla libertà dei popoli e della pace."
Non è solo Secchia a nutrire questa preoccupazione. La battaglia politico-giornalistica e poi i lavori della Commissione d'Inchiesta sullo scandalo Sifar rendono più diffusa la coscienza di questo pericolo nello stesso momento in cui ne rendono più difficile la realizzazione. Sono i mesi nei quali comincia a cambiare il clima politico nelle Università, dove finora la destra era stata maggioranza. Non siamo ancora alle manifestazioni che assumeranno, l'anno successivo, carattere di movimento impetuoso, ma chi abbia l'occhio e l'orecchio accorto non può non percepire che anche nel mondo studentesco qualcosa sta cambiando. Cambia qualcosa anche nelle fabbriche dove avanza un processo solo apparentemente contraddittorio: mentre Cgil, Cisl e Uil cominciano a porsi il problema dell'unità sindacale che avrà, negli anni successivi, sbocchi concreti, cominciano a formarsi nelle più grandi aziende del Nord gruppetti di estrema sinistra che non si riconoscono nel sindacato.
Secchia è attento ai tre processi in corso: pericolo del colpo di Stato, crescita del movimento studentesco e nascita di gruppi di sinistra nelle fabbriche, forse particolarmente attento al primo. Egli è da sempre convinto che il Msi costituisce un reale pericolo; conosce meglio di altri le sue diramazioni paramilitari e paralegali, ne sospetta i collegamenti con una parte non trascurabile degli apparati dello Stato. Il pericolo, come si vedrà ben presto, è reale; le sue preoccupazioni non sono frutto dell'allarmata fantasia di un vecchio combattente. Il Pci reagisce a questo pericolo con una serie di atti politici, moltiplicando le manifestazioni antifasciste, promuovendo iniziative unitarie. Ma quando, in concomitanza con lo scoppio della guerra in Medio Oriente e grazie a indiscrezioni giunte dal Viminale, dovrebbe scattare un cosiddetto "piano di emergenza", allora si rivela clamorosamente tutta la impreparazione tecnica del Pci. In altri tempi, quando Secchia aveva il suo ufficio al quarto piano delle Botteghe Oscure, tutto era pronto per quella temuta ma prevista eventualità: rifugi sicuri per i dirigenti, sia a Roma che alla periferia, notevoli somme di danaro a loro disposizione, indirizzi insospettabili in Italia e recapiti all'estero, documenti. E adesso?
Adesso, per quell'eccesso di fiducia nella legalità democratica, che Secchia rimproverava a Togliatti e che è passato in eredità ai suoi successori, non c'è più nulla di tutto questo. L'ipotesi del passaggio rapido e necessario alla clandestinità si colloca ormai fuori dell'orizzonte politico del Pci. I compagni della Segreteria non dispongono più né di "guardie del corpo", né di recapiti sicuri, né di fondi di riserva. Se un colpo di Stato si verificasse insomma, essi sarebbero i primi a venire arrestati, nelle loro tranquille case borghesi, né potrebbero opporre resistenza. E la stessa sorte toccherebbe a tutto il quadro dirigente del partito.
Secchia giudica una follia questo affidarsi bonario ai meccanismi della democrazia borghese, questa rinuncia, un po' voluta e un po' frutto di sciatteria, ad ogni strumento di autodifesa. Una follia, perché il pericolo del fascismo e del colpo di Stato è sempre presente e tanto più concreto, dal momento che un sistema di alleanze internazionali, di cui il nostro paese fa parte, ha consentito l'installazione di basi Nato in Italia e, di fatto, il controllo del nostro esercito e dei nostri servizi di sicurezza da parte degli Usa.
La strada dell'autodifesa e l'ipotesi del passaggio rapido alla clandestinità viene fatta propria invece da alcuni dei vari gruppi e gruppetti che si vanno aggregando nelle Università e nelle fabbriche, alla sinistra del Pci e in aspra polemica con le sue scelte. Sono gruppi e gruppetti che, anche in virtù di un singolare convergere di spinte internazionali, avranno, a cavallo dei primi anni 70, una straordinaria espansione in termini numerici e di capacità di iniziativa e di consenso.
L'incontro con questo movimento nelle sue varie forme è l'ultimo grande incontro della vita di Secchia, l'ultima sua passione, segreta e divorante come tutte le passioni senili, quella in cui egli consuma le ultime riserve di vitalità e di energia intellettuale.
Finalmente, dopo tanti anni di silenzio e di assenza in cui la classe operaia è stata costretta a giocare in difesa, ricompaiono sulla scena d'Italia giovani operai e studenti mossi da speranze e obiettivi ben diversi da quelli del Pci, impegnati in forme di lotta più audaci e spregiudicate. Fioriscono, sulla bocca di quei giovani, che invadono le strade sventolando striscioni e bandiere rosse, parole nuove e insieme antichissime sulle quali era calato da tempo un velo di silenzio. Le stesse parole fioriscono sui muri delle Università occupate, sui ta-ze-bao che gli studenti reinventano a somiglianza delle Guardie Rosse cinesi. È come una lunga collera che esplode, una lunga umiliazione che si riscatta. È mai possibile? Si torna a invocare la Rivoluzione... L'amata che Secchia ha aspettato per anni potrebbe dunque giungere ora, quando egli è già vecchio e stanco e incredulo? Forse è possibile.
Da anni vecchi comandanti partigiani, ormai emarginati dalla vita politica attiva, ridotti a pure funzioni di rappresentanza in occasione delle celebrazioni del 25 Aprile, cercavano di tanto in tanto, Secchia per sussurrargli quella parola. Ma ora, da qualche tempo, l'invocazione risuona apertamente sulle piazze e c'è qualcuno: giovane autorevole e deciso che dice a Secchia: "forse oggi si può". E' Giangiacomo Feltrinelli, l'editore che dopo anni di militanza comunista ha rotto ogni rapporto con l'Urss e con il Pci dopo aver pubblicato a tradimento l'edizione Italiana del Dottor Zivago di Pasternak. Questa clamorosa rottura ufficiale non gli ha impedito, tuttavia, di mantenere e moltiplicare i suoi rapporti con i movimenti rivoluzionari dell'America Latina, con Cuba e persino, curiosamente, con la Cecoslovacchia dove dispone di più di un recapito. ..
Singolare personaggio, in bilico tra passione terzomondista, gusto dell'avventura e dell'intrigo internazionale, Feltrinelli ha continuato a frequentare con assiduità Pietro Secchia. Lo va spesso a trovare nella sua casa oltre l'Aurelia, a Roma. Arriva più spesso in treno che in aereo e, poiché preferisce evitare il tassì, va a prenderlo alla stazione Marcello Forte, uomo di fiducia di Secchia, un po' autista, un po' segretario e un po' guardia del corpo, che lo porta subito in Via Vettori. Lì i due si chiudono a parlare a lungo per ore intere. Si scambiano giudizi, preoccupazioni, progetti. Secchia è impegnato, da tempo, in un lavoro di ricerca sulla storia del Pci che Feltrinelli si è impegnato a pubblicare. Ma l'attività di storico non lo assorbe totalmente.
Nel 1967 ha fatto qualche viaggio all'estero: poco dopo la guerra dei sei giorni, è stato in Egitto assieme a Giancarlo Pajetta e Luca Pavolini. Dal colloquio con Nasser è uscito vieppiù convinto della necessità e della urgenza di organizzarsi per contrastare la eventualità di un golpe. È stato proprio Nasser a raccontare ai compagni italiani che, in occasione del colpo di Stato dei colonnelli in Grecia, Tito lo aveva ammonito: "E adesso, a chi toccherà? A voi, a me, o agli italiani?". Più o meno nello stesso periodo Feltrinelli è stato in Sud America, è stato fermato, arrestato e poi espulso dalla Bolivia. Sud America e Medio Oriente sono le due zone calde del mondo, da dove sembra voler partire una nuova ondata di forti battaglie antimperialiste. Chi dei giovani studenti e operai in lotta non si sente un po' feddayn, un po' vietcong o un po' tupamaro?
Il tono della campagna elettorale del 1968 risente di questo clima di tensione. Nello stesso collegio di Biella, che elegge Secchia, viene presentato dal Pci Francesco Moranino, il comandante che, dopo aver subìto una dura condanna per fatti connessi alla lotta partigiana, era stato costretto ad emigrare a Praga ed ora, graziato dal Presidente Saragat, era tornato in Italia.
Rieletto senatore, Secchia non ha dubbi sul fatto che verrà nominato nuovamente vicepresidente dell'Assemblea, carica che occupa dal 1963. Invece il Pci cambia candidato. La decisione viene presa alle Botteghe Oscure a sua insaputa e gli viene comunicata all'ultimo minuto, quando già Fanfani si era complimentato con lui per l'incarico. A Secchia non resta dunque che sgomberare in fretta le sue carte dall'ufficio di Palazzo Madama; in virtù di questo "sgarbo", i suoi rapporti con la Segreteria del Pci si fanno peggiori e più rari.
Mantiene però un suo filo diretto con Longo, il solito legame contraddittorio tessuto di speranze e delusioni, di confidenze e sospetti. Come Secchia anche Longo è particolarmente sensibile a ciò che si muove nel mondo dei giovani, più disposto all'indulgenza o alla comprensione di eccessi ed errori inevitabili nel corso di un impetuoso movimento che è pur sempre l'espressione di una spinta a sinistra. In questo spirito Longo, poche settimane prima del 19 maggio 1968 riceve nel suo ufficio alle Botteghe Oscure Oreste Scalzone, uno degli esponenti più noti del movimento studentesco romano. Di questo incontro, che non è una trovata elettorale, ma la prova di un'attenzione particolare al movimento, Rinascita pubblica un dettagliato ed ampio resoconto. Nessuno ignora nel partito che Amendola è assai critico nei confronti di questa iniziativa del segretario e Secchia, che lo sa, gli scrive per confermargli, in questa occasione, la sua completa solidarietà e lamentare le oscillazioni, esitazioni e diffidenze del Pci di fronte a quello che "è un movimento di classe e di generazioni quale non si aveva da cinquant'anni". In polemica con Amendola Secchia scrive: "Non è pensabile di fronte a un movimento rivoluzionario di tanta importanza" prendersela con "le esagerazioni più estremistiche e anarcoidi. La rivoluzione non si è mai fatta nell'ordine. Anche per quanto riguarda le forme di lotta... non si può, da un lato, preparare le masse a condurre forti lotte economiche e politiche, a impegnare una lotta più decisa contro la Nato e il Patto Atlantico, a saper fronteggiare eventuali tentativi di colpo di stato e dall'altro lato, sparare a zero contro i giovani che sanno affrontare la polizia, che si allenano alle lotte più dure..."
Che i giovani affrontassero con coraggio la polizia era indubbio: le lotte di piazza tendevano ad assumere un carattere sempre più aspro, gli scontri tra manifestanti e forze dell'ordine si trasformavano in qualche caso, come accadde a Valle Giulia a Roma, in vere e proprie battaglie, sia pure condotte ad armi impari. Ma la Rivoluzione, per dirla con Secchia, non si è mai fatta nell'ordine, o meglio, per dirla con Mao, "non è un pranzo di gala".
Il rapporto con Longo, quasi l'unico filo ormai che tiene legato Secchia al Pci, conosce bruschi scarti pendolari. L'attenzione e la simpatia con cui Longo guarda all'esplodere del movimento giovanile sembra promettere al Pci una stagione di sinistra e questo riapre il cuore di Secchia alla speranza. Ma subito dopo, proprio nell'estate di quell'anno, i carri armati sovietici entrano a Praga. Si ripete dopo dodici anni la tragedia già vissuta dall'Ungheria, il soffocamento cioè da parte del Grande Fratello di un processo di rinnovamento che nasce all'interno di un Paese socialista. Questa volta il Pci, con alla testa Longo, reagisce in modo assai più coraggioso di quanto non avesse fatto nel 1956. Per la prima volta, in un documento della Direzione, si legge la condanna dell'Urss, l'aperta dissociazione dal suo operato.
Secchia accetta solo formalmente la posizione assunta dalla Direzione e poi dal C.C. Non si sente abbastanza forte da contrastarla apertamente, ma tenta di ridurne la portata riproponendo quella che egli ritiene la sostanza vera, il nocciolo del problema. Come si colloca cioè il Pci nello schieramento internazionale, quale dei due campi sceglie, riconosce come proprio? L'interrogativo è lecito anche dopo l'intervento sovietico a Praga, un fatto certo drammatico, ma che non inevitabilmente deve modificare una collocazione storica del Pci. Così lo intende almeno Secchia. Essenziale rimane, egli dice al C.C. del 17 ottobre, il carattere dei rispettivi blocchi, "la loro profonda differenza come natura e come obiettivi". Da una parte cioè c'è il blocco imperialista e l'obbligo per il Pci di un'azione che porti l'Italia fuori dal Patto Atlantico e dalla Nato, dall'altra c'è il blocco dei Paesi socialisti "che devono fare anche una politica di potenza in quanto serve per mantenere la pace, per lo sviluppo del socialismo, per dare solidarietà concreta ai popoli che lottano per la loro indipendenza ". Il punto vero è di sapere e tener fermo "da quale parte noi siamo" e, su questo, non sono possibili né dubbi né incertezze: "la nostra scelta fondamentale è già fatta: noi siamo dalla parte dell'Unione Sovietica, dei Paesi socialisti e dei movimenti rivoluzionari che in tutto il mondo lottano contro il nemico comune: l'imperialismo". E, se nonostante tutti gli sforzi, dovesse scoppiare una guerra mondiale? Anche in questo caso, tanto più in questo caso, non sono consentiti dubbi, né incertezze e annebbiamenti di prospettiva. "Noi come comunisti non possiamo avere una posizione di disimpegno. Proprio perché certi pericoli incombono, noi non dobbiamo fare nulla che possa domani offuscare quella che deve essere la scelta dei comunisti, del partito comunista e del movimento operaio e internazionalista."
La prospettiva dunque, per Secchia, risiede ancora e sempre in quel "domani", nel momento della scelta che farà seguito allo scoppio della guerra e alla sua trasformazione in guerra civile; risiede ancora e sempre in quell'ora X alla quale prepararsi. E prepararsi come? Intensificando la lotta contro la Nato e le basi militari americane, allargando il fronte dello schieramento per la pace; e contro l'imperialismo, vigilando contro i tentativi di colpo di Stato della destra.
L'antifascismo e la Resistenza costituiscono, assieme all'antimperialismo, un punto di riferimento essenziale per tutto il movimento giovanile. Antifascismo e Resistenza sono per la miriade di gruppi, di sigle di piccoli e grandi movimenti che sorgono e si affermano in quegli anni due momenti della storia italiana di cui è lecito forzare il significato cercandovi giustificazione ed avallo alle battaglie attuali. Su questo versante sono possibili malintesi ed equivoci, ma anche strumentalizzazioni.
Da anni Secchia si dedica a una ricerca storica che ha evidenti connessioni con il dibattito politico. La prima opera, cui ha collaborato anche Frassati, è una ricerca sui rapporti tra gli Alleati e la Resistenza. Subito dopo, sempre nelle edizioni di Feltrinelli, esce uno smilzo, ma prezioso volumetto contenente una cronistoria del 25 Aprile; poi, nel marzo del 1969, un testo che ha ben più che un valore storico e che segna probabilmente il massimo di collaborazione, non soltanto intellettuale, tra il vecchio dirigente comunista e il giovane Feltrinelli.
La guerriglia in Italia, raccolta di istruzioni dettagliate per la guerriglia in montagna e in città, si apre con brevi testi di D'Orgivalle, Mazzini e Garibaldi e si conclude con uno scritto di Lenin sulla guerra partigiana, o meglio sulla lotta armata come strumento del movimento operaio. Le istruzioni per la guerriglia sono quelle che, a suo tempo, nel 1944 e 1945, erano state impartite alle Brigate partigiane e ai Gap. Si va da testi più organici e complessivi (Elementi di tattica partigiana, Sintesi di tattica della guerriglia e decalogo del partigiano) a testi più immediatamente prescrittivi e pratici (Direttive tecniche per il sabotaggio, Esempi di imboscata, Sabotaggio delle linee di comunicazione).
Sarebbe davvero troppo ingenuo pensare che quelle direttive del Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà avessero in quel momento solo il valore di un documento d'archivio. È fin troppo facile immaginare con che animo quelle direttive venissero lette dai tanti giovani studenti ed operai che in quei mesi percorrevano le strade delle più grandi città d'Italia inneggiando alla prossima Rivoluzione. Leggiamo soltanto questo passaggio tratto da una circolare del Comando Regionale Militare Veneto del Cvl del giugno del 1944:
" Distruzione di piloni. Far saltare di preferenza i piloni delle linee ad alta tensione, operazione più facile e assai efficace. Servirsi sempre di gelatina, tritolo o plastico. Mettere la polvere in tubo flessibile che abbia pressappoco la circonferenza del pilone che si voglia abbattere e poi collocarlo sul pilone stesso all'altezza di tre o quattro metri in modo da ottenere, più facilmente la sua caduta una volta spezzato. Se si mettesse l'esplosivo all'altezza stessa del pilone, si rischierebbe di vederlo restare in piedi anche se la troncatura riuscisse perfetta. Scegliere sempre il pilone che si vuole abbattere o in una curva della linea o in un cumulo in modo che, nella caduta del pilone, il filo, prendendo la linea diretta, si allunghi e tocchi più facilmente il suolo... ". (50)
In appendice viene pubblicato un testo di Lenin del 1906 in cui si esalta la lotta armata in sprezzante polemica con coloro che la criticano come una forma di "qualunquismo, anarchismo, terrorismo". "La lotta armata" scrive Lenin " persegue due diversi obiettivi: innanzi tutto essa mira a uccidere singole persone, ufficiali e subalterni dell'esercito e della polizia; in secondo luogo si propone di confiscare somme di danaro appartenenti sia al Governo, sia a privati. Una certa aliquota delle somme confiscate viene destinata al partito e la parte restante specificatamente all'armamento e alla preparazione della insurrezione e al mantenimento di coloro che conducono questa lotta... Il diffondersi della lotta partigiana, il suo legame con l'inasprimento della crisi, non solo economica, ma anche politica sono incontestabili. Il vecchio terrorismo russo era opera di intellettuali cospiratori: oggi la lotta partigiana viene condotta di regola dall'operaio militante o semplicemente dall'operaio disoccupato... Nell'epoca della guerra civile l'ideale del partito del proletariato è il partito combattente: ciò è assolutamente incontestabile. Bisogna dedurne che si deve imparare a combattere e basta."
Quasi il significato di queste affermazioni non fosse già di per sé chiarissimo (e assolutizzato in una lettura volutamente priva dei suoi riferimenti storici), Secchia si preoccupa di mettere in rilievo queste ed altre frasi dello stesso tono, utilizzando il corsivo (la sottolineatura è arbitraria dato che non risulta nel testo originale di Lenin).
E' impossibile pensare che Secchia non si rendesse conto della incidenza pratica, politicamente e organizzativamente rilevante, di queste "istruzioni di guerriglia", trasmesse con passione pedagogica analoga a quella che ispirava le pagine del vecchio Quaderno dell'Attivista. A queste indicazioni e a quel testo di Lenin si richiameranno quanti, in quegli anni, andavano imboccando la tragica strada del terrorismo, come premessa e detonatore di una più vasta lotta armata di massa.
Tra i protagonisti di questa scelta c'è Feltrinelli, che già da un paio d'anni cerca contatti, promuove organizzazioni clandestine ed azioni più o meno clamorose, acquista e attrezza recapiti segreti, , sostiene finanziariamente gruppi e pubblicazioni che si collocano sull'incerto crinale tra legalità e illegalità. C'è in Feltrinelli un'avventatezza, una nevrosi, un'impazienza che Secchia non condivide del tutto. Ma i due sembrano animati anche da una stessa passione, dominati dagli stessi incubi. Giangiacomo sembra voler dimostrare al vecchio dirigente comunista che anche lui sarà capace di fare quello che Secchia ha fatto durante la Resistenza, quando lui aveva solo quindici anni. Ambedue vogliono a modo loro riguadagnare il tempo perduto: Feltrinelli, facendo il partigiano quando non ce ne sono più le condizioni, Secchia consegnando, al più giovane e a coloro che lo seguono, i tesori della sua esperienza partigiana e i sogni che lo avevano animato fin dal 1928. Il terreno è scivoloso, il rischio è grande.
Il punto di partenza da cui muove questa trama, la legittimazione del gioco pericoloso sta, per l'uno come per l'altro, nella coscienza della inevitabilità, quasi nell'attesa, del colpo di Stato. Di qui deriva la necessità e l'urgenza di organizzare preventivamente una risposta adeguata, la macchina in grado di scattare al momento giusto.
Feltrinelli era pressante, affettuoso, preoccupato. Secchia era convinto che gli americani non avrebbero tollerato a lungo la crescita del movimento democratico in Italia e che, ben presto, anche per ragioni di politica internazionale, si sarebbe avuto un tentativo di mettere fuori legge il Pci e i sindacati. E sapeva anche che il Pci, in quanto tale, non aveva più gli strumenti, le attrezzature, lo spirito per reagire adeguatamente. Tutto era stato ormai smantellato: tipografie, depositi di armi, centri radiotrasmittenti, recapiti clandestini. Tutto quindi andava ricostituito daccapo, da soli, senza il Pci.
Per i soldi non esistono problemi. Feltrinelli ne ha in abbondanza. Ed anche le armi si possono trovare, con i soldi e i legami internazionali di Giangiacomo, mentre Secchia mette a disposizione la sua esperienza, i suoi rapporti mai interrotti con i comandanti partigiani delle varie zone: debbono anch'essi tenersi pronti, sapere che il golpe può scattare da un momento all'altro e non deve trovarli impreparati, "in pigiama" come aveva trovato i dirigenti del movimento popolare in Grecia. Secchia condivide tutte le preoccupazioni di Feltrinelli, ma non tutte le sue decisioni, certamente non quella di darsi alla clandestinità, decisione che il giovane editore prende ai primi del dicembre del 1969, subito dopo essere stato interrogato dal giudice Amati in relazione ad alcuni attentati alla Fiera di Milano della primavera, per i quali erano stati incriminati due suoi amici, i coniugi Corradini.
Quando, il 12 dicembre 1969, scoppiano a Milano le bombe nella Banca dell'Agricoltura, a Piazza Fontana, Feltrinelli è a Vienna. Non ha un attimo di dubbio: questo è il segnale, la vigilia immediata del colpo di Stato. Prende una macchina e, senza fermarsi un attimo, guida fino a Borgosesia, dove vive Cino Moscatelli. Gli entra in casa stravolto, gli spiega che è il momento di muoversi, che ci sono masse di giovani disposte a rispondere a una sua parola d'ordine, all'invito alla battaglia. Le armi? Si strapperanno al nemico, come durante la guerra partigiana. I capi? Lui, lo stesso Moscatelli, avrebbe dovuto essere uno dei comandanti di questa nuova Resistenza, cosi come era stato uno dei capi di quella contro fascisti e tedeschi nel 1944-45. L'importante è muoversi presto, per primi; il Pci, o una parte almeno, avrebbe seguito questo esempio. Moscatelli lo ascolta turbato. Feltrinelli è in uno stato di evidente sovreccitazione; gli sembra un po' farneticante. Che sia un provocatore? Gentilmente, ma fermamente, il vecchio comandante partigiano mette alla porta il candidato guerrigliero. Questi risale in macchina e punta su Genova. Stravolto dalla stanchezza e dalla tensione arriva a casa di Giovan Battista Lazagna, un altro partigiano ancora dirigente dell'Anpi e iscritto al' Pci, con il quale ha, da anni, un rapporto di collaborazione. "Non vorrai mettermi alla porta anche tu?" gli dice. Lazagna non lo mette alla porta, lo ascolta, e lo mette a dormire. Da allora Feltrinelli gira l'Italia con documenti falsi. Di quando in quando va a trovare anche Secchia a Roma, gli chiede consigli, gli sottopone le sue analisi e, intanto, incoraggia e sostiene la ricerca e il lavoro di storico dell'altro.
Secchia lo ascolta. Nella primavera del 1970 scrive per il Calendario del Popolo un articolo intitolato "Lenin e la scienza militare, in cui ribadisce ancora, come aveva già fatto con il volumetto nell'anno precedente, l'importanza dello studio delle questioni militari per il movimento operaio.
Come non leggere in quell'articolo un altro segno, un avallo a quanti, nell'area dell'estrema sinistra, teorizzano la necessità della lotta armata? Si giunge qui al limite estremo oltre il quale si può scivolare nell'invito alla ricostituzione di un partito illegale. Ma lo stesso articolo può apparire anche come lo sfruttamento estremo della legalità da parte di una organizzazione illegale già esistente L'ambiguità di Secchia è evidente e alle Botteghe Oscure si giudica che egli stia davvero passando il segno. Viene chiamato a rapporto e gli si chiede di chiarire la sua posizione. Egli lo fa in termini tali da accrescere preoccupazioni e sospetti.
"Non sono certo dell'opinione che si possa condurre oggi la lotta armata" dice, ma sottolinea quell'oggi insistendo sul fatto che; non si può, né si deve escludere che, per il domani, questa prospettiva si ponga. Il ragionamento è quello noto: la situazione è seria, il nemico si rafforza all'interno e all'esterno, la situazione ci potrebbe far trovare di fronte a una repressione in grande stile, di fronte a un colpo di Stato. E allora? Si trasforma da accusato in accusatore: "Vi rendete conto" dice "che, di fronte ad una eventualità di questo tipo il partito si troverebbe del tutto impreparato, senza un orientamento che gli consenta di rispondere con efficacia? (51)
"Rispondere con efficacia" significa sempre, per Secchia, rispondere con le armi. La sua domanda: "com'è preparato il partito?" è, in realtà, un'accusa: significa che il partito non è preparato perché al vertice non si vuole nemmeno prendere in considerazione questa eventualità.
Alle Botteghe Oscure non sanno bene che fare. Prendere nei suoi confronti un nuovo provvedimento? Questo rischia solo di riaprire un vecchia ferita e di dare una nuova popolarità a Secchia e alle sue posizioni. Secchia, dal canto suo, vuoi rimanere nel partito; ciò che gli interessa è continuare a scrivere e dire - da iscritto al partito - le cose che vuole arrivino ai giovani. Da una parte e dall'altra insomma non si intende arrivare alla rottura, ma non si rinuncia alla polemica, per quanto interna, e, qualche volta, ai bruschi richiami. Così continua una sorta di lungo tiro alla fune.
Secchia è ancora, e sarà fino alla fine della sua vita, uno degli esponenti più autorevoli dell'Anpi. In nome dell'antifascismo, gruppi e gruppetti tentano di coinvolgere l'organizzazione degli ex partigiani nelle loro iniziative chiedendone almeno la solidarietà concreta quando avvengono scontri con la polizia, con conseguenti arresti e processi. Secchia si adopera in questo senso ma Boldrini, che è presidente dell'Anpi, è ben deciso a rifiutare ogni copertura e solidarietà ad azioni che non siano promosse o controllate dall'organizzazione. Secchia insiste ripetutamente, ma non riesce a fargli cambiare posizione.
Alba muore il 17 luglio del 1970. La sua lunga malattia aveva rinsaldato i rapporti tra i due. Secchia l'aveva assistita pazientemente, affettuosamente per molti mesi. Vladimiro era già sposato e quindi in casa erano rimasti loro due soli: si tenevano compagnia. La morte di Alba incide profondamente su Secchia, ne rende aspra e senza conforto la solitudine. Anche il suo umore muta.
Dal 1965 ha intrapreso, assieme a un giovane editore, Enzo Nizza, un'opera destinata a occupargli degli anni.
Nizza è un ex partigiano toscano che ha lavorato per molti anni nel settore editoriale del Pci. Adesso sta tentando di mettersi in proprio; e ha coinvolto Secchia in un progetto ambiziosissimo: la stesura di una Enciclopedia dell'Antifascismo e della Resistenza in molti volumi. Ma il lavoro, cui Secchia si dedica con entusiasmo, è più faticoso del previsto e procede a rilento anche per le difficoltà dell'editore che ha molto slancio e passione, ma mezzi modesti. Nizza insomma è un editore che fa fronte a fatica ai suoi impegni, Secchia invece pretende puntualità sia nei pagamenti, che nella uscita dei volumi. Da una parte e dall'altra ci sono rimproveri e recriminazioni, contestazioni sul numero delle cartelle e delle voci, sulle garanzie assunte e non mantenute. "Se continua così la pianto..." scrive spesso Secchia e Nizza lo rassicura con l'indulgenza affettuosa che si riserva spesso ai vecchi: "Ti prego di non arrabbiarti perché la vita è breve e poi perché sai che le tue arrabbiature mi demoralizzano ".
Quelle che erano le qualità di Secchia negli anni della giovinezza e della maturità si stanno volgendo ormai nella loro caricatura: la precisione, l'attenzione, il gusto per il controllo del lavoro e per le cose ben fatte si volgono in pignoleria, in una cura eccessiva dei dettagli, in una inclinazione alla protesta ripetuta fino alla lamentela. Sembra molto preoccupato dei soldi "adesso che non ho più nemmeno l'indennità come vice presidente del Senato", e Nizza, bonario, lo richiama a "quello spirito di reciproca fiducia che deve costituire, non solo la base del nostro rapporto di lavoro, ma di un'amicizia che si basa su idee comuni". Anche Nizza, infatti, sta con un piede dentro al partito e un piede fuori. Le loro lettere rimandano a qualcosa che non è del tutto chiaro, che sottintende una trama di discussioni e iniziative politiche che non vengono rese del tutto esplicite.
"In primo luogo" gli scrive Nizza nel dicembre del 1971 "vista la tua insistente domanda circa i miei propositi o decisioni, ti dico subito che non ho preso alcuna decisione né ritengo di poterla prendere tanto in fretta, improvvisamente o alla leggera , (proprio ieri ho rinnovato la tessera). Sono sempre stato un po' lento di comprendonio e qualche volta si parla con un amico più che altro allo scopo di vagliare quale effetto fanno, una volta esteriorizzate, certe idee che si stanno rimuginando. Del resto, decisioni di un certo tipo avvengono per gradi..."