Biblioteca Multimediale Marxista


Rivoluzione e lotta quotidiana




1. Il periodo della maturazione ideologica

1. CONSIDERAZIONI SULLA STORIA DEL MOVIMENTO ANARCHICO IN ITALIA

a. Il socialismo in Italia1

(...) Quando Bakunin venne in Italia, una profonda crisi travagliava il paese, e specialmente quella parte eletta del paese che partecipava alla vita politica non per basso egoismo di avventurieri ed arrivisti, ma per ragioni ideali ed amore sincero di bene generale.
Il nuovo regno dei Savoia, cui aveva messo capo la lotta per l’indipendenza d’Italia, non rispondeva punto alle aspirazioni di coloro che prima e meglio di tutti avevano promosso e sostenuto il movimento.
Per lunghi decenni schiere di generosi avevano combattuto con insuperato eroismo per liberare l’Italia dalla tirannide dell’Austria, del papa, dei Borboni e degli altri principotti che se ne dividevano il territorio. Era il fiore della gioventù italiana che, colle cospirazioni, gli attentati, le insurrezioni, affrontava il martirio; e continuamente decimata dai massacri, dalle galere, dai patiboli, si rinsanguava sempre con nuovi altrettanto eroici combattenti.
Le idealità che animavano quegli uomini appaiono, a noi venuti dopo, insufficienti, vaghe, mistiche, spesso contraddittorie, ma erano certamente nobili, disinteressate, umanitarie.
In generale essi volevano l’Italia libera dallo straniero e dai tiranni indigeni, libera dal dominio dei preti e costituita in repubblica unitaria o federale; e per repubblica intendevano un "governo di popolo" che assicurasse a tutti libertà, giustizia, benessere e istituzione.
In conseguenza delle tradizioni classiche e poi per la predicazione di Giuseppe Mazzini, essi avevano bensì l’assurda pretesa che l’Italia fosse superiore a tutti gli altri paesi e predestinata (da Dio, e dalla Natura, e dalla Storia) ad essere maestra e guida di tutta l'umanità. Ma il loro mistico patriottismo era lungi dal significare desiderio di dominio sugli altri popoli. Al contrario, essi affrettavano coi voti e coll’opera l'emancipazione e la grandezza del popolo italiano anche perchè potesse compiere la sua missione civilizzatrice ed aiutare a liberarsi tutti i popoli oppressi: a prova il fatto che i patrioti italiani accorrevano a combattere e versare il loro sangue in qualunque parte del mondo dove sorgeva un grido di libertà.
Ma malgrado tanto eroismo e tanta nobiltà di propositi la causa italiana sembrò per lungo tempo una causa disperata e trovava appoggio solo tra i "sognatori" assetati d’ideale e alieni da ogni mira di vantaggio personale. La gente "pratica", egoista e pusillanime, subiva pazientemente l’oppressione e per calcolo acclamava i più forti; ed i peggiori si mettevano al servizio degli oppressori quali birri e carnefici. La gran massa, misera, ignorante, superstiziosa, restava come sempre materia passiva, strumento docile ma infido di chi poteva e sapeva servirsene.
Poi, quando per la costanza ed il crescere dei ribelli, e per fortunate circostanze politiche europee i servi di Casa Savoia trovarono opportuno di sfruttare le aspirazioni nazionali per la sicurezza e l'ingrandimento del regno sardo-piemontese, agli apostoli ed agli eroi si frammischiarono i trafficanti ed i profittatori, e l’intrigo diplomatico sopraffece lo slancio rivoluzionario.
E così, tra i patteggiamenti ed i mercati segreti, le alleanze tra monarchi, le guerre regie cominciate con dubbia fede e vergognosamente stroncate per ragioni dinastiche, le dedizioni dei condottieri popolari, le illusioni degli ingenui ed il tradimento dei furbi, si arrivò alla costituzione di un regno italico che era la parodia, la negazione dell’Italia libera e grande sognata dai precursori.
Non si era raggiunta nè l’unità nè vera indipendenza.
L’Austria, padrona sempre della Venezia, restava minacciosa al di qua dell’Alpi, e l’Italia sembrava vivere solo per la protezione interessata e prepotente dell’imperatore dei francesi. Il Papa continuava a tiranneggiare Roma ed il Lazio, pronto sempre a chiamare lo straniero in suo soccorso. Il diritto della nazione a governarsi da sè ridotto alla concessione di una Camera dei deputati eletta da un piccolo numero di censiti e tenuta a freno dalla potestà suprema del re, nonchè da un Senato di nomina regia. Negata ogni autonomia di regioni e comuni, e tutta l’Italia sottoposta all’egemonia delle caste burocratica e militaresca del Piemonte. Le libertà cittadine sempre a discrezione della polizia. Le condizioni economiche della massa (proletariato e piccola borghesia) a cui si erano fatte tante promesse, generalmente peggiorate ed in certe regioni rese addirittura miserabili per l’aumento delle imposte sulla produzione e sui consumi. Quindi malcontento generale; e quando il malcontento scoppiava in tumultuose proteste collettive, la forza pubblica ristabiliva l’ordine con quei massacri di folle inermi, che restarono sempre una caratteristica del sistema di governo della monarchia italiana.
Naturalmente sorsero in abbondanza i patrioti dell’indomani che vollero prender parte al bottino, senza essere stati alla battaglia; ed anche molti dei vecchi combattenti, per motivi vari, onorevoli o meno, si adattarono al nuovo regime e cercarono di profittarne. Ma i più sinceri, i più ardenti e con essi i nuovi giovani che per ragioni di età non avevano potuto prender parte alla riscossa nazionale, ma n’avevano respirata l’atmosfera piena di entusiasmo e volevano emulare i loro maggiori, rodevano il freno ed anelavano il momento di ricominciare la rivoluzione e di completarla.
Ma cosa fare?
I più influenti, i capi, esitavano tra il desiderio di abbattere la monarchia e la paura di compromettere quel tanto di unità e di indipendenza che si era raggiunto. La gran maggioranza dei repubblicani devoti a Mazzini, pur predicando la repubblica, mettevano al disopra di tutto l’unità della patria, e nonostante l’avversione al sistema monarchico erano sempre pronti a mettersi agli ordini del re quando egli li avesse chiamati a compiere il programma nazionale. Ed in quanto ai garibaldini, più di tutti ardimentosi e battaglieri ma, al pari del loro duce, senza idee chiare e programma determinato, salvo l’odio ai preti ed al dominio straniero, la monarchia poteva sempre a sua posta fermarli o trascinarli, come e più dei mazziniani, col solo darsi l’aria di voler fare la guerra all’Austria o al papa.
In realtà non si faceva nulla contro il regime, e forse date le circostanze era possibile fare qualche cosa d’efficace; ma fra le aspirazioni contraddittorie persisteva, vivo, insofferente, tormentoso il desiderio di fare.
D’altra parte un nuovo fermento d’idee agitava le mani...
Vi erano stati bensì dei pensatori poderosi e precursori geniali capaci di reggere il confronto con qualunque straniero, ma essi erano restati senza grande influenza o totalmente ignorati, come per esempio il Pisacane, tanto che occorse scoprirli dopo, quando già le loro idee erano per altre vie divenute patrimonio comune.
Ma ora, dopo la costituzione del regno, con una certa libertà di stampa, con la maggiore facilità di muoversi e stabilire delle relazioni e per lo stesso sprone delle disillusioni patite, la gioventù incominciava ad informarsi ed interessarsi delle idee che agitavano l’Europa. Già il concetto dell’Italia nazione-messia appariva a molti fantastico ed assurdo ed era sostituito da una più realistica concezione della storia e dei rapporti tra i popoli. La credenza in Dio e nel soprannaturale, tanto cara a Mazzini, era buttata in breccia dal nuovo indirizzo delle scienze naturali introdotto nelle università italiane per opera principalmente di valenti professori stranieri. L’idea di patria e tutte le istituzioni sociali - proprietà, organizzazione statale, famiglia, diritto civile e penale - erano discusse e criticate con nuova larghezza di vedute. La questione sociale, la questione dei ricchi e dei poveri, incominciava ad attirare l’attenzione e pareva già destinata a svalorizzare e mettere in oblìo le questioni di nazionalità.
Mazzini e Garibaldi continuavano ad essere idolatrati dalla gioventù più avanzata, che avrebbe voluto averli come capi guide, ma trovava sempre più difficile il seguirli. Poichè Mazzini di fronte all’irrompere delle nuove tendenze s’irrigidiva nel suo dogmatismo teologico-politico e scomunicava chi non credeva in Dio; e Garibaldi, il quale voleva persuadere se stesso e gli altri di stare sempre alla testa del progresso, diceva e disdiceva ed in fondo non capiva nulla.
Da ciò il disagio morale ed intellettuale, che aggiunto all’incertezza ed all’impotenza politiche teneva agitata e scontenta la migliore gioventù italiana.
In tale condizione degli spiriti un uomo come Bakunin, con la fama di grande rivoluzionario europeo che l’accompagnava, con la sua ricchezza e modernità d’idee, con la sua foga e la forza avvincente della sua personalità, non poteva non fare forte impressione su coloro che lo avvicinavano. Ma non poteva creare un movimento a larga base, veramente popolare, causa dei pregiudizi patriottici e borghesi dell’ambiente e per il fatto che molti, malgrado la mutata coscienza, si sentivano ancora legati da giuramenti prestati alla vecchia setta; al che bisogna aggiungere le difficoltà che gli venivano dall’essere straniero, poco pratico della lingua italiana e soggetto sempre ad essere espulso dalla polizia.
Ed infatti egli riuscì subito ad interessare degli uomini di valore, che credettero a prima giunta di trovare nelle sue idee la soluzione dei dubbi che li tormentavano, ma non potette far presa sulle masse. D’altronde il pensiero di Bakunin era allora in continua evoluzione, e se egli, spinto dal suo temperamento e dalla logica delle sue premesse, arrivò presto a conclusioni nettamente socialiste ed anarchiche, molti dei suoi primi aderenti non potettero seguirlo e man mano si ritrassero, sostituiti però sempre da nuovi più idonei elementi.2
Dal 1864 al 1870, Bakunin, colla propaganda personale in Italia, colla corrispondenza dalla Svizzera, coi viaggi fatti o fatti fare e con le pubblicazioni proprie o da lui ispirate, arrivò a selezionare un certo numero d’uomini che, organizzati intorno a lui in circoli più o meno segreti, presero contatto con il movimento socialista internazionale, introdussero in Italia il socialismo e l’anarchismo e vi fondarono la branca italiana dell'Associazione Internazionale Italiana dei Lavoratori, di cui continuarono ad essere gli animatori durante tutta la sua esistenza.
Ma insomma fino alla prima metà del 1870 tutto si riduceva a pochi gruppi intimi ed a qualche piccola associazione operaia...
Poi vennero la guerra franco-prussiana, la caduta dell’impero e la proclamazione della repubblica in Francia, la spedizione garibaldina nei Vosgi l’entrata delle truppe italiane a Roma e la fine del potere temporale dei papi, le vicende dell’assedio di Parigi, le elezioni francesi dell’assemblea dei "rurali", la pace vergognosa, la fondazione dell’impero germanico; tutte cose che agitarono e tennero gli animi sospesi, alimentando negli uni le più audaci speranze e negli altri le più folli paure.
Infine scoppiò l’insurrezione parigina del 18 marzo 1871 - la Comune di Parigi -, repressa due mesi dopo dal governo repubblicano con una ferocia che indignò i più temperati.
L’annunzio dei fatti di Parigi mise la febbre addosso a tutta la gioventù politicamente attiva.
Veramente si sapeva poco quello che la Comune fosse davvero, ma la stessa incertezza delle notizie dava libero campo all’immaginazione, e ciascuno si foggiava il moto parigino secondo i propri desideri. E siccome si attribuiva quel moto all’opera dell’Internazionale, questa profittò di tutta la popolarità di cui godette la Comune negli ambienti rivoluzionari italiani.
Le false notizie, le esagerazioni, le stesse calunnie della stampa reazionaria servivano a rinfocolare l’entusiasmo e ad esaltare le gesta della Comune e la potenza dell’Internazionale...
I primi e più numerosi proseliti si trovarono tra i garibaldini sempre ardenti di battagliare per qualunque idea sembrasse loro avanzata.
I giovani mazziniani, ai quali i fatti di Francia avevano mostrato che la repubblica non significa necessariamente libertà, eguaglianza e fratellanza e che può benissimo associarsi con il più retrivo clericalismo ed il più feroce militarismo, se fossero stati lasciati al loro istinto avrebbero probabilmente seguito al pari dei garibaldini l’impulso dato dai bakunisti.
Ed allora si sarebbe costituito un fascio di tutte le forze rivoluzionarie italiane, che avrebbe potuto mettere a mal partito la monarchia.
Ma Mazzini, offeso nei suoi pregiudizi teologici, statali e borghesi e forse irritato dal vedersi sfuggire quella specie di pontificato che aveva esercitato per tanti anni sul movimento rivoluzionario italiano, attaccò violentemente la Comune e l’Internazionale e trattenne i suoi dal passo che stavano per fare.
Bakunin rispose agli attacchi di Mazzini, e la lotta scoppiò ardente tra mazziniani ed internazionalisti: lotta che servì ad eccitare la discussione ed a precisare le idee; ma presto degenerata in odio, mise l’un contro l’altro giovani egualmente generosi ed entusiasti, e fu in definitiva la causa dell’impotenza degli uni e degli altri.
In ogni modo l’Internazionale si estese rapidamente nei centri più evoluti...
Dato l’ambiente italiano ancora tutto vibrante dei ricordi delle cospirazioni mazziniane e delle spedizioni garibaldine, data l’eccitazione prodotta dalla Comune di Parigi, data l’influenza predominante di Bakunin, dati il temperamento e le convinzioni dei primi iniziatori, l’Internazionale in Italia non poteva essere una semplice federazione di leghe di resistenza operaia, sia pure a tendenze radicali, come fu altrove. Essa assunse fin dal principio un carattere decisamente sovvertitore, che trova un certo riscontro solo nella Spagna, dove il carattere degli abitanti e la situazione politica erano quasi come in Italia, e dove del resto il movimento internazionalista fu iniziato dal Fanelli, mandato colà in missione dall’Alleanza bakunista.
L’Internazionale nacque in Italia socialista, anarchica, rivoluzionaria, e per conseguenza antiparlamentare. Ruppe subito con il "Consiglio generale", il quale, ispirato da Marx, voleva dirigere autoritariamente l’associazione ed imporle un programma statalista; e fu essenzialmente un’associazione fatta collo scopo di provocare un’insurrezione armata, la quale avrebbe dovuto d’un colpo solo rovesciare il governo, abolire la proprietà privata, mettere a libera disposizione dei lavoratori la terra, gli strumenti di lavoro e tutta la ricchezza esistente e sostituire all’organizzazione statale e borghese la libera federazione dei comuni e dei gruppi produttori autonomi.
Si accettava il principio fondamentale dell’Associazione di lavoratori fondata a Londra nel settembre 1864, e cioè che "la dipendenza economica dei lavoratori dai possessori delle materie prime e degli strumenti di lavoro è la causa prima della servitù in tutte le sue forme, politica, morale e materiale"; e perciò si riteneva necessario ed urgente abolire la proprietà privata fondiaria e capitalistica mediante l’espropriazione senza indennità della classe borghese fatta direttamente dalla massa sfruttata e soggetta. Si dichiarava il lavoro dovere sociale per tutti, e quindi si considerava la condizione di lavoratore superiore moralmente a qualunque altra posizione sociale, anzi la sola compatibile con una morale veramente umana, e molti internazionalisti provenienti dalla classe borghese, per essere coerenti colle loro idee e meglio immedesimarsi col popolo, si mettevano ad apprendere un mestiere manuale. Si vedeva nella classe operaia, nel proletariato dell’industria e dell’agricoltura, il grande fattore della trasformazione sociale e la garanzia ch’essa si sarebbe fatta veramente a vantaggio di tutti e non avrebbe dato origine ad una nuova classe privilegiata.
Ma però l’Internazionale non fu mai in Italia propriamente una organizzazione di classe; ed in essa sugl’interessi contingenti della classe operaia prevaleva sempre l’ideale della rivoluzione come fatto che doveva iniziare una nuova civiltà per l’elevazione morale ed il vantaggio materiale di tutta quanta l’umanità. Nell’Internazionale in Italia, e del resto era così un po’ dappertutto, aveva diritto di cittadinanza chiunque ne accettava i principi, da qualunque classe provenisse. E quando per conciliare coi fatti il titolo di associazione di lavoratori si cercava di determinare che cosa fosse un lavoratore, si conchiudeva che, per l’Internazionale, era lavoratore, "chiunque lavorava alla distruzione dell’ordine borghese", frase che può sembrare un’arguzia, ma che traduceva bene lo stato di fatto.
Ed invero l’Internazionale era stata introdotta in Italia da borghesi che, per amor di giustizia, avevano disertato la loro classe, ed ancora nel 1872 e dopo, in molti luoghi, la maggioranza, almeno nella parte dirigente e più attiva, non era composta di operai, ma di giovani provenienti dalla media e piccola borghesia.
Si faceva un po’ di lotta economica, si provocava qualche sciopero, s’incitavano gli operai a domandare e pretendere dai padroni ogni sorta di miglioramenti. Ma ciò si faceva senza entusiasmo, senza darvi grande importanza, poichè si era convinti che i padroni esistevano perchè il governo li proteggeva ed esisterebbero e trionferebbero sempre fino a che durerebbe il governo. "Non si arriva al proprietario, si soleva dire, se non passando sul corpo del gendarme". Forse sarebbe stata la verità più completa il dire che è "il gendarme", cioè chi possiede la forza materiale, che s’impadronisce della ricchezza, si fa proprietario, e poi assolda, tra le sue vittime, dei gendarmi per farsi difendere e perpetuare in sè e nei suoi discendenti il privilegio usurpato; ma allora, senza che nessuno di noi avesse letto Marx, si era ancora troppo marxisti. Ma a parte ogni disquisizione teorica sulle origini della proprietà, si era convinti che la prima cosa da fare era rovesciare il governo, e perciò si pensava soprattutto alla insurrezione.
Certamente sperare allora nella vittoria era una illusione.
Senza parlare delle vaste plaghe d’Italia dove le nostre idee erano assolutamente sconosciute, anche dove eravamo più forti e numerosi non eravamo in sostanza che un’infima minoranza di fronte alla totalità della popolazione. E le masse erano ancora del tutto disorganizzate ed ignare: salvo le nostre sezioni e qualche associazione che pigliava il motto da Mazzini, le società operaie esistente erano semplici società di mutuo soccorso sotto il patronato di grossi proprietari o personaggi dei partiti borghesi, quando non avevano addirittura il re... o il questore.
Questa era per noi una situazione paradossale, perchè il nostro scopo non era di impossessarsi del governo con un colpo di mano (il che sarebbe stato ben difficile per l’esiguità delle nostre forze, ma forse non impossibile se fossimo riusciti a trascinare con noi i repubblicani) per poi imporre il nostro programma mediante la forza statale. Noi, già anarchici convinti, volevamo abbattere il governo esistente, impedire che se ne formasse un altro, e lasciare che le masse liberate dalla pressione dell’esercito e della polizia pigliassero possesso della ricchezza ed organizzassero da loro la nuova vita sociale.
Ma che sarebbe avvenuto se le masse fossero restate assenti, o si fossero mostrate ansiose di sottomettersi ad un nuovo governo ed attendere da esso il proprio bene?
Noi speravamo nel malcontento generale, e poichè la miseria che affliggeva le masse era davvero insopportabile, credevamo che bastasse dare un esempio, lanciare colle armi alla mano il grido di "abbasso í signori", perchè le masse lavoratrici si scagliassero contro la borghesia, e pigliassero possesso della terra, delle fabbriche e di quanto esse avevano prodotto colle loro fatiche ed era stato loro sottratto. E poi avevamo una fede mistica nella virtù del popolo, nella sua capacità, nei suoi istinti ugualitari e libertari.
I fatti dimostrarono allora e poi (e lo avevano già dimostrato nel passato) quanto eravamo lontani dal vero. Purtroppo la fame, quando non vi è una coscienza del proprio diritto ed un’idea che guida l’azione, non produce rivoluzioni: tutt’al più provoca delle sommosse sporadiche che i signori, se hanno giudizio, possono domare, meglio che colle fucilate dei carabinieri, col distribuire un po’ di pane e col gettare dai balconi un po’ di soldi di rame alla folla tumultuante. E noi, se il desiderio non avesse fatto velo alla nostra perspicacia, avremmo ben potuto giudicare dell’effetto deprimente, e quindi antirivoluzionario, della miseria, dal fatto che la propaganda riusciva meglio nelle regioni meno misere e tra quei lavoratori, artigiani per la maggior parte, che si trovavano in condizioni economiche meno disagiate.
Ed in quanto agli "istinti egualitari e libertari" del popolo, ahimè, quanta fatica ci vuole per risvegliarli! Per allora, ed anche adesso in quella grande parte della massa non ancora tocca dalla propaganda, gli "istinti", i quali sono stati formati dai millenario servaggio, spingono i lavoratori piuttosto al timore e, quel ch’è peggio, al rispetto ed all’ammirazione dei padroni, e quindi ad una docile sottomissione.
Era dunque impossibile una vittoria facile e rapida.
Ma, a parte la questione di tempo, io credo sempre dopo tutto quello che ho veduto, che le nostre speranze non erano vane e la nostra tattica non era sbagliata.
In effetti, la nostra propaganda, se non colla rapidità che avremmo voluto, portava pure i suoi frutti: il numero dei convinti andava continuamente crescendo, ed intorno ad essi si andava sempre allargando il cerchio di simpatizzanti, di quelli cioè che pur non comprendendo e non accettando tutte le nostre idee, sentivano l’ingiustizia del presente ordinamento sociale e volevano contribuire al suo cambiamento. Ed i tentativi insurrezionali che facevamo e ci proponevamo di fare, pur essendo allora condannati ad insuccesso sicuro, erano mezzo efficace di propaganda, ed un giorno, a tempi più maturi (chi può giudicare prima del fatto quando i tempi sono maturi, cioè quando un concorso di circostanze determina il "momento psicologico" in cui un popolo è pronto ad insorgere?), un giorno, dico, sarebbero stati la scintilla che provoca un grande incendio.
Se il nostro lavoro fosse continuato concorde come durante i sette od otto anni dopo la fondazione a Rimini della Federazione italiana (1872), ben altra, io credo, sarebbe oggi la situazione italiana.
Ma sul più bello, lo sviluppo del nostro movimento fu conturbato ed arrestato dall’introduzione in Italia del partito socialdemocratico, legalitario e parlamentare secondo il tipo tedesco.
L’esistenza di un altro partito socialista con tendenze diverse di quelle che aveva l’Internazionale italiana non sarebbe stato un gran male, anzi avrebbe potuto essere un bene, poichè avrebbe attratti al socialismo molti elementi che, pur ammettendo la necessità di una radicale riforma sociale, non potevano per temperamento e per posizione essere rivoluzionari e con noi non ci sarebbero venuti mai.
Ma il guaio fu che chi introdusse (almeno con risultati seri, poichè vi era stato qualche altro tentativo senza successo) in Italia la nuova tendenza uscì proprio di mezzo a noi.
Alcuni degli internazionalisti tra i più influenti ed amati (non posso qui fare a meno di nominare l’Andrea Costa), impressionati dagli apparenti successi del socialismo in Germania, disgustati di una lotta che era, o sembrava, sterile di risultati immediati, e forse stanchi delle persecuzioni che ormai erano diventate ben più serie, preferirono, contro i loro primi compagni e contro tutto il loro passato, una tattica che prometteva una relativa tranquillità e rapidi successi personali; e così gettarono la discordia nelle nostre file e furono la causa che il meglio delle nostre forze fosse speso in polemiche e diatribe intestine, anzichè nella propaganda tra le masse e la lotta contro il nemico comune.
I vecchi internazionalisti che di quella "evoluzione" videro direttamente i danni morali e materiali fatti al movimento, e soffrirono nei loro sentimenti profondi per le amicizie male rotte, gridarono al "tradimento". E certo parve dar loro ragione il modo subdolo come si condussero i nuovi convertiti al parlamentarismo, negando ed affermando, attenuando od accentuando la nuova tendenza secondo gli ambienti e le circostanze, e trascinando i compagni più ingenui col sentimentalismo delle amicizie personali e quasi senza che se ne accorgessero.
Ma fu davvero tradimento cosciente fatto per fini personali, o frutto di onesta convinzione?
Non spetta a me, parte troppo interessata nella vertenza, il dare un giudizio definitivo. E d’altronde questi avvenimenti sono di parecchi anni posteriori al periodo di cui si tratta in questo libro, e non è il caso di approfondirli e documentarli qui. Forse lo stesso Nettlau, che ha o può procurarsi il materiale necessario e che possiede quelle doti di imparzialità e serenità che forse in questo caso mancherebbero a me, ci narrerà un giorno quel periodo critico dell’Internazionale italiana, in cui essa cessò di chiamarsi l’Internazionale e si scisse in partito anarchico e partito socialdemocratico.
A me basti constatare che tutte le nostre previsioni sulla degenerazione in cui sarebbe caduto il socialismo fattosi legalitario e parlamentarista si sono purtroppo verificate, ed al di là di quello che noi stessi pensavamo.

b. L’evoluzionismo di P. Kropotkin3

Pietro Kropotkin è senza dubbio uno di quelli che hanno contribuito di più - forse più che gli stessi Bakunin ed Eliseo Reclus - alla elaborazione e alla propagazione dell’idea anarchica. Ed egli ha perciò ben meritato l’ammirazione e la riconoscenza che tutti gli anarchici hanno per lui.
Ma, in omaggio alla verità e nell’interesse superiore della causa, bisogna riconoscere che l’opera sua non è stata tutta ed esclusivamente benefica. Non fu colpa sua, al contrario, fu l’eminenza stessa dei suoi meriti che produsse i mali ch’io mi propongo d’indicare.
Naturalmente Kropotkin al pari di ogni altro uomo, non poteva evitare ogni errore ed abbracciare tutta la verità. Si sarebbe dovuto quindi profittare della sua preziosa contribuzione e continuare la ricerca per raggiungere nuovi progressi. Ma i suoi talenti letterari, il valore e la mole della sua produzione, la sua instancabile attività, il prestigio che gli veniva dalla sua fama di grande scienziato, il fatto ch’egli aveva sacrificata una posizione altamente privilegiata per difendere, a costo di soffrire di pericoli, la causa popolare, e di più il fascino della sua persona che incantava tutti quelli che avevano la fortuna di avvicinarlo, gli dettero tale notorietà e tale influenza ch’egli sembrò, ed in gran parte fu realmente, il maestro riconosciuto della grande maggioranza degli anarchici.
Avvenne così che la critica fu scoraggiata, e si produsse un arresto di sviluppo dell’idea. Durante molti anni, malgrado lo spirito iconoclasta e progressivo degli anarchici, la maggior parte di essi non fece, in quanto a teoria ed a propaganda, che studiare e ripetere Kropotkin. Dire diversamente da lui fu per molti compagni quasi un’eresia.
Sarebbe dunque opportuno il sottomettere gl’insegnamenti di Kropotkin ad una critica severa e senza prevenzioni per distinguere ciò che in essi è sempre vero e vivo da ciò che il pensiero e l’esperienza posteriori possono aver dimostrato erroneo. Cosa d’altronde che non riguarderebbe solo Kropotkin, Poichè gli errori che si possono rimproverare a lui erano già professati dagli anarchici prima che Kropotkin acquistasse una posizione eminente nel movimento: egli li confermò e li fece durare dando loro l’appoggio del suo talento e del suo prestigio, ma noi, i vecchi militanti, vi abbiamo tutti, o quasi tutti, la nostra parte di responsabilità.
Io ebbi l’onore e la fortuna di essere per lunghi anni legato a Kropotkin dalla più fraterna amicizia.
Noi ci amavamo perchè eravamo animati dalla stessa passione, dalla stessa speranza... ed anche dalle stesse illusioni.
Tutti e due di temperamento ottimista (io credo tuttavia che l’ottimismo di Kropotkin sorpassava di molto il mio e forse aveva una sorgente diversa) noi vedevamo le cose color di rosa, ahimè! troppo color di rosa - noi speravamo sono già più di cinquant’anni, in una rivoluzione prossima, che avrebbe dovuto realizzare il nostro ideale. Durante questo lungo periodo vi furono ben dei momenti di dubbio e di scoraggiamento. Ricordo, per esempio, che una volta Kropotkin mi disse: "Mio caro Errico temo che siamo noi soli, tu ed io, che crediamo in una rivoluzione vicina". Ma erano dei momenti passeggeri: ben presto la fiducia tornava; ci si spiegava in un modo qualsiasi le difficoltà presenti e lo scetticismo dei compagni e si continuava a lavorare ed a sperare.
Nullameno non bisogna credere che noi avevamo in tutto le stesse opinioni. Al contrario, in molte idee fondamentali noi eravamo lungi dall’essere d’accordo, e quasi non c’era volta che c’incontravamo senza che nascessero tra noi delle discussioni rumorose ed irritanti; ma siccome Kropotkin si sentiva sempre sicuro di aver ragione e non poteva sopportare con calma la contraddizione, e d’altra parte io avevo molto rispetto per il suo sapere e molti riguardi per la sua salute vacillante, si finiva sempre col cambiar d’argomento per non irritarsi troppo...
Kropotkin era nello stesso tempo uno scienziato ed un riformatore sociale. Egli era posseduto da due passioni: il desiderio di conoscere ed il desiderio di fare il bene dell’umanità, due nobili passioni che possono essere utili l’una all’altra e che si vorrebbero vedere in tutti gli uomini, senza ch’esse siano per questo una sola e medesima cosa. Ma Kropotkin era uno spirito eminentemente sistematico e voleva spiegare tutto con uno stesso principio e tutto ridurre a unità, e lo faceva spesso, secondo me, a scapito della logica. Perciò egli appoggiava sulla scienza le sue aspirazioni sociali, le quali non erano, secondo lui, che delle deduzioni rigorosamente scientifiche.
Io non ho nessuna competenza speciale per giudicare Kropotkin come scienziato... Nulladimeno mi sembra che gli mancasse qualche cosa per essere un vero uomo di scienza: la capacità di dimenticare i suoi desideri e le sue prevenzioni per osservare i fatti con un’impassibile obbiettività . . .
Abitualmente egli concepiva un’ipotesi e cercava poi i fatti che avrebbero dovuto giustificarla - il che può essere un buon metodo per scoprire cose nuove; ma gli accadeva, senza volerlo, di non vedere i fatti che contraddicevano la sua ipotesi.
Egli non sapeva decidersi ad ammettere un fatto, e spesso nemmeno a prenderlo in considerazione, se prima non riusciva a spiegarlo, cioè a farlo entrare nel suo sistema...
Kropotkin professava la filosofia materialista che dominava tra gli scienziati nella seconda metà del secolo XIX, la filosofia di Moleschott, Buchner, Vogt, ecc.; e per conseguenza la sua concezione dell’Universo era rigorosamente meccanica.
Secondo il suo sistema, la volontà (potenza creatrice di cui noi non possiamo comprendere la natura e la sorgente, come del resto non comprendiamo la natura e la sorgente della "materia" e di tutti gli altri "primi principi") la volontà, dico, che contribuisce poco o molto a determinare la condotta degl’individui e delle società, non esiste, non è che un’illusione. Tutto quello che fu, che è e che sarà, dal corso degli astri alla nascita ed alla decadenza di una civiltà, dal profumo di una rosa al sorriso di una madre, da un terremoto al pensiero di un Newton, dalla crudeltà di un tiranno alla bontà di un santo, tutto doveva, deve e dovrà accadere per una sequela fatale di cause e di effetti di natura meccanica, che non lascia nessuna possibilità di variazione. L’illusione della volontà non sarebbe essa stessa che un fatto meccanico.
Naturalmente, logicamente, se la volontà non ha alcuna potenza, se tutto è necessario e non può essere diversamente, le idee di libertà, di giustizia, di responsabilità non hanno nessun significato, non corrispondono a niente di reale.
Secondo la logica non si potrebbe che contemplare ciò che accade nel mondo, con indifferenza, piacere o dolore, secondo la propria sensibilità, ma senza speranza e senza possibilità di cambiare alcunchè.
Kropotkin, dunque, che era molto severo con il fatalismo dei marxisti, cadeva poi nel fatalismo meccanico, che è ben più paralizzante.
Ma la filosofia non poteva uccidere la potente volontà che era in Kropotkin. Egli era troppo convinto della verità del suo sistema per rinunziarvi, o solamente sopportare tranquillamente che lo si mettesse in dubbio; ma egli era troppo appassionato, troppo desideroso di libertà e di giustizia per lasciarsi fermare dalla difficoltà di una contraddizione logica e rinunziare alla lotta. Egli se la cavava inserendo l’anarchia nel suo sistema e facendone una verità scientifica.
Egli si confermava nella sua convinzione sostenendo che tutte le recenti scoperte in tutte le scienze, dall’astronomia fino alla biologia ed alla sociologia, concorrevano a dimostrare sempre più che l’anarchia è il modo d’organizzazione sociale che è imposto dalle leggi sociali...
Così, dopo aver detto che "l’anarchia è una concezione dell’Universo basata sull’interpretazione meccanica dei fenomeni che abbraccia tutta la Natura, compresa la vita delle società" (confesso che non sono mai riuscito a comprendere ciò che questo può significare) Kropotkin dimenticava come se fosse niente, la sua concezione meccanica e si lanciava nella lotta con il brio, l’entusiasmo e la fiducia di uno che crede nell’efficacia della sua volontà e spera di potere colla sua attività ottenere o contribuire a ottenere ciò che desidera.
In realtà, l’anarchismo ed il comunismo di Kropotkin prima di essere una questione di ragionamento, erano l’effetto della sua sensibilità. In lui, prima parlava il cuore, e poi veniva il ragionamento per giustificare e rinforzare gl’impulsi del cuore.
Ciò che costituiva il fondo del suo carattere era l’amore degli uomini, la simpatia pei poveri e gli oppressi. Egli soffriva realmente per i mali degli altri, e l’ingiustizia anche se a suo favore, gli era insopportabile...
Spinto dagli stessi sentimenti aveva in seguito fatto adesione all’Internazionale ed accettato le idee anarchiche. Infine, tra i diversi modi di concepire l’anarchia aveva scelto e fatto proprio il programma comunista-anarchico, che basandosi sulla solidarietà e sull’amore va al di là della stessa giustizia.
Ma naturalmente come era da prevedere, la sua filosofia non restava senza influenza sul suo modo di concepire l’avvenire e la lotta che bisognava combattere per arrivarvi.
Poichè secondo la sua filosofia ciò che accade doveva necessariamente accadere, così anche il comunismo anarchico, ch’egli desiderava, doveva fatalmente trionfare come per legge della natura.
E ciò gli levava ogni dubbio e gli nascondeva ogni difficoltà. Il mondo borghese doveva fatalmente cadere; era già in dissoluzione e l’azione rivoluzionaria non serviva che ad affrettarne la caduta.
La sua grande influenza come propagandista, oltre che dai suoi talenti, dipendeva dal fatto ch’egli mostrava la cosa talmente inevitabile che l’entusiasmo si comunicava subito a quelli che l’ascoltavano o lo leggevano.
Le difficoltà morali sparivano perchè egli attribuiva al "popolo", alla massa dei lavoratori tutte le virtù e tutte le capacità. Egli esaltava con ragione l’influenza moralizzatrice del lavoro, ma non vedeva abbastanza gli effetti deprimenti e corruttori della miseria e della soggezione. Ed egli pensava che basterebbe abolire i privilegi dei capitalisti ed il potere dei governanti perchè tutti gli uomini cominciassero immediatamente ad amarsi come fratelli ed a badare agl’interessi altrui come ai propri.
Nello stesso modo egli non vedeva le difficoltà materiali o se ne sbarazzava facilmente. Egli aveva accettata l’idea, comune allora tra gli anarchici, che i prodotti accumulati della terra e dell’industria erano talmente abbondanti che per molto tempo non ci sarebbe bisogno di preoccuparsi della produzione; e diceva sempre che il problema immediato era quello del consumo che per far trionfare la rivoluzione bisognava soddisfare subito e largamente i bisogni di tutti, e che la produzione seguirebbe il ritmo del consumo. Di là quell’idea della presa nel mucchio, ch’egli mise in moda e che è ben la maniera più semplice di concepire il comunismo e la più atta a piacere alla folla, ma è anche la maniera più primitiva e più realmente utopistica. E quando gli si fece osservare che questa accumulazione di prodotti non poteva esistere, perchè i proprietari normalmente non fanno produrre che quello che possono vendere con profitto, e che forse nei primi tempi della rivoluzione bisognerebbe organizzare il razionamento e spingere alla produzione intensiva piuttosto che invitare alla presa in un mucchio che in realtà non esisterebbe, egli si mise a studiare direttamente la questione ed arrivò alla conclusione che infatti quell’abbondanza non esisteva e che in certi paesi si era continuamente sotto la minaccia della carestia. Ma egli si rifaceva pensando alle grandi possibilità dell’agricoltura aiutata dalla scienza. Egli prese come esempi i risultati ottenuti da qualche agricoltore e qualche dotto agronomo sopra spazi limitati e ne tirò le più incoraggianti conseguenze, senza pensare agli ostacoli che avrebbero opposto l'ignoranza e l'avversione al nuovo dei contadini ed al tempo che in tutti i casi occorrerebbe per generalizzare i nuovi modi di coltura e di distribuzione.
Come sempre Kropotkin vedeva le cose quali egli avrebbe voluto che fossero e come noi tutti speriamo ch’esse saranno un giorno: egli considerava esistente o immediatamente realizzabile ciò che deve essere conquistato con lunghi e duri sforzi.
In fondo Kropotkin concepiva la Natura come una specie di Provvidenza, grazie alla quale l’armonia doveva regnare in tutte le cose, comprese le società umane.
È ciò che ha fatto ripetere a molti anarchici questa frase di sapore squisitamente kropotkiniano: L’anarchia è l’ordine naturale.
Si potrebbe domandare, io penso, come mai la Natura, se è vero che la sua legge è l’armonia, ha aspettato che vengano al mondo gli anarchici ed aspetta ancora ch’essi trionfino per distruggere le terribili e micidiali disarmonie di cui gli uomini hanno sempre sofferto.
Non si sarebbe più vicini alla verità dicendo che l’anarchia è la lotta, nelle società umane, contro le disarmonie della Natura?
Ho insistito sui due errori nei quali, secondo me, è caduto Kropotkin, il suo fatalismo teorico ed il suo ottimismo eccessivo, perchè io credo di aver constatato i cattivi effetti ch’essi hanno prodotto nel nostro movimento.
Ci sono stati dei compagni i quali presero sul serio la teoria fatalista - che per eufemismo chiamano determinismo - e perdettero in conseguenza ogni spirito rivoluzionario. La rivoluzione, essi dissero, non si fa: essa verrà quando sarà il suo tempo, ed è inutile, antiscientifico e perfino ridicolo il volerla fare. E con queste buone ragioni si allontanarono dal movimento e pensarono ai loro affari. Ma sarebbe un errore il credere che questa fu una comoda scusa per ritirarsi dalla lotta. Io ho conosciuto parecchi compagni dal temperamento ardente, pronti ad ogni sbaraglio, che si sono esposti a grandi pericoli ed hanno sacrificato la loro libertà ed anche la loro vita in nome dell’anarchia pur essendo convinti dell’inutilità della loro azione. Essi lo han fatto per disgusto della società attuale, per vendetta, per disperazione, per amore del bel gesto, ma senza credere con questo di servire la causa della rivoluzione e per conseguenza senza scegliere il bersaglio ed il momento e senza curarsi di coordinare la loro azione con quella degli altri.
Da un altro lato, quelli che senza preoccuparsi di filosofia han voluto lavorare per avvicinare e fare la rivoluzione, han creduto la cosa ben più facile ch’essa non fosse in realtà, non ne hanno preveduto le difficoltà, non si sono preparati come occorreva... e così ci si è trovati impotenti il giorno in cui vi era forse la possibilità di fare qualche cosa di pratico.
Possano gli errori del passato servire di lezione per far meglio nell’avvenire.

2. L’EVOLUZIONE DELL’ANARCHISMO

a. Alla radice delle idee4

Un soffio di rivolta passa dappertutto; e la rivolta è qui l’espressione di un’idea, là il risultato di un bisogno; più spesso poi è la conseguenza dell’intrecciarsi di bisogni e d’idee che si generano e si rinforzano a vicenda; si scaglia contro la causa dei mali o la colpisce di fianco, è cosciente o istintiva, umana o brutale, generosa o strettamente egoista, ma in ogni modo diventa sempre più grande e si estende ogni giorno di più.
È la storia che cammina; è inutile dunque perdere tempo a lamentarsi delle vie che essa sceglie, poichè queste vie le sono state tracciate da tutta un’evoluzione anteriore.
Ma la storia è fatta dagli uomini; e siccome noi non vogliamo restare spettatori indifferenti e passivi della tragedia storica, siccome vogliamo concorrere con tutte le nostre forze a determinare gli avvenimenti che ci sembrano più favorevoli alla nostra causa, ci abbisogna per questo un criterio che ci serva di guida nell’apprezzamento dei fatti che si producono, sopratutto per saper scegliere il posto che dobbiamo occupare nella battaglia.
Il fine giustifica i mezzi. Si è molto maledetta questa massima; ma in realtà essa è la guida universale della condotta. Sarebbe però meglio il dire: ogni fine vuole i suoi mezzi. Poichè la morale bisogna cercarla nello scopo; il mezzo è fatale.
Stabilito lo scopo a cui si vuol giungere, per volontà o per necessità, il gran problema della vita sta nel trovare il mezzo che secondo le circostanze, conduce con maggiore sicurezza e più economicamente, allo scopo prefisso. Dalla maniera con cui viene risolto questo problema dipende, per quanto può dipendere dalla volontà umana, che un uomo o un partito raggiunga o no il suo fine, che sia utile alla sua causa o serva senza volerlo, alla causa nemica. Aver trovato il buon mezzo: qui sta tutto il segreto dei grandi uomini e dei grandi partiti che hanno lasciato le loro tracce nella storia.
Noi non lottiamo per metterci al posto degli sfruttatori e degli oppressori di oggi, e non lottiamo neppure per il trionfo di una vacua astrazione. Non siamo affatto come quel patriota italiano che diceva: "Che importa che tutti gli italiani muoiano di fame, purchè l’Italia sia grande e gloriosa!"; e neppure come quel compagno che confessava essergli indifferente che si massacrassero i tre quarti degli uomini, perchè l’Umanità fosse libera e felice.
Noi vogliamo la libertà e il benessere degli uomini, di tutti gli uomini senza eccezione. Vogliamo che ogni essere umano possa svilupparsi e vivere il più felicemente possibile. E crediamo che questa libertà e questo benessere non potranno essere dati agli uomini da un uomo o da un partito, ma che tutti dovranno da sè stessi scoprirne le condizioni e conquistarsele. Crediamo che soltanto la più completa applicazione del principio di solidarietà può distruggere la lotta, l’oppressione e lo sfruttamento, e che la solidarietà non può essere che il risultato del libero accordo, che l’armonizzazione spontanea e voluta degli interessi.
Secondo noi, tutto ciò che è volto a distruggere l’oppressione economica e politica, tutto ciò che serve ad elevare il livello morale ed intellettuale degli uomini, a dar loro la coscienza dei propri diritti e delle proprie forze e a persuaderli di fare i propri interessi da sè, tutto ciò che provoca l’odio contro l’oppressione e suscita l’amore fra gli uomini, ci avvicina al nostro scopo e quindi è un bene - soggetto soltanto a un calcolo quantitativo per ottenere con forze date il massimo di effetto utile. E al contrario è male, perchè in contraddizione col nostro scopo, tutto ciò che tende a conservare lo stato attuale, tutto ciò che tende a sacrificare, contro la sua volontà, un uomo al trionfo di un principio.
Noi vogliamo il trionfo della libertà e dell’amore.
Ma per questo dovremo noi rinunciare all’impegno dei mezzi violenti? Niente affatto. I nostri mezzi sono quelli che le circostanze ci permettono ed impongono.
Certo, noi non vorremmo strappare un capello a nessuno; vorremmo asciugare tutte le lacrime senza farne versare alcuna. Ma c’è forza lottare nel mondo tale come questo è, sotto pena di restare sognatori sterili.
Verrà il giorno, lo crediamo fermamente, in cui sarà possibile fare il bene degli uomini senza fare male nè a sè nè agli altri; ma oggi questo è impossibile. Anche il più puro e dolce dei martiri, quegli che si farebbe trascinare al patibolo per il trionfo del bene, senza far resistenza, benedicendo i suoi persecutori come il Cristo della leggenda, anche lui farebbe del male. Oltre al male che farebbe a sè stesso, che pur deve contare qualche cosa, farebbe spargere amare lacrime a tutti quelli che lo amassero.
Si tratta a dunque, sempre, in tutti gli atti della vita, di scegliere il minimo male, di tentare di fare il meno male per la più grande somma di bene possibile.
L’umanità si trascina penosamente sotto il peso della oppressione politica ed economica: è abbrutita, degenerata, uccisa (e non sempre lentamente) dalla miseria, dalla schiavitù, dalla ignoranza e dai loro effetti. Per la difesa di questo stato di cose esistono potenti organizzazioni militari e poliziesche, le quali rispondono con la prigione, il patibolo ed il massacro ad ogni serio tentativo di cambiamento. Non vi sono mezzi pacifici, legali, per uscire da questa situazione; ed è naturale ciò, perchè la legge è fatta espressamente dai privilegiati per la difesa dei propri privilegi. Contro la forza fisica che ci sbarra il cammino, non v’è per vincere che l'appello alla forza fisica, non v’è che la rivoluzione violenta.
Evidentemente la rivoluzione produrrà molte disgrazie, molte sofferenze; ma se anche ne producesse cento volte di più, essa sarebbe sempre una benedizione in confronto a quanti dolori son causati oggi dalla cattiva costituzione della società.
E per amor degli uomini che siamo rivoluzionari: e non è colpa nostra, se la storia ci costringe a questa dolorosa necessità.
Dunque per noi anarchici, o almeno (giacché infine le parole sono convenzionali) per coloro fra gli anarchici che la pensano come noi, ogni atto di propaganda o di realizzazione con la parola o coi fatti, individuale o collettivo, è buono quando serve ad avvicinare e facilitare la rivoluzione, quando assicura ad essa il concorso cosciente delle masse e le dà quel carattere di liberazione universale, senza di cui potrebbe bensì aversi una rivoluzione, ma non quella rivoluzione che noi desideriamo. Ed è sopra tutto in fatto di rivoluzione che bisogna tener conto del mezzo più economico, poichè per essa la spesa si totalizza in vite umane.
Conosciamo abbastanza le condizioni strazianti materiali e morali in cui si trova il proletariato, per spiegarci gli atti di odio, di vendetta, ed anche di ferocia che potranno prodursi. Comprendiamo che vi siano degli oppressi che, essendo stati sempre trattati dai borghesi con la più ignobile durezza e avendo sempre visto che tutto era permesso al più forte, un bel giorno, diventati per un istante i più forti, si dicano: "Facciamo, anche noi, come i borghesi". Comprendiamo come possa accadere che, nella febbre della battaglia, nature originariamente generose ma non preparate da una lunga ginnastica morale, molto difficile nelle condizioni presenti, perdano di vista lo scopo da conseguirsi, prendano la violenza come fine a sè stessa e si lascino trascinare ad atti selvaggi.
Ma altro è comprendere e perdonare certi fatti, altro è rivendicarli e rendersene solidali. Non sono quelli gli atti che noi possiamo accettare, incoraggiare ed imitare. Dobbiamo essere risoluti ed energici, ma dobbiamo altresì sforzarci di non oltrepassare mai il limite segnato dalla necessità. Dobbiamo fare come il chirurgo che taglia quando bisogna tagliare, ma evita di infliggere inutili sofferenze; in una parola dobbiamo essere ispirati e guidati dal sentimento dell’amore per gli uomini, per tutti gli uomini.

Ci sembra che questo sentimento di amore sia il fondo morale, l’anima del nostro programma; che solo concependo la rivoluzione come il più grande giubileo umano, come la liberazione e l’affratellamento di tutti gli uomini - non importa a quale classe o a quale partito abbiano appartenuto - il nostro ideale potrà realizzarsi.
La ribellione brutale avverrà certamente; e potrà servire, anche, a dare il gran colpo di spalla, l'ultima spinta che dovrà atterrare il sistema attuale: ma se essa non troverà il contrappeso nei rivoluzionari che agiscono per un ideale, una tale rivoluzione divorerà se medesima.
L’odio non produce l’amore, e con l'odio non si rinnova il mondo; e la rivoluzione dell’odio o fallirebbe completamente, oppure farebbe capo ad una nuova oppressione, che potrebbe magari chiamarsi anarchica, come si chiamano liberali i governanti di oggi, ma che non sarebbe meno per questo un’oppressione e non mancherebbe di produrre gli effetti che produce ogni oppressione.

b. Il rifiuto del terrorismo amorfista5
Lettera a Luisa Minguzzi Pezzi

...In Italia non si ingannano se credono che nella questione Ravachol io sono d’accordo con Merlino, perchè infatti lo sono, almeno nel punto di vista generale. Molti giornalisti sono venuti a domandarmi la mia opinione, ed io gliela ho detta francamente; ma poi nessuno l’ha pubblicata, forse perchè io ad evitare falsificazioni ho voluto dettarla.
Revachol mi pare un uomo sincero, devoto alla causa, forse anche buono di cuore ma traviato da un falso ragionamento fino al punto di assassinare nel più feroce modo un vecchio impotente ed innocuo. Ma non è per Ravachol personalmente che noi sentiamo il bisogno di protestare; è per le difese che fanno di lui certi suoi amici. L’uno dice che Ravachol ha fatto bene ad uccidere il vecchio, perchè "era un essere inutile alla Società"; un altro dice che non vale la pena di far chiasso per un vecchio che "aveva pochi anni da vivere" e così di seguito. Il che vuol dire che questi anarchici che non vogliono giudici, non vogliono tribunali, si fanno poi essi stessi giudici e carnefici, e condannano a morte e giustiziano quelli che essi giudicano inutili. Nessun governo ha mai fatto confessar tanto!
Così per le esplosioni. Per uccidere un meschino procuratore si rischia di uccidere 50 innocenti, per fortuna non è successo tutto il male che poteva succedere; ma è anche vero che il procuratore ha avuto di rotto solo il suo urinale!
Si vede nel modo come la cosa è stata fatta, che i suoi autori disprezzano la vita umana, non si curano della sofferenza altrui. Ma infine, su tutto questo si potrebbe passare, e considerare le disgrazie come dolorose conseguenze della guerra.
Ma come non protestare quando sentite dire che si ha torto di lamentare la morte d’una serva o di un operaio, perchè "i domestici sono peggio dei padroni e bisogna ammazzarli tutti" ed "i bambini sono semenza dei borghesi e bisogna pure ammazzarli tutti"?
Come non inorridire quando trovate una donna la quale a voi che lamentate la disgrazia incorsa a quella povera donna che nella esplosione della rue Clichy ebbe la faccia lacerata da schegge di vetro, risponde: "Come! Siete così sensibile voi? Io ho riso tanto pensando alle smorfie che doveva fare quella donna colla faccia tutta tagliuzzata".
Tutto questo vuol dire che succede a molti anarchici quello che succede ai soldati, agli uomini di guerra, che ubriacati dalla lotta, diventano feroci e dimentichi perfino del fine pel quale si lotta finiscono col volere il sangue per il sangue. Non è più l’amore per il genere umano che li guida, ma il sentimento di vendetta unito al culto di una idea attratta, di un fantasma teorico.
Ciò si comprende; tanto più in presenza di una borghesia che ci dà quotidianamente lo spettacolo della ferocia, ma non si può approvare, non si può incoraggiare. Una rivoluzione nella quale trionfassero questi istinti, sarebbe una rivoluzione perduta. Il terrore provoca la reazione: prima la reazione della pietà, poi la reazione degli interessi.
Vi è poi altra cosa. Questi anarchici pare si vogliano fare distributori di grazia e di giustizia e ciò non è niente affatto anarchico. Se noi avessimo il diritto di condannare in nome dell’idea che ci facciamo noi della giustizia, lo stesso diritto l'avrebbe il governo in nome della giustizia sua. Naturalmente ognuno crede di avere ragione, e se ognuno avesse il diritto di condannare quelli che secondo lui hanno torto addio giustizia, addio libertà, addio eguaglianza, addio anarchia; i più forti sarebbero, come sono oggi, il governo, ed ecco tutto.
Noi dobbiamo essere dei libertari. La dinamite è un’arma come un’altra spesso migliore di un’altra nella lotta contro gli oppressori: ma come tutte le armi, può essere adoperata bene o male, può servire a liberare gli oppressi, o a spaventare ed opprimere i deboli. Noi dobbiamo servirci di tutte le armi, ma non dobbiamo mai perdere di vista lo scopo, nè la proporzione tra il mezzo e lo scopo. Io capisco che si possa rischiare di uccidere degli innocenti per fare un atto risolutivo: far saltare per esempio un parlamento uccidere lo Czar - ma rischiare di uccidere 50 persone per rompere l’urinale di un procuratore pubblico, mi pare una cosa folle - e questa cosa, da folle diventa criminosa se non è ispirata da cattivo calcolo, ma da indifferenza per la vita degli altri.
So ben che queste idee non sono fatte per incontrare la simpatia generale dei nostri amici.
Per quanto si sia anarchici, si è sempre più o meno uomini del proprio tempo. Ed il popolo dei nostri tempi, come quello dei tempi passati, si lascia ancora imporre dalla forza, dal successo, senza guardarci tanto pel sottile. Se esplosioni sono riuscite, hanno messo paura ... ai paurosi, e molti dei nostri amici applaudiranno incondizionatamente, senza occuparsi dell’effetto che hanno sulla massa, che noi dovremmo attirare a noi, senza esaminare senza fare le parti del bene e del male. È la stessa tendenza per la quale il popolo applaude a tutti i guerrieri, a tutti i tiranni che vincono; è la stessa tendenza per la quale parecchi anarchici divennero boulangistes quando sembrava che Boulanger stesse per vincere.
Ma contro questa tendenza noi dobbiamo reagire, se no addio anarchia. La rivoluzione si farebbe ma per aprire il varco a nuovi tiranni.
La verità è che v’è molta gente che si chiama anarchica, e che dell’anarchia non ha capito nulla.
Anche in questa occasione i soliti, gli ex amici di Senace hanno pubblicato un foglio clandestino in cui minacciano bastonate a quegli anarchici, che non credono che Ravachol sia il tipo degli anarchici, e che l’eremita di Chambles meritava gli si schiacciasse la testa a martellate, vale a dire a noi, e le bastonate promesse ce le darebbero... se noi ce le lasciassimo dare.
Vedete dunque che anarchici! Come l’inquisizione; le bastonate (non potendo applicare la ghigliottina o il rogo) a quelli che non pensano come loro e dicono il loro pensiero.
È necessario reagire; mettere i punti sugli i, uscire dai termini generali i quali spesso fanno credere che si sia d’accordo, mentre si sta agli antipodi.
Ed io, dopo tutto, son contento di questa specie di crisi, perchè provocherà delle spiegazioni, in seguito alle quali si saprà con chi si è d’accordo davvero e con chi no, e si saprà uscire dall’equivoco, dai tira e molla e mettersi col lavoro fecondo dalla propaganda fra le masse e dell’azione veramente rivoluzionaria.
Voi saprete interpretare per il loro verso queste idee buttate già così confusamente ed in fretta. Io del resto le svilupperò completamente in un lavoretto che darò alle stampe al più presto.6
Se volete far leggere questa lettera a qualche amico fatelo pure; ma però, appunto perchè è buttata giù in fretta e senza ordine, fatela leggere solo a quelli che conoscete abbastanza intelligenti per non interpretare le cose a rovescio...

c. La tragedia di Monza7

Prima di tutto riduciamo le cose alle loro giuste proporzioni
Il re è stato ucciso; e poichè un re è pur sempre un uomo, il fatto è da deplorarsi. Una regina è stata vedovata; e poichè una regina è anch’essa una donna, noi simpatizziamo col suo dolore.
Ma perchè tanto chiasso per la morte di un uomo e per le lacrime di una donna quando si accetta come una cosa naturale il fatto che ogni giorno tanti uomini cadono uccisi, e tante donne piangono, a causa delle guerre, degli accidenti sul lavoro, delle rivolte represse a fucilate, e dei mille delitti prodotti dalla miseria, dallo spirito di vendetta, dal fanatismo e dall’alcolismo?
Perchè tanto sfoggio di sentimentalismo a proposito di una disgrazia particolare, quando migliaia e milioni di esseri umani muoiono di fame e di malaria, fra l’indifferenza di coloro che avrebbero i mezzi di rimediarvi?
Forse perchè questa volta le vittime non son dei volgari lavoratori, non un onest’uomo ed un’onesta donna qualunque, ma un re ed una regina?...
Veramente, noi troviamo il caso più interessante, ed il nostro dolore è più sentito, più vivo, più vero, quando si tratta di un minatore schiacciato da una frana mentre lavora, e di una vedova che resta a morir di fame coi suoi figlioletti!
Nulladimeno, anche quelle dei reali sono sofferenze umane e vanno deplorate. Ma sterile resta il lamento se non se ne indagano le cause e non si cerca di eliminarle.

Chi è che provoca la violenza? Chi è che la rende necessaria, fatale?
Tutto il sistema sociale vigente è fondato sulla forza brutale messa a servizio di una piccola minoranza che sfrutta ed opprime la grande massa; tutta l’educazione che si dà ai ragazzi si riassume in una apoteosi della forza brutale; tutto l’ambiente in cui viviamo è un continuo esempio di violenza, una continua suggestione alla violenza.
Il soldato, cioè l’omicida professionale, è onorato, e sopra di tutti è onorato il re, la cui caratteristica storica è quella di essere capo di soldati.
Colla forza brutale si costringe il lavoratore a farsi derubare del prodotto del suo lavoro; colla forza brutale si strappa l’indipendenza alle nazionalità deboli.
L’imperatore di Germania eccita i suoi soldati a non dar quartiere ai Cinesi; il governo inglese tratta da ribelli i Boeri che rifiutano di sottomettersi alla prepotenza straniera, e brucia le fattorie, e caccia le donne dalle case, e perseguita anche i non combattenti, e rinnova le gesta orribili della Spagna in Cuba; il Sultano fa assassinare gli Armeni a centinaia di migliaia; il governo Americano massacra i Filippini dopo averli vilmente traditi.
I capitalisti fan morire gli operai nelle miniere, sulle ferrovie, nelle risaie per non fare le spese necessarie alla sicurezza del lavoro, e chiamano i soldati per intimidire e fucilare all’occorrenza i lavoratori che domandano di migliorare le loro condizioni.
Ancora una volta, da chi viene dunque la suggestione, la provocazione alla violenza? Chi fa apparire la violenza come la sola via d’uscita dallo stato di cose attuale, come il solo mezzo per non subire eternamente la violenza altrui?
Ed in Italia è peggio che altrove. Il popolo soffre perennemente la fame; i signorotti spadroneggiano peggio che nel Medioevo; il Governo a gara coi proprietari, dissangua i lavoratori per arricchire i suoi e sperperare il resto in imprese dinastiche; la polizia è arbitra della libertà dei cittadini, ed ogni grido di protesta, ogni benchè sommesso lamento è strozzato in gola dai carcerieri, e soffocato nel sangue dai soldati.
Lunga è la lista dei massacri: da Pietrarsa a Conselica, a Calatabiano, alla Sicilia, ecc.
Solo due anni or sono le truppe regie massacrarono il popolo inerme; solo alcuni giorni or sono le regie truppe han portato ai proprietari di Minella il soccorso delle loro baionette e del loro lavoro forzato, contro i lavoratori famelici e disperati.
Chi è il colpevole della ribellione, chi è il colpevole della vendetta che di tanto in tanto scoppia: il provocatore, l’offensore o chi denunzia l’offesa e vuole eliminarne le cause?

Ma, dicono, il re non è responsabile!
Noi non pigliamo certo sul serio la burletta delle finzioni costituzionali. I giornali "liberali" che ora argomentano sulla irresponsabilità del re, sapevano bene, quanto si trattava di loro, che al di sopra del parlamento e dei ministri, vi era un’influenza potente, un'"alta sfera" a cui i regi procuratori non permettevano di fare troppo chiare allusioni. Ed i conservatori, che ora aspettano una "nuova era" dall’energia del nuovo re, mostrano di sapere che il re, almeno in Italia, non è poi quel fantoccio che ci vorrebbero far credere quando si tratta di stabilire le responsabilità. E d’altronde, anche se non fa il male direttamente, è sempre responsabile di esso, un uomo che potendo, non lo impedisce - ed il re è capo dei soldati e può sempre, per lo meno, impedire che i soldati facciano fuoco sopra popolazioni inermi. Ed è puranche responsabile chi non potendo impedire un male, lascia che si faccia in nome suo, piuttosto che rinunziare ai vantaggi del posto.
È vero che se si prendono in conto le considerazioni di eredità, di educazione, di ambiente, la responsabilità personale dei potenti si attenua di molto e forse sparisce completamente. Ma allora, se è irresponsabile il re dei suoi atti e delle sue omissioni, se malgrado l’oppressione, lo spogliamento il massacro del popolo fatto in suo nome, egli avrebbe dovuto restare al primo posto del paese, perchè mai sarebbe responsabile il Bresci? Perchè mai dovrebbe il Bresci scontare con una vita di inenarrabili patimenti un atto che, per quanto si voglia giudicare sbagliato, nessuno può negare essere stato ispirato da intenzioni altruistiche?
Ma questa questione della ricerca delle responsabilità c’interessa mediocremente.
Noi non crediamo nel diritto di punire, noi respingiamo l'idea di vendetta come sentimento barbaro: noi non intendiamo essere giustizieri, nè vendicatori. Più santa, più nobile, più feconda ci pare la missione di liberatori e di pacificatori.
Ai re, agli oppressori, agli sfruttatori noi tenderemmo volentieri la mano, quando soltanto essi volessero tornare uomini fra gli uomini, uguali tra gli uguali. Ma intanto che essi si ostinano a godere dell’attuale ordine di cose ed a difenderlo colla forza, producendo così il martirio, l’abbrutimento e la morte per stenti a milioni di creature umane, noi siamo nella necessità, siamo nel dovere di opporre la forza alla forza.

Opporre la forza alla forza!
Vuol dire ciò che noi ci dilettiamo in complotti melodrammatici e siamo sempre nell’atto o nell’intenzione di pugnalare un oppressore?
Niente affatto. Noi aborriamo alla violenza per sentimento e per principio, e facciamo sempre il possibile per evitarla: solo la necessità di resistere al male coi mezzi idonei ed efficaci ci può indurre a ricorrere alla violenza.
Sappiamo che questi fatti di violenza singola, senza sufficiente preparazione nel popolo restano sterili e spesso, provocando reazioni a cui si è incapaci a resistere, producono dolori infiniti e fanno male alla causa stessa a cui intendevano servire.
Sappiamo che l’essenziale, l’indiscutibilmente utile si è, non già l’uccidere la persona di un re, ma l’uccidere tutti i re - quelli delle corti, dei parlamenti e delle officine - nel cuore e nella mente della gente; di sradicare cioè la fede nel principio di autorità a cui presta culto tanta parte del popolo.
Sappiamo che meno la rivoluzione è matura e più essa riesce sanguinosa ed incerta.
Sappiamo che, essendo la violenza sorgente di autorità, anzi essendo in fondo tutta una cosa col principio di autorità, più la rivoluzione sarà violenta e più vi sarà pericolo ch’essa dia origine a nuove forme di autorità.
E perciò ci sforziamo di acquistare, prima di adoperare le ultime ragioni degli oppressi, quella forza morale e materiale che occorre per ridurre al minimo la violenza necessaria ad abbattere il regime di violenza a cui oggi l’umanità soggiace.
Ci si lascerà in pace al nostro lavoro di propaganda, di organizzazione, di preparazione rivoluzionaria?
In Italia c’impediscono di parlare, di scrivere, di associarci. Proibiscono agli operai di unirsi e lottare pacificamente, nonchè per l’emancipazione, nemmeno per migliorare in minime proporzioni le loro incivili ed inumane condizioni di esistenza. Carceri domicilio coatto, repressioni sanguinose sono i mezzi che si oppongono non solo a noi anarchici, ma a chiunque osa pensare ad una più civile condizione di cose.
Che meraviglia, se perduta la speranza di poter combattere con profitto per la propria causa, degli animi ardenti si lasciano trasportare ad atti di giustizia vendicativa?
Le misure di polizia, di cui sono sempre vittime i meno pericolosi; la ricerca affannosa di inesistenti istigatori, che appare grottesca a chiunque conosce un poco lo spirito dominante tra gli anarchici, le mille buffe proposte di sterminio avanzate da dilettanti di poliziottismo, non servono che a mettere in evidenza il fondo selvaggio che cova nell’animo delle classi governanti.
Per eliminare totalmente la rivolta sanguinosa delle vittime, non vi è altro mezzo che l’abolizione dell’oppressione, mediante la giustizia sociale.
Per diminuirne ed attuarne gli scoppi non v’è altro mezzo che lasciare a tutti la libertà di propaganda e di organizzazione; che lasciare ai diseredati, agli oppressi, ai malcontenti, la possibilità di lotte civili; che dar loro la speranza di poter conquistare, sia pur gradualmente, la propria emancipazione per vie incruente.
Il governo d’Italia non ne farà nulla continuerà a reprimere... e continuerà a raccogliere quello che semina.
Noi, pur deplorando la cecità dei governanti che imprime alla lotta un’asprezza non necessaria, continueremo a combattere per una società in cui sia eliminata ogni violenza, in cui tutti abbiano pane, libertà, scienza, in cui l’amore sia la legge suprema della vita.

d. Errori e rimedi8

Vi è oggi tanta gente varia che si chiama anarchica, e col nome di anarchia si espongono tante idee disparate e contraddittorie, che davvero avremmo torto di meravigliarci quando il pubblico che è nuovo alle idee, e non può a prima giunta distinguere le grandi differenze che si nascondono sotto il velo di una parola comune, resta sordo alla nostra propaganda e ci guarda con sospetto.
Noi non possiamo naturalmente impedire agli altri di prendere il nome che vogliono; nè l’abbandonar noi il nome di anarchici servirebbe ad altro che ad aumentare la confusione, poichè il pubblico penserebbe che noi abbiamo semplicemente voltato bandiera.
Tutto ciò che possiamo, e cioè che dobbiamo fare, si è di distinguerci nettamente da coloro che dell’anarchia hanno un concetto diverso dal nostro, o che dallo stesso concetto teorico tirano conseguenze pratiche opposte a quelle che ne tiriamo noi. E la distinzione deve risultare dall’esposizione chiara della nostra morale senza nessun riguardo di persone e di partito. Poichè questa pretesa solidarietà di partito, fra gente che poi non apparteneva e non avrebbe potuto appartenere allo stesso partito, è stata appunto una delle cause principali della confusione. E si è arrivati a tal punto che molti esaltano nei "compagni" quelle stesse azioni che vituperano nei borghesi; e sembra che il loro unico criterio del bene e del male sia questo: se l’autore dell’atto che si giudica prende il nome di anarchico, o no.

Molti sono gli errori che hanno menato gli uni a mettersi in completa contraddizione coi principii che teoricamente professano, e gli altri a sopportare queste contraddizioni; come molte sono le cause che hanno attirata in mezzo a noi della gente che in fondo se ne ride del socialismo e dell’anarchia, e di tutto ciò che sorpassa gl’interessi delle loro persone.
Io non posso intraprendere qui un esame metodico e completo di questi errori. Solo accennerò ad alcuni di essi così come mi si presenteranno alla mente.
Prima di tutto parliamo di morale.
È cosa comune trovare degli anarchici che "negano la morale". Al principio è un semplice modo di dire per significare che, dal punto di vista teorico, non ammettono una morale assoluta, eterna, immutabile, e che, nella pratica, si ribellano contro la morale borghese che sanziona lo sfruttamento delle masse e condanna quegli atti che tornano a pericolo e danno dei privilegiati. Ma poi, poco a poco, come suole avvenire in tante altre cose, prendono la figura retorica per l’espressione della verità. Dimenticano che nella morale corrente, oltre le regole che sono inculcate dai preti e dai padroni nell’interesse del loro dominio, si trovano pure, e ne sono in realtà la parte maggiore e sostanziale, anche quelle regole che sono la conseguenza e la condizione di ogni coesistenza sociale; dimenticano che il ribellarsi contro ogni regola imposta colla forza non vuol dire niente affatto rinunziare ad ogni ritegno morale e ad ogni sentimento di obbligazione verso gli altri; dimenticano che per combattere ragionevolmente una morale, bisogna opporle, in teoria ed in pratica, una morale superiore; e, per poco che il temperamento e le circostanze aiutino, finiscono col divenire immorali nel senso assoluto della parola, cioè uomini senza regola di condotta, senza criterio per guidarsi nelle loro azioni, che cedono passivamente all’impulso del momento. Oggi si leveranno il pane di bocca per soccorrere un compagno, domani ammazzeranno un uomo per andare al bordello!...
Altra fonte di errori e di colpe gravissime è stato il modo come si è interpretato da molti la teoria della violenza.
La società attuale si mantiene colla forza delle armi. Mai nessuna classe oppressa è riuscita ad emanciparsi senza ricorrere alla violenza; mai le classi privilegiate han rinunciato ad una parte, sia pur minima, dei loro privilegi, se non per forza, o per paura della forza. Le istituzioni sociali attuali sono tali che appare impossibile di trasformarle per via di riforme graduali e pacifiche; e la necessità di una rivoluzione violenta che, violando, distruggendo la legalità, fondi la società umana sopra basi novelle, s’impone. L’ostinazione, la brutalità con cui la borghesia risponde ad ogni più anodina domanda del proletariato, dimostrano la fatalità della rivoluzione violenta. Dunque è logico, è necessario che i socialisti e specialmente gli anarchici, siano un partito rivoluzionario e prevedano e affrettino la rivoluzione.

Ma disgraziatamente c’è negli uomini una tendenza a scambiare il mezzo col fine; e la violenza, che per noi è e deve restare una dura necessità, è diventata per molti quasi lo scopo unico della lotta. La storia è piena di esempi di uomini che, avendo cominciato a lottare per uno scopo elevato, hanno poi nel calore della mischia smarrito ogni controllo sopra loro stessi, han perduto di vista lo scopo e son diventati dei feroci massacratori. E, come lo dimostrano fatti recenti, molti anarchici non sono sfuggiti a questo terribile pericolo della lotta violenta. Irritati dalle persecuzioni, ammattiti dagli esempi di cieca ferocia che dà ogni giorno la borghesia, essi han cominciato ad imitare l’esempio dei borghesi; ed allo spirito d’amore è subentrato lo spirito di vendetta, lo spirito di odio. E l’odio e la vendetta essi, al par dei borghesi, han chiamato giustizia. Poi, per giustificare quegli atti, che pur potevano spiegarsi come effetti delle orribili condizioni del proletariato e servire come una ragione di più per invocare la distruzione di un ordine di cose che produce così tristi risultati, alcuni han cominciato a formulare le più strane, le più fanatiche, le più autoritarie teorie; e non badando alla contraddizione, le han presentate come un nuovissimo progresso dell’idea anarchica . . .
D’altra parte un errore, opposto a quello in cui cadono i terroristi, minaccia il movimento anarchico. Un po’ per reazione contro l’abuso che in questi ultimi anni si è fatto della violenza, un po’ per la sopravvivenza delle idee cristiane, e soprattutto per l’influenza della predicazione mistica di Tolstoj, alla quale il genio e le alte qualità morali dell’autore dan voga e prestigio, incomincia ad acquistare una certa importanza fra gli anarchici il partito della resistenza passiva, il quale ha per principio che bisogna lasciare opprimere e vilipendere se stesso e gli altri piuttosto che far del male all’aggressore. È quello che è stato chiamato l’anarchia passiva...
È curioso osservare come i terroristi ed i tolstoisti, appunto perchè sono gli uni e gli altri dei mistici, arrivano a conseguenze pratiche presso che uguali. Quelli non esiterebbero a distruggere mezza umanità pur di far trionfare l’idea: questi lascerebbero che tutta l’umanità restasse sotto il peso delle più grandi sofferenze piuttosto che violare un principio.
Per me, io violerei tutti i principii del mondo pur di salvare un uomo: il che sarebbe poi infatti rispettare il principio, Poichè, secondo me, tutti principii morali e sociologici si riducono a questo solo: il bene degli uomini, di tutti gli uomini.

e. Il furto come arma di guerra9

In tutti i tempi gli eserciti belligeranti ed i partiti rivoluzionari hanno considerato atto di buona guerra l’impossessarsi a danno del nemico di tutto ciò che può facilitare la vittoria e quindi anche del denaro, che si suol dire essere il nerbo della guerra.
È permesso agli anarchici, che stanno sempre, almeno intenzionalmente, in guerra guerreggiata con la classe capitalistica, è permesso agli anarchici, in coerenza coi loro principi, togliere ai ricchi della roba (denaro e oggetti preziosi) per servirsene per la propaganda, per l’armamento e per tutti i bisogni della lotta? E non potendo requisire il denaro apertamente, in guerra dichiarata, è permesso impadronirsene di nascosto, adoperando quelle che possono chiamarsi astuzie di guerra in una parola rubando?
Teoricamente non pare che vi possa esser dubbio sul diritto di adoperare, in una guerra giusta, tutti i mezzi atti a facilitare ed assicurare la vittoria senza ledere il sentimento di umanità. Ma bisogna vedere se un mezzo è poi realmente utile, se ciò che è moralmente permesso è praticamente consigliabile.
Il metodo (il furto per la propaganda) è stato in vari paesi ed in varie epoche predicato e praticato da speciali gruppi anarchici; ma ha dato sempre frutti disastrosi.
E potrei dire lo stesso di altri partiti e di epoche gloriose nella storia d’Italia, ma preferisco non occuparmi qui che delle cose nostre.
Il denaro corrompe e corrompe pure la necessità di nascondere il proprio essere, di fingere, d’ingannare, di adoperare quelle arti necessarie al ladro se non vuole andare in prigione come un imbecille.
Quanti giovani generosi, quante belle nature si sono sciupate per questa fisima del rubare per la propaganda!
S’incomincia col ricercare la compagnia dei ladri di mestiere, perchè anche il rubare è un mestiere che bisogna imparare. Si perde l’abitudine e poi la voglia di lavorare, e quindi sul prodotto del furto bisogna prelevare la quota per alimentare il ladro: alla propaganda va quel che resta, se ce ne resta. E coll’abitudine del non lavorare viene il gusto del lusso e dell’orgia, e si finisce col dimenticare le idee, la propaganda, i principi, e si diventa un ladro volgare.
Peggio ancora: s’incomincia a trattare i propri compagni come vigliacchi perchè si lasciano sfruttare lavorando, la massa come disprezzabile gregge, e si finisce col dire: "chi vuole emanciparsi faccia come me, rubi", "io la mia rivoluzione l’ho fatta, faccian gli altri la loro", e si diventa dei borghesi come e peggio degli altri.
E questo solo per quei pochi che hanno fortuna e riescono a fare il colpo grosso. Gli altri consumano la vita in piccole truffe, furtarelli meschini fatti preferibilmente a danno dei poveri, perchè rubare ai poveri è più facile e meno pericoloso, o a danno dai compagni perchè i compagni non denunciano alla polizia.
I migliori quelli che riescono a salvarsi dalla peggiore decadenza morale son quelli che si fan cogliere all’inizio della carriera e vanno in galera prima di essersi completamente corrotti.
Vi possono essere delle eccezioni individuali: io stesso ne potrei citare se l’argomento non fosse così delicato.
Ma il certo si è che in tutti gli ambienti in cui è stato ammesso il furto per la propaganda è entrata la corruzione, la sfiducia tra compagni la maldicenza, il sospetto e quindi l’inerzia e la dissoluzione. E le spie hanno avuto buon giuoco, perchè non si è più avuto il modo di controllare quali sono i mezzi di vita di ciascuno.
No, meglio la penuria di mezzi, meglio il soldino versato e raccolto con fatica che dà al lavoratore l’orgoglio di concorrere col proprio sforzo all’opera comune, anzichè, per la speranza quasi sempre illusoria della grossa somma, correre il rischio di veder corrompersi e sparire alcuni tra i compagni più energici e più intraprendenti.

3. LA LEZIONE DEI FATTI

a. La tattica rivoluzionaria10

Noi dobbiamo mescolarci più ch’è possibile alla vita popolare: incoraggiare e spingere tutti i movimenti che contengono un germe di rivolta materiale o morale e abituano il popolo a fare i suoi interessi da sè e a non fidare che nelle proprie forze; ma senza perdere mai di vista che la rivoluzione per l’espropriazione e la messa in comune della proprietà e la demolizione del potere sono la sola salute del proletariato e dell’umanità e che per conseguenza ogni cosa è buona o cattiva a seconda che essa avvicini o allontani, faciliti o renda più difficile tale rivoluzione.
Applichiamo ciò alla questione degli scioperi. Noi siamo caduti a tal proposto, com’è un po’ la nostra abitudine, da una esagerazione in un’altra.
Tempo addietro, convinto che lo sciopero è impotente, non solo per emancipare, ma anche per migliorare in modo permanente la sorte dei lavoratori, noi trascuravamo troppo il lato morale della questione e, meno che in qualche regione, abbiamo lasciato questo mezzo potente di propaganda e di agitazione quasi totalmente ai socialisti autoritari e agli addormentatori.
Cessata quell’indifferenza in seguito ai grandi scioperi di questi ultimi tempi e specialmente dopo lo sciopero del porto di Londra che fece pensare che se gli uomini che lo guidarono avessero avuta una chiara concezione rivoluzionaria e non ne avessero temuto le responsabilità, si sarebbe potuto condurre i lavoratori dei docks a marciare sui quartieri ricchi ed a fare la rivoluzione; si manifesta ora una tendenza all’eccesso opposto, cioè ad attendere tutto dagli scioperi e quasi a confondere lo sciopero con la rivoluzione.
Questa tendenza è molto pericolosa, poichè essa fa nascere delle speranze chimeriche e la cui pratica sarebbe, non dico certo altrettanto corruttrice, ma pure fallace e addormentatrice come lo stesso parlamentarismo.
Si predica lo sciopero generale e sta benissimo: ma si ha torto, secondo me, quando s’immagina e si dice che lo sciopero generale è la rivoluzione. Esso sarebbe solo un’occasione magnifica per fare la Rivoluzione, ma niente di più. Esso potrebbe trasformarsi in rivoluzione, ma solo se i rivoluzionari avessero abbastanza influenza, forza e spirito d’iniziativa per trascinare i lavoratori sulla via dell’espropriazione e dell’attacco armato, prima che lo snervamento della fame e lo sgomento del massacro o le concessioni dei padroni non vengano a demoralizzare gli scioperanti e a ridurli in quello stato d’animo, così facile a prodursi tra le masse, nel quale si vuole sottomettersi ad ogni costo, e si considera come un nemico, un pazzo o un agente provocatore chiunque spinge alla lotta ad oltranza.
Io considero del resto come irrealizzabile un vero sciopero generale nelle condizioni economiche e morali attuali del proletariato universale; e credo che la rivoluzione sarà fatta molto prima che un tale sciopero possa prodursi. Ma di grandi scioperi se ne producono già e con l’attività e dell’accordo si può provocarne di più grandi ancora; e potrebbe darsi che sia quella la forma con cui comincerà, almeno nei paesi industriali, la Rivoluzione sociale. Bisogna dunque star sul chi vive per profittare di tutte le occasioni che possono presentarsi.
Lo sciopero non deve più essere la guerra delle braccia incrociate.
I fucili e tutti gli ordigni per l’attacco e la difesa che la scienza mette a nostra disposizione, lungi dall’essere resi inutili dagli scioperi, restano sempre strumenti di liberazione, che negli scioperi trovano soltanto una buona occasione per essere utilmente adoperati

b. Andiamo fra il popolo11

Confessiamolo subito: gli anarchici non si sono mostrati all’altezza della situazione.
Se si toglie il moto di Carrara che ha dato prova sì del loro coraggio e della loro devozione alla causa, ma anche dell’insufficienza della loro organizzazione, appena si sarebbe parlato degli anarchici in tanto commuoversi di popolo in Sicilia ed in altre parti d’Italia.
Dopo aver tanto gridato di rivoluzione, la rivoluzione arriva, e noi siamo stati disorientati e siam restati presso che inerti.
Può essere doloroso il confessarlo, ma il tacerlo e nasconderlo sarebbe tradire la causa, e continuare negli errori che ci han condotti a questo punto.
È tempo di ravvederci!
La causa principale, secondo noi, di questa nostra decadenza è l’isolamento in cui quasi dappertutto siamo caduti.
Per un complesso di cause, che ora sarebbe troppo lungo esaminare, gli anarchici, dopo la dissoluzione dell’Internazionale, perdettero il contatto delle masse e si andavano man mano riducendo in piccoli gruppi, occupati solo a discutere eternamente e, purtroppo a dilaniarsi tra loro, o tutt’al più a fare un po’ di guerra ai socialisti legalitari.
Contro questo stato di cose si è tentato più volte di reagire con più o meno successo. Ma quando si credeva di poter infine ricominciare un lavoro serio ed a larga base, ecco che venner fuori alcuni compagni i quali, per una malintesa intransigenza, elevarono l’isolamento a principio, e secondati dall’indolenza e dalla timidezza di tanti, che trovavano in quella "teoria" una comoda scusa per non far nulla e non correre nessun rischio, riuscirono a ricacciarci nell’impotenza.
Per opera di quei compagni, molti dei quali ci compiacciamo di riconoscerlo, sono pur animati dalle migliori intenzioni, il lavoro di propaganda e di organizzazione è diventato una cosa impossibile.
Volete entrare in un’associazione operaia? Maledizione! Non giova per il verbo anarchico: ogni buon anarchico se ne deve tener lontano come dalla peste.
Volete fondare un’associazione dei lavoratori per abituarli a lottare solidariamente contro i padroni? Tradimento! un buon anarchico non deve associarsi che con anarchici convinti, vale a dire deve star sempre cogli stessi compagni, e se vuol fondare associazioni, non può che dar nomi diversi a un gruppo, composto sempre dalla stessa gente.
Cercate di organizzare e sostenere scioperi? Mistificazioni, palliativi!
Tentate manifestazioni ed agitazioni popolari? Pagliacciate!
Insomma tutto quello che è permesso di fare per la propaganda si è qualche conferenza, dove il pubblico non viene se non è attirato dalle doti eccezionali di un oratore, qualche stampato, che è letto sempre dallo stesso circolo di gente; e la propaganda da uomo a uomo, se sapete trovar chi vi ascolti. E con questo un gran vociare di rivoluzione: - rivoluzione che, predicata così, diventa come il paradiso dei cattolici, una promessa di là di venire, che vi addormenta in un’inerzia beata fino a che ci credete e vi lascia scettici ed egoisti, quando la fede vi sfugge.
Ed intanto intorno a noi il popolo si agita e segue altre correnti; ed i socialisti legalitari ci vincon la mano ed hanno spesso successi, anche in quei paesi dove come in Italia, il socialismo è stato per la prima volta bandito e popolarizzato da noi, e dove noi vantiamo non ingloriose tradizioni di lotte e di sacrifici sostenuti con costanza e fierezza.
Questa è una tattica micidiale che equivale al suicidio. La rivoluzione non si fa in quattro gatti. Degl’individui e dei gruppi isolati possono fare un po’ di propaganda; dei colpi audaci, delle bombe e simili cose, se fatte con retto criterio (il che purtroppo non è sempre q caso) possono attirare l’attenzione pubblica sui mali dei lavoratori e sulle nostre idee, possono sbarazzarci di qualche ostacolo potente; ma la rivoluzione non si fa che quando il popolo scende in piazza. E se noi vogliamo farla bisogna che attirammo a noi la folla, quanto più folla è possibile.
Ed è anche, questa tattica dell’isolamento, contraria ai nostri principi ed allo scopo che ci proponiamo.
La rivoluzione, come noi la vogliamo, deve essere il cominciamento della partecipazione attiva, diretta, vera delle masse, cioè di tutti, alla organizzazione ed alla gerenza della vita sociale. Se per impossibile, la rivoluzione potesse essere fatta da noi soli, non sarebbe la rivoluzione anarchica poichè allora saremmo i padroni noi ed il popolo, disorganizzato e quindi impotente ed incosciente, spetterebbe gli ordini nostri, Ed allora tutta l’anarchia si ridurrebbe ad una vana dichiarazione di principi mentre in pratica sarebbe sempre una piccola frazione che si servirebbe delle forze cieche della massa incosciente e sommessa per imporre le proprie idee: - e questo è l’essenza stessa dell’autorità.
Figuriamoci che domani con un colpo di mano potessimo, da noi soli, senza il concorso delle masse, sconfiggere il governo e restare padroni della situazione. Le masse che non avrebbero preso parte alla lotta e non avrebbero sperimentata la potenza delle loro forze, applaudirebbero ai vincitori e resterebbero inerti ad attendere che noi dessimo loro tutto il benessere che loro promettiamo.
Che cosa faremmo noi? O assumere di fatto se non di diritto, la dittatura, il che vorrebbe dire riconoscere l’inattuabilità delle nostre idee antigovernative e dichiararsi sconfitti in quanto anarchici o fare "per viltade il gran rifiuto"; ritirarci protestando il nostro sacro orrore del nostro comando, e lasciare che il comando lo prendano i nostri avversari.
Fu così che avvenne per ragioni del resto alquanto diverse agli anarchici spagnoli nei moti del 1873. Per un concorso di circostanze, si trovarono padroni della situazione in varie città, come per es. in S. Lucas de Barrameda e Cordova: il popolo non faceva nulla da sè ed aspettava che qualcuno comandasse il da farsi; gli anarchici non vollero prendere il comando perchè ciò era contrario ai loro principi... ed allora subentrò la reazione repubblicana prima, monarchica poi, che ristabilì il vecchio regime coll’aggravante delle persecuzioni, arresti e massacri in massa.
Andiamo tra il popolo: questa è l’unica via di salvezza. Ma non vi andiamo con la boria burbanzosa di persone che pretendono possedere il verbo infallibile e disprezzano dall’alto della loro pretesa infallibilità chi non divide le loro idee. Andiamoci per affratellarci coi lavoratori, per lottare con loro, per sacrificarsi per loro. Per avere il diritto, per avere la possibilità di reclamare dal popolo lo slancio e lo spirito di sacrifico necessario nelle grandi giornate di battaglia decisiva, bisogna aver dato al popolo prova di sè, bisogna esserci mostrati primi per coraggio e per abnegazione nelle sue piccole lotte quotidiane. Entriamo in tutte le associazioni di lavoratori, fondiamone più che possiamo, provochiamo federazioni sempre più vaste, sosteniamo ed organizziamo scioperi, propaghiamo dappertutto con tutti i mezzi, lo spirito di cooperazione e di solidarietà tra i lavoratori.
E guardiamoci dal disgustarci perchè spesso i lavoratori non comprendono o non accettano tutti i nostri ideali e stanno attaccati a vecchie forme ed a vecchi pregiudizi.
Noi non possiamo e non vogliamo aspettare, per far la rivoluzione, che le masse siano diventate socialiste-anarchiche con piena coscienza. Noi sappiamo che finchè dura l’attuale ordinamento economico politico della società, l’immensa maggioranza del popolo è condannata all’ignoranza ed all’abbrutimento e non è capace che di ribellioni più o meno cieche. Bisogna distruggere quest’ordinamento, facendo la rivoluzione come si può, colle forze che troviamo nella vita reale.
A maggior ragione noi non possiamo aspettare per organizzare i lavoratori ch’essi siano prima diventati anarchici. Come farebbero a diventarlo se lasciati soli, col sentimento d’impotenza che viene loro dall’isolamento?
Come anarchici noi dobbiamo organizzarci tra noi, tra gente perfettamente convinta e concorde: ed intorno a noi dobbiamo organizzare, in associazioni larghe, aperte, quanti più lavoratori è possibile, accettandoli quali essi sono e sforzandoci di farli progredire il più che si può.
Come lavoratori noi dobbiamo essere sempre e dappertutto coi nostri compagni di fatica e di miseria.
Ricordiamoci che il popolo di Parigi incominciò a domandare pane al re fra applausi e lacrime di tenerezza, e due anni dopo, avendone, come era naturale, ricevuto piombo invece di pane lo aveva già decapitato. E ieri ancora il popolo di Sicilia è stato sul punto di fare la rivoluzione pur plaudendo al re ed a tutta la sua famiglia.
Quegli anarchici che hanno combattuto e ridicolizzato il movimento dei "fasci", perchè essi non erano organizzati come vorremmo noi, perchè spesso si intitolavano da "Maria Immacolata" perchè avevano nelle loro sale il busto di Carlo Marx piuttosto che quello di Bakunin, ecc. han dimostrato di non avere nè senso nè spirito rivoluzionario.
Noi non siamo teneri, oh! no, per coloro che corrompono tutto col veleno parlamentare, che tutto riducono a questione di candidature e che (in buona o in mala fede, non importa) vorrebbero fare del popolo un gregge votante. Ma non è fare il giuoco di questi aspiranti deputati, e, peggio ancora, non è fare il giuoco della borghesia e del governo il predicare il disgregamento ed il lasciare in mano loro tutte le forze organizzate del proletariato?
Ravvediamoci. Il momento è solenne. Noi siam giunti ad uno di quei momenti critici della storia umana, che decidono di tutto un nuovo periodo. Da noi, che abbiamo scritto sulla nostra bandiera le parole redentrici ed inseparabili di socialismo e di anarchia, dipendono il successo e indirizzo del prossima rivoluzione.

c. Il nostro compito12

... Che cosa dobbiamo fare per metterci in grado di fare la rivoluzione nostra, la rivoluzione contro ogni privilegio ed ogni autorità, e vincere?
La tattica migliore sarebbe di fare sempre e dappertutto la propaganda delle nostre idee; di sviluppare nei proletari, con tutti i mezzi possibili, lo spirito di associazione e di resistenza e di suscitare in loro sempre crescenti pretensioni; di combattere continuamente tutti i partiti borghesi e tutti i partiti autoritari restando indifferenti alle loro querele; di organizzarci fra quanti sono convinti e si van convincendo delle nostre idee, e provvederci dei mezzi materiali necessari alla lotta; e quando fossimo arrivati ad aver la forza sufficiente per vincere, insorgere da soli, per conto nostro esclusivo, per attuare tutto intero il nostro programma, o più propriamente per conquistare a ciascuno l'intera libertà di sperimentare, praticare ed andare man mano modificando il modo di vita sociale ch’egli crede migliore.
Ma, purtroppo, questa tattica non può essere sempre rigorosamente seguita ed è impotente a raggiungere lo scopo. La propaganda non ha che un’efficacia limitata, e quando in un dato ambiente si sono assorbiti tutti gli elementi capaci per le loro condizioni morali e materiali di comprendere ed accettare un dato ordine d’idee, poco più si può fare colla parola e cogli scritti fino a che una trasformazione dell’ambiente non abbia sollevato un nuovo strato della popolazione alla possibilità di apprezzare quelle idee. L’efficacia dell’organizzazione operaia è essa pure limitata dalle ragioni stesse che si oppongono all’estendersi indefinito della propaganda; nonchè da fatti economici e morali d’ordine generale che affievoliscono o neutralizzano del tutto gli effetti della resistenza dei lavoratori coscienti.
Una forte e vasta organizzazione nostra per la propaganda e per la lotta incontra mille ostacoli in noi stessi, nella nostra mancanza di mezzi e soprattutto nelle repressioni governative. Ed anche supponendo che fosse possibile col tempo di arrivare, per mezzo della propaganda e dell’organizzazione, ad aver la forza per fare la rivoluzione da noi, direttamente per il socialismo anarchico, si producono tutti i giorni, e ben prima che noi si sia giunti ad avere quella forza, delle situazioni politiche nelle quali siamo obbligati ad intervenire sotto pena non solo di rinunziare ai vantaggi che se ne possono ricavare, ma anche di perdere ogni influenza sul popolo, di distruggere una parte del lavoro e di rendere più difficile il lavoro futuro.
Il problema dunque è di trovare il mezzo per determinare per quanto sia in noi quelle modificazioni di ambiente necessarie al progresso della nostra propaganda e di profittare delle lotte fra i vari partiti politici e di tutte le occasioni che si presentano senza rinunziare a nessuna parte del nostro programma ed in modo da facilitare ed avvicinare il trionfo.
In Italia, per esempio, la situazione è tale che è possibile, è probabile, in un tempo più o meno breve una insurrezione contro la Monarchia. Ma è certo d’altra parte che il risultato di questa prossima insurrezione non sarà il socialismo anarchico.
Dobbiamo noi prendere parte alla preparazione ed alla realizzazione di questa insurrezione e come?
Vi sono alcuni compagni i quali pensano che noi non abbiamo nessun interesse a mischiarci in un movimento, il quale lascerà intatta l'istituzione della proprietà privata e servirà solo a sostituire un governo ad un altro, a fare cioè una repubblica, la quale non sarebbe meno borghese e meno oppressiva di quello che è la monarchia. Lasciamo, essi dicono, che i borghesi e gli aspiranti al governo si rompano le corna tra di loro, e noi continuiamo per la nostra strada, facendo sempre la propaganda anti-proprietaria ed anti-autorítaria.
Ora la conseguenza di questa astensione sarebbe, prima di tutto che l'insurrezione senza il contingente delle nostre forse avrebbe meno probabilità di vincere e quindi per causa nostra potrebbe trionfare la monarchia, la quale, massime in questo momento che combatte per la vita ed è resa feroce dalla paura, preclude la via alla propaganda ed a qualsiasi progresso. Di più, facendosi il movimento senza il nostro concorso, noi non avremmo nessuna influenza sugli avvenimenti ulteriori, non potremmo cavar nulla dalle occasioni che si presentano sempre nel periodo di transizione tra un regime ed un altro, saremmo discreditati come partito di azione e non potremmo per lunghi anni fare alcuna cosa d’importanza.
Non è il caso di lasciare che i borghesi si battano tra di loro, perchè in un movimento insurrezionale la forza, per lo meno materiale, è sempre il popolo che la dà, e se noi non siamo nel movimento dividendo coi combattenti i pericoli ed i successi e cercando di trasformare il moto politico in rivoluzione sociale, esso popolo non servirà che di strumento in mano agli ambiziosi che aspirano a dominarlo.
Invece, pigliando parte all’insurrezione (insurrezione che non avremmo la forza di far da noi soli) e pigliandovi la parte più grande possibile noi avremmo la simpatia del popolo insorto, e potremmo spingere le cose più avanti che si può.
Noi sappiamo benissimo, e non cessiamo mai di dirlo e di dimostrarlo, che repubblica e monarchia si equivalgono e che tutti i governi hanno un’eguale tendenza ad allargare il loro potere e ad opprimere sempre più i governati. Ma sappiamo pure che più un governo è debole, che più è forte la resistenza ch’esso incontra nel popolo, e più grande la libertà più è grande la possibilità di progredire. Contribuendo in modo efficace alla caduta della monarchia noi potremmo opporci con più o meno efficacia alla costituzione o alla consolidazione di una repubblica, potremmo restare armati e negare ubbidienza al nuovo governo come potremmo qua e là fare dei tentativi di espropriazione e di organizzazione anarchica e comunista della società. Noi potremmo impedire che la rivoluzione si arresti al suo primo passo e che le energie popolari, svegliate dall’insurrezione, si addormentino di nuovo. Tutte cose che non potremmo fare, per ovvie ragioni di psicologia popolare, intervenendo dopo: quando l’insurrezione contro la monarchia si fosse fatta ed avesse vinto senza di noi.
Spinti da queste ragioni, altri compagni vorrebbero che noi lasciassimo da parte per il momento la propaganda anarchica e ci occupassimo solo della lotta contro la monarchia, per poi ad insurrezione vinta ricominciare il nostro lavoro speciale di anarchici. E non pensano che se noi ci confondessimo oggi coi repubblicani, lavoreremmo a beneficio della prossima repubblica, disorganizzeremmo le nostre file, confonderemmo la mente dei nostri, e non avremmo poi, quando vorremmo, la forza d’impedire che la repubblica si faccia e si fortifichi.
Fra questi due errori opposti, la via che dobbiamo seguire ci pare chiara.
Noi dobbiamo concorrere con i repubblicani, con i socialisti democratici e con qualsiasi partito antimonarchico ad abbattere la monarchia: ma dobbiamo concorrervi come anarchici, per gli interessi dell’anarchia senza scompaginare le nostre forze e confonderle con quelle degli altri, e senza prendere nessun impegno che vada oltre della cooperazione nell’azione militare.
Così solo possiamo, secondo noi, avere, nei prossimi avvenimenti, tutti i vantaggi di un’alleanza cogli altri partiti antimonarchici senza rinunziare a nessuna parte del nostro programma.

4. L’ORGANIZZAZIONE DEGLI ANARCHICI

a. Occorre dividerci... per poi riunirci13

Io tiro avanti aspettando il momento in cui potrò spiegare, nel modo in cui credo utile, la mia attività e preparandomici come meglio posso.
Questi giorni sono stato sul punto di partire per l’Italia; ma subito le cose si sono calmate ed io ho rinunziato a fare un viaggio che, secondo tutte le probabilità, si sarebbe ridotto ad una semplice gita di piacere... o di dispiacere. Naturalmente, se ulteriori notizie mi persuaderanno che c’è da fare, vado subito.
Disgraziatamente noi siamo ridotti in condizioni di non poter nulla fare, nulla iniziare da noi e dobbiamo aspettare o l’iniziativa di altri partiti o il concorso di circostanze completamente indipendenti da noi.
E ancora, quando queste iniziative o queste circostanze si presentano noi ci troviamo impreparati, disaccordi tra noi, impotenti - e lasciamo che il buon momento passi, senza aver fatto nulla.
Come uscire da questa situazione? come ridiventare un partito che agisce e fa sentire la sua influenza sul corso degli avvenimenti?
Ecco il problema. Ma per risolverlo bisogna innanzi tutto intendersi sul significato di questo "noi" che ripetiamo così spesso, senza sapere chi vi è compreso e chi ne è escluso.
Oggi siamo in tanti a chiamarci anarchici, ma v’è spesso tra un anarchico e l’altro tanta differenza che ogni intesa è impossibile e sarebbe assurda. Sicchè invece di cooperare insieme allo stesso scopo, non riusciamo che a combatterci ed a paralizzarci gli uni gli altri.
Bisogna innanzi tutto dividerci per poi riunire insieme quelli che sono d’accordo ed hanno un terreno comune di azione.
Sono degli anni che son convinto di questo bisogno e che lo vado ripetendo; ma finora non sono riuscito a nulla.
È incapacità mia? È colpa delle circostanze? Forse c’è un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Io non ho perduto però la speranza di vedere iniziato un nuovo movimento che avesse in sè le condizioni di vita e di successo che sono mancate a quel movimento che noi stessi iniziammo un 20 o 25 anni or sono e che ora, secondo me, sta agonizzando.
Questo per la questione generale. In quanto al caso speciale dell’Italia in questo momento, a me pare che se i repubblicani volessero agire, noi non potremmo far di meglio che far massa con loro. Una volta rotto il sonno in cui l’Italia pare caduta, potremmo rialzare la nostra bandiera e continuare la lotta a modo nostro e per i nostri ideali.

b. Organizzatori e antiorganizzatori14

Sono degli anni che si fa tra gli anarchici un gran discutere su questa questione. E, come avviene spesso, quando si piglia passione in una discussione ed alla ricerca della verità subentra il puntiglio di aver ragione, o quando le discussioni teoriche non sono che un tentativo per giustificare una condotta pratica ispirata da altri motivi, si è prodotta una grande confusione d’idee e di parole.
Ricordiamo di passaggio, tanto per sbarazzarcene, le semplici questioni di parole, che a volte han raggiunto le più alte cime del ridicolo, come per esempio: "noi non vogliamo l’organizzazione ma l’armonizzazione"; "siamo contrari all’associazione, ma ammettiamo l’intesa"; "noi non vogliamo segretario e cassiere, perchè sono cose autoritarie, ma incarichiamo un compagno di tenere la corrispondenza, ed un altro di custodire il denaro" - e passiamo alla discussione seria.
Vi sono tra coloro che rivendicano, con aggettivi vari o senza aggettivi, il nome di anarchici, due frazioni: i partigiani e gli avversari dell’organizzazione.
Se non possiamo riuscire a metterci d’accordo, cerchiamo almeno di comprenderci.
E prima di tutto distinguiamo, poichè la questione è triplice: l'organizzazione in generale come principio e condizione di vita sociale, oggi e nella società futura; l’organizzazione del partito anarchico; e l’organizzazione delle forze popolari e specialmente quella delle masse operaie per la resistenza contro il governo e contro il capitalismo.
La necessità dell’organizzazione nella vita sociale, e quasi direi la sinonimia tra organizzazione e società, è cosa tanto evidente che si stenta a credere come si sia potuta negare.
Per rendersene conto bisogna ricordare quale è la funzione specifica, caratteristica del movimento anarchico, e come gli uomini e i partiti sono soggetti a lasciarsi assorbire dalla questione che più direttamente li riguarda, dimenticando tutte le questioni connesse, a guardare più la forma che la sostanza, infine a vedere le cose da un lato solo e perdere così la giusta nozione della realtà.
Il movimento anarchico cominciò come reazione contro lo spirito di autorità, dominante nella società civile, nonchè in tutti i partiti e tutte le organizzazione operaie, e si è andato ingrossando man mano di tutte le rivolte sollevatesi contro le tendenze autoritarie ed accentratrici.
Era naturale quindi che molti anarchici fossero come ipnotizzati da questa lotta contro l’autorità e che, credendo, per l’influenza dell’educazione autoritaria ricevuta, che l’autorità è l'anima della organizzazione sociale, per combattere quella combattessero e negassero questa.
E veramente l’ipnotizzazione arrivò al punto da far sostenere cose veramente incredibili.
Si combatte ogni sorta di cooperazione e di intesa, ritenendo che l’associazione era l’antitesi dell’anarchia, si sostenne che senza accordi, senza obblighi reciproci, facendo ognuno quello che gli passa per il capo senza nemmeno informarsi di quello che fa l’altro, tutto si sarebbe spontaneamente armonizzato; che anarchia significa che ogni uomo deve bastare a sè stesso e farsi da sè tutto quello che gli occorre senza scambio e senza lavoro associato; che le ferrovie potevano funzionare benissimo senza organizzazione, anzi che questo avveniva di già in Inghilterra (!); che la posta non era necessaria e che chi a Parigi voleva scrivere una lettera a Pietroburgo... se la poteva portare da sè (!!), ecc. ecc.
Ma queste sono sciocchezze, si dirà, e non vale la pena di rilevarle.
Sì, ma queste sciocchezze sono state dette, stampate propagate: sono state accolte da gran parte del pubblico come l’espressione genuina delle idee anarchiche; e servono sempre come armi di combattimento agli avversari, borghesi e non borghesi, che vogliono aver di noi una facile vittoria. E poi quelle sciocchezze non mancano del loro valore, in quanto sono la conseguenza logica di certe premesse e possono servire di riprova sperimentali della verità o meno di quelle premesse.
Alcuni individui, di mente limitata ma forniti di potente spirito logico, quando hanno accettato delle premesse ne tirano tutte le conseguenze fino all’ultimo, e, se così vuole la logica, arrivano senza scomporsi alle più grandi assurdità, alla negazione dei fatti più evidenti. Ve ne sono bensì altri più colti e di spirito più largo, che trovan sempre modo di arrivare a conclusioni più o meno ragionevoli, anche a costo di strapazzare la logica; e per questi gli errori teorici hanno poca o nessuna influenza sulla condotta pratica. Ma insomma, fino a che non si rinunzia a certi errori fondamentali, si è sempre minacciati dai sillogizzatori ad oltranza, e si torna sempre da capo.
E l'errore fondamentale degli anarchici avversari dell’organizzazione è il credere che non sia possibile organizzare senza autorità - ed il preferire, ammessa quella ipotesi, piuttosto rinunziare a qualsiasi organizzazione che accettare la minima autorità.
Ora, che l’organizzazione, vale a dire l'associazione per uno scopo determinato e colle forme ed i mezzi necessari a conseguire quel fine, sia una cosa necessaria alla vita sociale ci pare evidente. L’uomo isolato non può vivere nemmeno la vita del bruto: esso è impotente, salvo nelle regioni tropicali e quando la popolazione è eccessivamente rada, a procurarsi il nutrimento; e lo è sempre, senza eccezioni, ad elevarsi ad una vita alcun poco superiore a quella degli animali. Dovendo perciò unirsi cogli altri uomini, anzi trovandosi unito in conseguenza della evoluzione antecedente della specie, esso deve, o subire la volontà degli altri (essere schiavo), o imporre la volontà propria agli altri (essere un’autorità), o vivere cogli altri in fraterno accordo in vista del maggior bene di tutti (essere un associato). Nessuno può esimersi da questa necessità; ed i più eccessivi antiorganizzatori non solo subiscono l’organizzazione generale della società in cui vivono, ma anche negli atti volontari della loro vita, anche nelle loro rivolte contro l’organizzazione si uniscono, si dividono il compito, si organizzano con quelli con cui vanno d’accordo e utilizzano i mezzi che la società mette a loro disposizione... sempre, s’intende, che si tratti di cose volute e fatte davvero e non di vaghe aspirazioni platoniche, di sogni sognati.
Anarchia significa società organizzata senza autorità, intendendosi per autorità la facoltà di imporre la propria volontà e non già il fatto inevitabile e benefico che chi meglio intende e sa fare una cosa riesce più facilmente a far accettare la sua opinione, e serve di guida, in quella data cosa, ai meno capaci di lui.
Secondo noi l'autorità non solo non è necessaria all’organizzazione sociale, ma, lungi dal giovarle, vive su di essa da parassita, ne inceppa l'evoluzione e volge i suoi vantaggi a profitto speciale di una data classe che sfrutta ed opprime le altre. Fino a che in una collettività vi è armonia d’interessi, fino a che nessuno ha voglia o modo di sfruttare gli altri, non v’è traccia d’autorità: quando viene la lotta intestina e la collettività si divide in vincitori e vinti, allora sorge l’autorità, la quale naturalmente è devoluta ai più forti e serve a confermare, perpetuare ed ingrandire la loro vittoria.
Crediamo così, e perciò siamo anarchici: chè se credessimo che non vi possa essere organizzazione senza autorità, noi saremmo autoritari, perchè preferiremmo ancora l’autorità, che inceppa ed addolora la vita, alla disorganizzazione che la rende impossibile.
Del resto, quel che saremmo noi importa poco. Se fosse vero che il macchinista ed il capotreno ed i capiservizio debbano per forza essere delle autorità, anzichè dei compagni che fanno per tutti un determinato lavoro, il pubblico amerebbe sempre piuttosto subire la loro autorità che viaggiare a piedi. Se il mastro di posta non potesse non essere un’autorità, ogni uomo sano di mente sopporterebbe l’autorità del mastro di posta, piuttosto che portar da sè le proprie lettere.
E allora ... l’anarchia sarebbe il sogno di alcuni, ma non potrebbe realizzarsi mai.

c. Necessità dell’organizzazione15

Ammessa possibile l’esistenza di una collettività organizzata senza autorità, cioè coazione - e per gli anarchici è necessario ammetterlo perchè altrimenti l’anarchia non avrebbe senso - passiamo a parlare dell’organizzazione del partito anarchico.
Anche in questo caso l’organizzazione ci sembra utile e necessaria. Se partito significa l’insieme d’individui che hanno uno scopo comune e si sforzano di raggiungere questo scopo, è naturale ch’essi s’intendano, uniscano le loro forze, si dividano il lavoro e prendano tutte le misure stimate atte a raggiungere quello scopo. Restare isolati, agendo o volendo agire ciascun per conto suo senza intendersi con altri, senza prepararci, senza unire in un fascio potente le deboli forze dei singoli, significa condannarsi all’impotenza, sciupare la propria energia in piccoli atti senza efficacia e ben presto perdere la fede nella meta e cadere nella completa inazione.
Ma anche qui la cosa ci sembra talmente evidente che, invece di insistere nella dimostrazione diretta, cercheremo di rispondere agli argomenti degli avversari dell’organizzazione
E prima di tutto ci si presenta l’obbiezione, diremo così, pregiudiziale. "Ma di quale partito ci parlate?", essi dicono, "noi non siamo un partito, noi non abbiamo programma".
E con questa forma paradossale essi intendono dire che le idee progrediscono e cambiano continuamente e che essi non vogliono accettare un programma fisso, che può essere buono oggi, ma che sarà certamente superato domani.
Ciò sarebbe perfettamente giusto se si trattasse di studiosi che cercano il vero senza curarsi delle applicazioni pratiche. Un matematico, un chimico, un psicologo, un sociologo possono dire di non aver programma o di non avere che quello di ricercare la verità: essi vogliono conoscere, non vogliono fare qualche cosa.
Ma anarchia e socialismo non sono delle scienze: sono dei propositi, dei progetti che anarchici e socialisti vogliono mettere in pratica e che perciò hanno bisogno di essere formulati in programmi determinati. La scienza e l’arte delle costruzioni progrediscono tutti i giorni; ma un ingegnere che vuol costruire, o anche demolire qualche cosa, deve fare il suo piano, raccogliere i suoi mezzi di azione e agire come se scienza ed arte si fossero arrestate al punto ove egli le trova quando dà principio ai suoi lavori. Può benissimo avvenire che egli possa utilizzare delle nuove acquisizioni fatte nel corso del lavoro senza rinunciare alla parte essenziale del suo piano; e può darsi anche che le nuove scoperte ed i nuovi mezzi creati dall’industria siano tali che egli vegga la necessità di abbandonare tutto e ricominciare da capo. Ma ricominciando, avrà bisogno di fare un nuovo piano basato su quello che si conosce e si possiede fino a quel momento, e non potrà concepire e mettersi ad eseguire una costruzione amorfa, con materiali non composti, per il motivo che domani la scienza potrebbe suggerire delle forme migliori e l’industria fornire dei materiali meglio composti.
Noi intendiamo per partito anarchico l’insieme di quelli che vogliono concorrere ad attuare l’anarchia, e che perciò han bisogno di fissarsi uno scopo da raggiungere ed una via da percorrere; e lasciamo volentieri alle loro elucubrazioni trascendentali gli amatori della verità assoluta e del progresso continuo, che non cimentando mai le loro idee alla prova dei fatti finiscono poi col far nulla e scoprir meno.
L’altra obbiezione è che l’organizzazione crea dei capi, delle autorità. Se questo è vero, se è vero cioè che gli anarchici sono incapaci di riunirsi ed accordarsi tra di loro senza sottoporsi ad un’autorità, ciò vuol dire che essi sono ancora molto poco anarchici e che prima di pensare a stabilire l’anarchia nel mondo debbono pensare a rendersi capaci essi stessi di vivere anarchicamente. Ma il rimedio non starebbe già nella non organizzazione, bensì nella cresciuta coscienza dei singoli membri.
Certamente se in un’organizzazione si lascia addosso a pochi tutto il lavoro e tutte le responsabilità, se si subisce quello che fanno i pochi senza metter mano all’opera e cercar di far meglio, quei pochi finiranno, anche se non lo vogliono, col sostituire la propria volontà a quella della collettività. Se in un’organizzazione i membri tutti non si curano di pensare, di voler capire, di farsi spiegare quello che non capiscono, di esercitare sempre su tutto e su tutti le loro facoltà critiche, e lasciano a pochi il compito di pensare per tutti, quei pochi saranno i capi, le teste pensanti e dirigenti.
Ma, lo ripetiamo, il rimedio non sta nella non organizzazione. Al contrario, nelle piccole come nella grandi società, a parte la forza brutale, di cui non può essere questione nel caso nostro, l’origine e la giustificazione dell’autorità sta nella disorganizzazione sociale. Quando una collettività ha un bisogno ed i suoi membri non sanno organizzarsi spontaneamente da loro stessi per provvedervi, sorge qualcuno, un’autorità, che provvede a quel bisogno servendosi delle forze di tutti e dirigendole a sua voglia. Se le strade sono mal sicure ed il popolo non sa provvedere, sorge una polizia che, per qualche servizio che rende, si fa sopportare e pagare, e s’impone e tiranneggia; se v’è bisogno di un prodotto, e la collettività non sa intendersi coi produttori lontani per farselo mandare in cambio di prodotti del paese, vien fuori il mercante che profitta del bisogno che hanno gli uni di vendere e gli altri di comprare, ed impone i prezzi che vuole ai produttori ed ai consumatori.
Vedete che cosa è sempre successo in mezzo a noi: meno siamo stati organizzati più ci siamo trovati alla discrezione di qualche individuo. Ed è naturale che così fosse.
Noi sentiamo il bisogno di stare in rapporto coi compagni delle altre località, di ricevere e di dare notizie, ma non possiamo ciascuno individualmente corrispondere con tutti i compagni. Se siamo organizzati, incarichiamo dei compagni di tenere la corrispondenza per conto nostro, li cambiamo se essi non ci soddisfano, e possiamo stare al corrente senza dipendere dalla buona grazia di qualcuno per avere una notizia; se invece siamo disorganizzati, vi sarà qualcuno che avrà i mezzi e la voglia di corrispondere e accentrerà nelle sue mani tutte le relazioni, comunicherà le notizie secondo che gli pare ed a chi gli pare, e, se ha attività ed intelligenza sufficienti, riuscirà a nostra insaputa a dare al movimento l’indirizzo che vuole senza che a noi, alla massa del partito, resti alcun mezzo di controllo, e senza che nessuno abbia il diritto di lagnarsi, poichè quell’individuo agisce per conto suo, senza mandato di alcuno e senza dover rendere conto ad alcuno del proprio operato.
Noi sentiamo il bisogno di avere un giornale. Se siamo organizzati potremo riunire i mezzi per fondarlo e farlo vivere, incaricare alcuni compagni di redigerlo, e controllarne l’indirizzo. I redattori del giornale gli daranno certamente, in modo più o meno spiccato, l’impronta della loro personalità, ma saranno sempre gente che noi abbiamo scelta e che possiamo cambiare se non ci accontenta. Se invece siamo disorganizzati, qualcuno che ha sufficiente spirito d’intrapresa farà il giornale per conto proprio: egli troverà in mezzo a noi i corrispondenti, i distributori, i sottoscrittori, e ci farà concorrere ai suoi fini senza che noi li sappiamo o vogliamo; e noi, come è spesso avvenuto, accetteremo o sosterremo quel giornale anche se non ci piace, anche se troviamo che è dannoso alla causa, perchè saremo impotenti a farne uno che rappresenti meglio le nostre idee.
Cosicché l’organizzazione, lungi dal creare l’autorità, è il solo rimedio contro di essa ed il solo mezzo perchè ciascun di noi si abitui a prender parte attiva e cosciente nel lavoro collettivo, e cessi di essere strumento passivo in mano dei capi.
Che se poi non si fa nulla di nulla e tutti restano nell’inazione completa, allora certamente non vi saranno nè capi nè gregari, nè comandanti nè comandati, ma allora finiranno la propaganda, il partito, ed anche le discussioni intorno all’organizzazione... e questo, speriamo, non è l’ideale di nessuno.
Ma un’organizzazione, si dice, suppone l’obbligo di coordinare la propria azione e quella degli altri, quindi viola la libertà, inceppa l’iniziativa. A noi sembra che quello che veramente leva la libertà e rende impossibile l’iniziativa è l’isolamento che rende impotente. La libertà non è il diritto astratto, ma la possibilità di fare una cosa: questo è vero tra di noi, come è vero nella società generale. È nella cooperazione degli altri uomini che l’uomo trova i mezzi per esplicare la sua attività, la sua potenza d’iniziativa.
Certamente, organizzazione significa coordinazione di forze ad uno scopo comune ed obbligo negli organizzati di non fare cosa contraria allo scopo. Ma quando si tratta di organizzazioni volontarie, quando coloro che stanno nella stessa organizzazione hanno veramente lo stesso scopo e sono partigiani degli stessi mezzi, l’obbligo reciproco che impegna tutti riesce vantaggioso per tutti; e se qualcuno rinunzia a qualche sua idea particolare in omaggio all’unione, ciò vuol dire che trova più vantaggioso rinunziare ad un’idea, che d’altronde da solo non potrebbe attuare, anzichè privarsi della cooperazione degli altri nelle cose ch’egli crede di maggiore importanza.
Se poi un individuo trova che nessuna delle organizzazioni esistenti accetta le sue idee ed i suoi metodi in ciò che hanno di essenziale, e che in nessuna potrebbe esplicare la sua individualità come egli l’intende; allora farà bene a restarne fuori; ma allora, se non vuole rimanere inattivo ed impotente, deve cercare altri individui che pensano come lui e farsi iniziatore di una nuova organizzazione.
Un’altra obbiezione, ed è l’ultima di cui ci intratterremo, è che essendo organizzati siamo più esposti alle persecuzioni del governo.
A noi pare invece che quando più si è uniti tanto più ci si può difendere efficacemente. Ed infatti ogni volta che le persecuzioni ci han sorpresi mentre eravamo disorganizzati ci hanno completamente sbaragliati ed hanno ridotto a nulla il nostro lavoro antecedente; mentre quando e dove eravamo organizzati ci hanno fatto più bene che male. Ed è lo stesso anche per quel che riguarda l’interesse personale dei singoli: basti l’esempio delle ultime persecuzioni che hanno colpito gli isolati tanto quanto gli organizzati e forse anche più gravemente. Questo, s’intende, per quelli che, isolati o no, fanno almeno la propaganda individuale; chè per quelli che non fanno nulla e tengono ben nascoste le loro convinzioni, certamente il pericolo è poco, ma è anche meno l’utilità che danno alla causa.
Il solo risultato, dal punto di vista delle persecuzioni, che si ottiene stando disorganizzati, si è di autorizzare il governo e negarci il diritto di associazione ed a rendere possibili quei mostruosi processi per associazione a delinquere, che esso non oserebbe fare contro la gente che afferma altamente, pubblicamente, il diritto e il fatto di stare associata, o che, se il governo l’osasse, risulterebbero a scorno suo e a vantaggio della propaganda.
Del resto, è naturale che l’organizzazione prenda le forme che le circostanze consigliano ed impongono. L’importante non è tanto l’organizzazione formale, quanto lo spirito di organizzazione. Possono esservi dei casi in cui per l’imperversare della reazione, sia utile sospendere ogni corrispondenza, cessare da ogni riunione: sarà sempre un danno, ma se la voglia di essere organizzati sussiste, se resta vivo lo spirito di associazione, se il periodo antecedente di attività coordinata avrà moltiplicate le relazioni personali, prodotte solide amicizie e creato un vero accordo d’idee e di condotta tra i compagni, allora il lavoro degl’individui anche isolati concorrerà allo scopo comune, e presto si troverà modo di riunirsi di nuovo e riparare al danno subito.
Noi siamo come un esercito in guerra e possiamo, secondo il terreno e secondo le misure prese dal nemico, combattere in grandi masse o in ordine sparso: l’essenziale è che ci consideriamo sempre membri dello stesso esercito, che ubbidiamo tutti alle stesse idee direttive e siamo sempre pronti a riunirci in colonne compatte quando occorre e si può.
Tutto questo che abbiamo detto è per quei compagni che realmente sono avversari del principio di organizzazione. A quelli poi che combattono l’organizzazione solo perchè non vogliono entrare, o non sono accettati, in una determinata organizzazione, e perchè non simpatizzano con gli individui che ne fanno parte, noi diciamo: fate da voi, con quelli che sono d’accordo con voi, un’altra organizzazione. Noi ameremmo certo poter andare tutti d’accordo e riunire in un fascio potente tutte quante le forze dell’anarchismo; ma non crediamo nella solidità delle organizzazioni fatte a forza di concessioni e di sottintesi e dove non v’è tra i membri accordo e simpatia reali. Meglio disuniti che malamente uniti. Peró vorremmo che ciascuno si unisse coi suoi amici e non vi fossero forze isolate, forze perdute.

d. L’organizzazione come condizione della vita sociale16

L’organizzazione, che poi non è altro che la pratica della cooperazione e della solidarietà, è condizione naturale, necessaria della vita sociale: è un fatto ineluttabile che s’impone a tutti, tanto nella società umana in generale, quanto in qualsiasi gruppo di persone che hanno uno scopo comune da raggiungere.
Non volendo e non potendo l’uomo vivere isolato, anzi non potendo esso diventare veramente uomo e soddisfare i suoi bisogni materiali e morali se non nella società e colla cooperazione dei suoi simili, avviene fatalmente che quelli che non hanno i mezzi o la coscienza abbastanza sviluppata per organizzarsi liberamente con coloro con cui hanno comunanza d’interessi e di sentimenti, subiscono l’organizzazione fatta da altri individui, generalmente costituiti in classe o gruppo dirigente, allo scopo di sfruttare a proprio vantaggio il lavoro degli altri. E l’oppressione millenaria delle masse da parte di un piccolo numero di privilegiati è stata sempre la conseguenza della incapacità della maggior parte degl’individui di accordarsi, di organizzarsi con gli altri lavoratori per la produzione, per il godimento e per la eventuale difesa contro chi volesse sfruttarli ed opprimerli.
Per rimediare a questo stato di cose è sorto l’anarchismo, il cui principio fondamentale è l’organizzazione libera, fatta e mantenuta dalla libera volontà degli associati senza nessuna specie di autorità, cioè senza che nessuno abbia il diritto di imporre agli altri la propria volontà. Ed è quindi naturale che gli anarchici cerchino di applicare nella loro vita privata e di partito quello stesso principio, su cui, secondo loro, dovrebbe essere fondata tutta quanta la società umana.
Da certe polemiche può sembrare che vi siano degli anarchici refrattari, ad ogni organizzazione; ma in realtà le molte, le troppe discussioni che si fanno tra noi sull’argomento, anche se oscurate da questioni di parole, o avvelenate da questioni personali, in fondo riguardano il modo e non già il principio di organizzazione. Così avviene che dei compagni che a parole sono i più avversi all’organizzazione, quando vogliono davvero fare qualche cosa, si organizzano come, e spesso meglio degli altri. La questione, ripeto, sta tutta nel modo.
Io credo soprattutto necessario, urgente, che gli anarchici s’intendano, si organizzino il più ed il meglio possibile per influire sulla via che seguono le masse nelle loro lotte per i miglioramenti e l’emancipazione.
Oggi la più grande forza di trasformazione sociale è il movimento operaio (movimento sindacale), e dal suo indirizzo dipende in gran parte il corso che prenderanno gli avvenimenti e la mèta a cui arriverà la prossima rivoluzione. Per mezzo delle organizzazioni, fondate per la difesa dei loro interessi, i lavoratori acquistano la coscienza dell’oppressione in cui giacciono e dell’antagonismo che li divide dai loro padroni, incominciano ad aspirare ad una vita superiore, si abituano alla lotta collettiva ed alla solidarietà, e possono riuscire e conquistare quei miglioramenti che sono compatibili con la persistenza del regime capitalistico e statale. Dopo, quando il conflitto diventa insanabile, viene o la rivoluzione, o la reazione. Gli anarchici debbono riconoscere l’utilità e l’importanza del movimento sindacale, debbono favorirne lo sviluppo, e farne una delle leve della loro azione, facendo tutto quello che possono perchè esso, in cooperazione colle altre forze di progresso esistenti, sbocchi in una rivoluzione sociale che porti alla soppressione delle classi, alla libertà totale, all’eguaglianza, alla pace ed alla solidarietà fra tutti gli esseri umani. Ma sarebbe una grande e letale illusione il credere, come fanno molti, che il movimento operaio possa e debba da se stesso, in conseguenza della sua stessa natura, menare ad una tale rivoluzione. Al contrario, tutti i movimenti fondati sugl’interessi materiali ed immediati (e non si può fondare su altre basi un vasto movimento operaio), se manca il fermento, la spinta, l’opera concertata degli uomini d’idee, che combattono e si sacrificano in vista di un ideale avvenire, tendono fatalmente ad adattarsi alle circostanze, fomentano lo spirito di conservazione e la paura di cambiamenti in quelli che riescono ad ottenere condizioni migliori, e finiscono spesso col creare nuove classi privilegiate e servire a far sopportare e consolidare il sistema che si vorrebbe abbattere.
Di qui la necessità impellente di organizzazioni prettamente anarchiche che dentro, come fuori dei sindacati lottino per la realizzazione integrale dell’anarchismo e cerchino di sterilizzare tutti i germi di degenerazione e di reazione.
Ma è evidente che per conseguire i loro scopi le organizzazioni anarchiche debbono essere, nella loro costituzione e nel loro funzionamento, in armonia coi principi dell’anarchismo, e cioè che non siano in nessun modo inquinate da spirito autoritario, che sappiano conciliare la libera azione degl’individui con la necessità ed il piacere della cooperazione, che servano a sviluppare la coscienza e la capacità d’iniziativa dei loro membri, e siano un mezzo educativo per l’ambiente in cui operano ed una preparazione morale e materiale per l’avvenire che desideriamo.

e. Caratteri dell’organizzazione antiautoritaria17

Un’organizzazione anarchica deve essere fondata secondo me.... (sulle seguenti basi).
Piena autonomia, piena indipendenza e quindi piena responsabilità, degl’individui e dei gruppi; accordo libero tra quelli che credono utile unirsi per cooperare ad uno scopo comune; dovere morale di mantenere gl’impegni presi e di non far nulla che contraddica al programma accettato. Su queste basi si adottano poi le forme pratiche, gli strumenti adatti per dar vita reale all’organizzazione. Quindi i gruppi, le federazioni di gruppi, le federazioni di federazioni, le riunioni, i congressi, i comitati incaricati della corrispondenza o altro. Ma tutto questo deve esser fatto liberamente in modo da non inceppare il pensiero e l’iniziativa dei singoli, e solo per dare maggiore portata agli sforzi che, isolati, sarebbero impossibili o di poca efficacia.
Così i congressi in un’organizzazione anarchica, pur soffrendo come corpi rappresentativi di tutte le imperfezioni che non fanno la legge, non impongono agli altri le proprie deliberazioni. Essi servono a mantenere ed aumentare i rapporti personali fra i compagni più attivi, a riassumere e fomentare gli studi programmatici sulle vie e sui mezzi d’azione, e far conoscere a tutti le situazioni delle diverse regioni e l’azione che più urge in ciascuna di esse, a formulare le varie opinioni correnti tra gli anarchici e farne una specie di statistica - e le loro decisioni non sono regole obbligatorie, ma suggerimenti, consigli, proposte da sottoporre a tutti gli interessati, e non diventano impegnative ed esecutive se non per quelli che le accettano e finche le accettano. Gli organi amministrativi che essi nominano - Commissione di corrispondenza, ecc. - non hanno nessun potere direttivo, non prendono iniziative se non per conto di chi quelle iniziative sollecita ed approva e non hanno nessuna autorità, per imporre le proprie vedute, che essi possono certamente sostenere e propagare come gruppi di compagni, ma non possono presentare come opinione ufficiale dell’organizzazione. Essi pubblicano le risoluzioni dei congressi e le opinioni e le proposte che gruppi e individui comunicano loro; e servono, per chi se ne vuol servire, a facilitare le relazioni fra i gruppi e la cooperazione tra quelli che son d’accordo sulle varie iniziative: libero chi crede di corrispondere direttamente con chi vuole, o di servirsi di altri comitati nominati da speciali aggruppamenti.
In un’organizzazione anarchica i singoli membri possono professare tutte le opinioni e usare tutte le tattiche che non sono in contraddizione coi principi accettati e non nuocciono all’attività degli altri. In tutti i casi una data organizzazione dura fino a che le ragioni di unione sono superiori alle ragioni di dissenso: altrimenti si scioglie e lascia luogo ad altri aggruppamenti più omogenei.
Certo la durata, la permanenza di un’organizzazione è condizione di successo nella lunga lotta che dobbiamo combattere e d’altronde è naturale che qualunque istituzione aspira, per istinto, a durare indefinitivamente. Ma la durata di una organizzazione libertaria deve essere la conseguenza dell’affinità spirituale dei suoi componenti e dell’adattabilità della sua costituzione ai continui cambiamenti delle circostanze: quando non è più capace di compiere una missione utile meglio che muoia.
2. Antiparlamentarismo ed elezionismo

1. LA TRUFFA PARLAMENTARE18

a. L’inefficienza dei parlamenti e i problemi del movimento operaio.

Il socialismo fin dal suo nascere, coll’arme della critica positiva, che si appoggia sui fatti e dei fatti cerca le cause e prevede le conseguenze, aveva fatto giustizia del suffragio universale e di tutta quanta la menzogna parlamentare. Che se non lo avesse fatto, esso non avrebbe avuto ragion di esistere come idea e partito nuovo: e si sarebbe confuso con l’assurda utopia liberale, che aspetta l’armonia, la pace, ed il benessere generale della lotta, liberamente combattuta (sic), tra gente armata di tutta la ricchezza e di tutta la forza sociale e poveri derelitti cui manca il tozzo di pane.
Il socialismo, nell’accezione più larga e più autentica della parola, significa la società fatta strumento di libertà, di benessere e di sviluppo progressivo ed integrale per tutti i membri, per tutti quanti gli esseri umani. Partendo dalla verità fondamentale che l’evoluzione delle facoltà morali ed intellettuali presuppone la soddisfazione dei bisogni materiali, e che non può esservi libertà dove non v’è uguaglianza e solidarietà, esso riconobbe che la servitù in tutte le sue forme, politica, morale e materiale, deriva dalla dipendenza economica del lavoratore dai detentori della materia prima e degli strumenti da lavoro. E dopo aver cercato a tentoni la sua strada, e prodotta una serie di progetti artificiosi ed utopistici, trovò infine la sua base saldissima nel principio, scientificamente dimostrato, della giustizia, utilità e necessità della socializzazione della ricchezza e del potere.
Trovato il fine, urgeva occuparsi delle vie e mezzi per raggiungerlo. E non appena il socialismo, uscito dal periodo della speculazione astratta, incominciò a penetrare in mezzo alle masse sofferenti ed a fare le sue prime armi nelle lotte pratiche della vita, i socialisti s’accorsero che si trovavano stretti in un cerchio di ferro, che solo poteva rompersi colla diretta azione delle masse.
Impossibile esser liberi (il socialismo lo aveva dimostrato) senza essere economicamente indipendenti; e d’altra parte, come si può arrivare all’indipendenza economica se si è schiavi?
Il popolo, spogliato di tutto ciò che la natura ha creato per il sostentamento dell’uomo e di tutto quello che il lavoro umano ha aggiunto all’opera della natura, dipende per la sua vita dal beneplacito dei proprietari e si trova ridotto dalla miseria all’avvilimento ed all’impotenza. E per consolidare e difendere questo stato di cose, stanno i governi con tutta la forza degli eserciti, delle polizie e delle finanze.
Quale mezzo legale di emancipazione, quando la legge è tutta quanta intesa a difendere lo stato di cose che si dovrebbero distruggere?
Non l’azione politica legale delle masse, che tutta si riassume nel voto, poichè quest’arma per avere un valore qualsiasi, suppone già nella maggioranza numerica del popolo quella coscienza ed indipendenza, che si tratta appunto di rendere possibile e di conquistare. E d’altronde la borghesia e per essa i governi non concedono il voto che quando si sono persuasi della sua innocuità, o quando, di fronte alla attitudine minacciosa del popolo, lo considerano un mezzo opportuno per sviarlo ed addormentarlo, caso in cui sarebbe, da tutti i punti di vista, una sciocchezza il contentarsene. Concessolo, sanno giocarlo e dominarlo, e, se per avventura si mostrasse indocile, possono sopprimerlo. Al popolo non resta altra risorsa che quella della rivoluzione, che il voto avrebbe dovuto rendere inutile.
Non gli espedienti economici legali - mutuo soccorso, risparmio, cooperative, scioperi - poichè la potenza schiacciante e sempre crescente del capitale, appoggiata, ove occorra, dalla forza delle baionette, e le condizioni materiali e morali in cui essa ha ridotto il proletariato, li rendono dei mezzi impotenti, illusori, o semplicemente ridicoli.
Non vi sono dunque che due vie di uscita. O la rinuncia volontaria delle classi dominanti al possesso esclusivo della ricchezza ed a tutti i privilegi di cui godono sotto l’influenza dei buoni sentimenti che la propaganda socialista può far nascere in esse: oppure la rivoluzione, l'azione diretta delle masse, eccitata e mossa dalla minoranza cosciente che si va organizzando nelle file del partito socialista.
La prima di queste vie, in cui dei generosi quanto ingenui filosofi credettero un momento, è dimostrata una speranza illusoria, nonchè da tutta quanta la storia passata, dall’esperienza sanguinosa dei fatti contemporanei...
Restava la rivoluzione; e tutti i socialisti, che del socialismo non facevano un oggetto di distrazione contemplativa ma un programma pratico che volevano al più presto possibile vedere attuato, furono rivoluzionari.
I socialisti erano bensì divisi in due grandi frazioni rispondenti a due correnti d’idee. Gli uni, autoritari, volevano servirsi per emancipare il popolo dello stesso meccanismo che ora lo tiene sottomesso, e si proponevano la conquista del potere politico. Gli altri, gli anarchici, considerando che lo Stato non ha ragione di essere se non in quanto rappresenta e difende gli interessi d’una classe o di una consorteria e che scompare quando, per l’universalizzazione del potere e dell’iniziativa, si confonde colla totalità dei cittadini, si proponevano la distruzione del potere politico.
Gli uni volevano impadronirsi del governo e decretare, con forme e modi dittatoriali, la messa in comune del suolo e degli strumenti del lavoro ed organizzare dall’alto la produzione e distribuzione socialistica. Gli altri volevano abbattere simultaneamente potere politico e proprietà individuale, e organizzare la produzione, il consumo e tutta la vita sociale per mezzo dell’opera diretta e volontaria di tutte le forze e di tutte le capacità, che esistono nell’umanità e che cercano naturalmente di esplicarsi ed attuarsi.
Ma tutti, lo ripetiamo, volevano la rivoluzione, l’appello alla forza; e per maturare la rivoluzione volevano e praticavano la propaganda indefessa delle verità scoperte dal socialismo, l’organizzazione delle forze coscienti del proletariato...
La lotta sarebbe stata senza dubbio lunga e faticosa, ma la via era tracciata e si sarebbe arrivati direttamente alla vittoria piena e completa. Ma ecco che, contraddicendo a tutte le tendenze del programma ed alla propaganda che essi stessi avevano menato con zelo ed intelligenza, alcuni socialisti credettero bene di mettersi nelle vie tortuose e senza uscita del parlamentarismo.
Il socialismo, al principio deriso e negato, poscia combattuto con accanimento, già diventava potente assai perchè i borghesi vi vedessero un pericolo serio ed una forza di cui bisognava contare. Gli uni, i soddisfatti, credettero opportuno aggiungere alle persecuzioni ed ai massacri l’arme della corruzione e dell’inganno; mentre gli altri, quelli che sotto il nome di democratici aspiravano ad impadronirsi del governo, pensarono a mistificarlo e servirsene.
D’altra parte vi erano dei socialisti i quali si trovarono disposti ad accordarsi a quella borghesia che fieramente avevano combattuta. O stanchi della lotta e domati dalle persecuzioni: o perchè in essi il sentimento socialista e rivoluzionario non era in realtà mai penetrato al disotto dell’epidermide e spariva col raffreddarsi dei primi entusiasmi giovanili; o perchè avevano immaginato che la vittoria fosse facile e vicina ed erano sconcertati dalla scoperta di ostacoli non sospettati, essi cercavano, forse anche senza rendersene conto esatto, un’occasione, un pretesto decente per piegare bandiera e farsi accogliere in mezzo al campo nemico...
Il terreno comune su cui si incontrarono i borghesi, che cercavano di corrompere, e quei socialisti, che cercavano di essere corrotti, fu l’urna elettorale. Nè il danno sarebbe stato grande. Ma i traditori, gli ambiziosi e gli stanchi riuscirono purtroppo a trascinare all’urna molti buoni, che credevano sinceramente di acquistare una nuova arma di lotta contro la borghesia, e di avvicinare con quel mezzo l’avvenimento della rivoluzione.
Naturalmente per mascherare la manovra il passaggio si fece a gradi.
Al principio non s’infirmò nessuna delle conclusioni acquisite al programma socialista. L’espropriazione per mezzo della rivoluzione, si andava ripetendo, è l’unico mezzo per emanciparsi: il suffragio universale, la repubblica e tutte quante le riforme politiche lasciano il tempo che trovano e non sono che tranelli tesi all’ingenuità popolare. Però, s’insinuava dolcemente, qualche bene se ne può cavare: profittiamo di tutto, serviamoci come armi delle concessioni che possiamo strappare al nemico, allarghiamo il nostro campo d’azione, cessiamo dal roderci nella nostra impotenza, siamo pratici. E tosto si mise avanti il progetto di andare all’urna, scopo a cui tendeva ed in cui si riduceva tutto quel preteso allargamento di tattica. Ma siccome non s’osava ancora rinnegare tutto il detto sulla inutilità della lotta elettorale e sull’azione corruttrice dell’ambiente parlamentare, si disse che bisognava votare semplicemente per contarsi, quasi che fosse necessario andare all’urna e farsi contare dal nemico per giudicare dei progressi del partito. E per affettare scrupolosità si parlò di votare un bollettino in bianco, o per dei morti o per degli ineleggibili. Poi, senza aver l’aria di nulla, i morti diventarono vivi e gl’ineleggibili si trasformarono in persone che al parlamento potevano e volevano andarci e restarci. Ma non si osava ancora confessarlo: si trattava sempre di candidature di protesta: gli eletti non entrerebbero in parlamento, rifiuterebbero il giuramento là dove era richiesto, o c’entrerebbero per sputare in faccia alla borghesia l’infamia sua, e farsi scacciare come nemico che non transige. Poi nemmeno più questo. In parlamento bisognava andarci per profittare della tribuna parlamentare, per scoprire e denunciare al popolo i dietro scena della politica, per avere dei posti avanzati nel campo nemico, dei posti presi nella cittadella borghese.
Il deputato socialista non doveva essere legislatore, non doveva aver nessun legame coi deputati della borghesia, ma stare in parlamento come spettro minaccioso della rivoluzione sociale in mezzo a coloro che vivono dei sudori e del sangue del popolo.
Ma che!... oramai si stava sulla china e bisognava andare fino in fondo. Il partito rivoluzionario, che entrava in parlamento, doveva diventar riformista, e lo diventò.
L’emancipazione integrale, cominciarono a dire, è una bella cosa, ma è come il paradiso: una cosa lontana e che nessuno ha visto mai. Il popolo ha bisogno di miglioramenti immediati. Meglio poco che nulla. La rivoluzione sarà tanto più facile quanto più concessioni ci saranno strappate alla borghesia.
Senza contar quelli, pochi, del resto, che hanno saltato il fosso ed affermano addirittura che si può raggiungere lo scopo per evoluzione pacifica.
E s’invocò la scienza, quella povera scienza che s’accomoda a tutte le salse, per sofisticare all’infinito sul tema evoluzione e rivoluzione; quasichè vi fosse alcuno che neghi l’evoluzione, e la questione non fosse piuttosto sulla specie di evoluzione, che più corrisponde al fine socialista e che quindi i socialisti devono propugnare.
La rivoluzione non è essa stessa che un modo di evoluzione; modo rapido e violento, che si produce, spontaneo o provocato, quando i bisogni e le idee prodotte da una evoluzione precedente non trovano più possibilità di soddisfarsi, o quando i mezzi accaparrati da alcuno fanno sì che l’evoluzione oramai si svolgerebbe in senso regressivo, se non intervenisse a rimetterla in via una forza nuova: l’azione rivoluzionaria...
Non ritorneremo sulla impotenza del suffragio universale e del parlamentarismo a risolvere la questione sociale, nè sulla futilità di tutte le riforme non fondate sull’abolizione della proprietà individuale, poichè questo deve essere già una cosa provata per chi è socialista; e noi in questo opuscolo non dobbiamo difendere i principi socialisti, ma supporli già dimostrati.
Però, siccome la ragione od il pretesto che serve a certi socialisti per pigliar parte alle elezioni e per farsi mandare al parlamento, è il vantaggio che ne potrebbe venire alla propaganda, noi insisteremo sul danno che invece la propaganda ne risente.
D’ordinario coloro che vantano l’utilità di avere dei socialisti nei parlamenti e negli altri corpi elettivi, ragionano come se per essere eletto bastasse il volerlo. Noi avremmo là, essi dicono, degli uomini che godrebbero del diritto di viaggiare gratis o di altri vantaggi economici, che permetterebbero loro di dedicarsi con maggiore efficacia alla propaganda; degli uomini che potrebbero osservar da vicino le magagne del mondo politico e denunziarle al pubblico, e che potrebbero, soprattutto, servirsi della tribuna parlamentare per difendere i principi socialisti, e costringere tutto il paese a studiarli e discutere. Perchè rinunciare a questi benefizi?
Innanzi tutto v’è una pregiudiziale: conserveranno gli eletti il programma che avevano da candidati, e metteranno a difenderlo la stessa energia che vi mettevano prima? Certamente sarebbe bello, onorevole per la natura umana, il poter affermare che qualunque fossero le convinzioni di ciascuno ed il metodo di lotta prescelto, mai verrebbero meno la sincerità ed il coraggio. Ma la prova è fatta; e disgraziatamente, quando si pensa alla condotta ignobile e vile che han tenuto, in ogni dove, tutti, o quasi, i deputati socialisti, non è possibile serbare tali illusioni.
L’ambiente parlamentare corrompe, e l’operaio ed il rivoluzionario cessano di essere tali pel solo fatto di essere diventati deputati. Del resto non c’è da meravigliarsene.
Voi prendete un lavoratore, lo tirate fuori del suo ambiente, lo sottraete al lavoro, lo allontanate da voi, di cui egli vedeva e divideva la miseria, lo mandate in mezzo ai signori, in mezzo al bel mondo dove si gode e non si lavora, lo esponete a tutte le tentazioni: e poi vi meravigliate ch’egli si adatti ad un ambiente ben più confortante di quello in cui viveva prima, ch’egli cerchi di assicurarsi l’insolito benessere, e dimentichi presto o tardi i suoi fratelli di miseria e gl’impegni contratti con essi? Voi prendete un rivoluzionario abituato ad essere palleggiato di prigione in prigione, ne fate un legislatore; e poi siete sorpresi s’egli si lascia ammansire dal tepore di una libertà ed una sicurezza personali mai godute? E d’altronde, il sentimento dell’impotenza, in mezzo a gente assolutamente refrattaria alla sua influenza, non spingerà anche chi è perfettamente sincero, a far concessioni e transizioni, colla speranza di potere almeno ottenere qualche cosa?
Ma mettiamo pure che nessuno si corrompa, e che gli uomini siano tutti eroi... anche quelli che smaniano per esser deputati.
Però come si può riuscire a mandare dei socialisti al parlamento? La maggioranza degli elettori non è socialista, nemmeno a fabbricarsi un collegio elettorale apposta; che se lo fosse, allora non avrebbe bisogno di nominare dei deputati, ma potrebbe, anche quando tutte le altre circoscrizioni fossero reazionarie, in mille modi più efficaci attaccare il regime borghese ed essere un centro d’irradiazione socialista. Per formarsi dunque una maggioranza bisogna transigere, allearsi con questo o con quello, mistificare il programma, promettere riforme immediate, far credere una cosa a questo ed un’altra a quello, fare in modo che la borghesia vi tolleri, che il governo non vi combatta troppo acerbamente. E allora che diventa la propaganda socialista?
D’altra parte, siccome ogni uomo si stima onesto e quasi tutti si stimano capaci, così avviene che quasi ognuno che sa dire due parole, si considera in cuor suo deputabile quanto un altro; alla nobile ambizione di far il bene e di essere il primo nei rischi e nei sacrifici si sostituisce a poco a poco, col pretesto del bene generale, la bassa ambizione degli onori e dei privilegi; e nascono le rivalità tra i compagni, le gelosie ed i sospetti. La propaganda dei principi cede il passo alla propaganda delle persone; la rinascita delle candidature diventa il grande, anzi l’unico interesse del partito; e una turba di politicanti, che vedono nel socialismo un mezzo come un altro per farsi strada, si gettano in mezzo al popolo e mistificano e corrompono programma e partito.
E che diremo della speranza di ottenere per mezzo dei deputati socialisti delle riforme che possano, aspettando il meglio, lenire i dolori del popolo e levar degli ostacoli dal suo cammino? I privilegiati non cedono che alla forza od alla paura. Se anche nel regime attuale è possibile un qualche miglioramento, il solo modo per ottenerlo è di agitarsi fuori e contro i corpi costituzionali, mostrando la ferma decisione di volerlo a qualunque costo. Affidare ai deputati il patrocinio della volontà popolare serve solo per fornire al governo il mezzo di eluderla e per trastullare il popolo con vane speranze.

b. Le menzogne del socialismo legalitario e le insidie della democrazia borghese

Fra le due frazioni in cui si divideva il partito socialista, gli autoritari dovevano naturalmente sentire minor ripugnanza per la tattica parlamentare poichè (salvo l’intermezzo di un periodo rivoluzionario nel quale per via dittatoriale si sarebbe trasformata la costituzione economica della società) la forma politica cui essi aspiravano era una forma qualsiasi di parlamentarismo. Conservare nel popolo il rispetto del principio di autorità, e sviluppare in lui l’abitudine di abbandonare in mano altrui la propria iniziativa e la propria forza, poteva entrare nelle loro mire, poichè avrebbe facilitato il loro compito il giorno in cui fossero riusciti ad afferrare il potere.
Ma accettando, di fatto se non in teoria il parlamentarismo nell’attuale ambiente economico, e sperando e facendo sperare delle riforme e dei miglioramenti dall’opera dei poteri legali, essi cessarono di essere rivoluzionari, cessarono in pratica di essere socialisti e divennero, o van diventando, dei semplici democratici, repubblicani dove c’è la repubblica, monarchici dove c’è la monarchia, di cui tutto il programma si riduce al suffragio universale... salvo, ne conveniamo, le aspirazioni teoriche, che il suffragio non potrà mai attuare.
È la logica della situazione che s’impone. Repubblicani e monarchici democratici dicono: che il popolo faccia la sua volontà... a mezzo delle assemblee elette a suffragio universale. E le assemblee fanno la volontà dei proprietari, dei preti e dei politicanti, di cui sono e saranno composte fino a quando dureranno le attuali condizioni economiche.
I socialisti dovrebbero rispondere, sotto pena di non esser più socialisti, che il popolo non può fare quello che vuole, nè saprà quello che deve volere fino a quando sarà economicamente schiavo. Ma avendo per necessità elettorali e per convenienze personali, prima trascurata e poi combattuta, più o meno apertamente, la propaganda rivoluzionaria, che cosa restava loro se non accettare il terreno che offrivan loro gli avversari naturali del socialismo? Ed essi lo hanno accettato, e fino al punto da dimenticare spesso anche le affermazioni teoriche, che restavano l’unica platonica differenza tra loro ed i democratici borghesi.
Per gli anarchici era un’altra cosa. Per essi che negano la delegazione del potere e fanno appello all’azione libera e diretta di tutti, la "nuova tattica" oltre a far trascurare la propaganda socialista e rivoluzionaria e gettare il partito nelle braccia dei borghesi, aveva pure il torto grandissimo di dare alla parte cosciente delle masse un’educazione diametralmente opposta allo scopo che gli anarchici vogliono raggiungere, poichè abitua a fidare negli altri e restare inerti. E perciò gli anarchici, come partito, restarono incolumi dalla lebbra parlamentare. Coloro, che per le ragioni da noi accennate ne furono tocchi, cessarono di essere anarchici, si unirono ai socialisti autoritari, ed insieme con questi precipitarono giù fino nei bassi fondi del politicume borghese.
A causa dei voltafaccia, dei tradimenti, delle transazioni e delle inverosimili coalizioni che produsse la tattica parlamentare, vi fu nel campo socialista un lungo periodo d’incertezza e di confusione che paralizzò lo slancio del movimento: ma oggi la posizione ritorna limpida e chiara.
L’evoluzione delle idee e dei fatti, la logica del metodo, l’influenza determinante che i mezzi adoperati esercitano sul fine da raggiungersi hanno fatto sì che ormai di vero socialismo non v’è più che il socialismo anarchico, che è di sua natura antiparlamentare e rivoluzionario.
Questo se si piglia la parola socialismo nel senso che gli han dato i suoi apostoli ed i suoi martiri, e che ne ha fatto la leva potente che rovescerà il mondo borghese. Che se poi il significato della parola socialismo dovesse seguire la marcia indietro, che precipitosamente stanno compiendo i parlamentaristi, e dovesse significare quella ibrida accozzaglia di riforme burlesche, di contraddittorie aspirazioni, di menzogne impudenti, che forma la base dei programmi elettorali "socialisti", allora potrebbero certo esser socialisti Guglielmo di Germania e Leone XIII e tutti i deputati e consiglieri "socialisti"; - ma non lo furono quelli che svelarono le menzogne della Economia politica ed il nulla della democrazia, e che debellarono moralmente mazzinianismo e radicalismo e li resero impotenti per sempre; non lo furono nè Bakunin nè Marx; non lo furono coloro che per il socialismo sacrificarono gioventù, pace, amore, libertà; non lo furono coloro stessi che alle lotte socialiste dei primi anni, abilmente sfruttate più tardi, debbono la loro attuale posizione politica; non lo fu l’Internazionale, non lo sono gli anarchici.
Il socialismo! Che cosa fu!?... a che cos’è ridotto!?...
Uscito fuori dalle speculazioni dei filosofi, dai sogni degli utopisti, dalle rivolte delle plebi, il socialismo si annunziò al mondo come la buona novella dell’evo moderno. Esso era una promessa di civiltà superiore; era la ribellione contro ogni prepotenza, contro ogni ingiustizia; era l’abolizione dell’odio, della concorrenza, della guerra; il trionfo dell’amore, della cooperazione, della pace; era l’avvenimento del benessere e della libertà per tutti; la realizzazione nel futuro di quell’eden che la fantasia dei popoli e dei poeti, assetati d’ideale e ignari di storia, aveva messo all’origine dell’umanità.
Esso era la lotta umana per eccellenza; ed elevandosi al disopra delle razze e delle patrie, al disopra delle religioni e delle scuole filosofiche, al disopra delle classi e delle caste esso abbracciava tutti gli uomini e tutte le donne in un santo ideale di uguaglianza e di solidarietà.
Esso non domandava la sostituzione di un partito ad un altro o di una classe ad un’altra, non l’avvento al potere ed alla ricchezza di un nuovo stato sociale (quarto stato), ma l’abolizione delle classi, la solidarizzazione di tutti gli esseri umani nel lavoro e nel godimento comune.
Ed i socialisti erano apostoli, confessori e martiri; essi sentivano che portavano in sè stessi un mondo, avevano la coscienza della loro sublime missione, e questa coscienza li faceva fieri, coraggiosi e buoni.
Ignoranti o dotti, giovani ingenui o vecchi avanzi di altre battaglie; parte eletta del proletariato o figli di borghesi ribelli alla classe in cui eran nati, che i loro privilegi di nascita consideravano come un debito che imponeva loro maggiori doveri verso la causa dei diseredati, essi avevano fede nel bene ed in loro stessi, amavano il popolo, erano assetati di scienza e di lotte, e baldi e fiduciosi affrontavano le beffe e le calunnie, le piccole e le grandi persecuzioni, il carcere, l’esilio, la miseria, il patibolo; e andavano avanti.
Votati ad una lotta a morte contro tutte le istituzioni politiche, economiche, religiose, giudiziarie, totalitarie del mondo borghese; urtando tanti interessi e tanti pregiudizi; dovendo resistere a seduzioni e minacce d’ogni sorta, essi, tanto per ripugnanza naturale contro gli sfruttatori ed i mistificatori del popolo, quanto per tattica di combattimento, si separavano nettamente da tutti coloro che non erano popolo e non combattevano per l’emancipazione integrale del popolo. Essi formavano partito, scuola, quasi diremmo classe da loro.
Soli contro tutti, essi scrivevano sulla loro bandiera il motto delle coscienze integre, il motto di chi ha fede in sè e nella propria causa, il motto sacro dei giorni di battaglia: Chi non è con noi è contro di noi. Ed intendevano che fossero con loro tutti i miseri, tutti gli oppressi, tutte le vittime; e tutti coloro che facevano propria la causa dei miseri e combattevano per la giustizia, per la libertà e pel benessere generale: come erano contro di loro tutti i detentori e sostenitori del potere e tutti coloro che al potere aspiravano.
Altro socialismo, altri socialisti non v’erano.
Ed allora?
Ora v’è un socialismo che serve solo ad ingannare il popolo con vane promesse per mantenerlo docile o per farsene sgabello; e vi sono dei socialisti che puttaneggiano nei ministeri e nei parlamenti, che s’alleano coi borghesi, che si inchinano ai ministri, che acclamano un imperatore, che si vendono ad un soldato, che mentono ai loro compagni, che prostituiscono ideali, programma, coscienza per carpire agli ingenui un voto il quale valga a farli accogliere in mezzo alla borghesia.
O socialisti, uomini semplici e puri, cui ferve nel petto il santo amore degli uomini; o socialisti che per le lusinghe di falsi amici faceste inconsapevolmente gli interessi della borghesia, non sentite vergogna vedendo la vostra bandiera trascinata nel fango?
Oh! no; cotesti mercanti di voti, cotesti commedianti non sono socialisti; cacciateli di mezzo a voi. E voi ritornate alle maschie battaglie che spazzeranno via dal mondo proprietà individuale e governi, miseria e schiavitù.

2. LA POLEMICA CON MERLINO
a. Maggioranze e minoranze19

... L’amico nostro Merlino, che come sapete, si perde ora nell’inane tentativo di voler conciliare l’anarchia col parlamentarismo, in una sua lettera al "Messaggero" volendo sostenere che "il parlamentarismo non è destinato a sparire interamente e qualche cosa ne rimarrà anche nella società che noi vagheggiamo", ricorda uno scritto da me inviato alla Conferenza anarchica di Chicago del 1893, in cui io sostenevo che "per talune cose il parere della maggioranza dovrà necessariamente prevalere a quello della minoranza".
La cosa è vera, nè le mie idee sono oggi diverse da quelle espresse nello scritto di cui si tratta. Ma Merlino, riportando una mia frase staccata per sostenere una tesi diversa da quella che sostenevo io, lascia nell’ombra e nell’equivoco quello che io veramente intendevo.
Ecco: v’erano a quell’epoca molti anarchici, e ve n’è ancora un poco, che scambiando la forma colla sostanza e badando più alle parole che alle cose, si erano formati una specie di "rituale del vero anarchico" che inceppava la loro azione, e li trascinava a sostenere cose assurde e grottesche.
Così essi, partendo dal principio che la maggioranza non ha il diritto d’imporre la sua volontà alla minoranza, ne conchiudevano che nulla si dovesse mai fare se non approvato all’unanimità dei concorrenti. Confondendo il voto politico, che serve a nominarsi dei padroni con il voto quando è mezzo per esprimere in modo spiccio la propria opinione, ritenevano anti-anarchica ogni specie di votazione.
Contro queste e simili aberrazioni era diretto lo scritto che io mandai a Chicago.
Io sostenevo che non ci sarebbe vita sociale possibile se davvero non si dovesse fare mai nulla insieme se non quando tutti sono unanimemente d’accordo. Che le idee e le opinioni sono in continua evoluzione e si differenziano per gradazioni insensibili, mentre le realizzazioni pratiche cambiano a salti bruschi; e che, se arrivasse un giorno in cui tutti fossero perfettamente d’accordo sui vantaggi di una data cosa, ciò significherebbe che in quella data cosa ogni progresso possibile è esaurito. Così, per esempio, se si trattasse di fare una ferrovia, vi sarebbero certamente mille opinioni diverse sul tracciato della linea, sul materiale, sul tipo di macchine e di vagoni, sul posto delle stazioni, ecc., e queste opinioni andrebbero cambiando di giorno in giorno: ma se la ferrovia si vuol fare bisogna pure scegliere fra le opinioni esistenti, nè si potrebbe ogni giorno modificare il tracciato, traslocare le stazioni e cambiare le macchine. E poichè di scegliere si tratta è meglio che siano contenti i più che i meno, salvo naturalmente a dare ai meno tutta la libertà e tutti i mezzi possibili per propagare e sperimentare le loro idee e cercare di diventare la maggioranza.
Dunque in tutte quelle cose che non ammettono parecchie soluzioni contemporanee, o nelle quali le differenze d’opinione non sono di tale importanza che valga la pena di dividersi ed agire ogni frazione a modo suo, o in cui il dovere di solidarietà impone l’unione, è ragionevole, giusto, necessario che la minoranza ceda alla maggioranza.
Ma questo cedere della minoranza deve essere effetto della libera volontà, determinata dalla coscienza della necessità; non deve essere un principio, una legge, che s’applica per conseguenza in tutti i casi, anche quando la necessità realmente non c’è. Ed in questo consiste la differenza tra l’anarchia e una forma di governo qualunque. Tutta la vita sociale è piena di queste necessità in cui uno deve cedere le proprie preferenze per non offendere i diritti degli altri.
...Come fa il Merlino a cavare da questo che un resto di parlamentarismo vi dovrà essere anche nella società che noi vagheggiamo?
Il parlamentarismo è una forma di governo nella quale gli eletti del popolo, riuniti in corpo legislativo fanno, a maggioranza di voti, le leggi che a loro piace e le impongono al popolo con tutti i mezzi coercitivi di cui possono disporre.
È un avanzo di questa bella roba, che Merlino vorrebbe conservata anche in Anarchia? Oppure, poichè in Parlamento si parla, e si discute e si delibera, e questo si farà sempre in qualsiasi società possibile, Merlino chiama questo un avanzo di parlamentarismo?
Ma ciò sarebbe davvero giuocar sulle parole, e Merlino è capace di altri e ben più seri procedimenti di discussione...

b. Anarchia e parlamentarismo20

...Merlino nega (vedi l’Avanti! del 9 marzo) che la lotta politica parlamentare sia contraria ai principi socialisti-anarchici.
Intendiamoci bene.
Quello che è contrario ai nostri principii è il parlamentarismo, in tutte le sue forme e tutte le sue gradazioni. E noi riteniamo che la lotta elettorale e parlamentare educa al parlamentarismo e finisce col trasformare in parlamentaristi coloro che la praticano.
Merlino, che pare si dica ancora anarchico e pare vada facendo continue riserve sull’abolizione piena ed intera del parlamentarismo ed accampa la fede nuovissima nella possibilità di un governo che sia servitore del popolo e si possa congedare quando non faccia il suo dovere o non si abbia più bisogno dell’opera sua, dovrebbe innanzi tutto spiegarci che cosa sarebbe questa sua anarchia parlamentare. Finora il socialismo anarchico alla fin fine, non è stato che il socialismo antiparlamentare; perchè allora continuare a chiamarlo anarchico?
L’astensione degli anarchici non è da confrontare con quella, per esempio, dei repubblicani. Per questi l’astensione è una semplice questione di tattica: si astengono quando credono imminente la rivoluzione e non vogliono distrarre forze della preparazione rivoluzionaria; votano quando non hanno di meglio da fare, ed il loro meglio è molto ristretto poichè rifuggono per ragioni di classe dalle agitazioni sovvertitrici degli ordini sociali. In realtà essi stanno sempre sul buon cammino: essi vogliono un governo parlamentare e gli elettori che conquistano adesso sono sempre buoni per mandarli un giorno alla costituente.
Per noi invece, l’astensione si collega strettamente con le finalità del nostro partito. Quando verrà la rivoluzione (fra mille anni, s’intende, ci badi il procuratore del re) noi vogliamo rifiutarci a riconoscere i nuovi governi che tenteranno d’impiantarsi, noi non vogliamo dare a nessuno un mandato legislativo e quindi abbiamo bisogno che il popolo abbia ripugnanza delle elezioni, si rifiuti a delegare ad altri l’organizzazione del nuovo stato di cose, e quindi si trovi nella necessità di fare da sè.
Noi dobbiamo far sì che gli operai si abituino, fin da ora, per quanto è possibile, nelle associazioni di ogni genere, a regolare da loro i propri affari, e non già incoraggiarli nella tendenza a rimettersene in altri.
Merlino per ora dice ancora che le elezioni debbono servire come mezzo di agitazione, che gli eletti socialisti non debbono essere legislatori, e che la lotta importante si deve fare nel popolo, fuori del parlamento.
Ma senta un po’ i suoi amici dell’Avanti! Quelli sono logici. Essi vogliono andare al potere - per fare il bene del popolo, noi non ne dubitiamo - e quindi hanno ogni interesse a educare il popolo a nominare dei deputati e ad abituarsi essi a saper governare.
Ma Merlino dove vuole arrivare? Resterà egli eternamente tra il sì ed il no, tra il mi decido e non mi decido?...
Tutta la forza dell’argomentazione di Merlino consiste in un equivoco. Egli pone in contrapposto da una parte la lotta elettorale e dall’altra l’inerzia, l’indifferenza e l’acquiescenza supina alle prepotenze del governo e dei padroni; ed è chiaro che il vantaggio resta alla lotta elettorale...
La questione è tutt’altra. Si tratta di cercare qual’è il mezzo più efficace di resistenza popolare, qual’è la via che, mentre soddisfa ai bisogni del momento, conduce più direttamente ai destini futuri dell’umanità, qual’è il modo più utile d’impiegare le forze socialiste.
Non è vero che senza il parlamento mancano i mezzi per far pressione sul Governo e metter freno ai suoi eccessi. Al contrario. Quando in Italia non v’era il suffragio popolare, v’era una libertà che oggi ci sembrerebbe grande; e le violenze governative, molto minori di quelle di Crispi e Di Rudini, provocavano un’indignazione e una reazione popolare di cui oggi non si ha più l’idea. Lo stesso suffragio, di cui fan tanto caso, è stato naturalmente ottenuto quando il suffragio non v’era; ed ora che v’è, minacciano di toglierlo. Effetto miracoloso della sua efficacia!...
D’altronde il fatto è questo; se nel paese v’è coscienza e forza di resistenza, se vi sono partiti extracostituzionali che minacciano lo Stato, allora il governo rispetta lo Statuto, allarga il suffragio, concede libertà, tanto per aprire delle valvole di sicurezza alla crescente pressione; ed in Parlamento i deputati borghesi tuonano contro i ministri, tanto per farsi popolari. Se invece il governo vede che i partiti popolari fondano le loro speranze sull’azione parlamentare e che la cosa che più gli dà noia sono i deputati socialisti, allora respinge il suffragio, tien chiuso il parlamento, viola lo Statuto; e se i deputati hanno il nerbo, cosa rara, di resistere più che per burla, vanno in prigione malgrado il medaglino e l’immunità.
Quando Merlino poi dice che gli astensionisti sono dei dottrinari e si compiace a mettere in bocca loro una serie di ragionamenti che mena fuori di ogni vita reale ed al più completo quietismo, allora Merlino è... men che sincero.
Vi sono è vero degli anarchici che si curano poco della praticabilità delle loro idee e limitano il loro compito alla predica di nozioni astratte, che essi credono il vero assoluto... se vero oggi, o vero tra mille anni non importa.
Ma Merlino sa che quella tendenza non è quella di tutti gli anarchici, che di essa in Italia appena se ne ritroverebbe la traccia e che, anche all’estero, essa in fondo non è rappresentata che da poche personalità.
Servirsi dell’esistenza di una tale tendenza per attribuirla a tutti gli anarchici e darsi così l’aria di aver ragione, può essere un abile espediente di polemica, ma non è degno di chi cerca e vuol propagare la verità...

c. Società autoritaria e società anarchica21

...Noi pensiamo che in molti casi la minoranza anche se convinta di aver ragione, deve cedere alla maggioranza, perchè altrimenti non vi sarebbe vita sociale possibile - e fuori della società è impossibile ogni vita umana. E sappiamo benissimo che le cose in cui non si può raggiungere l’unanimità ed in cui è necessario che la minoranza ceda non sono le cose di poco momento; ma anche, e specialmente, quelle di importanza vitale per l’economia della collettività.
Noi non crediamo nel diritto divino delle maggioranze, ma nemmeno crediamo che le minoranze rappresentino, sempre, la ragione ed il progresso... Del resto, se è vero che i rivoluzionari sono sempre una minoranza, sono anche sempre in minoranza gli sfruttatori ed i birri.
Così pure noi siamo d’accordo col Merlino nell’ammettere che è impossibile che ogni uomo faccia tutto da sè, e che, se anche fosse possibile, ciò sarebbe sommamente svantaggioso per tutti. Quindi ammettiamo la divisione del lavoro sociale, la delegazione delle funzioni e la rappresentanza delle opinioni e degli interessi propri affidata ad altri.
E soprattutto respingiamo come falsa e perniciosa ogni idea di armonia provvidenziale e di ordine naturale nella società, poichè crediamo che la società umana e l’uomo sociale esso stesso siano il prodotto di una lotta lunga e faticosa contro la natura, e che se l’uomo cessasse dall’esercitare la sua volontà cosciente e si abbandonasse alla natura, ricadrebbe presto nella animalità e nella lotta brutale.
Ma - e qui è la ragione per cui siamo anarchici - noi vogliamo che le minoranze cedano volontariamente quando così lo richieda la necessità ed il sentimento della solidarietà. Vogliamo che la divisione del lavoro sociale non divida gli uomini in classi e faccia gli uni direttori e capi, esenti da ogni lavoro ingrato, e condanni gli altri ad esser le bestie da soma della società. Vogliamo che delegando ad altri una funzione, cioè incaricando altri di un dato lavoro, gli uomini non rinunzino alla propria sovranità, e che, ove occorra un rappresentante, questi sia il portaparola dei suoi mandanti o l’esecutore delle loro volontà, e non già colui che fa la legge e la fa accettare per forza, e crediamo che ogni organizzazione sociale non fondata sulla libera e cosciente volontà dei suoi membri conduce all’oppressione ed allo sfruttamento della massa da parte di una piccola minoranza.
Ogni società autoritaria si mantiene per coazione. La società anarchica deve essere fondata sul libero accordo: in essa bisogna che gli uomini sentano vivamente ed accettino spontaneamente i doveri della vita sociale, e si sforzino di organizzare gl’interessi discordanti e di eliminare ogni motivo di lotta intestina; o almeno che, se conflitti sì producono, essi non siano mai di tale importanza da provocare la costituzione di un potere moderatore, che col pretesto di garantire la giustizia a tutti, ridurrebbe tutti in servitù.
Ma se la minoranza non vuol cedere? dice Merlino. E se la maggioranza vuol abusare della sua forza? domandiamo noi.
È chiaro che nell’un caso come nell’altro non v’è anarchia possibile...

d. Concezione integrale dell’anarchia22

...Perchè dice Merlino che "ci veniamo avvicinando"? Perchè noi ammettiamo la necessità della cooperazione e dell’accordo fra i membri della società e ci pieghiamo alle condizioni fuori delle quali cooperazione ed accordo non sono possibili? Ma questo è socialismo, e Merlino sa che noi siamo sempre stati socialisti e perciò sempre molto "vicini".
La questione ora è se il socialismo deve essere anarchico o autoritario, vale a dire se l’accordo deve essere volontario o imposto.
Ma se la gente non vuole accordarsi? Eh! Allora sarà la tirannia o la guerra civile, ma non sarà l’anarchia. Per forza l’anarchia non si fa: la forza può e deve servire per abbattere gli ostacoli materiali, per mettere il popolo nella condizione di scegliere liberamente come vuol vivere, ma più non può fare.
Ma se "un pugno di farabutti o di nevrotici o anche un solo individuo si ostina nel dir no, allora non è possibile l’anarchia?" diavolo! Non sofistichiamo. Questi individui sono ben liberi di dire no, ma non potranno impedire agli altri di far sì - e quindi dovranno adattarsi il meglio che possono. Chè se poi "i farabutti o i nevrotici" fossero tanti da poter disturbare sul serio la società ed impedirle di funzionare pacificamente, allora... purtroppo, non saremmo ancora in anarchia.
Noi non facciamo dell’anarchia un eden ideale, che per essere troppo bello, si debba poi rimandare alle calende greche. Gli uomini sono troppo imperfetti, troppo abituati a rivaleggiarsi ed odiarsi tra loro, troppo abbrutiti dalle sofferenze, troppo corrotti dall’autorità, perchè un cambiamento di sistema sociale possa, dall’oggi al domani, trasformarli tutti in esseri idealmente buoni ed intelligenti. Ma quale che sia l’estensione degli effetti che si possono sperare dal cambiamento, il sistema bisogna cambiarlo, e per cambiarlo bisogna che si realizzino le condizioni indispensabili al detto cambiamento.
Noi crediamo che l’anarchia sia prossimamente attuabile, perchè crediamo che le condizioni necessarie alla sua esistenza vi siano già negl’istinti sociali degli uomini moderni, tanto che essi mantengono come che sia in vita la società, malgrado la continua azione dissolvente, antisociale, del governo e della proprietà. E crediamo che rimedio e baluardo contro le cattive tendenze di alcuni e contro i pericoli d’interessi e di gusti di altri non sia un governo qualsiasi, il quale essendo composto di uomini non può che far pendere la bilancia dalla parte degli interessi e dei gusti di chi sta al governo - ma la libertà la quale, quando ha a base l’uguaglianza di condizioni, è la grande armonizzatrice dei rapporti umani.
Noi non aspettiamo per volere attuata l’anarchia che il delitto, o la possibilità del delitto, sia sparita dai fenomeni sociali; ma non vogliamo la polizia, perchè crediamo che essa, mentre è impotente a prevenire il delitto, o ripararne le conseguenze, è poi per se stessa fonte di mille mali e pericolo costante per la società; e se per difendersi vi fosse bisogno di armarsi, vogliamo essere armati tutti e non già costituire in mezzo a noi un corpo di pretoriani. Noi ci ricordiamo troppo della favola del cavallo che si fece mettere il morso e montare in groppa l’uomo per meglio dar la caccia al cervo - e Merlino sa bene che menzogna sia "il controllo dei cittadini", quando i controllati sono quelli che hanno in mano la forza!...

e. Incompatibilità23

...Merlino scrive:
"La difesa sociale (scrivete voi) dev’esser la cura di tutta la società; e se per difendersi vi fosse bisogno di armarsi, vogliamo essere armati tutti. Così ragionando, l’amministrazione della pubblica ricchezza dev’essere la cura di tutta la società; e se per amministrarla vi fosse bisogno di far progetti, compilare statistiche, studiare scienze tecniche - ebbene quelle cose vogliamo farle tutti.
"L’educazione e l’istruzione dei fanciulli dev’essere la cura di tutta la società. Chi non sa quanto sia pericoloso confidare a pochi individui la cura di educare la nuova generazione? Dunque facciamoci tutti professori. E via di questo passo, si nega il principio della divisione del lavoro, si arriva al concetto Kropotkiniano, che il popolo in massa distribuirà le case, i viveri, il lavoro, farà tutto".
Se noi dicessimo che Merlino per confutarci ci affibbia delle idee che egli dovrebbe sapere non essere le nostre, egli se ne offenderebbe - e noi non vogliamo offenderlo. Noi ammettiamo certamente la divisione del lavoro e ne apprezziamo i vantaggi; ma ne conosciamo pure i danni ed i pericoli. La divisione del lavoro è stata una fra le cause dell’assoggettamento delle masse al dominio delle caste privilegiate. E col principio della divisione del lavoro si può tentare la giustificazione di tutte le mostruosità sociali: divisione tra lavoro mentale e lavoro manuale, divisione fra il lavoro di direzione e quello di esecuzione, divisione tra il lavoro di produzione e quello di difesa dei produttori...che poi si riassumono e si concretano nella divisione tra il lavoro di mangiare e quello di produrre, tra il lavoro di bastonare e quello di farsi bastonare. Menenio Agrippa conosceva già quest’argomento.
Noi crediamo che carattere essenziale, non solo dell’anarchismo ma del socialismo in genere, sia il volere che certe funzioni debbano appartenere indistintamente a tutti i membri della società, malgrado i vantaggi tecnici che vi potrebbero essere nell’affidarle ad una classe speciale. Si divida pure il lavoro fino a che si può, per aumentare la produzione e facilitare il funzionamento della vita sociale: ma sian salvi innanzi tutto l’integrale sviluppo e l’eguale libertà di tutti gli individui.
Tra le funzioni che, secondo noi, non si possono affidare senza gravi inconvenienti ad una classe speciale d’individui vi sono quelle in cui potrebbe esserci bisogno di adoperare la forza fisica contro un essere umano.
Così per esempio, potrebbe, non lo neghiamo, esservi un vantaggio tecnico ad avere un corpo di specialisti incaricati di diagnosticare la follia pericolosa e di portare i matti al manicomio, ma, che volete? Noi abbiam paura che quei signori dottori ed infermieri giudicherebbero matti tutti quelli che non la pensano come loro. Lombroso insegni, che ci rinchiuderebbe tutti, Merlino compreso! Per la polizia propriamente detta, peggio di peggio: addestrate un uomo a dar la caccia agli uomini ed avrete, tecnicamente parlando, un buon agente di polizia; ma nello stesso tempo avrete spento in lui ogni sentimento di simpatia umana, avrete spento l’uomo e non troverete più che lo sbirro...

f. L'accordo non è possibile24

...Merlino dice che noi ci sforziamo di esagerare il nostro dissenso coi socialisti-democratici.
L’accusa sarebbe ben altrimenti giusta se fosse invertita. Sono i socialisti democratici che continuamente - e disonestamente - si sforzano di travisare le nostre idee, per poter poi dire che noi non siamo socialisti, e negare la parentela intellettuale e morale che li unisce a noi. Ancora l’altro giorno l’Avanti! negava ogni rapporto tra anarchismo e socialismo, e diceva di noi quello che avrebbe potuto dire di un partito di piccoli borghesi che si rivoltasse violentemente contro l’aumento delle tasse e la concorrenza dei grossi capitalisti: così che uno potrebbe prendere per anarchici i padroni macellai e fornai di Napoli e Palermo, quando protestano e resistono contro il calmiere municipale! E l’Avanti! è ancora uno degli organi meno intolleranti che vanta il partito socialista democratico!
Noi vogliamo essere un Partito separato, non per il piacere di distinguerci dagli altri, ma perchè realmente abbiamo idee e metodi diversi dagli altri partiti esistenti. E respingiamo assolutamente la supposizione che noi esageriamo in un senso per fare equilibrio alle esagerazioni opposte degli altri. Noi sosteniamo quel che sosteniamo, perchè crediamo che sia la verità, e non per altra ragione. Se ci accorgessimo che nel nostro programma v’è una parte d’errore, noi ci affretteremmo a sbarazzarcene; e quando anche gli altri modificassero le loro idee in modo da incontrarsi con noi, allora... noi e gli altri costituiremmo naturalmente un partito solo. Ora come ora, le idee sono differenti, ed è giusto e necessario che vi siano Partiti differenti.
Noi non vogliamo soltanto resistere alla possibile tirannia dei socialisti al potere: noi vogliamo far sì che il popolo si rifiuti a nominare o a riconoscere dei nuovi governanti, e pensi da se stesso ad organizzarsi localmente e federalisticamente, senza tener conto delle leggi e di decreti di un nuovo governo, e resistendo colla forza contro ciò che gli si volesse imporre per forza. E se, per mancanza di forza sufficiente, non potessimo raggiungere subito questo nostro scopo, allora in attesa di divenir più forti, eserciteremmo quell’azione, moderatrice o eccitatrice secondo i casi, che esercitano i partiti di opposizione quando non si lasciano corrompere ed assorbire. Il consiglio di Merlino, di entrare nel partito socialista democratico per poter prevenire la tirannia dei socialisti al potere equivale a quello di divenire, per esempio monarchici o repubblicani per evitare che la monarchia o la repubblica fossero troppo reazionarie. Quest’ultimo consiglio sarebbe giustificato, se dato a chi è disposto ad accomodarsi con la monarchia o la repubblica, come sarebbe giustificato quello di Merlino se noi accettassimo il principio di un governo socialista e ci dicessimo anarchici solo allo scopo di prevenire che quel governo fosse troppo autoritario. Ma quello non è il caso.
Quel che dice Merlino che molti anarchici si dicono oggi genericamente socialisti e non già comunisti o collettivisti non perchè vogliono un sistema misto quale lo desidera Merlino, ma perchè, o sono incerti o non danno importanza alla questione, o non vogliono farne una ragione di divisione, è vero. Noi stessi siamo propriamente comunisti, alla sola condizione (sottintesa, perchè senza di essa non potrebbe esserci anarchia) che il comunismo sia volontario ed organizzato in modo che ammetta la possibilità di vivere secondo altri schemi...

g. Problemi di oggi e di domani. Governo socialista e forze armate25

...Io domandavo se, a senso suo, quel qualsiasi governo, o parlamento ch’egli crede necessario al buon andamento della società dovrà avere a sua disposizione una forza armata.
E Merlino mi risponde che "l’uso della forza dovrà essere riservato ai casi estremi e non dovrà essere ad arbitrio di un Governo o di un Parlamento di adoperarla contro i Cittadini ricalcitranti ad un dato provvedimento".
Io non ci capisco nulla. Se il Governo non ha il diritto di costringere i cittadini ad ubbidire alle leggi, allora non è più un governo, nel senso comune della parola e noi non avremmo più a domandarne l’abolizione: ci basterebbe di fare a modo nostro quando quello che esso vuole non ci conviene.
Non vi deve essere una forza armata permanente, dice Merlino, ma i cittadini stessi potranno esser chiamati in casi straordinari, come già si usa in Inghilterra e negli Stati Uniti. Ma chiamati da chi? Dal Governo? E saranno obbligati ad accorrere alla chiamata? In Inghilterra e negli Stati Uniti vi è una polizia; e le milizie che il governo chiama in casi straordinari servono, salvo che non si ribellino, agli scopi del governo, tra cui è sempre primo quello di tenere a freno ed all’occasione di massacrare il popolo. E quello il regime politico che vagheggia Merlino?
Ma l’uso della forza va regolato e tolto all’arbitrio di un’amministrazione centrale qualsiasi, dice Merlino. Che si tratti dunque di uno Statuto che dovrà fissare i diritti rispettivi del Cittadino e quelli del Governo e che sarà rispettato... come lo sono sempre stati gli Statuti!
Noi vogliamo che tutti i cittadini abbiano diritto uguale di essere armati e di correre alle armi quando se ne presenti la necessità, senza che nessuno possa costringerli a marciare o a non marciare. Vogliamo che la difesa sociale, interesse di tutti, sia affidata a tutti, senza che nessuno faccia il mestiere di difensore dell’ordine pubblico e viva di esso.
Ma, dice Merlino, se io sono attaccato da uno più forte di me, come farò a difendermi? Accorrerà la gente ad aiutarmi? E accorrendo, come farà a giudicare da che parte sta la ragione? E siccome probabilmente si produrranno opinioni diverse, si avrà dunque per ogni disputa una guerra civile?
E i carabinieri, rispondo io, sono sempre presenti per difendere chi è attaccato? Ed è sicuro ch’essi non si mettano mai dalla parte di chi ha torto? E il giudizio dei magistrati offre forse più garanzie di giustizia di quello della folla? E la tirannia è forse preferibile alla guerra civile? Merlino ragiona come fanno i conservatori. Egli mette innanzi tutti gl’inconvenienti, tutti i conflitti possibili nella vita sociale, e se ne serve per dire impossibili ed assurdi gl’ideali nostri - dimenticando però di dirci come a quegli inconvenienti ed a quei conflitti si ripara nel sistema suo.
Merlino teme la guerra civile; ma che cosa è un regime autoritario se non uno stato di guerra, in cui una delle parti è stata vinta e si trova soggetta? Merlino dirà che egli è libertario e non già autoritario; ma se qualcuno, individuo o collettività, minoranza o maggioranza può imporre agli altri la propria volontà, la libertà è una menzogna, o non esiste se non per chi dispone della forza.
Io non ho mai detto che l’Anarchia, specie nei primi mi tempi sarà l’Arcadia o l’Eldorado. Vi saranno purtroppo guai e difficoltà inerenti all’imperfezione ed al disaccordo degli uomini; ma se v’è probabilità che i mali siano minori che in qualsiasi regime autoritario, ciò mi basta per essere anarchico.
Il benessere e la libertà di tutti, l’abolizione della tirannia e della schiavitù non si possono avere se non quando gli uomini si sforzino di armonizzare i loro interessi e si pieghino volontariamente alle necessità sociali. Ed io credo che, abolita la proprietà individuale ed il governo, distrutta cioè la possibilità di sfruttare ed opprimere gli altri sotto l’egida delle leggi e della forza sociale, gli uomini avranno interesse, e quindi volontà, di accordarsi e risolvere i possibili conflitti pacificamente, senza ricorrere alla forza. Se ciò non fosse, evidentemente l’anarchia sarebbe impossibile; ma sarebbero anche impossibili la pace e la libertà.
Merlino non è persuaso quando gli dico che contro il volere degli uomini l’anarchia non si fa. Ma sa egli concepire un regime che si regga senza e contro la volontà degli uomini, o almeno di coloro tra gli uomini che pensano e vogliono? E conosce egli un regime che valga più di quel che valgono gli uomini che lo accettano? Tutto dipende dalla volontà degli uomini. Cerchiamo dunque di educarli a volere la libertà e la giustizia per tutti, e a cacciare dal loro spirito il pregiudizio della necessità del gendarme.
Io dissi che non sono profeta, e Merlino trova che io rispondo come fanno i socialisti democratici quando si tenta di dimostrar loro gl’inconvenienti del Collettivismo.
Il caso non è eguale.
I socialisti democratici vogliono che il popolo li mandi al potere, a far le leggi, ad organizzare la nuova società, e quindi dovrebbero almeno dirci che uso farebbero di questo potere, e a quali leggi ci sottoporrebbero. Noi anarchici invece vogliamo che il popolo conquisti la libertà e... faccia quello che vuole...
Ma insomma, le idee mie possono essere sbagliate, e, come ho detto, non sarebbe gran male, perchè io non voglio imporle a nessuno. Merlino però, il quale si lamenta che noi non vogliamo fare i profeti e non definiamo abbastanza le nostre idee sull’avvenire, dovrebbe dirci lui che cosa è che vuole.
Non crede nell’"amministrazione" dei socialisti democratici, non nelle associazioni degli anarchici, e tampoco vuole egli demolire il presente senza preoccuparsi dell’avvenire. Che cosa vuole egli dunque?
Criticare le idee degli altri è ottima cosa, ma non basta. Noi sappiamo che tutti i sistemi hanno i loro lati deboli: il nostro come quelli degli altri. Ma per rinunziare al nostro bisognerebbe che ce se ne proponesse uno che abbia meno inconvenienti.
Tutto è relativo. Noi siamo anarchici perchè l’Anarchia, nel senso che noi diamo alla parola, di pare la migliore soluzione del problema sociale. Se Merlino conosce qualche cosa di meglio, ce lo insegni subito.

3. SOCIALISMO LEGALITARIO E SOCIALISMO ANARCHICO. L’INTERVISTA DI CIANCABILLA E LA POLEMICA CON L`AVANTI!

a. La situazione del movimento e le sue prospettive26

[Sulla situazione di crisi del movimento in Italia Malatesta, allora rientrato clandestinamente dall’Inghilterra e stabilitosi ad Ancona, attribuiva un’influenza solo indiretta alle leggi eccezionali. Secondo Malatesta la crisi era preesistente ed interna al movimento.]

- E quali erano queste cause interne di debolezza?
- Principalmente eran questioni teoriche, non ancora ben delucidate, le quali avevan fatto sì che ci credevano d’accordo, mentre spesso sotto una stessa fraseologia si nascondevano idee assolutamente diverse.
Eranvi poi in mezzo a noi degli elementi dissolventi che di anarchici non avevano che il nome. Fu inoltre gravissimo errore quello di esserci allontanati dal movimento operaio e di aver cessato così a poco a poco dall’essere un partito vivente e popolare, per ridurci invece in un manipolo di dottrinari.
Si può aggiungere che in sui primordi del movimento anarchico, forse per l’estrema giovinezza ed inesperienza dei suoi iniziatori, si aveva l’illusione di poter arrivare alla rivoluzione a breve scadenza; e per conseguenza si trascurava ogni lavoro di organizzazione che richiedeva opera lunga e paziente, pur riconoscendone teoricamente l’utilità. E accadde questo fenomeno: che noi, i quali eravamo sempre stati, sin dalle origini in lotta con il partito marxista, eravamo per molti lati più marxisti di quelli che si professavano tali. Così, ad esempio, accettavamo del marxismo l’inerte fatalismo, la legge del salario messa in voga da Lassalle, ed altri postulati. Per questo eravamo persuasi della impossibilità ed inutilità di qualsiasi riforma e miglioramento delle condizioni del proletariato in un regime capitalistico. Questo fece sì che non solo noi non ci occupassimo delle piccole rivendicazioni e lotte operaie che tutti i giorni fatalmente si combattono in questa "struggle for life" sociale, ma si ottenesse invece questo effetto negativo: che appunto nei paesi più avanzati, dove il proletariato aveva maggior coscienza di organizzazione, e dove, quindi, esso poteva resistere, imporsi e strappare qualche brandello di concessione, là gli operai con più difficoltà, e quasi con diffidenza, ascoltavano noi che predicavamo loro, in modo assoluto, l’impossibilità di ogni miglioramento nel regime capitalistico attuale. Questa spiegazione è, secondo me, più vera e più logica di quella addotta dall’Avanti! per dar la ragione del fatto che molto spesso è nei paesi dove il proletariato aveva maggiore coscienza che l’idea anarchica fece minor progresso perchè gli operai abbandonavano l’anarchia in forza della predicazione socialista.
- Ma allora tendereste a diventare un partito riformista?
- No, perchè per noi le riforme, se e dove si possono ottenere non debbono essere che un avviamento alla rivoluzione; e perciò vogliamo che il popolo le conquisti da se stesso, senta che sono dovute alla sua energia, e in lui, quindi, si sviluppi la volontà di pretendere sempre di più. Siamo un partito rivoluzionario perchè miriamo alla rivoluzione e perchè riteniamo che le riforme possibili nel regime capitalistico non possono essere che anodine, spesso semplicemente temporanee, e che il proletariato non potrà raggiungere la sua emancipazione senza la trasformazione completa degli ordinamenti sociali.
Per sistema, noi patrociniamo sempre quelle riforme che più delle altre, rendono evidente il conflitto tra proprietari e proletari, tra governanti e governati, e che quindi pretendono preparare un sentimento cosciente della ribellione, che esploderà nella rivoluzione definitiva finale.
D’altronde per noi l’essenziale è di stare col popolo, di mostrargli che noi intendiamo lottare e soffrire con lui, di sviluppare in lui la coscienza della forza, volontà e potenza che solo possono venirgli dall’organizzazione. Poi non mancherà l’occasione di far di più; che veramente in Italia non sono le occasioni di rivoluzione che sono mancate, ma la forza nei partiti popolari di approfittarne. Ora noi miriamo appunto ad acquistare questa forza. Il resto verrà dopo.
- Avete intenzione di dar alla luce nessuno schema di programma?
- Nelle linee generali il programma socialista-anarchico è abbastanza noto, e noi lo esponiamo e lo difendiamo continuamente nelle nostre pubblicazioni, nei nostri discorsi e nella propaganda individuale, che è per ora la parte principale della nostra attività. Del resto è in discussione fra le sezioni del nostro partito una formula di programma, diremo così ufficiale, che vedrà la luce quanto prima, e che, pur restando fisso nei suoi cardini fondamentali, sarà nella parte tattica sempre aperto alle modificazioni che il partito, a seconda delle occasioni, crederà di apportarvi.
- Insomma sembrerebbe che voi pure tendete a seguire in questo la falsariga del partito socialista...
- No. Il nostro partito si differenzia dal partito socialista-legalitario oltre che per i suoi principii, anche nella sua struttura. E ne differisce perchè non è un partito autoritario, e non è sottoposto a qualsiasi direzione.
Il solo vincolo che unisce noi tutti socialisti-anarchici è quello di volere le stesse cose, di volerle raggiungere con gli stessi mezzi generali, e di voler stare uniti per cooperare insieme al raggiungimento del fine. I nostri organi federali, cioè le varie Commissioni di corrispondenza, non sono che il mezzo per mantenere con più facilità le relazioni e gli accordi fra i compagni, per poterli più rapidamente informare delle proposte che sorgono dai gruppi, del parere che su di esse danno i compagni tutti, insieme col concorso che essi vogliono e possono dare per la loro effettuazione. Del resto tutti i gruppi han piena autonomia, limitata solo naturalmente dall’impegno di non mettersi in contraddizione coi principi e colla tattica generale del partito, violando i quali, i gruppi o i compagni dissidenti verrebbero a mettersi volontariamente fuori del partito
- Dunque ti sembra che il partito anarchico si sia finalmente messo sulla buona strada, e progredisca a grandi passi?
- Oh, questo progredire a grandi passi veramente non si può dire ancora. Ma, come tu dici, siamo sulla buona strada. Prima di tutto si può affermare con sicurezza che l’intesa è adesso completa. Molti equivoci sono stati dissipati, molte questioni che in fondo eran di parole sono state ridotte ai loro veri termini, e laddove vi erano elementi incompatibili con noi essi sono stati eliminati. Nei paesi dove il partito anarchico aveva vecchie tradizioni si sono ricostituite sezioni che lavorano attivamente ad estendere la propaganda, e ogni giorno riescono a penetrare in qualche nuovo centro vergine alla nostra azione, incominciano a partecipare alla vita operaia e ad avere qualche influenza in mezzo alle organizzazioni economiche. Oltre a parecchie pubblicazioni di propaganda più o meno periodiche, abbiamo un giornale, "L’Agitazione", che ha ormai la vita assicurata. Certamente vi è ancora molto, immensamente da fare prima di essere un partito che faccia sentire validamente la sua influenza nella vita pubblica; ma già siamo in tale condizione da poter guardare con fiducia l’avvenire, ed essere sicuri che qualsiasi uragano reazionario ci piombi addosso, non riuscirà nè a distruggere nè ad arrestare l’opera nostra.
- Perchè avete creduto di dover aggiungere alla parola anarchici l’aggiunta, che quasi può parere un’attenuante, di socialisti?
- Non è punto un’aggiunta, e tanto meno un’attenuante. Fin dal 1871, quando incominciammo la nostra propaganda in Italia, noi siamo sempre stati e ci siam sempre detti socialisti-anarchici. Nell’uso del linguaggio ci è accaduto di chiamarci semplicemente anarchici, poichè intendevasi implicitamente che gli anarchici fossero socialisti, come altra volta quando i soli socialisti eravamo noi, ci accadeva molto spesso di chiamarci semplicemente socialisti, poichè s’intendeva (e allora in Italia lo intendevano tutti) che i socialisti fossero anche anarchici. Noi siamo stati sempre d’opinione che socialismo ed anarchia sono due parole che in fondo hanno lo stesso significato; poichè non è possibile, secondo noi, l’emancipazione economica (abolizione della proprietà) senza l’emancipazione politica (abolizione del governo) e viceversa.
Oggi più spesso ripetiamo insieme i due aggettivi non perchè si siano modificate le nostre idee, ma perchè oggi son diventati più numerosi coloro i quali credono di poter arrivare al socialismo per mezzo di un governo; come d’altra parte vi sono individui i quali si dicono anarchici senza essere socialisti, il che secondo noi, equivale a non essere nemmeno anarchici. Però bisogna intendere che per molti i quali si dicono anarchici respingendo l’appellativo di socialisti, non è che una questione di parole, volendo anche essi assicurati a tutti i mezzi di produzione.
I veri anarchici non socialisti, se anarchici si possono chiamare, non sono che alcuni borghesi i quali per voglia di attirare su di loro l’attenzione pubblica e di parere originali, o per ragioni teoriche completamente diverse da quelle che inspirano i veri anarchici, han preso qualche volta quel nome.
- Credi possibile, almeno momentaneamente, un accordo tra il partito anarchico e il partito socialista?
- Io credo che coi socialisti legalitari noi abbiamo un immenso terreno comune nella lotta contro il governo e contro i capitalisti, e credo che potremmo e dovremmo trovarci d’accordo in tutte le agitazioni economiche e proletarie quali, ad esempio, quella odierna contro il domicilio coatto, gli scioperi, le leghe di resistenza, ecc. Disgraziatamente i socialisti legalitari, col loro spirito autoritario, hanno la tendenza a voler monopolizzare il movimento operaio, e a volgere tutte le agitazioni verso uno scopo elettorale, dimodochè temo che possano sorgere conflitti fra i due partiti, come già ne sorsero, e per gli stessi motivi, nei Congressi operai internazionali, nei quali i socialisti intendevano bensì di ammettere tutti gli operai senza distinzione di opinione, ma volevano poi escludere gli operai di opinioni anarchiche. Io mi auguro che quando noi avremo un’influenza ed una forza reale nel movimento operaio, i socialisti avranno il sentimento della propria responsabilità, e non vorranno farsi traditori della causa dei lavoratori, fomentando dissidi, quando di questi dissidi non vi è ragione reale...

b. L’abbandono dei pregiudizi marxisti27

[Dopo aver accennato alle illazioni del "Resto del Carlino" che avrebbe scorto nell’intervista da lui concessa a Ciancabilla e nelle sue affermazioni un avvicinamento ai socialisti legalitari, Malatesta sostiene che] Maggiore considerazione, perchè socialista e giustamente autorevole tra i socialisti, merita l’"Avanti!" il quale trova in ciò che io dissi al Ciancabilla, un segno evidente di "un’evoluzione dell’anarchismo verso il socialismo marxista".
È vecchia abitudine dei socialisti democratici (quando vogliono essere gentili con noi e non ripetono con Liebknecht che noi siamo "i beniamini della borghesia e dei governi di tutti i paesi"), il dire che noi evolviamo verso di loro...
Intendiamoci: per me non vi è nulla di meno che onorevole nel fatto di evolvere, quando l’evoluzione è frutto di onesta convinzione. Bisogna però che il cambiamento di opinione vi sia stato davvero, e sia tale quale si annunzia.
Ora, gli anarchici, ed io con loro, hanno certamente evoluto, ed è verosimile che continueranno ad evolvere, fino a quando resteranno un partito vivo capace di profittare dei dettami della scienza e dell’esperienza e di adattarsi alle variabili contingenze della vita. Ma io nego assolutamente che noi abbiamo evoluto o stiamo evolvendo verso il "socialismo marxista".
E credo, al contrario, che uno dei caratteri più notevoli e più generali della nostra evoluzione sia l’esserci sbarazzati dei pregiudizi marxisti, che al principio del movimento avevamo troppo leggermente accettati e che sono stati la causa dei nostri più gravi errori.
L’Avanti! è probabilmente vittima di una illusione.
Se esso crede realmente ciò che a più riprese ha detto sull’anarchismo, che cioè l’anarchismo è l’opposto del socialismo, e se continua a giudicare di noi dalle falsificazioni e dalla calunnie con cui, seguendo l’esempio della condotta di Marx verso Bakunin, si sono disonorati i marxisti tedeschi, allora è certo che, ogni qualvolta degnerà di leggere uno scritto nostro o di ascoltare un nostro discorso, avrà la grata sorpresa di scoprire una "evoluzione" dell’anarchismo verso il socialismo, che per l’Avanti! pare sia quasi una cosa stessa col marxismo.
Ma chiunque ha una conoscenza anche superficiale delle idee e della storia nostra, sa che l’anarchismo fin dal suo nascere fu niente altro che la conseguenza, l’integrazione dell’idea socialista, e quindi non poteva e non può evolvere verso il socialismo cioè verso sè stesso.
Gli errori stessi, gli spropositi, i delitti, detti e commessi da anarchici, servono a provare la natura sostanzialmente socialista dell’anarchismo, così come la patologia di un organismo serve a meglio comprendere i suoi caratteri e le sue funzioni fisiologiche.
Che cosa v’era in quello che io dissi al Ciancabilla, che potesse giustificare la conclusione dell’Avanti!?
Noi abbiamo certamente con i socialisti democratici molte idee comuni, ed abbiamo soprattutto comune il sentimento che ci anima e sprona a combattere per l’avvenimento di una società di liberi ed uguali... quantunque ci pare che il loro sistema porti poi logicamente alla negazione della libertà e dell’eguaglianza.
Noi mettiamo a base fondamentale del nostro programma l’abolizione della proprietà privata e l’organizzazione della produzione a vantaggio di tutti e fatta col concorso di tutti - il che è, o dovrebbe essere, il caposaldo di ogni specie di socialismo. E noi pensiamo che, essendo i lavoratori i maggiori sofferenti della società attuale ed i più direttamente interessati a mutarla, e trattandosi di instaurare una società in cui tutti siano lavoratori, bisogna che la nuova rivoluzione sia principalmente opera della classe lavoratrice organizzata e cosciente dell’antagonismo irreduttibile fra gl’interessi suoi e quelli della classe borghese - concetto che è merito massimo di Marx l’avere formulato, propagato e fatto quasi molla motrice di tutto il socialismo moderno.
Ma in tutto questo l’Avanti! mal potrebbe parlare di evoluzione, poichè si tratta di propositi e convinzioni che fanno parte integrante dell’anarchismo, e che gli anarchici propagarono sempre, e in Italia già molti anni prima che vi esistessero i marxisti.
Per scoprire dunque se davvero noi abbiamo evoluto verso il socialismo democratico, che l’Avanti! chiama, molto discutibilmente, socialismo marxista, bisogna ricercare quali sono le differenze che ci dividono e ci hanno sempre divisi dai socialisti democratici.
Non è il caso di discutere le teorie economiche e storiche di Marx, le quali a me (che del resto ho competenza scarsissima) sembrano in parte erronee ed in parte consistenti solo nell’esprimere in termini astrusi e far sembrare strane e recondite delle verità che espresse in linguaggio comune sono chiare, evidenti e note a tutti. I socialisti democratici hanno cessato da tempo di tenerne conto nel loro programma pratico, e, se non erro, stanno per rinunziarvi anche nel campo della scienza.
L’importante per noi, in quanto uomini di partito, è quello che i partiti fanno e vogliono fare - e non già le idee teoriche dalle quali cercano, dopo il fatto, di spiegare e giustificare la loro azione.
Ora dunque, noi siamo in disaccordo ed in lotta con i socialisti democratici, perchè essi vogliono trasformare la società presente per mezzo di leggi, e conservare anche nella società futura il Governo, lo Stato, che diverrà secondo loro organo degl’interessi di tutti; mentre noi vogliamo che la società si trasformi per l’opera diretta del popolo e vogliamo completamente distrutto il meccanismo dello Stato, che secondo noi resterà sempre un organo di oppressione e di sfruttamento, e tenderà, per la sua stessa natura, alla costituzione di una società basata sul privilegio e sull’antagonismo della classe.
Possiamo aver torto o ragione, ma dove vede l’Avanti! il segno che noi ci andiamo accostando alla sua concezione autoritaria del socialismo?
Il partito dell’Avanti!, essendo un partito autoritario, mira logicamente alla "conquista dei pubblici poteri".
Abbiamo noi forse cessato di dirigere i nostri sforzi allo scopo di rendere inutili ed abolire i pubblici poteri, cioè il governo? O forse abbiamo incominciato a prestar fede a quella burletta dell’impossessarsi del governo per meglio distruggerlo, che van ripetendo certi socialisti troppo ingenui... o troppo furbi?
Ben al contrario. A chi penetra a fondo nello studio dell’anarchismo, sarà facile accorgersi come nei primi tempi del movimento un forte residuo di giacobinismo e di autoritarismo sopravviveva in noi, residuo che non oso dire sia assolutamente distrutto, ma che certamente si è andato e si va sempre attenuando. Altra volta era opinione comune in mezzo a noi che la rivoluzione doveva essere necessariamente autoritaria, e non era raro chi con strana contraddizione pensava si potesse "fare l’Anarchia per forza"; mentre oggi è convinzione generale degli anarchici che l’anarchia non può venire dall’autorità, ma deve sorgere dalla lotta costante contro ogni imposizione, tanto in tempo di lenta evoluzione, quanto in periodi tempestosamente rivoluzionari, e che nostro scopo deve essere il fare in modo che la rivoluzione sia essa stessa e fin dal primo momento un’attuazione delle idee e dei metodi anarchici.
Il Partito dell’Avanti! è un partito parlamentare sia riguardo agli scopi futuri, sia riguardo alla tattica presente; e noi siamo invece avversari del parlamentarismo e come forma di costituzione sociale e come mezzo attuale di lotta, al punto da considerare socialismo anarchico e socialismo antiparlamentare come sinonimi, o quasi.
Ha forse l’Avanti! osservato che sia diminuita in noi quell’avversione contro il parlamentarismo che è stata sempre una caratteristica del nostro partito? Abbiamo forse cessato dal consacrare buona parte delle nostre forze a scalzare dall’animo dei lavoratori la nuova fede nei parlamenti e nei mezzi parlamentari, che i socialisti democratici cercano di impiantarvi? È cessato forse l’astensionismo di essere quasi il segno materiale al quale riconosciamo i nostri compagni?
Ben al contrario. Al principio del movimento parecchi tra noi ammettevano ancora la partecipazione alle elezioni amministrative, e più tardi in mezzo a noi sorse l’iniziativa della candidatura Cipriani e fu da noi appoggiata. Oggi noi siamo tutti d’accordo nel considerare le elezioni amministrative tanto perniciose quanto quelle politiche e forse di più, e respingiamo, a scanso di equivoci, anche le candidature protesta.
Dov’è dunque l’evoluzione verso il socialismo marxista? (...)

c. Gli "sbandamenti" giustificati dell’Avanti!28

L’Avanti! del 22 corrente cortesemente risponde all’articolo da me pubblicato nell’Agitazione del 14 sull’evoluzione dell’anarchismo; ma, secondo me, risponde male e fuori della questione.
Esso vuol dimostrare, in contraddittorio con me, che l’anarchismo evolve verso il socialismo democratico; ed invece si mette a sostenere che, in omaggio alla verità ed alla logica, quell’evoluzione dovrebbe avvenire ed avverrà.
Confondendo in tal modo ciò che è con ciò che si crede che dovrebbe essere e che sarà, ognuno, il quale professa onestamente un’idea e la ritiene conforme alla logica ed alla verità ed ha fede (cioè forte speranza) nel suo trionfo, potrebbe sostenere che tutti gli altri evolvono verso di lui; il che poi non cambierebbe le tendenze reali dei vari partiti ed i rapporti in cui si trovano l’uno verso l’altro.
Io potrei limitarmi a constatare, il modo come l’Avanti! ha schivata la questione e non aggiunger altro, poichè non si trattava affatto di discutere i meriti relativi dei programmi socialista democratico e socialista anarchico. Ma sarà bene seguire l’Avanti! sul suo terreno e vedere se davvero la verità sta dalla parte sua e la logica deve menar gli anarchici dove esso dice.
L’Avanti! mi risponde su tre questioni: quella del modo, radicalmente diverso dal nostro, come i socialisti democratici intendono attuare la trasformazione sociale; quella dello Stato nella società futura; e quella delle elezioni.
Sulla prima questione io avevo detto che i socialisti democratici vogliono trasformare la società presente per mezzo di leggi, e l’Avanti! risponde che non è vero che essi vogliono servirsi soltanto di leggi: io veramente il soltanto non ce l’avevo messo; ma ce l’avessi anche messo, non me ne pentirei, poichè è noto che per i socialisti democratici ogni propaganda, ogni agitazione, ogni organizzazione ha per scopo finale la conquista di poteri pubblici, vale a dire il potere di far le leggi. E la Critica sociale, di cui l’Avanti! non contesterà l’autorevolezza, nel suo numero del 16 maggio, lamentando che "la lotta elettorale, che dovrebbe essere l’indice dell’azione e della forza del partito, è diventata quasi essa sola quest’azione e questa forza", giunse a dire: "astrattamente, metafisicamente, si può pensare che basti. Il proletariato poco importa che sappia, che capisca, che voglia, che agisca esso stesso: basta che intuisca e che voti. Così a poco a poco diventerà maggioranza e altri per lui trasformerà lo Stato a suo vantaggio". E se la Critica trovava che questa verità astratta non è poi vera in concreto, era solo perchè il governo può mozzare nel pugno dei socialisti l’arma del voto ed allora il partito non sarebbe in grado di opporre alcuna resistenza, "neppure lo sciopero delle arti maggiori nei centri maggiori".
L’Avanti! può dire, se così gli piace, che questo "non è vero" e che io conosco male e giudico peggio il programma dei socialisti democratici; ma sta il fatto che gli anarchici convengono tutti, in questa questione, nella stessa opinione che ho espresso io e credo di essere nel vero - dunque, niente evoluzione nel senso che dice l’Avanti!.
Sulla questione dello Stato, avendo io affermato che lo Stato sarà sempre organo di sfruttamento, l’Avanti! mi accusa di essere caduto in "un equivoco molto grosso" perchè... "la letteratura socialista (democratica) scientifica e popolare è tutta informata al concetto che, soppressi gli antagonismi di classe, scompaiono le funzioni oppressive dello Stato". Questo è infatti una cosa nota, ed io avevo già detto, nello stesso brano riportato dall’Avanti!, che secondo i socialisti democratici lo Stato diverrà, nella società futura organo degli interessi di tutti; ma è altrettanto noto che gli anarchici pensano (ed è per questo che sono anarchici) che lo Stato non solo "è strumento di oppressione in mano della classe dominante" ma costituisce esso stesso, col suo personale, una classe privilegiata con i suoi interessi, le sue passioni, i suoi pregiudizi particolari, e che una società in cui si fosse abolita la proprietà privata e conservato lo Stato sarebbe sempre una società basata sull’antagonismo degl’interessi, e presto vedrebbe risorgere nel suo seno, per opera e con la protezione dello Stato, il privilegio economico con tutte le sue conseguenze.
Non è il caso di discutere a fondo questa questione, che l’Agitazione ha già trattata e su cui dovrà per certo ritornare continuamente, trattandosi della base stessa del programma anarchico. Importa solo notare, per gli scopi della presente polemica, che se mai gli anarchici si convincessero che lo Stato può diventare un’istituzione benefica ed esistere utilmente in una società di liberi ed eguali, allora non bisognerebbe già dire che l’anarchismo ha evoluto verso il socialismo democratico, ma semplicemente che gli anarchici si sono convinti che avevano torto e sono diventati socialisti democratici. E questo non è.
Sulla questione infine dell’astensione elettorale, l’Avanti! ragiona in modo ancora più singolare.
Io avevo detto: "Noi cerchiamo nel movimento operaio la base della nostra forza e la garanzia che la prossima rivoluzione riesca davvero socialista ed anarchica; e ci rallegriamo d’ogni miglioramento che gli operai riescono a conquistare, perchè esso aumenta nella classe lavoratrice la coscienza della sua forza, eccita nuovi bisogni e nuove pretese, ed avvicina il punto limite, dove i borghesi non possono più cedere se non rinunziando ai loro privilegi, e quindi il conflitto violento diventa fatale".
L’Avanti! cita questo brano, ma sopprimendo le parole ch’io ho messo in corsivo, e ne cava delle conclusioni che, se io mi fossi fermato là dove l’Avanti! arresta la citazione, sarebbero perfettamente giuste.
Voi propugnate, dice l’Avanti!, la resistenza operaia nel campo economico per migliorare le condizioni degli operai; ma siccome vi sono miglioramenti impossibili ad ottenersi mediante la semplice resistenza ed ancor meno si può con la resistenza abolire il capitalismo, la logica vi porterà necessariamente alla resistenza politica... che per l’Avanti! è sinonimo di lotta elettorale.
L’Avanti! non ha pensato (quantunque il passaggio da esso soppresso nella citazione delle mie parole lo faceva chiaramente intendere) che la logica potrebbe portarci, e ci porta infatti, alla rivoluzione.
Noi crediamo, per lo meno quanto l’Avanti!, che l’organizzazione corporativa, la resistenza economica e tutto quanto si può fare nel regime attuale, non può risolvere la questione sociale e che, a parte gli effetti morali, appena serve ad assicurare ad una frazione del proletariato dei miglioramenti che bisogna poi difendere con una lotta continua contro le insidie sempre rinascenti dei padroni e siamo convinti che la libertà ed il benessere assicurati a tutti non si avranno se non quando i lavoratori si saranno impossessati dei mezzi di produzione ed avranno avocato a loro l’organizzazione della vita sociale, e che per far questo bisogna sbarazzarsi del potere che sta a guardia del capitalismo e si arroga il diritto di sovranità su tutto e su tutti. Ma crediamo che la lotta elettorale non vale a debellare il potere, e che se anche lo potesse, non farebbe che passarlo in mano di altri senza nessun vantaggio sostanziale per il popolo; e perciò ci sforziamo di allontanare i lavoratori da un mezzo illusorio e dannoso, ed affrettiamo coi voti e coll’opera il giorno in cui, cresciuta a sufficienza la coscienza e la forza dei lavoratori, questi affermeranno coi fatti la ferma decisione di non volere più essere nè sfruttati nè comandati, e prenderan possesso, direttamente e non per delegati, della ricchezza e del potere sociale. Chè se poi questa determinazione dei lavoratori comincerà a manifestarsi mediante il rifiuto del lavoro o il rifiuto del servizio militare o il rifiuto di pagare i fitti ed i dazi, o la confisca popolare dei generi di consumo, o le barricate e le bande armate, è questione che risolveranno le circostanze e che, comunque risoluta, menerà sempre agli stessi risultati: il conflitto violento tra il vecchio mondo che si ostina a vivere ed il nuovo mondo che vuol trionfare sulle rovine di quello.
L’Avanti! a quel che pare ci ha completamente fraintesi: esso ha creduto che noi abbiam cessato di essere rivoluzionari.
Ed invece noi crediamo più che mai nella necessità della rivoluzione; e non già nel senso "scientifico" della parola, nel qual senso spesso si chiamano rivoluzionari anche i legalitari, ma nel senso "volgare" di conflitto violento, in cui il popolo si sbarazza colla forza della forza che l’opprime, ed attua i suoi desideri fuori e contro tutta la legalità.
La nostra evoluzione si riduce a questo: che avendo visto che coi vecchi metodi la rivoluzione non si faceva nè si avvicinava, abbiamo abbracciato metodi che ci sembrano più atti a prepararla ed a farla.
I socialisti democratici credono che siamo in errore e quindi fanno bene a cercare di convertirci, come noi cerchiamo di convertir loro; ma non diano per fatto quello che è un semplice desiderio, non vendano la pelle dell’orso prima che l’orso sia in loro potere.
La Giustizia di Reggio Emilia in uno dei suoi ultimi numeri, riproducendo un passaggio dell’Agitazione, nel quale s’insiste sulla necessità di preparare e rendere possibile la rivoluzione mediante l’organizzazione operaia e la piccola lotta quotidiana, si compiace che noi abbiamo finalmente riconosciuto quello che i socialisti democratici hanno sempre predicato e praticato, e per cui noi li abbiamo aspramente attaccati e vituperati.
Ciò non è esatto.
Le ragioni del nostro dissenso dai socialisti democratici sono state sempre quelle stesse di oggi. Se li abbiamo combattuti con acrimonia non è stato già perchè essi si occupavano del movimento operaio più di quello che facessimo noi, ma perchè essi cercavano e cercano di volgere quel movimento a scopi che noi crediamo dannosi ai veri interessi del socialismo. Che anzi fra le cause per cui gli anarchici hanno per lungo tempo guardato con sospetto le organizzazioni operaie non decisamente rivoluzionarie, ed oggi ancora alcuni dei nostri non mettono nel propugnarle tutto il necessario fervore, vi è, non ultima, quella che i propagandisti del socialismo democratico hanno fatto e fanno tutto il possibile per discreditarle nell’animo nostro servendosene per farsi nominare deputati.
Ed io mi sovvengo di essere stato, nel 1890 o 1891, trattato male dalla Giustizia (non dico ch’io l’abbia trattata meglio) perchè Prampolini voleva che la manifestazione del Primo Maggio si facesse invece la prima Domenica del mese, e gli amici di Reggio pubblicarono uno scritto mio per protestare contro una proposta che levava alla manifestazione il suo significato e la sua importanza. Ciò che prova che io ero in disaccordo colla Giustizia non già perchè quel giornale patrocinava la resistenza operaia più che non facessero i miei amici, ma perchè esso tendeva, almeno a giudizio mio, ad evirare il movimento operaio e l’ostacolava precisamente quando stava per prendere una via, poco atta a favorire candidature al parlamento, ma ottima per abituare i lavoratori ad agire di concerto e dar loro coscienza della propria forza.
Del resto, se gli anarchici hanno a volte ecceduto negli attacchi contro i socialisti democratici, questi ve li hanno gravemente provocati, poichè invece di combatterci per quel che siamo, hanno cercato sempre di presentarci sotto una falsa luce. E proprio La Giustizia si ostinò una volta nel sostenere che gli anarchici non sono socialisti: cosa che procurò molto piacere a Napoleone Colajanni, ma non fece certamente onore allo spirito di verità, che pur d’ordinario distingue, mi compiaccio nel riconoscerlo, l’organo socialista di Reggio Emilia.

4. ELEZIONI E VOTAZIONI

a. "Anarchici" elezionisti29

Poichè non vi è e non vi può essere nessuna autorità che dia o tolga il diritto di dirsi anarchico, siamo ben costretti di tanto in tanto di rilevare l’apparizione di qualche convertito al parlamentarismo che continua, almeno per un certo tempo, a dichiararsi anarchico.
Non troviamo niente di male, niente di disonorante nel cambiare di opinione, quando il cambiamento è causato da nuove sincere convinzioni, e non da motivi d’interesse personale; vorremmo però che uno dicesse francamente quello che è diventato e quello che ha cessato di essere per evitare equivoci e discussioni inutili. Ma forse questo non è possibile, perchè chi cambia d’idee, generalmente al principio non sa egli stesso dove andrà a parare.
Del resto quel che avviene a noi, avviene, ed in proporzioni assai maggiori, in tutti i partiti ed in tutti i movimenti politici e sociali. I socialisti, per esempio, han dovuto soffrire che si dicessero socialisti sfruttatori e politicanti di tutte le specie; ed i repubblicani sono pur costretti oggi a sopportare che certi figuri venduti al partito dominante usurpino niente meno che il nome di mazziniani.
Fortunatamente l’equivoco non può durare a lungo. Ben presto la logica delle idee e la necessità dell’azione inducono i pretesi anarchici a rinunziare spontaneamente al nome e a mettersi nel posto che loro si compete. Gli anarchici elezionisti che sono spuntati fuori in varie occasioni hanno tutti più o meno rapidamente abbandonato l’anarchismo, così come gli anarchici dittatoriali o bolscevizzanti diventano presto bolscevichi sul serio, e si mettono al servizio del governo russo e dei suoi delegati.
Il fenomeno si è riprodotto in Francia in occasione delle elezioni di questi giorni. Il pretesto è l’amnistia. "Migliaia di vittime gemono nelle prigioni e nei bagni penali; un governo di sinistra darebbe l’amnistia; è dovere di tutti i rivoluzionari, di tutti gli uomini di cuore il fare quello che si può per fare uscire dalle urne i nomi di quegli uomini politici che, si spera, darebbero l’amnistia". Questa è la nota che domina nei ragionamenti dei convertiti.
In Italia fu l’agitazione a favore di Cipriani prigioniero che servì di pretesto ad Andrea Costa per trascinare gli anarchici romagnoli alle urne, ed iniziare così la degenerazione del movimento rivoluzionario creato dalla prima Internazionale e finire col ridurre il socialismo ad un mezzo per trastullare le masse ed assicurare la tranquillità della monarchia e della borghesia.
Ma veramente i francesi non hanno bisogno di venire a cercare gli esempi in Italia, poichè ne hanno di eloquentissimi nella storia loro.
In Francia, come in tutti i paesi latini, il socialismo nacque, se non precisamente anarchico, certamente antiparlamentare: e la letteratura rivoluzionaria francese dei primi dieci anni dopo la Comune abbonda di pagine eloquenti, dovute fra le altre alle penne di Guesde e di Brousse, contro la menzogna del suffragio universale e la commedia elettorale e parlamentare.
Poi, come Costa in Italia, i Guesde, i Massard, i Deville e più tardi lo stesso Brousse, furono presi dalla fregola del potere, e forse anche dalla voglia di conciliare la nomea di rivoluzionari con il quieto vivere ed i vantaggi piccoli e grandi che provengono a chi entra nella politica ufficiale, sia pure come oppositore. Ed allora cominciò tutta una manovra per cambiare l’indirizzo del movimento, ed indurre i compagni ad accettare la tattica elettorale. Molto servì anche allora la nota sentimentale: si voleva l’amnistia per i comunardi, bisognava liberare il vecchio Blanqui che moriva in prigione. E con questi cento pretesti, cento espedienti per vincere la ripugnanza che essi stessi, i transfughi, avevano contribuito a far nascere nei lavoratori contro l’elezionismo, e che d’altronde era alimentata dal ricordo ancora vivo dei plebisciti napoleonici e dei massacri perpetrati in giugno 1848 ed in maggio 1871 per il volere delle assemblee uscite dal suffragio universale. Si disse che bisognava votare per contarsi, ma che si voterebbe per gli ineleggibili, per i condannati, o per le donne o per i morti; altri propose di votare schede bianche o con un motto rivoluzionario; altri voleva che i candidati rilasciassero nelle mani dei comitati elettorali delle lettere di dimissione per il caso che fossero eletti. Poi quando la pera fu matura, cioè quando la gente si lasciò persuadere ad andare a votare, si volle essere candidati e deputati sul serio: si lasciarono i condannati marcire in prigione, si rinnegò l’antiparlamentarismo, si disse peste dell’anarchismo; e Guesde attraverso cento palinodie finì ministro del governo dell’"unione sacra", Deville divenne ambasciatore della repubblica borghese, e Massard, credo, qualche cosa di peggio.
Noi non vogliamo mettere in dubbio preventivamente la buona fede dei nuovi convertiti tanto più che tra essi ve n’è un paio con cui abbiamo avuti vincoli d’amicizia personale. In generale queste evoluzioni - o involuzioni che dir si voglia - s’incominciano sempre in buona fede; poi, la logica sospinge, l’amor proprio vi si mischia, l’ambiente vince... e si diventa quello che prima ripugnava.
Forse in questa circostanza non avverrà nulla di quello che temiamo, perchè i neoconvertiti sono pochissimi e ben poca è la probabilità ch’essi trovino larghe adesioni nel campo anarchico, e quei compagni o ex-compagni rifletteranno meglio e riconosceranno il loro errore. Il nuovo governo che sarà installato in Francia dopo il trionfo elettorale del blocco di sinistra, li aiuterà a persuadersi che ben poca differenza v’è tra esso e il governo precedente, non facendo niente di buono nemmeno l’amnistia - se la massa non l’imporrà con l’agitazione. Noi cercheremo, dal nostro punto di vista, di aiutarli ad intender ragione con qualche osservazione, che del resto non dovrebbe esser nuova per chi aveva già accettata la tattica anarchica.
È inutile il venirci a dire, come fanno quei buoni amici, che un po’ di libertà vale meglio che la tirannia brutale senza limite e freno, che un orario ragionevole di lavoro, un salario che permette di vivere un po’ meglio delle bestie, la protezione delle donne e dei bambini sono preferibili ad uno sfruttamento del lavoro umano fino ad esaurimento completo del lavoratore, che la scuola di Stato, per cattiva che sia, è sempre migliore dal punto di vista dello sviluppo morale del fanciullo di quella impartita dai preti e dai frati... Noi ne conveniamo volentieri: e conveniamo pure che vi possono essere delle circostanze in cui il risultato delle elezioni, in uno Stato od in un Comune, può avere delle conseguenze buone o cattive e che questo risultato potrebbe essere determinato dal voto degli anarchici se le forze dei partiti in lotta fossero quasi uguali.
Generalmente si tratta di un’illusione; le elezioni, quando queste sono tollerabilmente libere, non hanno che il valore di un simbolo: mostrano lo stato dell’opinione pubblica, che si sarebbe imposta con mezzi più efficaci e risultati maggiori se non le si fosse offerto lo sfogatoio delle elezioni. Ma non importa: anche se certi piccoli progressi fossero la conseguenza diretta di una vittoria elettorale, gli anarchici non dovrebbero accorrere alle urne e cessare dal predicare i loro metodi di lotta. Poichè non è possibile far tutto al mondo, bisogna scegliere la propria linea di condotta...

b. L’astratto rigorismo degli "intransigenti"30

Comincio a ricevere qualche giornale spagnuolo, che mi fa crescere la volontà di andare sul posto, senza, ohimè! aumentarne la possibilità.
A proposito delle tue osservazioni sul fatto che la caduta della monarchia spagnuola fu determinata da una manifestazione elettorale, ti dirò che è vero che tale fatto darà un certo credito alla lotta elettorale e sarà certamente sfruttato dagli elezionisti nella loro propaganda e nelle eventuali discussioni con noi, ma non infirma la nostra tesi, se fatti e teorie sono debitamente esposti e compresi.
In realtà le elezioni che noi combattiamo, cioè quelle che servono a nominare dei governanti, o tendono, nel periodo preparatorio, a discreditare e paralizzare l’azione diretta delle masse, non sono equiparabili al fatto spagnuolo. Le elezioni municipali spagnuole sono state l’esplosione del sentimento antimonarchico della popolazione, che ha profittato per manifestarsi della prima occasione che si è presentata. La gente è corsa all’urna come sarebbe corsa in piazza a fare una dimostrazione se non avesse avuto paura delle fucilate della Guardia Civile.
Non è detto con ciò che le urne hanno decisa la situazione, poichè se il re non si fosse sentito abbandonato dalle classi dirigenti e se fosse stato sicuro dell’esercito, se ne sarebbe infischiato delle elezioni ed avrebbe messo ordine alle cose con molte manette e qualche buon massacro.
Certamente sarebbe stato molto meglio se la monarchia fosse caduta in altro modo, in seguito per esempio ad uno sciopero generale od un’insurrezione armata, perchè il fatto che il movimento prese le forme elettorali influisce malamente sulla sua natura e sui suoi probabili sviluppi futuri; ma insomma meglio così che nulla. Possiamo deplorare che non vi siano state forze sufficienti per far trionfare i metodi nostri, ma dobbiamo rallegrarci che la gente cerchi, per una via qualsiasi, di conquistare maggiore libertà e maggiore giustizia.
Ti ricordi quando Cipriani fu eletto deputato a Milano? Alcuni compagni furono scandalizzati perchè io, dopo aver predicato l’astensione, mi rallegrai poi del risultato dell’elezione. Io dicevo, e direi ancora, che poichè vi sono quelli che, sordi alla nostra propaganda, vanno a votare, è consolante il vedere che essi votano per un Cipriani piuttosto che per un monarchico o un clericale - non già per gli effetti pratici che la cosa può avere, ma per i sentimenti ch’essa rivela.
Questa delle elezioni è stata sempre una maledetta questione anche in mezzo a noi stessi, perchè molti compagni danno estrema importanza al fatto materiale del voto e non capiscono la natura vera della questione.
Per esempio, una volta a Londra una sezione municipale distribuì delle schede per domandare agli abitanti del quartiere se volevano o no la fondazione di una biblioteca pubblica. Crederesti tu che vi furono degli anarchici i quali, pur desiderando la biblioteca, non volevano rispondere sì, perchè rispondere era votare?
E non vi erano, almeno a tempo mio, a Parigi e a Londra di quelli che trovavano anti-anarchico l’alzare la mano in un comizio per approvare l’ordine del giorno che esprimeva le loro idee? Applaudivano gli oratori che sostenevano una data risoluzione, ma poi si rifiutavano di manifestare la loro approvazione con un’alzata di mano o con un sì, perchè gli anarchici non votano.
Ritornando alla Spagna, naturalmente la questione si posa differentemente a riguardo delle elezioni per le Cortes Costituentes. Qui si tratta veramente di un corpo legislativo che gli anarchici non debbono riconoscere ed alla cui elezione non possono partecipare. Naturalmente se Costituente vi deve essere è preferibile ch’essa sia repubblicana e federalista anziché monarchica e accentratrice; ma il compito degli anarchici resta quello di sostenere e mostrare che il popolo può e deve organizzare da sè il nuovo modo di vita e non già sottoporsi alla legge. Ed io credo che si può obbligare la Costituente ad essere il meno reazionaria possibile ed impedire ch’essa strozzi la rivoluzione meglio agendo di fuori che standovi dentro.
Io cercherei di opporre alla Costituente dei Congressi permanenti (locali, provinciali, regionali, nazionali) aperti a tutti, i quali, appoggiandosi sulle organizzazioni operaie, discuterebbero tutte le questioni (espropriazione, organizzazione della produzione, ecc.) stabilirebbero rapporti volontari fra le varie località e le varie corporazioni, consiglierebbero, spronerebbero, ecc.
Ma è meglio smettere. Tu riceverai questa mia quando forse la situazione sarà cambiata; ed io riceverò la tua risposta quando vi sarà stato forse un altro cambiamento.

3. Gli anarchici e il movimento operaio

1. SINDACALISMO E MOVIMENTO SINDACALE

a. Il sindacalismo al congresso anarchico di Amsterdam31

La discussione sul sindacalismo e lo sciopero generale fu certamente, al Congresso Internazionale Anarchico di Amsterdam, la più importante; ed è ben naturale, poichè si trattava di una questione d’interesse pratico ed immediato, che ha il più grande valore sull’avvenire del movimento anarchico e sui suoi probabili risultati, e poichè precisamente su questa questione si manifestò la sola differenza seria di opinione tra i congressisti, gli uni dando all’organizzazione operaia ed allo sciopero generale un’importanza eccessiva considerandoli quasi la stessa cosa che anarchismo e rivoluzione, gli altri insistendo sulla concezione integrale dell’anarchismo e non volendo considerare il sindacalismo che come un mezzo potente, ma d’altra parte pieno di pericoli, per avviare alla realizzazione della rivoluzione anarchica.
La prima tendenza fu rappresentata principalmente dal compagno Monatte, della Confédération Générale du Travail di Francia, con un gruppo ch’ei volle chiamare dei "giovani" malgrado le proteste dei giovani, assai più numerosi, della tendenza opposta.
Monatte, nel suo notevole rapporto, ci parlò lungamente del movimento sindacalista francese, dei suoi metodi di lotta, dei risultati morali e materiali ai quali è già arrivato, e finì col dire che il sindacalismo è di per se stesso sufficiente come mezzo per compiere la rivoluzione sociale e realizzare l’anarchia.
Contro quest’ultima affermazione insorsi energicamente. Il sindacalismo, io dissi, anche se si abbiglia dell’aggettivo rivoluzionario, non può essere che un movimento legale, un movimento di lotta contro il capitalismo entro i limiti che il Capitalismo e lo Stato gli impongono.
Esso non ha dunque uscita, e non potrà ottenere nulla di permanente e di generale, se non cessando di essere il sindacalismo, e promovendo non più il miglioramento delle condizioni dei salariati e la conquista di qualche libertà, ma l’espropriazione della ricchezza e la distruzione radicale dell’organizzazione statale.
Io riconosco tutta l’utilità, la necessità stessa, della partecipazione attiva degli anarchici al movimento operaio, e non ho bisogno d’insistere per essere creduto, giacché sono stato dei primi a dolermi dell’attitudine d’isolamento superbo che presero gli anarchici dopo lo sfacimento dell’antica Internazionale, ed a spingere di nuovo i compagni sulla via che Monatte, dimenticando la storia, chiama nuova. Ma ciò è utile alla sola condizione che si resti sopratutto anarchici e che non si cessi di considerare tutto il resto dal punto di vista della propaganda e dell’azione anarchiche.
Io non domando che i sindacati adottino un programma anarchico e siano composti di soli anarchici. In questo caso sarebbero inutili, giacchè farebbero doppio ufficio con i gruppi anarchici, e non avrebbero più la qualità che li rende cari agli anarchici, vale a dire quella d’essere oggi un campo di propaganda, e domani un mezzo per condurre la massa sulla via a farle prendere in mano il possesso delle ricchezze e l’organizzazione della produzione per la collettività. Io voglio dei sindacati largamente aperti a tutti i lavoratori, che cominciano a sentire il bisogno di unirsi ai loro compagni per lottare contro i padroni; ma io conosco anche tutti i pericoli che presentano per l’avvenire dei gruppi fatti allo scopo di difendere, nella società attuale, degli interessi particolari, e domando che gli anarchici che sono nei sindacati si diano per missione di salvaguardare l’avvenire, lottando contro la tendenza naturale di questi gruppi a divenire delle corporazioni chiuse, in antagonismo con altri proletari anche più che con i padroni.
Forse la causa del malinteso si trova nella credenza, secondo me erronea benchè generalmente accettata, che gli interessi degli operai sono solidali, e che, conseguentemente, basta che degli operai si mettano a difendere i loro interessi e ad aspirare al miglioramento delle loro condizioni, perchè siano naturalmente condotti a difendere gli interessi del proletariato contro il patronato.
La verità è, secondo me, ben differente. Gli operai subiscono, come tutti, la legge d’antagonismo generale che deriva dal regime della proprietà individuale; ed ecco perchè gli aggruppamenti di interessi, rivoluzionari sempre al principio, finchè deboli e bisognosi della solidarietà degli altri, divengono conservatori ed esclusivisti quando acquistano della forza, e con la forza, la coscienza dei loro interessi particolari. La storia del tradunionismo inglese ed americano è là per dimostrare in qual modo si è prodotta questa degenerazione del movimento operaio allorchè esso si è appartato nella difesa degli interessi attuali.
È solamente in vista d’una trasformazione completa della società che l’operaio può sentirsi solidale con l’operaio, l’oppresso solidale con l’oppresso; ed è compito degli anarchici il tener sempre vivo il fuoco dell’ideale e procurare di orientare più che possibile tutto il movimento verso le conquiste dell’avvenire, verso la rivoluzione, anche, ove occorra, a detrimento dei piccoli vantaggi che può ottenere oggi qualche frazione della classe operaia, e che, del resto, non si ottengono il più sovente che a spese di altri lavoratori e del pubblico consumatore.
Ma per poter adempiere questa funzione d’elementi propulsori nei sindacati, bisogna che gli anarchici s’interdicano l’occupazione dei posti e soprattutto dei posti pagati.
Un anarchico funzionario permanente e stipendiato d’un sindacato è un uomo perduto come anarchico.
Io non dico che talvolta non possa fare del bene; ma è un bene che potrebbero fare, al suo posto e meglio di lui, uomini di idee meno avanzate, mentre lui per conquistare e mantenere il suo impiego deve sacrificare le sue opinioni personali e fare spesso cose le quali non hanno altro scopo se non di farsi perdonare la menda originale d’anarchico.
D’altra parte la questione è chiara. Il sindacato non è anarchico, ed il funzionario è nominato e pagato dal sindacato: se egli fà opera d’anarchico, si mette in opposizione con quelli che pagano e bentosto perde il suo posto od è causa della dissoluzione del sindacato; se, al contrario, compie la missione per la quale è stato nominato, secondo la volontà della maggioranza, allora addio anarchismo.
Osservazioni analoghe feci relativamente a quel mezzo d’azione proprio del sindacalismo che è lo sciopero generale. Noi dobbiamo accettare, dissi, e propagare l’idea dello sciopero generale come un mezzo assai agevole per cominciare la rivoluzione, ma non dobbiamo crearci l’illusione che lo sciopero generale potrà rimpiazzare la lotta armata contro le forze dello Stato.
È stato detto sovente che con lo sciopero gli operai potranno affamare i borghesi e costringerli a cedere. Non saprei immaginare una più grande assurdità. Gli operai sarebbero già da gran tempo morti di fame prima che i borghesi, i quali dispongono di tutti i prodotti accumulati, comincino a soffrire seriamente.
L’operaio, che nulla possiede, non ricevendo più il suo salario dovrà a viva forza impadronirsi dei prodotti: troverà i gendarmi, i soldati, i borghesi stessi che vorranno impedirglielo; e la questione si dovrà bentosto risolvere a colpi di fucile, di bombe, ecc. La vittoria resterà a chi saprà essere più forte. Prepariamoci dunque a questa lotta necessaria, anzichè limitarci a predicare lo sciopero generale come una specie di panacea, che dovrà risolvere tutte le difficoltà. Per conseguenza, anche come modo di cominciare la rivoluzione, lo sciopero generale non potrà essere impiegato che in maniera assai relativa.
I servizi d’alimentazione, ivi compresi naturalmente quelli dei trasporti delle derrate alimentari, non ammettono una lunga interruzione: bisogna dunque rivoluzionariamente impadronirsi dei mezzi per assicurare l’approvvigionamento anche prima che lo sciopero si sia, per sè stesso, svolto in insurrezione. Prepararsi a fare ciò non può essere funzione del sindacalismo; questo può soltanto fornire le schiere per compierlo.
Su tali questioni, così esposte da Monatte e da me, s’impegnò una discussione interessantissima, quantunque un po’ soffocata dalla mancanza di tempo e dalla necessità seccante di tradurre in parecchie lingue. Si concluse proponendo diverse risoluzioni, ma non mi sembrò che le differenze di tendenze siano state felicemente definite; occorre anzi molto acume per scoprirvele ed infatti la maggior parte dei congressisti non ve ne scoprirono affatto e votarono egualmente le diverse risoluzioni.
Questo non impedisce che due tendenze reali si siano manifestate, benchè la differenza esista più nella previsione delle sviluppo futuro, che nelle intenzioni attuali delle persone. In effetti, sono convinto che Monatte ed il gruppo dei "giovani" sono tanto sinceramente e profondamente anarchici e rivoluzionari quanto non importa qual "vecchia barba". Essi si dorranno come noi degli errori che si produrranno fra funzionari sindacalisti; soltanto, essi li attribuiranno a debolezze individuali. E qui sta l’errore. Se si trattasse di colpe imputabili ad individui, il male non sarebbe grande: i deboli spariscono subito ed i traditori sono subito conosciuti e messi nell’impossibilità di nuocere. Ma ciò che rende il male serio, è che questo dipende dalle circostanze nelle quali i funzionari sindacalisti si trovano. Io impegno i nostri amici anarchici sindacalisti a riflettervi, ed a studiare le posizioni rispettive del socialista che diventa deputato e dell’anarchico che diventa funzionario del sindacato: forse il paragone non sarà inutile.

b. Gli anarchici e le leghe operaie32

Come abbiam detto altre volte, e come giova sempre ripetere, noi siamo partigiani convinti del movimento operaio, o sindacale che voglia dirsi.
Esso mette i lavoratori in lotta contro gli sfruttatori, li abitua all’azione collettiva, alla pratica della solidarietà ed offre un terreno propizio alla propaganda delle nostre idee. Di più, esso dà il mezzo per potere, in date circostanze, chiamare il popolo in piazza e realizzare una delle condizioni essenziali per una insurrezione vittoriosa, e può sopperire poi alle prime necessità pratiche dell’indomani della vittoria
Ma non per questo noi siamo sindacalisti, se per sindacalismo s’intende quella dottrina che vede nel fatto solo del sindacato operaio una virtù speciale che deve automaticamente, quasi senza la coscienza e la volontà degli operai associati, portare all’emancipazione dal giogo capitalistico ed alla costituzione di una nuova società.
Noi non crediamo a questa virtù rinnovatrice propria del sindacato - ed i fatti non confortano a credervi.
I sindacati operai han servito e servono ai conservatori, ai preti, agli arrivisti di tutte le specie, come possono servire ai rivoluzionari, e se tendenza propria, naturale, indipendente dalle influenze esterne, extraeconomiche, essi hanno, è piuttosto quella di dividere la massa in corporazioni chiuse, lottanti per interessi particolari in opposizione agli interessi della generalità.
I sindacati sorgono per resistere alle esigenze dei padroni, per reclamare dei miglioramenti, per affermare un desiderio di emancipazione, ed è bene, ma non basta. Se un principio superiore di giustizia per tutti non ispira gli associati, se al di sopra delle questioni d’interesse personale, immediato, non vi sono delle aspirazioni ideali che spingono a sacrificare l’oggi per il domani, il bene particolare per il bene generale, la lotta contro i padroni prende sempre, nella pratica, un carattere come di concorrenza fra commercianti, e finisce in transazioni ed accomodamenti, che creano forse nuovi privilegi per alcuni favoriti dalle circostanze, ma confermano la massa nella sua servitù. E la difesa della "tariffa sindacale" diventa lotta contro gli altri lavoratori e contro il pubblico in generale.
Quindi quando noi domandiamo che i sindacati siano neutri, cioè aperti a tutti i lavoratori senza distinzioni di opinioni e di partiti, non è perchè crediamo che basti associarsi in vista della lotta economica e che il resto verrà da sè, ma è semplicemente perchè solo con la neutralità politica e religiosa si può raccogliere tutta la massa, o gran parte della massa, per i fini della propaganda e dell’azione rivoluzionaria. Vogliamo che i sindacati siano neutri, perchè non possiamo averli anarchici. E anarchici non possiamo averli, perchè per questo bisognerebbe che tutta la massa fosse anarchica, o altrimenti il sindacato si confonderebbe col gruppo anarchico, e lo scopo di raccogliere gli arretrati per propagandarli ed allenarli alla lotta verrebbe a mancare.
Secondo noi dunque, il sindacato deve restar neutro, per poter restare aperto a tutti - ma nel suo seno bisogna lavorare perchè esso diventi di fatto sempre più rivoluzionario, sempre più socialista, sempre più anarchico. E perciò gli anarchici dovrebbero prendere parte attiva al movimento operaio, favorire e promuovere la costituzione di sindacati e federazioni di sindacati, appoggiare e provocare scioperi, ed essere sempre solidali cogli operai in qualunque lotta essi impegnino contro i padroni e contro le autorità; ma dovrebbero farlo con criteri propri - cioè badando alle finalità ulteriori più che al piccolo vantaggio immediato, agli effetti educativi più che agli effetti puramente economici, e cercando di sviluppare e mantener vivo lo spirito di combattività contro i padroni ed il sentimento di fratellanza e di solidarietà con tutti gli oppressi, siano essi organizzati o non organizzati.
Gli anarchici dovrebbero anzitutto combattere contro la costituzione, nel seno del movimento operaio di una classe di funzionari e di dirigenti che unirebbero coll’avere uno spirito e degl’interessi opposti a quelli della massa, ed in ogni agitazione temerebbero per i loro salari e le loro posizioni - e perciò dovrebbero cercare che il lavoro di amministrazione ridotto alla più semplice espressione, sia fatto, per quanto è possibile, gratuitamente, da volontari che si sostituiscono e si alternano nelle cariche sociali: o quando fosse necessario compensare chi vi dedica il suo tempo, che il compenso non sia superiore al salario medio che guadagnano i lavoratori in quel dato mestiere, ed il personale impiegato si rinnovelli il più sovente possibile.
Gli anarchici dovrebbero cercare che l’organizzazione avesse una vita attiva, con riunioni generali e discussioni frequenti per impedire che il socio comune finisca col diventare un semplice passivo contributore di quote.
Dovrebbero impedire che le leghe di resistenza si occupassero di mutuo soccorso, intraprese cooperative ed altre mansioni che rifuggono naturalmente dai rischi della lotta e cointeressano in certo modo il lavoratore al mantenimento dell’ordine vigente.
Dovrebbero combattere le alte quote e la costituzione di forti casse, che paralizzano l’organizzazione e ne arrestano lo slancio colla paura di perdere il denaro. Le leghe dovrebbero, sì, educare i soci ai sacrifizii anche pecuniarii, ma impiegare il ricavato nella lotta, nella propaganda in opere di solidarietà senza accumulare.
Gli anarchici dovrebbero, primi nei rischi e nei sacrifizii, rifiutarsi assolutamente di servire da intermediari coi padroni e colle autorità; ed in caso di sconfitta subirla, se non si può fare altrimenti coll’animo intento alla rivincita, e non mai accettarla come il risultato di un accordo che vi tiene moralmente obbligati.
Dovrebbero combattere ogni contratto che lega i lavoratori per un dato tempo, e provocare in essi uno stato d’animo che fa loro sentire la loro vera condizione di schiavi costretti dalla forza, anche quando apparentemente sembrano liberi contraenti.
Questa tattica, che ci pare indicata dal fine che gli anarchici si propongono, non è forse la più adatta per la costituzione di associazioni, stabili, vaste e ricche. Ma noi non crediamo nell’utilità, nella potenza reale di organizzazioni mastodontiche, che per la troppa mole non possono muoversi e per il troppo denaro sviluppano istinti conservativi e bottegai.
Quello che importa è lo spirito di lotta, lo spirito di solidarietà, lo spirito di associazione. Se una lega, una federazione si sfascia in conseguenza della lotta e delle persecuzioni, non fa nulla, quando i suoi membri sono coscienti e le loro aspirazioni sussistono: essa è presto ricostituita appena è passata la bufera. Una forte, solida organizzazione che non si muove per paura di sfasciarsi è un peso morto, un ostacolo al progresso.
Nel caso che esistano più organizzazioni rivali, come è il caso ora in Italia con l’Unione Sindacale e la Confederazione del Lavoro, quale è il contegno che debbano tenere gli anarchici?
Secondo noi, gli anarchici debbono favorire quelle organizzazioni che più si accostano ai loro metodi ed ai loro ideali, e stare, nei periodi di lotta attiva, con quelle che sono in lotta. Dal resto, entrare in tutte le organizzazioni, in tutti gli aggruppamenti dove sia possibile farlo senza prendere impegni contrari alle proprie convinzioni e dove si vede la probabilità di fare una propaganda utile ed esercitare un’azione feconda. Tenersi estranei il più possibile alle beghe personali, e spronare i lavoratori ad agire da loro stessi senza bisogno di capi e soprattutto senza sposare gli odi e le rivalità di coloro che posano a capi. Combattere l’ingerenza nelle organizzazioni operaie dei politicanti e degli arrivisti che si vogliono far sgabello dei lavoratori per aprirsi una carriera nel mondo borghese.
Vi sono degli anarchici che avversano ogni organizzazione per la lotta economica e se ne tengono rigorosamente lontani. A noi pare una tattica sbagliata.
Certamente la lotta economica finché resta solo lotta economica, non può risolvere la questione sociale.
I miglioramenti possibili in regime capitalista, se diventano generali, sono annullati dal gioco stesso dei fattori economici, e quando si trattasse di attaccare nelle sue parti vitali il privilegio dei proprietari, interverrebbe il potere politico a garantire colla forza brutale il mantenimento dell’ordine legale.
Dunque la questione deve in definitiva risolversi sul terreno politico, cioè colla lotta contro il governo. Se i lavoratori riusciranno ad abbattere il governo, il quale in ultima analisi non è che la forza armata che sta a difesa del privilegio, potranno prender possesso della ricchezza sociale e divenire veramente liberi. Se no, no.
Ma per abbattere il governo ed abbatterlo a scopo di emancipazione generale, bisogna avere con noi quanta più massa è possibile, ed una massa quanto più è possibile cosciente dello scopo per cui si deve fare la rivoluzione. E la massa non viene alle idee anarchiche così di botto, senza un tirocinio più o meno graduale.
Bisogna dunque entrare in contatto colla massa, per sospingerla avanti ed averla con noi in piazza, i giorni della lotta risolutiva. Le organizzazioni economiche ci sembrano uno dei mezzi migliori di cui disponiamo.
Certo occorre nella preparazione dei mezzi non perdere di vista il fine. Ma occorre pure di non trascurare, nella contemplazione astratta del fine, i mezzi atti a raggiungerlo.

2. NECESSITÀ E PROBLEMI DEL MOVIMENTO OPERAIO

a. Gli anarchici nel movimento operaio33

Lasciando da parte i conservatori ed i borghesi di tutte le categorie i quali, se s’interessano alle associazioni operaie, è semplicemente nello scopo di far argine con l’inganno alla marea emancipatrice che sale e servirsi come mezzo di asservimento di un movimento che per sua natura dovrebbe essere movimento di liberazione, vi sono tra i riformatori sociali tre partiti (o scuole) principali, che si trovano, o dovrebbero trovarsi, più o meno d’accordo nelle piccole lotte quotidiane per la difesa degl’interessi operai in regime borghese, ma si dividono radicalmente in quanto agli scopi ultimi a cui vogliono condurre il movimento e quindi anche nel genere di propaganda che fanno nel suo seno e nei tipi di organizzazione che preferiscono. Essi sono i socialisti, i sindacalisti e gli anarchici, tutti e tre convinti che per emancipare i lavoratori ed instaurare un migliore ordine sociale, bisogna abbattere il sistema capitalistico, ma divisi sulla concezione della società futura e sulle vie per arrivarvi.
I socialisti, fra i quali comprendo anche la frazione che ora si intitola comunista, vogliono diventare governo, non importa ora se con mezzi legali o con la violenza. Essi credono possedere la ricetta per guarire tutti i mali e risolvere tutti i problemi sociali, e vogliono imporre quella loro ricetta in nome di una pretesa maggioranza legalmente constatata o con la dittatura usurpata da alcuni individui in nome del loro partito. Le masse debbono servire solamente per fornire i voti e le braccia necessarie per mandare al potere i capi del partito, e tutta la tattica è diretta allo scopo di sottomettere al partito le organizzazioni operaie. Perciò i dirigenti socialisti (e peggio se "comunisti") delle organizzazioni si sottraggono il più possibile al controllo degli organizzati, soffocano ogni autonomia ed ogni spirito d’iniziativa e col pretesto della disciplina nelle azioni collettive educano gli operai all’ubbidienza passiva ai capi. In tal modo essi si foggiano l’arme per andare al potere e preparano le masse a piegarsi docilmente sotto la fèrula del governo di domani.
I sindacalisti hanno delle concezioni più libertarie Essi vogliono rendere inutile lo Stato, esautorarlo e distruggerlo mediante i sindacati che a poco a poco dovrebbero assorbire tutte le funzioni della vita sociale. Naturalmente per questo è necessario che i mezzi di produzione (terra, materie prime macchine, ecc.) fossero diventate proprietà collettiva dei sindacati, comunque federati tra loro.
Non è qui il luogo di discutere questo programma; ma è certo che per attuarlo bisognerebbe prima espropriare i detentori della ricchezza sociale, e siccome essi sono difesi dalla forza armata dello Stato, bisognera vincere questa forza. E perciò i sindacalisti quantunque in teoria amino dire che il sindacalismo basta a sè stesso, debbono poi nella pratica, o pensare ad impadronirsi dello Stato, col voto o con la violenza, e diventano socialisti, o pensare a distruggerlo e diventano anarchici.
Questa loro inconsistenza programmatica si rispecchia nella storia delle organizzazioni operaie a tendenza sindacalista: presto o tardi si presentano le circostanze in cui dal terreno puramente sindacale bisognò passare alla lotta politica propriamente detta, ed allora viene fuori la divergenza e l’incompatibilità tra i riformisti ed i rivoluzionari, i parlamentaristi e gli antiparlamentaristi, i socialisti e gli anarchici, che si trovavano riuniti sotto il mantello di una mentita neutralità sindacale. E allora cominciano le lotte intestine e le scissioni. Intanto, finchè l’equivoco dura, si fa in quelle organizzazioni opera d’azione diretta, si lascia libertà di propaganda alle correnti più avanzate e si abituano le masse ad una fierezza e ad una volontà di lotta che è ottimo tirocinio per preparare alla rivoluzione. Noi anarchici non possiamo identificarci con quelle come con nessun’altra organizzazione operaia, ma dobbiamo preferirne alle altre come il campo più adatto per estendere la nostra influenza, incoraggiarle, parteciparvi in tutti i modi non contraddittori con le idee nostre, senza per questo inibirci l’entrata in qualsiasi altra organizzazione dove crediamo poter fare opera utile di propaganda, di critica e di sprone. È quello che più o meno bene si è fatto finora; ora è tempo, io credo, di concordare un piano più organico per poter agire con maggiore efficacia sul movimento e meglio utilizzarlo ai nostri fini.
Le organizzazione operaie vivono in tali condizioni, subiscono necessità tali che la posizione degli anarchici che vi lavorano dentro diventa difficile, e certe volte incompatibile sempre che dalla predicazione teorica, dalla propaganda avveniristica bisogna passare alle misure pratiche richieste dalla lotta effettiva.
Fatte per difendere gli interessi attuali, immediati degli operai in regime di proprietà privata e di salariato, proponendosi di riunire il più gran numero possibile di lavoratori senza badare alle differenze di opinioni religiose e politiche o alla mancanza di una qualsiasi opinione determinata, dovendo attenuare gli effetti senza poter distruggere le cause della soggezione dei lavoratori, anche quando nel programma hanno scritto l’abolizione del salariato e l’emancipazione integrale, debbono nella pratica quotidiana accettare il fatto del dominio e del profitto capitalistico e limitarsi e rendere, mediante una continua resistenza, meno assoluto quel dominio ed assicurare al produttore una meno scarsa parte del prodotto. In esso anche il più deciso rivoluzionario deve subire il metodo riformista che è quello di conquistare poco a poco dei miglioramenti, che poi si perdono tutto d’un tratto quando le cause persistenti del male sociale, cioè il profitto e la concorrenza capitalistica, menano alle ricorrenti crisi di disoccupazione e di concorrenza per il pane tra gli stessi salariati. Poichè tutti i vantaggi del metodo rivoluzionario, buoni a mettere avanti per far comprendere la necessità della rivoluzione, non hanno efficacia positiva se non quando la rivoluzione si fa. E la rivoluzione non si può fare tutti i giorni!
Ma questo è il meno. L’inconveniente più grave sta nel fatto degli interessi contrastanti tra le diverse categorie di lavoratori e tra ciascuna categoria di produttori ed il pubblico dei consumatori.
Si suol dire che i proletari hanno un interesse comune nella lotta contro i padroni e quindi debbono essere tutti solidali tra di loro - ed è vero se si tratta dell’interesse di abolire il patronato ed instaurare una società in cui tutti lavorino per il maggior bene di ciascuno e di tutti. Ma non è punto vero nella società attuale dove l’industriale ed il proprietario di terre per far salire i prezzi ed assicurarsi un maggiore profitto e per poter inoltre mantenere bassi i salari, cercano di limitare la produzione e causano la penuria dei prodotti e mancanza di lavoro.
Così si stabilisce un antagonismo spesso involontario ed inconscio, ma naturale e fatale tra chi lavora e chi è disoccupato, tra chi ha un posto buono e sicuro e chi guadagna poco e sta sempre in pericolo di essere licenziato, tra chi sa il mestiere e chi vuole impararlo, tra il maschio che ha il monopolio della professione e la donna che si affaccia sul terreno della concorrenza economica, tra l’indigeno e l’immigrato, tra lo specialista che vorrebbe proibire agli altri la sua specialità e gli altri che non vogliono riconoscere il monopolio, e poi in generale tra categoria e categoria secondo che gl’interessi transitori o permanenti dell’una contrastano cogli interessi dell’altra. Alcune categorie si avvantaggiano della protezione doganale, altre ne soffrono; alcune desiderano certi interventi dall’autorità statali, certe leggi e certi regolamenti, mentre altre lottano in migliori condizioni se il governo non si mischia dei loro affari.
D’altra parte esiste un antagonismo permanente fra ciascuna categoria di lavoratori e gli altri lavoratori in quanto sono consumatori dei prodotti di quella. Ogni aumento di salario di una categoria si traduce in un aumento di prezzo dei suoi prodotti e causa danno al pubblico, fino a quando l’aumento dei salari di tutte le categorie ristabilisce l’equilibrio e rende illusorio il benefizio dell’aumento.
Così avviene che tante organizzazioni operaie, sorte per iniziativa di pochi generosi con largo spirito di solidarietà umana e fieri propositi di battaglia, si sono poi, a misura che son cresciute di numero e di potenza, moderate, corrotte e trasformate in corporazioni chiuse, preoccupate solo dell’interesse dei soci in opposizione ai non soci.
Aggiungiamo a tutto questo la burocrazia parassitaria che si sviluppa nel loro seno, i capi che s’installano alla dirigenza e manovrano come dei semplici politicanti per restarvi in permanenza, gli scopi politici antiproletari o antilibertari a cui spesso sono fatti servire, i contatti ripugnanti ma inevitabili colle autorità, e ci spiegheremo facilmente l’antipatia e l’ostilità, che certi compagni, ora credo ridotti a pochissimi, manifestano contro le organizzazioni operaie.

Ma è consigliabile, è utile, è possibile per gli anarchici restar fuori delle organizzazioni operaie, o parteciparvi solo passivamente, semplicemente in quanto sono operai che hanno bisogno di lavorare e non vogliono fare i crumiri?
A me sembra che sarebbe una sciocchezza, che ammonterebbe in pratica ad un tradimento della causa rivoluzionaria, o più generalmente, della causa del progresso e della emancipazione umana.
Il movimento operaio è ormai uno dei fattori principali della storia di oggi e di quella del prossimo domani, e disinteressarsene significherebbe mettersi fuori della vita reale, rinunziare ad esercitare un’azione sensibile sugli avvenimenti, lasciare che i socialisti, i comunisti, i clericali ed altri partiti di governo difendendo o affettando di difendere gl’interessi attuali degli operai, interessi piccoli e transitori ma pur necessari a chi vive oggi, acquistino la fiducia delle masse e se ne servano per arrivare al potere, con questo o con un altro regime, e mantenere il popolo nella schiavitù.
Le organizzazioni operaie per la resistenza contro i padroni sono il mezzo migliore, forse l’unico accessibile a tutti, per entrare in contatto permanente colle grandi masse, farvi la propaganda delle idee nostre, predisporle alla rivoluzione e spingerle o trascinarle in piazza per qualunque azione preparatoria o definitiva. In esse gli oppressi ancora docili e sommessi s’iniziano alla coscienza dei loro diritti e della forza che possono trovare nell’accordo coi compagni di oppressione: in esse comprendono che il padrone è il loro nemico, che il governo, già ladro ed oppressore per la natura sua, è sempre pronto a difendere i padroni, e si preparano spiritualmente al rovesciamento totale del vigente ordine sociale.
Fuori delle associazioni operaie noi possiamo fare la propaganda orale e scritta, organizzare gruppi di studio o d’azione, pagare di persona in tutte le occasioni, ma resteremmo sempre impotenti a dare un indirizzo nostro al corso degli eventi e dovremmo accodarci agli altri, offrirci agli altri, i quali sfrutterebbero il nostro lavoro ed i nostri sacrifici per fini non nostri, anzi contrari ai nostri.
D’altronde, a causa del nostro programma, noi siamo più che qualunque altro partito interessati ad un largo sviluppo del movimento operaio. Noi non vogliamo governare e vogliamo nel limite delle nostre forze impedire che altri governino, cioè che impongano con la forza i propri piani ed i propri sistemi di vita sociale. Noi vogliamo che la nuova società si sviluppi secondo il volere libero, cangiante, progrediente delle masse (di cui naturalmente siamo parte anche noi) e per farlo è utile, necessario che il giorno della rivoluzione vi sia un numero quanto più grande è possibile d’operai comunque organizzati, pronti a continuare la produzione, a stabilire le necessarie relazioni tra paese e paese e tra categoria e categoria, provvedere alla distribuzione ed a tutti i bisogni della vita, senza affidare a nessuno il potere di imporre con la forza delle "guardie rosse" i propri voleri ed i propri interessi.
Dunque a parer mio, gli anarchici dovrebbero penetrare in tutte le organizzazioni operaie, farvi propaganda acquistarvi influenza ed accettare in esse tutte le funzioni e tutte le responsabilità compatibili con la loro qualità di anarchici.
La cosa non è senza pericoli d’addomesticamento, di deviazione, di corruzione e molti dolorosi e vergognosi esempi si possono citare contro la mia tesi.
Ma come fare? Se si vuole agire bisogna correre i rischi dell’azione, che in questo caso sono rischi morali, e diminuirli colla prescrizione di una linea di condotta ben determinata e con un continuo mutuo controllo tra compagni.
Se vi sono dei compagni i quali considerano l’anarchia come un ideale di perfezione individuale e sociale che si realizzerà forse tra qualche migliaio d’anni, e credono che tutto quello che v’è da fare oggi sia il tenere la fiaccola accesa per il culto di pochi, essi hanno delle buone ragioni per tenersi lontani dai contatti impuri e dalle posizioni compromettenti.
Ma la grande maggioranza degli anarchici ed in specie quelli aderenti all’U.A.I.34 sono d’opinione se io non interpreto male il loro pensiero, che gl’individui non si perfezionerebbero e l’anarchia non si realizzerebbe nemmeno fra qualche migliaio d’anni, se prima non si creasse per mezzo della rivoluzione fatta dalle minoranze coscienti il necessario ambiente di libertà e di benessere. Per questo vogliamo fare la rivoluzione al più presto possibile, e per farla abbiamo bisogno di mettere a profitto tutte le forze utili e tutte le circostanze opportune cosi come la storia ce le fornisce.
Le organizzazione operaie non possono essere composte di soli anarchici e non è desiderabile che lo fossero, perchè allora sarebbero un inutile duplicato dei gruppi anarchici e mancherebbero al loro scopo specifico. Gli anarchici che vi lavorano dentro non possono sempre condursi da anarchici come non si può condursi da anarchici vivendo nella società attuale, ma vi possono costituire dei gruppi anarchici che esercitino un’azione di propulsione e di controllo e debbono condursi da anarchici quanto più è possibile.
Vi sono in Italia varie grandi organizzazioni operaie. Noi dobbiamo lavorare e lottare in tutte quante, perchè in tutte vi sono sfruttati che han bisogno di emanciparsi, in tutte si può far propaganda e dar l’esempio dell’energia e dello spirito di solidarietà. Dove è il caso, dobbiamo preferire quelle che più si avvicinano a noi, ma non dobbiamo abbandonare le altre al monopolio dei nostri avversari. E dobbiamo appoggiarci ed intenderci tra noi per il lavoro che facciamo nelle varie organizzazioni e per l’atteggiamento da prendere e per l’azione da svolgersi nelle varie occasioni.
Perciò io proporrei che tutti gli anarchici che si trovano in grado di esercitare dell’influenza nelle organizzazioni operaie stabiliscano tra di loro un’intesa permanente e si tengano in rapporti regolari per agire d’accordo.

b. La funzione del sindacato nella rivoluzione35

Il mio articolo recente su Sindacalismo e Anarchismo ha suscitato dei dubbi in alcuni compagni, che pur sono d’accordo sulla tesi generale ch’io sostenevo.
Uno di essi mi scrive:
"Visto che non salteremo a piè pari dalla società borghese a quella anarchica bell’e organizzata, non potrebbero essere i sindacati - quelli dei mestieri utili, si capisce, non quelli dei marmisti o dei gioiellieri! - gli organi per lo meno provvisori necessari a continuare l’organizzazione della produzione e della distribuzione che dovrà continuare senza interruzione anche in periodo rivoluzionario?"
Perfettamente. Ed appunto perchè sono convinto che i sindacati possono e debbono esercitare una funzione utilissima, e forse necessaria, nel passaggio della società attuale alla società ugualitaria, io vorrei che essi fossero giudicati al loro giusto valore e che si tenesse sempre presente la loro naturale tendenza a diventare delle corporazioni chiuse intente solo a propugnare gl’interessi egoistici della categoria, o, peggio ancora, dei soli organizzati, per potere meglio combatterla ed impedire che essi diventino degli organi di conservazione. Così come appunto perchè riconosco l’utilità grandissima che possono avere le cooperative nell’abituare gli operai alla gestione dei loro affari e del loro lavoro, e funzionare, all’inizio della rivoluzione, quali organi già pronti per l’organizzazione della distribuzione dei prodotti e servire come centri di attrazione intorno a cui si potrà raccogliere la massa della popolazione, io combatto lo spirito bottegaio che tende naturalmente a svilupparsi in esse e vorrei che esse fossero aperte a tutti, che non dessero alcun privilegio ai loro soci e soprattutto che non si trasformassero come avviene spesso, in vere società anonime capitalistiche che impiegano e sfruttano dei salariati e speculano sui bisogni del pubblico.
Secondo me, cooperative e sindacati, tali quali sono in regime capitalistico, non portano naturalmente, per loro forza intrinseca, alla emancipazione umana (è questo il punto controverso), ma possono produrre il male o il bene, essere organi oggi di conservazione o trasformazione sociale, servire domani la reazione o la rivoluzione, secondo che si limitino alla loro funzione propria di difensori degli interessi attuali dei soci, o siano animati e travagliati dallo spirito anarchico, che fa loro dimenticare gl’interessi in omaggio agli ideali. E per spirito anarchico intendo quel sentimento largamente umano che aspira al bene di tutti, alla libertà ed alla giustizia per tutti, alla solidarietà, ed all’amore fra tutti, e che non è dote esclusiva degli anarchici propriamente detti, ma anima tutti gli uomini di cuore buono e d’intelligenza aperta.
Per sè stesso il movimento operaio, mirando alla protezione degl’interessi attuali dei lavoratori e più specialmente dei membri di ciascun sindacato, tende naturalmente a diminuire la concorrenza sul mercato del lavoro per poter meglio resistere alle pretese dei padroni, ad ostacolare l’entrata di nuovi soci alle organizzazioni arrivate ad un certo limite di potenza, a fare del lavoro qualificato e meglio pagato un privilegio degli organizzati, a creare insomma una nuova classe privilegiata, un nuovo ceto interessato ad intendersela coi padroni, a diventare complice dello sfruttamento capitalistico, colla compartecipazione agli utili, coll’azionariato operaio, ecc, a danno della grande massa dei diseredati, condannati ai lavori puramente manuali e divenuti servi delle macchine e poco più che pezzi di macchine.
Questo può non accadere se vi è spirito di ribellione nella massa, e se una luce ideale illumina ed eleva quegli operai meglio dotati e più favoriti dalle circostanze che sarebbero in grado di costituire la nuova classe privilegiata. Ma è indubitato che se si resta sul terreno della difesa degl’interessi attuali che è il terreno proprio dei sindacati, poichè gli interessi non sono armonici nè possono armonizzarsi in regime capitalistico, la lotta tra i lavoratori è un fatto naturale e può anche in certe circostanze e fra certe categorie diventare più accanita che tra lavoratori e sfruttatori.
Per convincersene basta osservare quello che sono le maggiori organizzazioni operaie nei paesi in cui vi è molta organizzazione e poca propaganda, o tradizione rivoluzionaria

c. L'illusione dello sciopero generale36

Lo "sciopero generale" è certamente un’arma potente di lotta nelle mani del proletariato ed è, o può essere, un modo ed un’occasione per determinare una radicale rivoluzione sociale.
Eppure io mi domando se l’idea dello sciopero generale ha fatto più male che bene alla causa della rivoluzione!
In realtà io credo che nel passato il male abbia superato il bene; e che oggi potrebbe essere il contrario, cioè potrebbe lo sciopero generale essere veramente un mezzo efficace di trasformazione sociale solo se fosse inteso e praticato in modo diverso da quello che usavano i vecchi sciopero-generalisti.
Nei primi tempi del movimento socialista, e specialmente in Italia ai tempi della prima Internazionale, quando era fresca ancora la memoria delle lotte mazziniane ed erano vivi in gran parte gli uomini che avevano combattuto per "l’Italia", nelle file garibaldine e che si trovavano disillusi ed indignati per lo scempio che monarchici e capitalisti facevano dell’Italia vera, si comprendeva chiaramente che il regime sostenuto dalle baionette non poteva essere abbattuto se non convertendo in difensori del popolo una parte dei soldati e vincendo in lotta armata le forze di polizia e quella parte di soldati restata fedele alla disciplina.
E perciò si cospirava, cioè si faceva propaganda attiva tra i soldati, si cercava di armarsi, si preparavano piani di azione militare.
I risultati, a dir vero, erano meschini, perchè si era in pochi, perchè gli scopi sociali per i quali si voleva fare la rivoluzione erano misconosciuti e respinti dalla generalità, perchè insomma "i tempi non erano maturi".
Ma la volontà della preparazione insurrezionale vi era e trovava poco a poco il mezzo di realizzarsi, la propaganda incominciava ad estendersi e portare i suoi frutti; "i tempi maturavano", in parte per opera diretta dei rivoluzionari e più per l’evoluzione economica che acuiva il conflitto, e sviluppava la coscienza del conflitto, tra lavoratori e padroni, e che i rivoluzionari mettevano a profitto.
Le speranze della rivoluzione sociale crescevano, e sembrava certo che, tra lotte, persecuzioni, tentativi più o meno "inconsulti" e sfortunati, soste e riprese di attività febbrile, si arriverebbe, in un tempo non troppo lontano, a determinare lo scoppio finale e vittorioso, che doveva abbattere il regime politico ed economico vigente ed aprire le vie ad una più libera evoluzione verso nuove forme di convivenza sociale, basate sulla libertà di tutti, la giustizia per tutti, la fratellanza e la solidarietà fra tutti.
Ma poi, a frenare l’impulso volontaristico della gioventù socialista (allora si chiamavano socialisti anche gli anarchici) venne il marxismo coi suoi dogmi e col suo fatalismo. E disgraziatamente con le sue apparenze scientifiche (si era in piena ubriacatura scientificista) il marxismo illuse, attrasse e sviò anche la più parte degli anarchici.
I marxisti incominciarono a dire che ‘‘la rivoluzione viene, ma non si fa", che il socialismo verrebbe necessariamente per il "fatale andare" delle cose, e che il fattore politico (che è poi la forza, la violenza messa a servizio degl’interessi economici) non ha importanza e che il fatto economico determina tutta quanta la vita sociale. E così la preparazione insurrezionale fu trascurata e praticamente abbandonata.
Di passaggio noterò che quei marxisti che disprezzavano tanto la lotta politica, quando essa era lotta tendenzialmente insurrezionale, decisero poi che la politica era il mezzo principale e quasi esclusivo per far trionfare il socialismo non appena intravidero la possibilità di andare al parlamento e di dare alla lotta politica il significato restrittivo di lotta elettorale; e si sforzarono con questo di spegnere nelle masse ogni entusiasmo per l’azione insurrezionale.
In questo stato di cose ed in questa disposizione generale degli spiriti fu lanciata l’idea dello sciopero generale, che fu accolta entusiasticamente da quelli che non avevano fiducia nell’azione parlamentare e vedevano aperta una nuova e promettente via all’azione popolare.
Il guaio però fu che i più videro nello sciopero generale non un mezzo per trascinare le masse all’insurrezione, cioè all’abbattimento violento del potere politico ed alla presa di possesso della terra, degli strumenti di produzione e di tutta la ricchezza sociale, ma vi videro un sostituto dell’insurrezione, un modo per "affamare la borghesia" e farla capitolare senza colpo ferire.
E poichè è fatale che il comico ed il grottesco si mescolino sempre anche nelle cose più serie vi furono di quelli che cercavano delle erbe e delle "pillole" capaci di sostenere indefinitamente il corpo umano senza mangiare per indicarle ai lavoratori e metterli in grado di aspettare, in un pacifico digiuno, che i borghesi venissero a chiedere scusa e perdono.
Ecco perchè ritengo che l’idea dello sciopero generale ha fatto danno alla rivoluzione. Ora spero e credo che l’illusione di far capitolare la borghesia per fame sia completamente sparita e se un poco ne era restata i fascisti si sono incaricati di dissiparla.
Lo sciopero generale di protesta, o per appoggiare delle rivendicazioni economiche o politiche, compatibili col regime, se fatto in momento propizio, quando governo e padroni trovano opportuno cedere subito per paura di peggio, può giovare. Ma bisogna non dimenticare che bisogna mangiare tutti i giorni e che, se la resistenza si prolunga solo per parecchi giorni, bisogna o piegarsi ignominiosamente al giogo padronale, o insorgere... anche se il governo o le forze irregolari della borghesia non prendono l’iniziativa della violenza.
Dal che si deduce che uno sciopero generale sia in vista di una soluzione definitiva, sia per scopi transitori, deve essere fatto con la disposizione, e la preparazione, di risolvere la questione colla forza.

3. IL SINDACATO COME MEZZO DI LOTTA E DI EDUCAZIONE RIVOLUZIONARIA E COME NUCLEO FUTURO DI RIORGANIZZAZIONE SOCIALE

a. L'organizzazione sindacale oggi e domani37

...Noi abbiamo sempre compreso la grande importanza del movimento operaio e la necessità per gli anarchici di esserne parte attiva e propulsiva. E spesso è stato per l’iniziativa di compagni nostri che si sono costituiti aggruppamenti operai più vivi e più progressivi.
Abbiamo sempre pensato che il sindacato è, oggi, un mezzo perchè i lavoratori incomincino a comprendere la loro posizione di schiavi, a desiderare l’emancipazione e ad abituarsi alla solidarietà con tutti gli oppressi nella lotta contro gli oppressori - e domani servirà come primo nucleo necessario alla continuità della vita sociale ed alla riorganizzazione della produzione senza padroni e parassiti.
Ma abbiamo sempre discusso, e spesso dissentito, sui modi come l’azione anarchica doveva esplicarsi nei rapporti coll’organizzazione dei lavoratori.
Bisognava entrare nei sindacati, o restarne fuori, pur prendendo parte a tutte le agitazioni e cercare di dar loro il carattere più radicale possibile e mostrarsi primi nell’azione e nei pericoli?
E soprattutto, se dentro dei sindacati, bisognava o no assumere cariche direttive e quindi prestarsi a quelle transazioni, quei compromessi, quegli accomodamenti, a quei rapporti con le autorità e coi padroni, a cui debbono adattarsi, per volere degli stessi lavoratori e per il loro interesse immediato, nelle lotte quotidiane quando non si tratta di fare la rivoluzione, ma di ottenere dei miglioramenti o difendere quelli già conseguiti?
Nei due anni che seguirono la pace e fino alla vigilia del trionfo della reazione per opera del fascismo noi ci trovammo in una singolare situazione.
La rivoluzione sembrava imminente, e vi erano infatti tutte le condizioni materiali e spirituali perchè essa fosse possibile e necessaria.
Ma noi anarchici mancavamo di gran lunga delle forze occorrenti per fare la rivoluzione con metodi e uomini esclusivamente nostri: avevamo bisogno delle masse, e le masse erano bensì disposte all’azione, ma non erano anarchiche. D’altronde una rivoluzione fatta senza il concorso delle masse, anche se fosse stata possibile, non avrebbe potuto metter capo che ad una nuova dominazione, la quale anche se esercitata da anarchici sarebbe sempre stata la negazione dell’anarchismo, avrebbe corrotto i nuovi dominatori e sarebbe finita colla restaurazione dell’ordine statale e capitalistico.
Ritrarsi dalla lotta, astenersi perchè non potevamo fare proprio come avremmo voluto, sarebbe stato un rinunziare ad ogni possibilità presente o futura, ad ogni speranza di sviluppare il movimento nella direzione da noi desiderata - e rinunziarvi non solo per quella volta, ma per sempre, poichè non si avranno mai masse anarchiche prima che la società sia trasformata economicamente e politicamente, e la stessa situazione si ripresenterà tutte le volte che le circostanze renderanno possibile un tentativo rivoluzionario.
Occorrerà dunque a qualunque costo acquistare la fiducia delle masse, mettersi in posizione di poterle spingere in piazza e per questo appariva utile conquistare nelle organizzazione operaie cariche direttive. Tutti i pericoli d’addomesticamento e di corruzione passavano in secondo luogo, e d’altronde si supponeva che non avrebbero avuto il tempo di realizzarsi. Quindi si venne alla conclusione di lasciare a ciascuno la libertà di regolarsi secondo le circostanze e come meglio credeva, a condizione di non dimenticare mai di essere anarchico e di farsi sempre guidare dall’interesse superiore della causa anarchica.
Ma ora, dopo le ultime esperienze, e vista la situazione attuale che non ammette connubi transitori e domanda un ritorno rigoroso ai principi per trovarsi meglio preparati e più profondamente convinti nelle prossime evenienze, mi pare che convenga ritornare sulla questione e vedere se sia il caso di modificare la tattica su questo punto importantissimo della nostra attività.
Spero che il Congresso vorrà esaminare la questione coll’attenzione che merita. Secondo me, bisogna entrare nei sindacati, perchè standone fuori se ne appare nemici, la nostra critica è guardata con sospetto e nei momenti di agitazione saremmo considerati come intrusi e male accetto sarebbe il nostro concorso.
Parlo, s’intende, dei veri sindacati composti di lavoratori liberamente associati per difendere i loro interessi contro i padroni e contro il governo; e non già dei sindacati fascisti, spesso reclutati a suon di bastonate e colla minaccia della fame, i quali sono un’arma di governo ed un tentativo per meglio sottomettere i lavoratori alle esigenze padronali. Bisogna entrare nei sindacati ed esercitarvi opera di propulsione, per dare loro un carattere sempre più libertario e vigilare e criticare e combattere le possibili debolezze e defezioni dei dirigenti.
Ed in quanto a sollecitare ed accettare noi stessi il posto di dirigenti credo che in linea generale ed in tempi calmi è meglio evitarlo. Però credo che il danno ed il pericolo non stia tanto nel fatto di occupare un posto direttivo - cosa che in certe circostanze può essere utile ed anche necessaria - ma nel perpetuarsi in quel posto. Bisognerebbe, secondo me, che il personale dirigente si rinnovasse il più spesso possibile, sia per abilitare un più gran numero di lavoratori alle funzioni amministrative, sia per impedire che il lavoro d’organizzazione diventi un mestiere ed induca quelli che lo compiono a portare nelle lotte operaie la preoccupazione di non perdere l’impiego. E tutto questo non solo nell’interesse attuale della lotta e dell’educazione dei lavoratori, ma anche e maggiormen-te in vista dello svolgimento della rivoluzione dopo che la rivoluzione sarà iniziata.
A giusta ragione gli anarchici si oppongono al comunismo autoritario, il quale suppone un governo, che, volendo dirigere tutta la vita sociale e mettere l’organizzazione della produzione e la distribuzione delle ricchezze sotto gli ordini di funzionari suoi, non può non produrre la più esosa tirannia e la paralizzazione di tutte le forze vive della società.
Ma questa espropriazione e questa distribuzione non possono, in pratica, essere fatte tumultuariamente, dalla massa anche se sindacata, senza produrre uno sperpero esiziale di ricchezze ed il sacrificio dei più deboli per opera dei più forti e brutali; e anche meno si potrebbero in massa stabilire gli accordi fra le diverse località e gli scambi fra le diverse corporazioni di produttori. Bisognerebbe dunque provvedere per mezzo di deliberazioni prese in assemblee popolari ed eseguite da gruppi ed individui o spontaneamente offertisi o regolarmente delegati.
Ora, se v’è un ristretto numero d’individui che per lunga abitudine sono considerati capi dei sindacati, se vi sono segretari permanenti ed organizzatori ufficiali, saranno essi che automaticamente si troveranno. incaricati di organizzare la rivoluzione, ed essi avranno tendenza a considerare come intrusi ed irresponsabili quelli che vorranno prendere delle iniziative indipendenti da loro, e vorranno imporre, sia pure colle migliori intenzioni la loro volontà - magari con la forza.
Ed allora il regime sindacalista diventerebbe presto la stessa menzogna e la stessa tirannia che è diventata la cosiddetta dittatura del proletariato.
Il rimedio a questo pericolo e la condizione perchè la rivoluzione riesca veramente emancipatrice stanno nel formare un gran numero d’individui capaci di iniziativa e di opere pratiche, nell’abituare le masse a non abbandonare la causa di tutti nelle mani di qualcuno e a delegare, quando delegazione è necessaria, solo per incarichi determinati e per tempo limitato. Ed a creare una siffatta situazione ed un siffatto spirito è mezzo efficacissimo il sindacato se organizzato e vissuto con metodi veramente libertari.

b. L’unità sindacale38

Si sente oggi da molti il bisogno di arrivare all’"Unità sindacale", vale a dire di fondere insieme in un solo grande organismo le varie organizzazioni operaie che, pur avendo comune lo scopo della difesa e dell’attacco contro lo sfruttamento capitalistico, sono state finora divise ed in lotta tra di loro a causa di differenze nei fini ultimi che si propongono e nei mezzi di lotta preferiti, e spesso, purtroppo, per ambizioni di capi e rivalità di reclutamento. E già qualche risultato pratico sulla via dell’unione è stato raggiunto, come è la fusione dell’Unione Italiana del Lavoro e di qualche organizzazione bianca del Cremonese e del Bergamasco colla Confederazione Generale del Lavoro.
Io, anche se dovessi su questo punto trovarmi in disaccordo con qualche compagno particolarmente affezionato ad una speciale organizzazione benemerita del proletariato italiano e più affine alle idee ed ai metodi anarchici, mi auguro che il movimento fusionista continui e progredisca fino ad abbracciare tutti quei lavoratori che in un grado qualunque ed in un qualsiasi modo sentono l’ingiustizia di cui sono vittime nell’attuale società, che vogliono lottare contro i padroni per il miglioramento e per l’emancipazione e che, comprendendo l’impotenza in cui si trova il lavoratore isolato, cercano nella solidarietà coi loro compagni di classe la forza di cui hanno bisogno. E vorrei che i nostri compagni accettassero e magari si facessero antesignani di questa tendenza, che rappresenta poi l’intimo desiderio di quel gran numero di lavoratori che si sentono fratelli con tutti quelli che lavorano e soffrono con loro e non comprendono le ragioni di certe divisioni e spesso, a causa di quelle divisioni, si appartano sfiduciati e disgustati - non già, s’intende, perchè gli anarchici indulgano ai metodi dei dirigenti della Confederazione generale, ma perchè cerchino di far trionfare colla propaganda e coll’esempio i metodi che credono migliori e soprattutto fraternizzino colle masse organizzate nella Confederazione e facciano in modo, per quel che da loro dipende, che tutti i lavoratori siano uniti e solidali nella lotta Contro i padroni.
È certo che la divisione della parte eletta del proletariato tra diverse organizzazioni rivali ed ostili fa sciupare in lotte intestine quelle forze che dovrebbero essere tutte impiegate nell’educazione e nella lotta contro il nemico comune, come è certo che quella divisione fu una delle cause precipue per cui il proletariato fu sconfitto e sottoposto ad un rincrudimento di oppressione, proprio quando sembrava che fosse alla vigilia della vittoria. Quindi è urgente che tutti coloro che vogliono sinceramente e senza mire personali l’elevazione dei lavoratori e l’umana emancipazione, facciano il possibile per giungere alla desiderata unione. E naturalmente noi saremmo fieri se i compagni nostri, gli anarchici, si distinguessero per il loro zelo in quest’opera salutare.
Senonchè i partiti politici, i quali del resto sono stati spesso gli originatori ed i primi animatori del movimento sindacale, vollero servirsi delle associazioni operaie come campo di reclutamento e come strumenti pei loro fini speciali di rivoluzione o di conservazione sociale. Quindi le divisioni tra la classe operaia organizzata in vari raggruppamenti sotto l’ispirazione dei vari partiti. Quindi il proposito di coloro che vogliono l’unità proletaria di sottrarre i sindacati alla tutela dei partiti politici.
Però in questo affermato proposito di sottrarsi all’influenza dei partiti politici, di "escludere la politica dai sindacati" si nasconde un equivoco ed una menzogna.
Se per politica s’intende ciò che riguarda l’organizzazione dei rapporti umani e più specialmente i rapporti liberi o coatti tra cittadini e l’esistenza o meno dì un "governo" che assommi in sè i pubblici poteri e si serva della forza sociale per imporre la propria volontà e difendere gl’interessi di sè stesso e della classe da cui emana, è evidente che essa politica entra in tutte le manifestazioni della vita sociale, e che un’organizzazio-ne operaia non può essere realmente indipendente dai partiti se non diventando essa stessa un partito.
Infatti, oggi stesso che tanto si parla di unità, vediamo che la Confederazione generale, mentre si dichiara autonoma da tutti i partiti politici, tende a diventare essa stessa "partito del lavoro", cioè un partito politico con i suoi scopi ed i suoi metodi particolari, che nel suo caso sarebbero metodi principalmente parlamentari. Come del resto, a parte le questioni di parole, fu in realtà sempre un partito l’Unione Sindacale Italiana, come partiti o appendici, "masse di manovra" di partiti sono l’Unione Italiana del Lavoro e le Organizzazioni bianche
È vano dunque sperare, e per me sarebbe male il desiderare, che la politica sia esclusa dai sindacati, poichè ogni questione economica di qualche importanza diventa automaticamente una questione politica ed è sul terreno politico, cioè colla lotta tra governati e governanti che si dovrà risolvere in definitiva la questione dell’emancipazione dei lavoratori e della libertà umana.
Ed è naturale, è chiaro, che debba essere così.
Quindi necessariamente le organizzazioni operaie debbono proporsi una linea di condotta di fronte all’azione attuale o potenziale dei governi...
Ora, come fare a mantenere l’unità quando vi sono quelli che vogliono servirsi della forza dell’associazione per andare al governo, e quelli che credono che ogni governo è necessariamente oppressore e nefasto e quindi vogliono avviare quella stessa associazione alla lotta contro ogni istituzione autoritaria presente o futura? Come tenere insieme socialdemocratici, "comunisti" di Stato e anarchici?
Ecco il problema. Problema che si può eludere in certi momenti, in occasione di una lotta concreta che riunisce tutti, o almeno una grande massa, in un interesse ed un desiderio comuni, ma che risorge sempre e non è facile risolvere fino a che esistono condizioni di violenza e diversità di opinione sul modo di resistere alla violenza.
Ma allora, quale è la via di uscita di queste difficoltà, e quale è la condotta che in questa questione dovrebbero tenere gli anarchici?
Per me il rimedio sarebbe: intesa generale e solidarietà nelle lotte puramente economiche; autonomia completa degli individui e dei vari raggruppamenti nelle lotte politiche.
Ma è possibile vedere a tempo dove la lotta economica diventa lotta politica? E vi sono lotte economiche importanti che l’intervento del governo non renda politiche fin dall’inizio?
In ogni modo noi anarchici dovremmo portare la nostra attività in tutte le organizzazioni per predicarvi l’unione fra tutti i lavoratori, la tolleranza reciproca, l’autonomia dei vari aggruppamenti, il decentramento la libertà d’iniziativa, nel quadro comune della solidarietà contro i padroni.
E non far gran caso se la mania di accentramento e di autoritarismo degli uni, e l’insofferenza degli altri ad ogni anche ragionevole disciplina mena a nuovi frazionamenti. Poichè, se l’organizzazione dei lavoratori è una necessità primordiale per le lotte di oggi e per le realizzazioni di domani, non ha grande importanza l’esistenza e la durata di questa o di quella determinata organizzazione. L’essenziale è che si sviluppi nei singoli lo spirito d’organizzazione il senso della solidarietà, la convinzione della necessità dì cooperazione fraterna per combattere l’oppressione e realizzare una società in cui tutti possano godere di una vita veramente umana.
4. Le idee ed i fatti

1. LA CRISI ATTUALE DELL’ANARCHISMO NEL MOVIMENTO SOCIALE

a.Via e mezzi39

Sono ormai quarant’anni che le idee anarchiche han preso consistenza di ideale completo di demolizione e ricostruzione sociale; quarant’anni che gli anarchici predicano e lottano e soffrono; quarant’anni che i più devoti tra loro languono per le prigioni o lasciano la vita sui patiboli.
Sono i risultati in proporzione del tempo decorso, degli sforzi e dei sacrifici fatti?
La nostra critica ha trionfato di tutti i sofismi con cui si pretende giustificare il sistema sociale attuale: il nostro pensiero ha agito sulla letteratura e sulla scienza; le nostre previsioni sull’evoluzione delle istituzioni e dei partiti si vanno verificando, a riprova della giustezza delle nostre idee: l’opera nostra, o il bisogno di opporsi all’opera nostra, ha spinto in avanti gli altri partiti, o ne ha limitato la regressione; il nostro numero è cresciuto. Ma è la nostra influenza sul movimento sociale proporzionata al valore delle nostre idee, alla somma di energie spese e di sacrifici fatti, o anche semplicemente alla nostra, per quanto scarsa forza numerica?
Certamente no!
Nel corso degli anni molte occasioni si sono presentate in cui avremmo potuto affermarci efficacemente, ed esse ci han sempre trovati impreparati, disorganizzati, incerti, capaci solo di proteste senza portata o di sacrifici quasi inutili.
Recentemente il governo d’Italia impegnò il paese in una guerra infame, e non potemmo opporre nessuna valida resistenza e dovemmo assistere impotenti allo spettacolo doloroso di un popolo che dimentica i suoi più vitali interessi e le sue più nobili tradizioni, che rinnega ogni sentimento di giustizia e di libertà e si fa strumento volenteroso in mano ai suoi oppressori per conquistar loro, fra la strage e le devastazioni, nuovi sudditi da sfruttare ed opprimere.
Ed oggi che la massa incomincia a rinsavire ed il momento sarebbe propizio per raccogliere le nostre forze, iniziare una larga e sistematica propaganda e prepararci per poter mettere a profitto gli eventi che maturano, oggi ancora noi restiamo impotenti ed inerti, perchè divisi ed indecisi sul da farsi; o, almeno, gli sforzi che già fanno tanti compagni devoti sono ancora impari al bisogno ed alle possibilità, e perciò noi, con questo giornale, veniamo ad aggiungervi i nostri.
Occorre indagare le ragioni del nostro insuccesso, e portarvi rimedio.
Certamente, grandi sono le forze che dobbiamo combattere ed abbattere, immensi i pregiudizi che dobbiamo sradicare, le energie che dobbiamo scuotere; ed era naturale che le illusioni di rapidi, immediati successi che animavano i primi assertori dell’anarchismo si dileguassero al contatto delle dure realtà della vita.
Ma oltre i ritardi, le oscillazioni, gl’insuccessi causati dalle fatali lentezze dell’evoluzione sociale, vi sono state, secondo noi, errori e deficienze nostre, che avrebbero potuto essere evitate se avessimo avuto una più chiara concezione della via da percorrere, una più coerente attività, una maggiore resistenza contro le mille cause di deviazione...
Noi siamo nel regime attuale, la minoranza ribelle: una minoranza che è convinta che il male dipenda dalle basi stesse della costituzione sociale e che vuole perciò la distruzione radicale di tutto il sistema.
Noi dobbiamo dunque suscitare nel popolo la coscienza dei suoi diritti e della sua forza, dobbiamo svelare tutti gli errori, le menzogne, le ingiustizie che formano il fondamento della società presente, dobbiamo sforzarci di propagare, pur tra gli ostacoli e le difficoltà dell’ambiente, il nostro ideale di libertà, di giustizia, di solidarietà umana; dobbiamo favorire tutto ciò che può servire ed educare e migliorare gl’individui; ma non dobbiamo mai dimenticare che, in ultima analisi, la società presente si regge sulla forza brutale, sulla forza delle baionette e dei cannoni, e che è solo con la forza che si potrà risolvere la grande vertenza.
È vero che la società attuale sarebbe, se la borghesia fosse più intelligente e meno gretta, suscettibile di miglioramento. Molte sofferenze sono inutili e dannose agl’interessi dei dominatori, e quindi possono essere alleviate anche in regime autoritario e capitalistico. E noi siamo lieti di ogni cambiamento che venga a lenire i dolori dei lavoratori, aumentando nello stesso tempo la forza di resistenza e di attacco. Ma, preoccupati sopratutto dell’avvenire, volendo fare la rivoluzione e non farci distributori di palliativi, noi non sapremmo lottare per i piccoli miglioramenti se non in modo ed in limiti tali che essi non servano ad addormentare il popolo e a menomare la capacità rivoluzionaria nostra.
Questa necessità dell’insurrezione che deriva logicamente dal genere di rivoluzione che vogliamo fare e dalla natura dell’ideale cui aspiriamo, fu chiaramente intuita ed affermata nei primi tempi della propaganda e dell’azione anarchica. E conformemente ad essa agirono i primi anarchici, quando l’idea nostra, pur nuova e povera di seguaci, riuscì ad imporsi all’attenzione del pubblico e fu la speranza degli oppressi, il terrore degli oppressori.
I successi naturalmente non sempre rispondevano alle speranze che l’entusiasmo giovanile aveva fatto nascere nell’animo degli audaci, che, in pochi e senza mezzi, osavano continuamente sfidare in tutti i modi i governi ed i padroni. Ma intanto l’idea si propagava, la tattica si perfezionava, e tra l’alternarsi di subiti entusiasmi e transitori scoraggiamenti, si andava verso il giorno in cui il partito anarchico, conquistata a sè la parte più cosciente dei lavoratori, e profittando di una crisi politica ed economica come quelle che fatalmente si producono in una società in cui tutti gli interessi sono antagonistici, avrebbero potuto, anche col concorso occasionale di altri partiti propensi ad insorgere per i loro fini particolari, spingere le masse alla lotta, disfare le forze opprimenti dello Stato, metter mano sull’arca santa della proprietà individuale, e cominciare così la rivoluzione sociale.
Ma a questo punto, sopravvenne una deviazione che fu fatale a tutto il movimento. Una parte importante di rivoluzionari, quelli che volevano come gli anarchici la socializzazione della ricchezza, ma non accettavano il loro programma antistatale ed aspiravano alla conquista dei poteri governativi, comprendendo forse che una lotta condotta con metodi illegali sarebbe probabilmente riuscita contraria alla costituzione di un nuovo regime autoritario, si avvisarono di entrare nelle vie della legalità ed adottare la lotta elettorale come mezzo precipuo di azione. E con essi si unirono molti, anche venuti dagli anarchici, che erano stanchi di una lotta che presentava molti pericoli e poche speranze di immediate soddisfazioni personali, e furono felici di mascherare con pretesti speciali la loro stanchezza od il loro tradimento.
E tutti costoro, che costituirono il partito socialista democratico, una volta entrati nella via elettorale e parlamentare, scesero rapidamente di transazione in transazione, e divennero ben tosto un elemento di conservazione, e furono e sono spesso la migliore difesa dell’ordine borghese contro gli scoppi sempre possibili della collera popolare.
D’altra parte molti anarchici, vedendo che le masse seguivano più volentieri quella che sembrava la via più facile e che meglio rispettava la loro energia, perdettero fede nella possibilità dell’insurrezione e, o restarono sfiduciati ed inerti, o cercarono per altre vie la realizzazione dei loro ideali, che pur non possono realizzarsi, nè in tutto nè in parte, se prima non si è abbattuto il regime vigente. Mentre coloro che conservavano chiaro il concetto del fine da raggiungere, e dei metodi che esso fine domanda ed impone, furono impotenti ad arrestare lo sfacelo.
E così non solo non potemmo più determinare delle correnti d’opinione a noi favorevoli, ma quando si sono presentati dei fatti, di fronte ai quali ci conveniva prender partito, siamo restati disorientati, incerti, divisi.
Ma tutto questo è il passato, ed a noi ciò che importa è l’avvenire.
Bisogna rimettersi all’opera con l’energia, l’entusiasmo, lo spirito di sacrificio che già furono doti caratteristiche degli anarchici. Bisogna riaffermare i nostri ideali e la nostra tattica, e spargerne largamente la conoscenza fra le masse. Bisogna far sentire la nostra azione in tutte le manifestazioni della vita sociale. Bisogna coordinare tutte le nostre attività allo scopo che ci prefiggiamo: la rivoluzione per l’anarchia e pel comunismo.

b. Insurrezionismo o evoluzionismo?40

È vecchio tema quello di rivoluzione e evoluzione, continuamente discusso, e continuamente rinascente, a causa sopratutto dell’equivoco prodotto dal vario significato che si può dare alle due parole. La parola evoluzione a volte si prende nel senso generico di cambiamento ed allora afferma un fatto generale della natura e della storia sul quale si può discutere dal punto di vista della scienza, ma che non è messo in dubbio da nessuno nel campo della sociologia; a volte si prende nel senso di cambiamento lento, graduale, regolato da leggi fisse nel tempo e nello spazio, che esclude ogni salto, ogni catastrofe, ogni possibilità di esser affrettato o ritardato e sopratutto di essere violentato e diretto dalla volontà umana in un senso o nell’altro, ed allora essa vuole contrapporsi alla parola ed all’idea di rivoluzione.
E la parola rivoluzione essa pure, secondo che meglio torna alla tesi che si vuol sostenere, ora si prende nel senso di cambiamento radicale, profondo delle istituzioni sociali ed in quel senso tutti - meno forse i religiosi i quali credono che le cose sono quali sono per volontà di Dio e saran sempre così - tutti possono dirsi rivoluzionari solo che usino la prudenza di rimandare a tempi lontanissimi (a tempi maturi, come dicono) l’attuazione dei cambiamenti auspicati; ed ora si prende nel senso di cambiamento violento, fatto per forza contro le forze conservatrici ed allora implica lotta materiale, insurrezione armata, con il corteggio di barricate, bande armate, sequestro dei beni della classe contro cui si combatte; sabotaggio dei mezzi di comunicazione, ecc. E perciò si è discusso e si torna a discutere senza mai arrivare ad intendersi (o non intendersi) in modo chiaro e definitivo...
Noi, in presenza di certe idee che si sono manifestate nel campo nostro e che potrebbero essere il germe di una nuova deviazione (da aggiungersi al parlamentarismo al cooperativismo all’educazionismo ecc.), e produrre un nuovo arresto del nostro rinascente movimento crediamo bene mettere ancora una volta in discussione il vecchio argomento, e per essere più chiari, invece di contrapporre rivoluzione ed evoluzione, diremo insurrezione ed evoluzione e ciò non tanto nella speranza di metter tutti d’accordo, quanto col desiderio di evitare confusioni e distinguere bene tra coloro che la rivoluzione la vogliono fare oggi, domani, il più presto possibile insomma, e quindi vogliono lavorare a prepararla, e quelli che predicando che la rivoluzione la dovranno fare i nostri figli o i nostri nipoti, inducono la gente, sia pure involontariamente, a cercar di cavare il più che si può dalle circostanze attuali, a non pensare più ad una rivoluzione oramai rimandata alle generazioni future e quindi a trovarsi sorpresi ed impreparati quando capitano le occasioni.
La questione è questa.
Per produrre un cambiamento politico-sociale è egli necessario che il regime vigente sia esaurito e che nella coscienza di tutti, o almeno della maggioranza, si sia formato un desiderio ed un concetto chiaro della specie di cambiamento da produrre? Ed è possibile che in un dato regime sociale, si formi una coscienza universale favorevole al cambiamento fondamentale di detto regime?
O non è vero piuttosto che ogni regime, nato per imposizione forzata sulle masse, ricalcitranti forse ma incapaci di azione collettiva e cosciente con scopi predeterminati, tende a consolidarsi e farsi accettare, correggendo i suoi difetti, compensando nel miglior modo possibile i mali che produce e creando una mentalità pubblica adatta al suo mantenimento; e quindi è tanto più forte quanto più ha durato? Non è egli vero che le rivoluzioni, i progressi di tutte le specie, si fanno per opera di minoranze, spesso sparute, che alterando di fatto (colla forza quando si tratta di istituzioni che colla forza negano alle minoranze il diritto di agire) le condizioni ambientali, e utilizzando gli istinti oscuri, i bisogni incoscienti delle masse, le trascinano con loro e le incamminano sopra una via novella?
I marxisti, che tanta influenza hanno avuto, e tanta nefasta, sulle tendenze del socialismo contemporaneo han cullato i malcontenti ed i ribelli coll’idea che il sistema capitalista portava in sè i germi di morte, e colla concentrazione della ricchezza il numero sempre più piccolo di persone e colla miseria crescente menava fatalmente alla trasformazione sociale
E gli educazionisti d’altro lato, han creduto e credono ancora che a forza di propagar l’istruzione, di predicare il libero pensiero, la scienza positiva, ecc., di istituire università popolari e scuole moderne, si possa distruggere nelle masse il pregiudizio religioso, la soggezione morale al dominio statale, la credenza dei diritti sacrosanti delle proprietà, e rendere così insopportabile a tutti, e quindi incapace di reggersi, il regime di menzogna d’ingiustizia e di oppressione che si mira a distruggere.
E ora si aggiunge il sindacalismo dottrinario il quale pretende che l’organizzazione operaia, il sindacato conduca per sua virtù propria automaticamente, alla distruzione del salariato e dello Stato.
Ora, sta avvenendo invece che il capitalismo si allarga e si rafforza; ed i marxisti, rinunciando in pratica se non in teoria ai dogmi della scuola, si danno a predicare e favorire riforme che, quando fossero possibili, non farebbero che consolidare il capitalismo stesso, mitigandone gli effetti omicidi, e sostituendo alla lotta di classe un accordo tra lavoratori e capitalisti che renderebbe più stabili e più sicure le condizioni degli uni e degli altri e tenderebbe ad evitare quei conflitti dai quali potrebbe nascere la rivoluzione. E dove il capitalismo individuale si mostra impotente a garantire la stabilità sociale, cioè la perpetuazione del privilegio, già sta per essere sostituito dal capitalismo di Stato, in cui i privilegiati invece di capitalisti si chiamerebbero funzionari ed il popolo di lavoratori sarebbe ridotto a gregge, forse un po’ meglio pasciuto, forse un po’ meno esposto alle alee della disoccupazione e della vecchiaia ma più schiavo che in regime capitalista.
Da un altro lato il movimento operaio, a misura che si allarga e si normalizza tende a salvaguardare gl’interessi immediati come si può mediante gli accordi coi padroni, e, peggio ancora, tende a creare privilegi e quindi rivalità di categorie ed a preparare un quarto stato, una nuova classe di privilegiati che lascerebbe sotto di sè la grande massa più oppressa e più incapace di riscossa che mai.
E gli educazionisti debbono pur vedere quanto sono impotenti i loro sforzi generosi, paralizzati dalla scarsezza dei mezzi, dalle persecuzioni, o quanto meno dall’opposizione sorda dei poteri pubblici, e sopratutto dall’influenza dell’ambiente; e debbono con gran dolore e grande disillusione osservare come l’oscurantismo, clericale e laico, tiene trionfalmente il campo contro il progredire e il propagarsi della scienza.
Non v’è dunque, secondo noi, da illudersi, finché durano le condizioni economiche e politiche attuali, di poter elevare sensibilmente la coscienza delle masse e trasformare l’ambiente in modo da renderlo atto alla realizzazione dei nostri ideali.
Ma il mondo non resta immobile per questo.
Fortunatamente v’è in ogni tempo ed in ogni luogo delle minoranze che sfuggono, in un grado più o meno grande, all’influenza dell’ambiente e sono capaci di rivolta morale, che poi si trasforma in rivolta di fatto e può trionfare quando le circostanze si prestano e le minoranze sparse sappiano intendersi e concorrere all’opera comune.
E se lo scopo fosse una semplice rivoluzione politica, un semplice cambiamento di governo, o anche un cambiamento più profondo ma fatto per opera di governo, l’insurrezione trionfante di queste minoranze basterebbe ad attuarne il programma, come è bastato nelle rivoluzioni passate e contemporanee. Ma noi vogliamo una rivoluzione profonda, che trasformi tutte le condizioni della vita, che metta tutto il popolo, cioè tutti gl’individui che formano il popolo, in grado di concorrere direttamente alla costituzione delle nuove forme di convivenza sociale, e perciò dall’insurrezione noi non ci aspettiamo, non possiamo aspettarci, l’attuazione immediata e generale delle nostre idee, ma solo la creazione di circostanze più favorevoli alla nostra propaganda ed alla nostra azione, il principio insomma della nostra Rivoluzione. E questo noi potremo conseguire, poichè, quando il governo attuale sarà abbattuto da una insurrezione, quando non avremo più contro tutte le forze dello Stato, che si sommano nella forza materiale dell’esercito e della polizia, anche se gli altri partiti che avranno concorso all’insurrezione mirano, come certamente mireranno, alla costituzione di nuovi governi, di nuovi organismi autoritari ed oppressivi noi non prometteremo al popolo di fare il suo bene, ma lo spingeremo a farselo da sè stesso, a prendere possesso della ricchezza, a esercitare di fatto la libertà conquistata, in modo che esso popolo senta immediatamente i vantaggi della rivoluzione e sia interessato al suo trionfo e stia, almeno in parte, con noi per opporsi al nuovo giogo sotto cui lo si vorrebbe mettere.
Praticamente: dovunque in Italia si è fatto della propaganda con una certa attività ed una certa costanza si è riusciti a cavar fuori dei nuclei anarchici più o meno numerosi. Sperare che questi nuclei abbiano ad ingrossare indefinitamente fino a comprendere tutta quanta la popolazione di ciascuna località, o la più gran parte di essa, sarebbe andare incontro ad una sicura disillusione. Ogni località contiene, in date circostanze, un numero limitato d’individui più o meno suscettibili di comprendere e far sue le nostre aspirazioni quindi più grande è la propaganda che si è fatta in un posto e più difficili sono i progressi ulteriori.
Ma noi siamo lungi di aver raccolti, anche nelle località più lavorate, tutti gli elementi disponibili e di averli coltivati quando è possibile - e quel che è più, vi è in Italia un numero infinito di località, vi sono intere regioni, in cui la propaganda anarchica non è mai penetrata. Perciò la rivoluzione, ma una rivoluzione in cui sia ben marcata l’impronta anarchica, può apparire oggi difficile o impossibile. Ma se noi lavoreremo con attività e costanza, se intensificheremo la nostra propaganda nei luoghi dove già esistiamo se faremo tutto il possibile per penetrare, di vicino a vicino, nei paesi dove siamo ancora ignorati, noi potremo presto coprire gran parte d’Italia di una rete di gruppi anarchici capaci d’intesa e d’azione concentrata. E allora, se avremo la volontà ferma di fare la rivoluzione, di farla noi, di farla oggi, allora le occasioni non mancheranno... e se mancheranno le creeremo.

2. LA SETTIMANA ROSSA

a. La rivoluzione in Italia. La caduta della monarchia sabauda41

Non sappiamo ancora se vinceremo, ma è certo che la rivoluzione è scoppiata e va propagandosi.
La Romagna è in fiamme, in tutta la regione da Terni ad Ancona il popolo è padrone della situazione. A Roma il governo è costretto a tenersi sulle difese contro gli assalti popolari; il Quirinale è sfuggito, per ora, all’invasione della massa insorta, ma è sempre minacciato.
A Parma, a Milano, a Torino, a Firenze, a Napoli agitazione e conflitti.
E da tutte le parti giungono notizie, incerte, contraddittorie, ma che dimostrano tutte che il movimento è generale e che il governo non può porvi riparo.
E dappertutto si vedono agire in bella concordia repubblicani, socialisti, sindacalisti ed anarchici.
La monarchia è condannata. Cadrà oggi, o cadrà domani ma cadrà sicuramente e presto.
È il momento di mettere in opera tutta la nostra energia, tutta la nostra attività.
Qualunque debolezza, qualunque esitazione sarebbe oggi non solo vigliaccheria, ma una sciocchezza.
All’opera tutti, con tutte le forze disponibili.

La necessità del momento.

Poichè lo sciopero di protesta si è sviluppato in rivoluzione bisogna provveder alle necessità della rivoluzione.
E prima di tutto (dopo l’attacco e la difesa contro le forze governative) bisogna provvedere all’alimentazione della cittadinanza.
Bisogna che nessuno manchi di pane che nessun bambino manchi di latte, che gli ospedali siano forniti di tutto l’occorrente.
Perciò le Camere del lavoro, le organizzazioni operaie ed i comitati di volontari prendano le misure necessarie perchè il servizio di approvvigionamento e di distribuzione proceda regolarmente e sufficientemente.
Noi non intendiamo, ora, abolire la proprietà individuale. ma pretendiamo che i proprietari, i negozianti, i venditori di tutte le specie non abusino della circostanza per strozzare la popolazione e pretendiamo che si provveda per conto del municipio, per conto della collettività a coloro che sono sprovveduti di ogni mezzo per comprare il necessario.
Il dazio è abolito, per volontà della popolazione, bisogna che quest’abolizione vada a vantaggio di tutti, e non già a profitto dei negozianti. La roba deve essere venduta al prezzo di prima, meno importo del dazio.
Provvedano a questo i Cittadini stessi per mezzo della Camera del Lavoro, delle varie associazioni e dei comitati rionali di volontari.
Ora non è più il caso di preoccuparsi se un barbiere, per esempio, ha servito o no un cliente, o se un trattore ha aperto o no la sua bottega. Ora non è più sciopero, è rivoluzione; e bisogna provvedere alle due prime necessità della rivoluzione: la difesa armata e l’alimentazione del popolo Ciascuno faccia quello che può, non si sciupi la roba, nè il pane, nè le munizioni.
E si badi di non abusare di bevande alcoliche; perchè è tempo di tenere la testa a posto.

Il tradimento.

Si è fatto correr la voce che la Confederazione Generale del Lavoro ha ordinato la cessazione dello sciopero.
La notizia manca di ogni prova, ed è probabile sia stata inventata e propagata dal governo collo scopo di gettare il dubbio in mezzo ai lavoratori ed arrestarne lo slancio magnifico.
Ma fosse anche vera, essa non servirebbe che a marchiare d’infamia coloro che avrebbero tentato il tradimento.
La Confederazione Generale del Lavoro non sarebbe ubbidita. Già si annunzia che le Camere del Lavoro di Milano e di Bologna si sono rivoltate agli ordini. La Camera del Lavoro di Ancona è autonoma. L’Unione Sindacale Italiana certamente non mancherà il suo dovere. I ferrovieri hanno quasi completamente arrestato il servizio, e le linee sono state manomesse in modo che non è possibile al governo di ripararle nel breve tempo che gli resta di vita.
E poi, ancora una volta, ora non si tratta più di sciopero, ma di RIVOLUZIONE.
Il movimento incomincia adesso, e ci vengono a dire di cessarlo!
Abbasso gli addormentatori! Abbasso i traditori! Evviva la rivoluzione!

b. E ora?42

Ora... continueremo. Continueremo più che mai pieni d’entusiasmo fatto di volontà, di speranza, di fede. Continueremo a preparare la rivoluzione liberatrice, che dovrà assicurare a tutti la giustizia, la libertà, il benessere. Se il governo e la borghesia s’immaginano di aver vinto la rivoluzione e d’averla domata, s’accorgeranno un giorno quanto mai è grande il loro errore. Questa volta non han vinto che uno scoppio spontaneo d’indignazione popolare: non hanno avuto che un piccolo saggio della collera che van seminando nell’a-nimo dei lavoratori. Sentiranno un’altra volta il basta formidabile del proletariato, che porterà fine al regime.
Le nostre intenzioni erano modeste. Appena all’inizio della nostra preparazione, quando non ancora erano sparite le ultime tracce dell’ubriacatura libica e il risveglio del popolo italiano era, nella più gran parte del paese, solo da poco incominciato, noi non pensavamo certamente di poter fare la rivoluzione con i comizi ed i cortei del giorno dello Statuto. Noi intentavamo soltanto di far sentire al governo la necessità di far liberare le vittime militari (Masetti, Moroni, Fioravanti e gli altri) e di abolire le compagnie di disciplina. La stupida proibizione dei comizi ed il feroce eccidio di Villa Rossa spinsero le cose ben oltre le nostre intenzioni e le nostre speranze. Senza intesa, senza preparazione, tutta Italia insorse indignata, ed in molte parti lo sciopero generale di protesta assunse subito aspetto di rivolta aperta contro le istituzioni dello Stato. Ed il movimento si andava allargando ed intensificando e nessuno può dire dove sarebbe finito, se in sul bel principio non fosse venuto a fermarlo quell’ordine della Confederazione Generale del Lavoro, che se fu un segnalato servizio reso al governo, fu perciò stesso il più nero tradimento perpetrato contro il proletariato italiano. Chi vorrà potrà dire ormai che la rivoluzione è impossibile e che l’insurrezione popolare è roba da quarantotto? Estendete ad una gran parte d’Italia - e la cosa si va facendo quasi diremo da sè - lo stato d’animo dei lavoratori di Romagna e delle Marche, e l’insurrezione scoppia e trionfa spontaneamente per un’occasione qualsiasi.
La lezione di questi giorni agitati non deve andar perduta. Noi abbiamo visto che le masse sono sensibili e disposte alla lotta. Abbiamo visto che le differenze di scuole, di tendenze, di partito non impediscono un’azione comune per uno scopo comune, e che lo sciopero generale è ottimo mezzo per incominciare un movimento rivoluzionario, ma che non può continuare come sciopero senza stancare la popolazione e ridurla alla fame; e che perciò l’astensione dal lavoro deve ben presto cambiarsi in lavoro fatto a favore della collettività, ed in organizzazione della raccolta e distribuzione dei generi di consumo a beneficio di tutti. Abbiamo visto che gli avvenimenti impreveduti danno quel che possono dare, ma che per riuscire bisogna prepararsi metodicamente secondo piani preordinati. Ed abbiamo visto ancora che le occasioni possono capitare quando uno meno se lo aspetta, e che perciò bisogna star pronti sempre. Tutto quanto non sarà stato visto inutilmente.
E che cosa farà il governo? V’è che parla di biechi propositi di repressione, e non mancano giornali che spingono il governo su quella via, e designano specialmente noi ai suoi colpi. Non crediamo che il governo vorrà aumentare il discredito delle istituzioni violando le leggi fatte per sorreggerle. Poichè è bene si sappia, noi, pur essendo nemici delle leggi, per misura di prudenza e finchè siamo i più deboli cerchiamo di non esporci alle loro sanzioni. Noi vogliamo fare la rivoluzione e la prepariamo; ma la prepariamo alla luce del sole, colla propaganda scritta e orale, suscitando nelle masse la coscienza dei loro diritti e delle loro forze ed ispirando loro l’ideale di una civiltà superiore, e cercando di mettere pace e concordia fra i proletari ed affratellarli nella lotta contro il nemico comune, E tutto questo, per quanto profondamente sovversivo nel fine, è anche perfettamente legale. In ogni modo noi stiamo a vedere quel che faranno e ci regoleremo in conseguenza. Il governo si trova in una tragica posizione. O ci lascia tranquilli e noi continueremo tranquillamente l’opera nostra, o si abbandona a persecuzioni, e farà più propaganda in nostro favore di quella che potremo mai fare noi stessi. Il regime è condannato, e non si salva più, nè con le blandizie nè con i rigori. Solamente la rivoluzione sarà tanto meno violenta, il trapasso alla nuova società tanto meno doloroso, quanto meno violenta sarà la resistenza.

c. Movimenti stroncati43

Settimana Rossa - Corre in certi ambienti la leggenda ch’io sia stato l’organizzatore della "Settimana Rossa" del 1914. Grande onore per me, ma purtroppo non meritato!
La "Settimana Rossa" non fu un movimento preparato e voluto, ma avvenne impensatamente per la reazione spontanea di un popolo fiero ad una provocazione insensata e sanguinosa della forza pubblica.
Le cose andarono così.
Da parecchio tempo i partiti sovversivi e specialmente gli anarchici ed i sindacalisti si agitavano per ottenere la liberazione di Masetti e l’abolizione delle Compagnie di disciplina. Conferenze e comizi si moltiplicavano; ma gli effetti erano scarsi ed il governo non dava segni di cedere. Si cercava qualche altro modo di manifestazione più clamoroso, che potesse scuotere l’opinione pubblica ed impressionare le autorità. In un comizio in Ancona un militare (che non nomino perchè non so se ora ne avrebbe piacere) lanciò una proposta che fu accolta con entusiasmo. Siccome si avvicinava la prima domenica di giugno, in cui il mondo ufficiale commemora "la concessione" dello Statuto Albertino con riviste militari, ricevimenti reali e prefettizi, noi, diceva il proponente, dovremmo impedire o almeno disturbare la festa; convochiamo per il giorno dello Statuto comizi e cortei in tutte le città d’Italia ed il governo sarà costretto a tenere le truppe consegnate in quartiere o occupate in servizio di pubblica sicurezza e le riviste non potranno farsi.
L’idea, fatta sua dal periodico Volontà che stampavamo allora in Ancona, fu sostenuta e propagata con calore, e quando giunse la prima domenica di giugno, attuata in molte città. Le riviste non si fecero: la manifestazione era riuscita, e noi non avremmo per allora spinte le cose più oltre, anche perchè andava maturando in Italia un movimento generale e non avevamo interesse a spendere le nostre forze in tentativi isolati. Ma la stupidaggine e la brutalità della polizia disposero altrimenti.
In Ancona la mattina le truppe erano restate consegnate e non v’era stato nulla di grave. Nel pomeriggio vi fu un comizio nel locale dei repubblicani a Villa Rossa, e dopo che ebbero parlato oratori dei vari partiti e spiegato le ragioni della manifestazione, la folla incominciò ad uscire. Ma alla porta c’era la polizia che intimava di sciogliersi e ritirarsi, mentre poi cordoni di carabinieri chiudevano tutte le strade per le quali si poteva andar via ed impedivano il passaggio. Ne nacque un conflitto; i carabinieri fecero fuoco ed ammazzarono tre giovani.
Immediatamente i tram cessarono di circolare, tutti i negozi si chiusero e lo sciopero generale si trovò attuato senza che ci fosse bisogno di deliberano e proclamarlo. L’indomani ed i giorni susseguenti Ancona si trovò in stato d’insurrezione potenziale. Dei negozi d’armi furono saccheggiati, delle partite di grano furono requisite, una specie d’organizzazione per provvedere ai bisogni alimentari della popolazione si andava abbozzando. La città era piena di truppa, navi da guerra si trovavano nel porto, ma l’autorità pur facendo circolare grosse pattuglie, non osava reprimere, evidentemente perchè non si sentiva sicura dell’obbedienza dei soldati e dei marinai. Infatti soldati e marinai fraternizzavano col popolo; le donne, le impareggiabili donne anconetane, carezzavano i soldati, distribuivano loro vino e sigarette, li inducevano a mischiarsi colla folla; qua e là degli ufficiali erano sputacchiati e schiaffeggiati in presenza delle loro truppe e i soldati lasciavano fare e spesso incoraggiavano con cenni e con parole. Lo sciopero prendeva ogni giorno più il carattere di insurrezione, e già dei proclami dicevano chiaramente che non si trattava più di sciopero e che bisognava riorganizzare sopra nuove basi la vita cittadina.
Intanto il movimento si era propagato con rapidità fulminea nelle Marche e nelle Romagne e già si estendeva in Toscana ed in Lombardia. Lo stato d’animo dei lavoratori era propizio ad un cambiamento di regime. L’accordo tra i partiti rivoluzionari s’era fatto da sè, e, malgrado che i Pirolini e i Chiesa e i Pacetti correvano in automobile per deprecare il movimento, i lavoratori repubblicani lottavano in bell’armonia cogli anarchici e con la parte rivoluzionaria dei socialisti.
Si stava per passare agli atti risolutivi. Lo sciopero a tendenza insurrezionale si estendeva. I ferrovieri si apprestavano a prendere in mano la direzione del servizio per impedire le dislocazioni di truppe e non far viaggiare che i treni utili per il movimento insurrezionale. La rivoluzione stava per farsi, per impulso spontaneo delle popolazioni, e con grandi probabilità di successo.
Certamente noi si sarebbe in quel momento attuata l’anarchia e nemmeno il socialismo, ma si sarebbero levato di mezzo molti ostacoli e si sarebbe aperto il periodo di libera propaganda, di libera esperimentazione, e sia pure di lotte civili, in capo al quale noi vediamo rifulgere il trionfo del nostro ideale.
Ma tutto ad un tratto, quando maggiori erano le speranze, la direzione della Confederazione generale del lavoro con telegramma circolare dichiara finito il movimento ed ordina la cessazione dello sciopero. E così le masse che agivano nella fiducia di prender parte ad un movimento generale, furono disorientate; ciascuna località vide naturalmente che era impossibile resistere da sola, e il movimento cessò.

3. LA GRANDE SPERANZA

a. L’alleanza rivoluzionaria44

Il nostro A.F. lamentava in un numero recente i dissidi sorti a Milano fra anarchici e socialisti e faceva, magari forzando un po’ troppo la nota, un caldo appello alla concordia di fronte al nemico comune.
Poi, noi richiamavamo l’attenzione dei repubblicani sopra una sconcia nota poliziesca apparsa nel giornale L’iniziativa, e ancora una volta mostravamo desiderio di concordia e di cooperazione con i repubblicani che la repubblica la vogliono fare sul serio e la intendono come un regime di giustizia e di libertà.
Tutto questo ha dato sui nervi del nostro buono e feroce n. g., il quale ci piglia bellamente in giro per i nostri "amorosi sensi" e ci domanda: "A che cosa deve condurre l’"abbracciamoci" coi socialisti e coi repubblicani? Alla rivoluzione? Per la dittatura di Lazzari o per la repubblica di Pirolini?".
Spieghiamoci chiaro.
Umanità Nova è l’organo di tutti gli anarchici e quindi nelle sue colonne hanno diritto di città tutte le manifestazioni del pensiero anarchico, anche di quelli che considerano l’anarchia come un bel sogno, forse irrealizzabile, o realizzabile solo quando la presente corrotta umanità avrà dato luogo, non si sa per quale processo di generazione spontanea, alla nuova umanità, dotata in tutti ed in ciascuno dei suoi membri delle più mirifiche virtù.
Ma i redattori ordinari di Umanità Nova, e fra essi colui che funge ora da direttore, sono dei rivoluzionari, vale a dire credono che ogni albero non può dare che i frutti che comporta la sua natura, che la società capitalistica e statale tende inevitabilmente a ridurre le masse proletarie alla miseria economica ed all’abbiezione morale, e che per poter creare un ambiente sociale nel quale sia possibile il libero sviluppo dell’individuo e l’inizio di una nuova civiltà, di una nuova e migliore umanità, è necessario prima di tutto abbattere colla forza l’ordine di cose vigenti, profittando delle crisi a cui è soggetto il regime capitalistico e della volontà fattiva delle minoranze coscienti e ribelli.
È quindi naturale che noi consideriamo le questioni principalmente dal punto di vista dell’interesse rivoluzionario, lasciando ai nostri collaboratori - anarchici più veri e maggiori - il compito di vigilare alla purezza della dottrina.
Del resto, queste discussioni sull’utilità e sulla necessità della rivoluzione sono oramai oziose. La rivoluzione c’è e cammina verso la sua crisi risolutiva. Che non lo veggano i governi e le classi privilegiate (ma è poi vero che non lo vedono?) si spiega facilmente con la tradizionale cecità dei governanti alla vigilia della loro caduta. Che ci siano degli anarchici - e fra i più nutriti di studi storici e sociologici che non lo veggono neppure loro, può spiegarsi con altre ragioni che non importa ora ricercare; in ogni modo, questo non altera il fatto: la rivoluzione s’agita e freme e sta per scoppiare.
Se non scoppiasse, vorrebbe dire che le forze contrastanti nel seno stesso del movimento si sarebbero neutralizzate ed avrebbero dato modo alla reazione di ricacciarci indietro e di vivere ancora fino alla prossima crisi.
Può esservi tra gli avversari del regime borghese chi non comprende come oggi l’interesse supremo è quello di salvare la rivoluzione?
Ma la rivoluzione perchè? Per la dittatura di Lazzari, per la repubblica di Pirolini?
Lasciamo andare. Pirolini si ricorderà che per fare la repubblica bisogna cacciare il re solamente quando il re se ne sarà già andato; e il buon Lazzari è troppo vecchio per farci paura.
Vi sono pericoli maggiori che n. g. forse conosce e disdegna enumerare; ma vogliamo noi, per paura che la rivoluzione non riesca quale noi la vorremmo, sottometterci indefinitamente alla dittatura borghese? Certamente la prossima rivoluzione, la rivoluzione imminente, non sarà anarchica se non in proporzione del nostro numero, del nostro valore, della nostra preparazione.
E noi, perchè essa sia più anarchica possibile, dobbiamo moltiplicare i nostri sforzi, intensificare la nostra propaganda, consolidare le nostre organizzazioni penetrare maggiormente in mezzo alle masse e cercare di spingerle il più possibile nella nostra direzione
Ma con tutto questo, è certo che noi non istituiremo da un giorno all’altro l’anarchia su tutto il globo terracqueo.
L’anarchia non si fa per forza: volerlo, sarebbe la più balorda delle contraddizioni. L’anarchia trionferà in tutta la sua pienezza quando tutti saranno anarchici. E siccome nelle condizioni attuali è impossibile che tutti diventino anarchici è condizione previa del trionfo dell’anarchia la rivoluzione che rompe violentemente lo stato di cose attuale e rende possibile l’avvento delle masse a condizioni tali che le rendano capaci di comprendere ed attuare l’anarchia.
Quello che si può e si deve fare per forza è l’espropriazione dei capitalisti e la messa a disposizione di tutti dei mezzi di produzione e di tutta la ricchezza sociale; e, naturalmente l’abbattimento del potere politico che sta a difesa della proprietà. Quello che potremo e dovremo difendere, anche con la forza, è il nostro diritto alla libertà completa di organizzazione autonoma ed alla esperimentazione dei metodi nostri. Il resto verrà col progressivo estendersi delle nostre idee in mezzo alle masse.
Tutto questo non possiamo farlo da noi soli, perchè non siamo forti abbastanza - e non sarebbe nemmeno desiderabile che lo facessimo da soli, perchè allora verremmo fatalmente a trovarci nella posizione di governanti e mancheremmo ai nostri scopi specifici. Di più, siccome la vita economica non ammette interruzioni e bisogna mangiare tutti i giorni, dove e quando noi fossimo incapaci di provvedere con le forze nostre all’approvvigionamento ed agli altri più urgenti bisogni, dovremmo essere felici che altri lo facesse per noi, riserbando a noi stessi la funzione di critica, di controllo e di propulsione.
La rivoluzione, per essere veramente emancipatrice non deve essere l’opera particolare di una scuola o di un partito, ma deve essere opera della massa, di quanto più massa è possibile.
Comprende ora n. g. perchè noi facciamo appello a tutti i lavoratori al disopra di ogni distinzione di partito? Comprende perchè i borghesi, che la rivoluzione temono, si sforzano per dipingerci nemici dei socialisti?. Comprende perchè quei capi socialisti e repubblicani che non vogliono nè il socialismo nè la repubblica cercano di boicottarci?
Noi siamo convinti che tutti i lavoratori ribelli, malgrado le differenze di denominazioni e di diversi quadri in cui militano, hanno in fondo gli stessi sentimenti, lo stesso desiderio ardente di emancipazione umana. E noi ci sentiamo fratelli con tutti e vogliamo lottare il più possibile d’accordo con tutti.
Se attacchiamo spesso e volentieri certi dirigenti socialisti è perchè li vediamo sempre lavorare contro la rivoluzione, ed i più interessati a mandarli via quali traditori del socialismo sono proprio i socialisti veri e sinceri.
Se attacchiamo certi capi repubblicani è perchè sappiamo che la repubblica non la vogliono fare, perchè li abbiamo visti mandare al macello i loro ingenui seguaci mentre essi restavano a casa per trescare nella Reggia e nei ministeri, per far quattrini e per fare la spia; e di quei capi, che han macchiato e tradito la loro bandiera, i repubblicani sinceri sono i più interessati a sbarazzarsi.
Ci riflettano i lavoratori socialisti e repubblicani e vedranno da che parte stanno i loro amici e i loro nemici.

b. Le due vie: riforme e rivoluzione45

Tutta la cosiddetta legislazione sociale, tutte le misure statali intese a "proteggere" il lavoro ed assicurare ai lavoratori un minimo di benessere e di sicurezza e così pure tutti i mezzi adoperati da capitalisti intelligenti per legare l’operaio alla fabbrica con premi, pensioni ed altri benefizi, quando non sono una menzogna ed una trappola, sono un passo verso questo stato servile che minaccia l’emancipazione dei lavoratori ed il progresso dell’umanità.
Salario minimo stabilito per legge; limitazione legale della giornata di lavoro; arbitrato obbligatorio; contratto collettivo di lavoro avente valore giuridico; personalità giuridica delle associazioni operaie; misure igieniche nelle fabbriche prescritte dal governo; assicurazioni statali per le malattie, la disoccupazione, le disgrazie sul lavoro; pensioni per la vecchiaia; compartecipazione agli utili, ecc. ecc., sono tutte misure per far sì che i proletari restino sempre proletari ed i proprietari sempre proprietari: tutte misure che danno ai lavoratori (quando lo danno) un po’ di benessere e dì sicurezza, ma li privano di quel po’ di libertà che hanno, e tendono a perpetuare la divisione degli uomini in padroni e servi.
Certamente è bene, aspettando la rivoluzione - e serve anche a renderla più facile - che i lavoratori cerchino di guadagnare di più e di lavorare meno ore ed in migliori condizioni; è bene che i disoccupati non muoiano di fame; che i malati ed i vecchi non siano abbandonati. Ma questo, ed altro, i lavoratori possono e debbono ottenerlo da loro stessi, con la lotta diretta contro i padroni, mediante le loro organizzazioni coll’azione individuale e collettiva, sviluppando in ciascun individuo il sentimento di dignità personale e la coscienza dei suoi diritti.
I doni dello Stato, i doni dei padroni sono frutti avvelenati che portano con loro i semi della servitù. Bisogna respingerli.
Riconosciuto che tutte le riforme, le quali lascian sussistere la divisione degli uomini in proprietari e proletari e quindi il diritto in alcuni di vivere sul lavoro degli altri, non potrebbero, se ottenute ed accettare come benefiche concessioni dello Stato e dei padroni che attenuare la ribellione degli oppressi contro gli oppressori e condurre alla costituzione di uno stato civile in cui l’umanità sarebbe definitivamente divisa in classi dominanti e classi soggette, non resta altra soluzione che la rivoluzione: una rivoluzione radicale che abbatta tutto l’organismo statale, che espropri i detentori della ricchezza sociale e metta tutti quanti gli uomini sullo stesso piede d’uguaglianza economica e politica.
Questa rivoluzione deve essere necessariamente violenta, quantunque la violenza sia per sè stessa un male. Deve essere violenta perchè sarebbe una follia sperare che i privilegiati riconoscessero il danno e l’ingiustizia dei loro privilegi e si decidessero a rinunziarvi volontariamente. Deve essere violenta perchè la transitoria violenza rivoluzionaria è il solo mezzo per metter fine alla maggiore e perpetua violenza che tiene schiava la grande massa degli uomini.
Vengano pure le riforme se possono venire. Esse possono essere di beneficio momentaneo e servire a stimolare nelle masse sempre maggiori desideri e maggiori pretese, se i proletari serbano vivo il sentimento che i padroni ed i governanti sono i nemici, che tutto ciò che cedono è strappato loro dalla forza o dalla paura della forza e sarebbe presto ritirato se la paura cessasse. Chè se invece le riforme fossero raggiunte per accordi e collaborazione tra dominati e dominatori, non servirebbe che a ribadire le catene che legano i lavoratori al carro dei parassiti.
Del resto oggi il pericolo che le riforme addormentino le masse e riescano a consolidare e perpetuare l’organizzazione borghese pare superato. Non vi sarebbe che il tradimento cosciente di coloro, che colla predicazione socialista sono riusciti ad acquistare la fiducia dei lavoratori, che potrebbe dar loro valore.
La cecità della classe dirigente e l’evoluzione naturale del sistema capitalista accelerata dalla guerra han fatto si che qualsiasi riforma accettabile dai proprietari è impotente a risolvere la crisi che travaglia il paese.
Dunque la rivoluzione s’impone, la rivoluzione viene.
Ma come si deve fare, come si deve svolgere questa rivoluzione?
Naturalmente bisogna principiare con l’atto insurrezionale che spazzi via l’ostacolo materiale, le forze armate del governo, che si oppone a qualunque trasformazione sociale.
Per l’insurrezione è... necessario prepararvisi il meglio che si può, moralmente e materialmente; ed è necessario sopratutto di profittare di tutti i moti spontanei di popolo e cercare di generalizzarli e trasformarli in movimenti risolutivi, per evitare il pericolo che, mentre, i partiti si preparano, la forza popolare si esaurisca in fatti isolati.
Ma dopo l’insurrezione vittoriosa, dopo che il governo è caduto, che cosa bisogna fare?
Noi, gli anarchici, vorremmo che in ciascuna località i lavoratori, o più propriamente quella parte dei lavoratori che ha maggiore coscienza e maggiore spirito d’iniziativa, pigliasse possesso di tutti gli strumenti di lavoro, di tutta la ricchezza, terra, materie prime, case, macchine, generi alimentari, ecc., ed abbozzasse il meglio possibile la nuova forma di vita sociale. Vorremmo che i lavoratori della terra che oggi lavorano per dei padroni non riconoscessero più alcun diritto ai proprietari e continuassero ed intensificassero il lavoro per conto loro, entrando in rapporti diretti cogli operai delle industrie e dei trasporti per lo scambio dei prodotti; che gli operai delle industrie, ingegneri e tecnici compresi, pigliassero possesso delle fabbriche e continuassero ed intensificassero il lavoro per conto proprio e della collettività, trasformando subito tutte quelle fabbriche che oggi producono cose inutili o dannose in produttrici delle cose che più urgono per soddisfare i bisogni del pubblico; che i ferrovieri continuassero ad esercitare le ferrovie ma per il servizio della collettività; che comitati di volontari o di eletti dalla popolazione pigliassero possesso, sotto il controllo diretto della massa, di tutte le abitazioni disponibili per alloggiare il meglio che per il momento si potesse, tutti i più bisognosi; che altri comitati, sempre sotto il controllo diretto delle masse, provvedessero all’approvvigionamento ed alla distribuzione dei generi di consumo; che tutti gli attuali borghesi siano messi nella necessità di confondersi nella folla di coloro che furono proletari e lavorare come gli altri per godere gli stessi benefici degli altri. E tutto questo, subito, nel giorno stesso o nell’in-domani immediato dell’insurrezione vittoriosa, senza aspettare ordini di comitati centrali o di altre qualsiasieno autorità.
Questo è quel che vogliono gli anarchici, ed è poi quello che naturalmente avverrebbe se la rivoluzione deve essere davvero una rivoluzione sociale e non ridursi ad un semplice cambiamento politico, che dopo qualche convulsione riporterebbe le cose allo stato di prima. Poichè, o si leva subito alla borghesia il potere economico o questa ripiglierebbe in breve anche il potere politico che l’insurrezione le avrebbe strappato. E per poter levare alla borghesia il potere economico, bisogna organizzare immediatamente un nuovo assetto economico basato sulla giustizia e sull’eguaglianza. I bisogni economici, almeno i più essenziali, non ammettono interruzioni e bisogna soddisfarli subito. I "comitati centrali" o non fanno nulla o fanno quando non c’è più bisogno dell’opera loro.

c. Il censimento dei rivoluzionari46

...È completamente erroneo che per abbattere il capitalismo bisogna aspettare che i milioni di cattolici siano diventati liberi pensatori, e che gli operai siano tutti (o in maggioranza) organizzati per la lotta di classe.
Non equivochiamo. È una verità assiomatica, lapalissiana, che la rivoluzione non si può fare se non quando vi sono forze sufficienti per farla. Ma è una verità storica che le forze che determinano l’evoluzione e le rivoluzioni sociali non si calcolano coi bollettini del censimento.
I cattolici resteranno numerosi come sono, e magari aumenteranno, fino a quando vi sarà una classe, potente di ricchezza e di scienza interessata a tenere la massa nella schiavitù intellettuale per potere meglio dominarla. Gli operai non saranno mai tutti organizzati e le loro organizzazioni saranno sempre soggette a disfarsi o a degenerare fino a quando la miseria, la disoccupazione, la paura di perdere il posto, il desiderio di migliorare di condizioni alimenteranno la rivalità tra operai e daranno modo ai padroni di profittare di tutte le circostanze, di tutte le crisi per mettere gli operai in concorrenza gli uni contro gli altri. E gli elettori resteranno sempre montoni per definizione anche se qualche volta accade loro di tirar delle cornate.
È cosa provata che date certe condizioni economiche, dato un certo ambiente sociale, le condizioni intellettuali e morali della massa restano sostanzialmente le stesse e, fino a quando un fatto esterno, un fatto idealmente o materialmente violento non viene a modificare quell’ambiente, la propaganda, l’educazione, l’istruzione restano impotenti e non riescono ad agire che sopra quel numero d’individui che, in forza di privilegi naturali o sociali, possono vincere l’ambiente in cui sono costretti a vivere. Ma quel piccolo numero, quella minoranza cosciente e ribelle che ogni ordine sociale partorisce in conseguenza delle stesse ingiustizie cui la massa è soggetta, agisce come fenomeno storico e basta, è sempre bastato, a far progredire il mondo.
Ogni nuova idea, ogni nuova istituzione, ogni progresso ed ogni rivoluzione è stata sempre l’opera di minoranze. È nostra aspirazione, è nostro scopo quello di far assurgere tutti quanti gli uomini a fattori effettivi, a forze coscienti della vita sociale; ma per riuscire a questo scopo occorre dare a tutti i mezzi di vita e di sviluppo, e perciò bisogna abbattere, con la violenza poichè non si può fare altrimenti, la violenza che questi mezzi nega ai lavoratori.
Naturalmente il "piccolo numero", la minoranza, deve essere sufficiente, e ci giudica male chi pensa che noi vorremmo fare un’insurrezione al giorno senza tener conto delle forze in contrasto e delle circostanze favorevoli o meno.
Noi abbiamo potuto fare, abbiamo fatto realmente, in tempi oramai remoti dei minuscoli moti insurrezionali che non avevano alcuna probabilità di successo. Ma allora eravamo davvero in quattro gatti, volevamo obbligare il pubblico a discuterci ed i nostri tentativi erano semplicemente dei mezzi di propaganda.
Ora non si tratta più d’insorgere per far propaganda: ora possiamo vincere, quindi vogliamo vincere, e non facciamo tentativi se non quando ci pare di poter vincere. Naturalmente possiamo ingannarci e, per ragione di temperamento, possiamo credere il frutto maturo quando ancora è acerbo; ma confessiamo la nostra preferenza per coloro che vogliono fare troppo presto contro quegli che vogliono sempre aspettare, che lasciano di proposito passare le migliori occasioni, e per paura di cogliere un frutto acerbo lasciano tutto marcire.
Insomma noi siamo perfettamente d’accordo con "La Giustizia" quando insiste sulla necessità di fare molta propaganda e di sviluppare il più possibile le organizzazioni proletarie di lotta; ma ci stacchiamo recisamente da essa quando pretende che per agire bisogna aspettare di avere attirato a noi la maggioranza di quella massa inerte che non sarà convertita se non dai fatti, che non accetterà la rivoluzione se non dopo che la rivoluzione sarà iniziata.

d. Movimenti stroncati47

L’occupazione delle fabbriche - I metallurgici cominciarono il movimento per questioni di tariffe. Si trattava di uno sciopero di nuovo genere. Invece di abbandonare le fabbriche, restarvi dentro senza lavorare, e farvi guardia notte e giorno perchè i padroni non potessero far la serrata.
Ma era il 1920. Tutta l’Italia proletaria fremeva di febbre rivoluzionaria, e presto la cosa cambiò di carattere Gli operai pensarono che era il momento di impossessarsi definitivamente dei mezzi di produzione Si armarono per la difesa, trasformarono molte fabbriche in vere fortezze ed incominciarono ad organizzare la produzione per loro conto, I padroni cacciati o dichiarati in stato d’arresto... Era il diritto di proprietà abolito di fatto, la legge violata in tutto ciò che serve a difendere lo sfruttamento capitalistico; era un nuovo regime, un nuovo modo di vita sociale che s’inaugurava. Ed il governo lasciava fare, perchè si sentiva impotente ad opporsi; lo ha confessato più tardi scusandosi in parlamento della mancata repressione.
Il movimento si allargava e tendeva ad abbracciare altre categorie; qua e là i contadini occupavano le terre. Era la rivoluzione che incominciava e si sviluppava in un modo, direi quasi, ideale.
I riformisti naturalmente vedevano la cosa di mal occhio, e cercavano di farla abortire. Lo stesso Avanti! non sapendo a che santi votarsi, tentò di far passare noi per pacifisti, perchè in Umanità Nova avevamo detto che se il movimento si estendeva a tutte le categorie, se operai e contadini avessero seguito l’esempio dei metallurgici, cacciando i padroni e prendendo possesso dei mezzi di produzione, la rivoluzione si sarebbe fatta senza spandere una goccia di sangue.
Ma non serviva.
La massa era con noi; eravamo sollecitati a recarci nelle fabbriche a parlare, incoraggiare, consigliare, ed avremmo dovuto dividerci in mille per soddisfare tutte le richieste. Dovunque andavamo erano i discorsi nostri quelli che gli operai applaudivano, ed i riformisti dovevano ritirarsi o camuffarsi.
La massa era con noi, perchè noi interpretavamo meglio i suoi istinti, i suoi bisogni, i suoi interessi.
Eppure, bastò il lavoro subdolo della gente della Confederazione Generale del Lavoro ed i suoi accordi con Giolitti, per far credere ad una specie di vittoria mediante la truffa del controllo operaio ed indurre gli operai a lasciare le fabbriche, proprio nel momento in cui maggiori erano le possibilità di riuscita.
Ho citato due casi, ed avrei potuto citarne altri: il movimento del caro-viveri, lo sciopero di Torino e del Piemonte nell’inverno del 1920, gli scioperi di Milano, ecc.; ed arriverei sempre alle stesse constatazioni.
In piazza, nell’azione, la massa è con noi e disposta ad agire; ma poi nel più bello si lascia abbindolare, sì ferma scorata e disillusa, e noi ci troviamo sempre vinti ed isolati.
Perchè? Secondo me gli è perchè siamo disorganizzati, o non abbastanza organizzati.
Gli altri hanno i mezzi di trasmettere rapidamente dappertutto le notizie, vere o false, che convengono per influire sull’opinione ed indirizzare l’azione nel senso che vogliono. Per mezzo delle loro leghe, sezioni, federazioni, disponendo di fiduciari in tutti i centri, di indirizzi sicuri, ecc., essi possono lanciare un movimento quando serve ai loro fini ed arrestano quando quei fini sono raggiunti. E per stroncare qualsiasi movimento hanno un mezzo semplicissimo: quello di far credere in ogni località che tutto sia finito e che bisogna pensare a salvare il salvabile
Le situazioni ch’io ho descritto si riprodurranno certamente in Italia e forse a breve scadenza. Vogliamo ancora trovarci nello stato d’impreparazione impotenti ad opporci efficacemente alle manovre degli addormentatori ed a cavare da una data situazione rivoluzionaria tutto il maggior frutto ch’essa può dare?

4. UN’ORGANIZZAZIONE ED UN PROGRAMMA

a. L'Unione Anarchica Italiana48

A quanto ho detto sulla questione dell’organizzazione operaia mi sia permesso aggiungere qualche parola sull’organizzazione degli anarchici com’è intesa dall’Unione Anarchica Italiana.
L’Unione Anarchica Italiana è una federazione di gruppi autonomi uniti per aiutarsi reciprocamente nella propaganda e nell’attuazione di un programma liberamente accettato. Essa tiene periodicamente dei Congressi, e tra un Congresso e l’altro è rappresentata da una Commissione di Corrispondenza che è nominata dal Congresso e varia ogni volta di personale e di sede. Le deliberazioni dei Congressi non sono impegnative se non per quei gruppi che le accettano dopo averne preso cognizione; e per questa ragione il modo di rappresentanza, qualunque esso sia, non ha importanza, non potendo dar luogo a ingiustizie e sopraffazioni. Ogni gruppo, od ogni particolare federazione di gruppi manda i delegati che può qualunque sia il numero dei suoi componenti, senza inconvenienti poichè il Congresso non fa leggi obbligatorie per tutti, ma serve come indicazione delle varie opinioni: e l’opinione dominante si concreta in deliberazioni che sono poi sottoposte ai gruppi e hanno sempre valore di consigli e suggerimenti.
La Commissione di corrispondenza serve a facilitare le relazioni tra i gruppi, a procurare alle iniziative di ciascuno l’appoggio degli altri ed a rendere più facile un’azione concertata. Ma non ha nessuna autorità e nessun mezzo per imporre la propria volontà.
Ciascun gruppo e ciascun individuo corrisponde, se crede, direttamente cogli altri senza passare per il tramite della Commissione di corrispondenza: ciascuno è libero di stampare quello che crede, di prendere le iniziative che può, di fare insomma tutto ciò che vuole nell’interesse della causa comune. Unico vincolo il programma generale, la cui accettazione è condizione necessaria per entrare nell’Unione.
Questi principi sono accettati da tutti i membri dell’Unione poichè costituiscono il patto che li ha uniti. E coloro che, per ignoranza o per fini inconfessabili tentano di far credere che l’Unione Anarchica Italiana sia un’organizzazione autoritaria dicono cosa contraria al vero.
L’Unione non intende avere il monopolio dell’organizzazione anarchica. Ogni anarchico può restare isolato od unirsi in altre Organizzazioni. L’Unione è felice d’ogni attività anarchica esercitata dentro e fuori del suo seno, ed è disposta a dare e ricevere aiuti a tutti e da tutti, sempre che si tratti di cose che non contraddicano il suo programma.

b. Il programma comunista anarchico49

Noi crediamo che la più gran parte dei mali che affliggono gli uomini dipende dalla cattiva organizzazione sociale, e che gli uomini volendo e sapendo, possono distruggerli.
La società attuale è il risultato delle lotte secolari che gli uomini han combattuto tra di loro. Non comprendendo i vantaggi che potevano venire a tutti dalla cooperazione e dalla solidarietà, vedendo in ogni altro uomo (salvo al massimo i più vicini per vincoli di sangue) un concorrente ed un nemico, han cercato di accaparrare, ciascun per sè, la più grande quantità di godimenti possibili, senza curarsi degli interessi degli altri.
Data la lotta, naturalmente i più forti, o i più fortunati, dovevano vincere ed in vario modo sottoporre ed opprimere i vinti.
Fino a che l’uomo non fu capace di produrre di più di quello che bastava strettamente al suo mantenimento, i vincitori non potevano che fugare e massacrare i vinti ed impossessarsi degli alimenti da essi raccolti.
Poi, quando con la scoperta della pastorizia e dell’agricoltura un uomo potè produrre più di ciò che gli occorreva per vivere, i vincitori trovarono più conveniente ridurre i vinti in schiavitù e farli lavorare per loro.
Più tardi, i vincitori si accorsero che era più comodo, più produttivo e più sicuro sfruttare il lavoro altrui con un altro sistema: ritenere per sè la proprietà esclusiva della terra e di tutti ì mezzi di lavoro, e lasciar nominalmente liberi gli spogliati, i quali poi non avendo mezzi di vivere, erano costretti a ricorrere ai proprietari ed a lavorare per conto loro, ai patti che essi volevano.
Così, man mano, attraverso tutta una rete complicatissima di lotte di ogni specie, invasioni, guerre, ribellioni, repressioni, concessioni strappate, associazioni di vinti unitisi per la difesa, e di vincitori unitisi per l’offesa, si è giunti allo stato attuale della società in cui alcuni detengono ereditariamente la terra e tutta la ricchezza sociale, mentre la gran massa degli uomini, diseredata di tutto, è sfruttata ed oppressa dai pochi proprietari.
Da questo dipendono lo stato di miseria in cui si trovano generalmente i lavoratori, e tutti i mali che dalla miseria derivano: ignoranza, delitti, prostituzione. Da questo, la costituzione di una classe speciale (governo), la quale, fornita di mezzi materiali di repressione, ha missione di legalizzare e difendere i proprietari contro le rivendicazioni dei proletari; e poi si serve della forza che ha, per creare a sè stessa dei privilegi e sottomettere, se può, alla sua supremazia anche la stessa classe proprietaria. Da questo, la costituzione di un’altra classe speciale (il clero), la quale con una serie di favole sulla volontà di Dio, sulla vita futura, ecc., cerca d’indurre gli oppressi a sopportare docilmente l’oppressione, ed al pari del Governo oltre di fare gli interessi dei proprietari, fa anche i suoi propri. Da questo, la formazione di una scienza ufficiale che è, in tutto ciò che può servire agl’interessi dei dominatori, la negazione della scienza vera. Da questo, lo spirito patriottico, gli odi di razza, le guerre, e le paci armate talvolta più disastrose delle guerre stesse. Da questo, l’amore trasformato in tormento o in turpe mercato. Da ciò l’odio più o meno larvato, la rivalità, il sospetto fra tutti gli uomini, l’incertezza e la paura per tutti.
Tale stato di cose noi vogliamo radicalmente cambiare. E poichè tutti questi mali derivano dalla lotta fra gli uomini, dalla ricerca del benessere fatta da ciascuno per conto suo e contro tutti, noi vogliamo rimediarvi sostituendo all’odio l’amore, alla concorrenza la solidarietà, alla ricerca esclusiva del proprio benessere la cooperazione fraterna per il benessere di tutti, alla oppressione ed all’imposizione la libertà, alla menzogna religiosa e pseudoscientifica la verità. Dunque:
1) Abolizione della proprietà privata della terra, delle materie prime e degli strumenti di lavoro, perchè nessuno abbia il mezzo di vivere sfruttando il lavoro altrui, e tutti, avendo garantiti i mezzi per produrre e vivere, siano veramente indipendenti e possano associarsi agli altri liberamente; per l’interesse comune e conformemente alle proprie simpatie.
2) Abolizione del Governo e di ogni potere che faccia la legge e la imponga agli altri: quindi abolizione... di monarchie, repubbliche, parlamenti, eserciti, polizie, magistratura, ed ogni qualsiasi istituzione dotata di mezzi coercitivi.
3) Organizzazione della vita sociale per opera di libere associazioni e federazioni di produttori e consumatori, fatte e modificate secondo la volontà dei componenti, guidati dalla scienza e dall’esperienza e liberi da ogni imposizione che non derivi dalle necessità naturali, a cui ognuno, vinto dal sentimento stesso della necessità ineluttabile, volontariamente si sottomette.
4) Garantiti i mezzi di vita, di sviluppo, di benessere ai fanciulli ed a tutti coloro che sono impotenti a provvedere a loro stessi.
5) Guerra alle religioni ed a tutte le menzogne, anche se si nascondono sotto il manto della scienza. Istruzione scientifica per tutti e fino ai suoi gradi più elevati.
6) Guerra alle rivalità ed ai pregiudizi patriottici. Abolizione delle frontiere: fratellanza fra tutti i popoli.
7) Ricostruzione della famiglia in quel modo che risulterà dalla pratica dell’amore, libero da ogni vincolo legale, da ogni oppressione economica o fisica, da ogni pregiudizio religioso
Ma non basta desiderare una cosa: se si vuole ottenerla davvero bisogna impiegare i mezzi adatti al suo conseguimento. E questi mezzi non sono arbitrari, ma derivano, necessariamente, dal fine cui si mira e dalle circostanze nelle quali si lotta; giacchè ingannandosi sulla scelta dei mezzi, non si raggiungerebbe il fine propostosi, ma un altro, magari opposto che sarebbe conseguenza naturale, necessaria, dei mezzi adoperati. Chi si mette in cammino e sbaglia strada, non va dove vuole, ma dove lo porta la strada percorsa.
Occorre dunque, dire quali sono i mezzi che, secondo noi, conducono allo scopo prefissoci, e che noi intendiamo adoperare.
Il nostro ideale non è di quelli il cui conseguimento dipende dall’individuo considerato isolatamente. Si tratta di cambiare il modo di vivere in società, di stabilire tra gli uomini rapporti di amore e solidarietà, di conseguire la pienezza dello sviluppo materiale, morale e intellettuale, non per un dato partito, ma per tutti quanti gli esseri umani - e questo non è cosa che si possa imporre colla forza, ma deve sorgere dalla coscienza illuminata di ciascuno ed attuarsi mediante il libero consentimento di tutti.
Nostro primo compito quindi deve essere quello di persuadere la gente.
Bisogna che noi richiamiamo l’attenzione degli uomini sui mali che soffrono e sulla possibilità di distruggerli. Bisogna che suscitiamo in ciascuno la simpatia pei mali altrui ed il desiderio vivo del bene di tutti...
E quando saremo riusciti a far nascere nell’animo degli uomini il sentimento di ribellione contro i mali ingiusti ed inevitabili di cui si soffre nella società presente, ed a far comprendere quali sono le cause di questi mali e come dipenda dalla volontà umana l’eliminarli; quando avremo ispirato il desiderio vivo, prepotente, di trasformare la società per il bene di tutti, di coloro che li han preceduti nella convinzione, si uniranno e vorranno, e potranno, attuare i comuni ideali.
Sarebbe - lo abbiam già detto - assurdo ed in contraddizione col nostro scopo di voler imporre la libertà, l’amore fra gli uomini, lo sviluppo integrale di tutte le facoltà umane, per mezzo della forza. Bisogna dunque contare sulla libera volontà degli altri, e la sola cosa che possiamo fare è quella di provocare il formarsi ed il manifestarsi di detta volontà. Ma sarebbe però egualmente assurdo e contrario al nostro scopo l’ammettere che coloro i quali non la pensano come noi c’impediscano di attuare la nostra volontà, sempre che essa non leda il loro diritto ad una libertà uguale alla nostra.
Libertà dunque per tutti di propagare ed esperimentare le proprie idee, senza altro limite che quello che risulta naturalmente dall’eguale libertà di tutti.
Ma a questo si oppongono - e si oppongono colla forza brutale - coloro che sono i beneficiari degli attuali privilegi e dominano e regolano tutta la vita sociale presente...
Al popolo che vuole emanciparsi non resta altra via che quella di opporre la forza alla forza.
Risulta da quanto abbiamo detto che noi dobbiamo lavorare, per risvegliare negli oppressi il desiderio vivo di una radicale trasformazione sociale, e persuaderli che unendosi, essi hanno la forza di vincere; dobbiamo propagare il nostro ideale e preparare le forze morali e materiali necessarie a vincere le forze nemiche, e ad organizzare la nuova società. E quando avremo la forza sufficiente dobbiamo, profittando delle circostanze favorevoli che si producono o creandole noi stessi, fare la rivoluzione sociale, abbattendo, colla forza, il governo, espropriando, colla forza, i proprietari; mettendo in comune i mezzi di vita e di produzione, ed impedendo che nuovi governi vengano ad imporre la loro volontà e ad ostacolare la riorganizzazione sociale fatta direttamente dagli interessati.
Tutto questo però è meno semplice di quello che potrebbe a prima giunta parere.
Noi abbiamo da fare cogli uomini quali sono nell’attuale società, in condizioni morali e materiali disgraziatissime; e c’inganneremo pensando che basta la propaganda per elevarli a quel grado di sviluppo intellettuale e morale che è necessario all’attuazione dei nostri ideali.
Tra l’uomo e l’ambiente sociale vi è un’azione reciproca. Gli uomini fanno la società come essa è e la società fa gli uomini come essi sono, e da ciò risulta una specie di circolo vizioso. Per trasformare la società bisogna trasformare gli uomini e per trasformare gli uomini bisogna trasformare la società...
Fortunatamente la società attuale non è stata formata dalla volontà illuminata di una classe dominante, che abbia potuto ridurre tutti i dominati a strumenti passivi ed incoscienti dei suoi interessi. Essa è il risultato di mille lotte intestine, di mille fattori naturali ed umani agenti casualmente senza criteri direttivi; e quindi non vi sono divisioni nette nè tra gli individui nè tra le classi.
Infinite sono le varietà di condizioni materiali; infiniti i gradi di sviluppo morale ed intellettuale; e non sempre - diremmo quasi molto raramente - il posto che uno occupa in società corrisponde alle sue facoltà ed alle sue aspirazioni. Spessissimo alcuni individui cadono in condizioni inferiori a quelle a cui sono abituati, ed altri, per circostanze eccezionalmente favorevoli, riescono ad elevarsi a condizioni superiori a quelle in cui sono nati. Una parte notevole del proletariato è già arrivata ad uscire dallo stato di miseria assoluta, abbrutente, o non ha mai potuto esservi ridotta; nessun lavoratore, o quasi nessuno si trova nello stato di incoscienza completa, di completa acquiescenza alle condizioni che gli fanno i padroni. E le stesse istituzioni, quali sono state prodotte dalla storia, contengono delle contraddizioni organiche che sono come dei germi di morte, i quali sviluppandosi producono la dissoluzione dell’istituzione e la necessità della trasformazione.
Da ciò la possibilità del progresso; ma non la possibilità di portare, per mezzo della propaganda, tutti gli uomini al livello necessario perchè vogliano e facciano l’anarchia, senza un’anteriore graduale trasformazione dell’ambiente.
Il progresso deve camminare contemporaneamente, parallelamente negli individui e nell’ambiente; dobbiamo profittare di tutti i mezzi di tutte le possibilità, di tutte le occasioni che ci lascia l’ambiente attuale, per agire sugli uomini e sviluppare la loro coscienza ed i loro desideri; dobbiamo utilizzare tutti i progressi avvenuti nella coscienza degli uomini per indurli a reclamare ed imporre quelle maggiori trasformazioni sociali che sono possibili e che meglio servono ad aprire la via a progressi ulteriori
Noi non dobbiamo aspettare dì poter fare l’anarchia ed intanto limitarci alla semplice propaganda. Se facessimo così, presto avremmo esaurito il campo; avremmo convertiti cioè, tutti quelli che nell’ambiente sono suscettibili di comprendere ed accettare le nostre idee e la nostra ulteriore propaganda resterebbe sterile; o se delle trasformazioni d’ambiente elevassero nuovi strati popolari alla possibilità di ricevere idee nuove, ciò avverrebbe senza l’opera nostra, forse contro l’opera nostra e quindi con pregiudizio delle nostre idee.
Noi dobbiamo cercare che il popolo, nella sua totalità o nelle sue frazioni, pretenda, imponga, prenda da sè tutti i miglioramenti, tutte le libertà che desidera, man mano che giunge a desiderarle ed ha la forza di imporle; e propagandando sempre tutto intero il nostro programma e lottando sempre per la sua attuazione integrale, dobbiamo spingere il popolo a pretendere ed imporre sempre di più fino a che non ha raggiunto l’emancipazione completa...
Noi vogliamo dunque abolire radicalmente la dominazione e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, noi vogliamo che gli uomini affratellati da una solidarietà cosciente e voluta cooperino tutti volontariamente al benessere di tutti; noi vogliamo che la società sia costituita allo scopo di fornire a tutti gli esseri umani i mezzi per raggiungere il massimo benessere possibile, il massimo possibile sviluppo morale e materiale; noi vogliamo per tutti pane, libertà, amore, scienza.
E per raggiungere questo scopo supremo noi crediamo necessario che i mezzi di produzione siano a disposizione di tutti, e che nessun uomo, o gruppo di uomini possa obbligare gli altri a sottostare alla sua volontà nè esercitare la sua influenza altrimenti che con la forza della ragione e dell’esempio.
Dunque, espropriazione dei detentori del suolo e del capitale a vantaggio di tutti, abolizione del governo...

c. Organizzatori ed antiorganizzatori50

Noi conosciamo bene tutte le deficienze del giornale e, sempre pronti a lasciare il nostro posto a chi fosse giudicato dai compagni più adatto di noi, accettiamo intanto con piacere e gratitudine tutti i suggerimenti che ci pervengono, quantunque il più delle volte non possiamo utilizzarli, sia per incapacità nostra (noi non possiamo farci più intelligenti e migliori scrittori di quello che siamo), sia per le difficoltà tecniche e materiali fra le quali ci dibattiamo. E riceviamo con rispetto anche le critiche che ci sembrano ingiustificate; ma pretendiamo che non si calunnino le nostre intenzioni, non si travisino i fatti, non si alteri il nostro pensiero, non ci si faccia dire quello che non abbiamo detto e non si affetti di ignorare quello che diciamo continuamente.
Siccome nel movimento anarchico vi è una notevole frazione "individualista" o "antiorganizzatrice" o "antipartitista", gli amici-nemici di Umanità Nova si affannano a dire che noi formiamo, o vorremmo formare, una specie di corporazione chiusa, intollerante, dogmatica; che vogliamo fare di Umanità Nova l’organo esclusivo dell’"Unione Anarchica Italiana" (la quale sarebbe poi, secondo gli stessi, un’organizzazione autoritaria, accentrata, con mire dittatoriali, ecc.); e che noi cestiniamo sistematicamente tutti gli scritti che non corrispondono alla "nostra" tendenza.
Ma qual è questa "nostra" tendenza?
Io che scrivo sono partigiano dell’organizzazione operaia e dell’organizzazione nel partito, vale a dire che, pigliando il nome "partito" nel senso vero d’insieme di tutti coloro che "parteggiano" e lottano per la stessa causa, io credo utile che gli anarchici si uniscano in una o più organizzazioni, transitorie o permanenti, locali o generali, secondo le circostanze e gli scopi immediati o definitivi che si vogliano raggiungere, per coordinare gli sforzi e fare quelle cose a cui non basterebbero le forze degl’individui isolati. E conseguentemente sono aderente all’Unione Anarchica Italiana, nonchè ad altri aggruppamenti che si propongono lavori speciali che non entrano nel compito generale dell’Unione.
Però nella redazione di Umanità Nova non tutti la pensano allo stesso modo, nè tutti aderiscono all’Unione Anarchica Italiana; e v’è anche chi si dichiara individualista ed antiorganizzatore. Ciononostante, troviamo modo di andare d’accordo, perchè pensiamo che si può servire la causa con metodi e mezzi differenti, purchè l’uno non cerchi di annientare gli sforzi dell’altro.
Per conto mio non vi è differenza sostanziale, differenza di principi tra "individualisti" e "comunisti anarchici", tra "organizzatori" e "antiorganizzatori"; e si tratta più che altro di questioni di parole e di malintesi, inaspriti ed ingigantiti da questioni personali. Lasciando da parte oggi la questione dell’’individualismo" perchè ne ho trattato recentemente rispondendo ad "un compagno venuto dall’America", vi è forse tra gli anarchici chi è contrario in massima ad ogni organizzazione operaia? Si può essere avversi a questo o a quel modo di organizzazione, e gli anarchici tutti non possono non criticare tutte le organizzazioni esistenti ed anche tutte quelle possibili nell’attuale ambiente sociale; si può combattere l’illusione sindacalista che le organizzazioni operaie bastano per sè sole a risolvere la questione sociale, e noi l’abbiamo combattuta più di ogni altro - ma non credo che vi siano degli anarchici i quali vorrebbero veder sparire ogni organizzazione operaia e ritornare i lavoratori alle condizioni di un secolo fa, quando essi non contavano nulla come lavoratori, e se si battevano lo facevano per conto ed al comando dei borghesi senza alcuna coscienza di classe e senza altre speranze di miglioramento che quella che basavano sulla bontà dei governi e dei padroni. Nè credo che vi sia qualcuno che vorrebbe veder ridotto il vasto movimento operaio, che travaglia il mondo, alla sola esistenza di sparuti gruppi rivoluzionari, che sarebbero impotenti a fare qualsiasi cosa importante se non potessero appoggiarsi a quella parte della massa che nelle associazioni ha acquistato una coscienza di classe. Se m’inganno, allora lo dicano, e discuteremo.
Ed in quanto all’organizzazione o alle organizzazioni nel senso del partito, vi è forse chi vorrebbe che gli anarchici restassero isolati gli uni dagli altri?
Certamente che no. Ed infatti meno qualche raro pensatore (possibile più che reale) il quale può isolarsi materialmente dai suoi contemporanei e cercare la necessaria cooperazione intellettuale dei suoi simili nella parola stampata, non v’è nessuno che possa fare le minima cosa senza associarsi, unirsi con altri. Anche i fatti più caratteristicamente individuali domandano l’intesa intima di parecchi! Non chiede tutta un’organizzazione la pubblicazione di un giornale? o una qualsiasi opera di propaganda e d’educazione alquanto importante? o la preparazione di una azione risolutiva?
Non potendo dir altro, gli avversari del "partito" si scagliano contro l’organizzazione "permanente", senza pensare che un’organizzazione è fatta per durare fino a che dura la ragione per la quale è stata fatta; e che come vi sono dei fatti speciali da compiere in breve che richiedono un’intesa temporanea, così ve ne sono degli altri come quello della lotta per l’anarchia, che domandano un’intesa permanente, la quale cambia gradualmente nei suoi componenti, che poco a poco muoiono, o restano vittime, o si stancano e sono sostituiti dai giovani sopravvenuti, ma non ha nessuna ragione per prescrivere volontariamente un limite di tempo alla sua esistenza. O quando s’organizza la pubblicazione di un giornale, non si fa come se questo giornale dovesse viver sempre?
Oppure dicono che essi sono contro un "partito" autoritario, accentrato, che nega e soffoca l’iniziativa dei singoli. E chi dice il contrario? Non stiamo continuamente predicando alla gente che bisogna agire, senza aspettare ordini di capi? che la disciplina deve consistere nella fedeltà ai propri impegni e nell’obbligo morale di appoggiare i compagni nelle azioni che si approvano, e non già nel fare quello che uno non vuol fare, o peggio ancora nel non fare quello che uno crede buono ed utile di fare? E non diciamo continuamente che le risoluzioni di congressi e di comitati non obbligano che coloro che le accettano e fino a quando non hanno lealmente dichiarato di non accettarle più?
Ma un partito può degenerare e diventare autoritario. È vero... se non e composto di anarchici coscienti; e per questo noi (e come noi l’Unione Anarchica Italiana e qualunque altra organizzazione anarchica) non possiamo che fare la propaganda anarchica. Possono dire che noi non la facciamo continuamente nei nostri scritti, nelle nostre conferenze, nelle nostre conversazioni e lettere private?
Ma realmente, dato lo spirito degli anarchici, il pericolo non è quello che un "partito anarchico" diventi autoritario, ma piuttosto quello ch’esso non giunga a prendere consistenza e non renda quindi quella somma d’azione che gli anarchici potrebbero dare se solamente sapessero armonizzare e sommare il loro entusiasmo, il loro coraggio, il loro spirito di sacrificio. E questo è provato dalla storia di tutte le organizzazioni e tentativi di organizzazioni che gli anarchici han fatto in tutto il mondo da quando esiste un movimento anarchico...

d. Lo spontaneismo e l'organizzazione51

I compagni del periodico anarchico L'Adunata dei Refrattari, di Newark, negli Stati Uniti, hanno nel dicembre passato ripubblicato in volume la serie di brillanti articoli con cui Luigi Galleani rispondeva, circa 20 anni or sono, a F.S. Merlino, il quale aveva affermato, in un’intervista con Cesare Sobrero, che l’anarchismo era morto, o moribondo. Ed hanno fatto opera buona, poichè sarebbe stato un peccato davvero che quel lavoro fosse andato dimenticato e perduto.
In sostanza è una esposizione chiara, serena, eloquente del comunismo anarchico, secondo la concezione kropotkiniana: concezione, che io personalmente trovo troppo ottimista, troppo facilona, troppo fidente nelle armonie naturali, ma che non resta meno per questo il contributo più grande che sia stato dato finora alla propagazione dell’anarchismo.
Non starò ad esporre le tesi sostenute dal Galleani, perchè sono in generale le stesse idee che noi tutti abbiamo sempre professate e propagate ed anche perchè si tratta di un lavoro tanto sostanzioso e conciso che mal si presta ai riassunti ed agli estratti, ed è così bene scritto che a toccarlo si rischia di sciuparlo.
Noterò soltanto un punto di dissenso apparente ed uno di dissenso reale.
Il dissenso apparente sta nella questione dell’organizzazione - non dell’organizzazione operaia intorno alla quale io sono, come sanno i lettori di questa rivista, quasi completamente d’accordo col Galleani - ma dell’organizzazione propria degli anarchici come partito, come insieme di uomini che vogliono la stessa cosa e che hanno interesse ad unire e coordinare i loro sforzi. Galleani fa una critica severa quanto giusta di una supposta organizzazione autoritaria, che è una cosa completamente diversa da quella che gli anarchici organizzatori predicano e, quando possono, praticano. Ma è una questione di parola. Se invece di dire organizzazione si dicesse associazione, intesa, unione o altra parola simile, Galleani sarebbe certamente il primo a riconoscere che gli sforzi isolati e discordanti sono impotenti a raggiungere lo scopo. Infatti egli aveva creato in America, intorno a Cronaca Sovversiva, tutt’una accolta di consensi e di cooperazioni che, se mai, aveva proprio il difetto autoritario di dipendere troppo dall’impulso di una sola persona.
Il punto di dissenso reale è un altro, ed è grave perchè può influenzare tutta l’azione pratica degli anarchici oggi e, più ancora, nei giorni di crisi storiche.
Galleani dice:
"Noi non possiamo offrire della città libera e felice che qualche magnifico profilo disegnato dalla speranza, dalla fantasia e da qualche logica e positiva induzione, piuttosto che da una realtà matematica e sicura. Non possiamo d’altronde, senza arbitrio e senza ridicolo, erigerne l’architettura severa e completa. La più ideale delle costruzioni potrebbe parere meschina, forse anche grottesca ai nostri nepoti che la casa dovrebbero abitare, e la casa sapranno farsi da sè adeguata ai loro bisogni, rispondere al loro gusto, degna dell’era più progredita e delle superiori civiltà in cui saranno chiamati a vivere".
E sta benissimo Ma poi aggiunge:
"Il nostro compito è più modesto ed anche più perentorio: dobbiamo lasciare ad essi (ai nipoti) il terreno sgombro dalle fosche ruine, dalle turpi galere, dai privilegi esosi, dai monopoli rapaci, dagli eunuchi rispetti umani, dai convenzionalismi bugiardi, da pregiudizi avvelenati tra cui ci aggiriamo povere ombre in pena; dobbiamo lasciare ad essi sgombra la terra dalle chiese, dalle caserme, dai tribunali, dai lupanari e soprattutto dall’ignoranza e dalla paura che li custodiscono assai più fedelmente che non le sanzioni del codice e i gendarmi".
Qui appare l’idea, purtroppo assai sparsa in mezzo ai nostri compagni, che compito degli anarchici sia semplicemente quello di demolire, lasciando ai posteri l’opera di ricostruzione. Ed è idea nefasta.
La vita sociale, come la vita individuale, non ammette interruzione. Sarebbe, per esempio, ridicolo, e mortale se si facesse davvero, il volere distruggere tutti i forni malsani, tutti i mulini antieconomici, tutte le culture arretrate rimettendo ai posteri la cura di cercare ed applicare metodi migliori per coltivare il grano, far la farina e cuocere il pane. E così per la maggior parte delle istituzioni sociali, che compiono male qualche funzione necessaria, ma la compiono; e non possono esser distrutte se non sostituendole con qualche cosa di meglio.
Non si tratta di prescrivere la linea da seguire ai posteri, i quali profitteranno degli sforzi e delle esperienze nostre e faranno, c’è da sperarlo, molto meglio di quello che sapremmo far noi. Si tratta di quello che dobbiamo e dovremo far noi, se non vogliamo lasciare il monopolio dell’azione pratica ad altri, che indirizzerebbero il movimento verso orizzonti opposti ai nostri. Quindi necessità di studi e di preparazione per poter realizzare il più possibile delle nostre idee a mano a mano che si opera la demolizione.
Questo, almeno, per chi pensa, come me, che l’anarchia sia una cosa da fare, e non semplicemente da sognare.

e. Individualismo e organizzazione52

La risposta di Adams al mio articolo del n. 13 mi fa vedere ch’io non riuscii a bene esprimere il mio pensiero, e m’induce quindi ad aggiungere qualche schiarimento.
Io dissi che "nei loro moventi morali e nei loro fini ultimi anarchismo individualista e anarchismo comunista sono la stessa cosa o quasi".
A questa mia affermazione si può opporre, lo so, mille testi e non pochi fatti di sedicenti anarchici individualisti i quali dimostrerebbero che tra anarchici individualisti ed anarchici comunisti vi è addirittura un abisso morale che li divide. Ma io nego che quella specie di individualisti possa includersi tra gli anarchici, malgrado ch’essi amino chiamarsi tali.
Se anarchia significa non governo, non dominio, non oppressione dell’uomo sull’uomo come mai può chiamarsi anarchico, senza mentire a se stesso ed agli altri, uno che vi dice francamente che per soddisfare il suo Io opprimerebbe gli altri senza scrupolo alcuno e senza altro limite che quello segnatogli dalla sua forza? Egli può essere un ribelle, perchè si trova in posizione d’oppresso e lotta per diventare oppressore, come altri più nobili ribelli lottano per distruggere ogni genere d’oppressione; ma anarchico non può esser di certo. Egli è un aspirante borghese, un aspirante tiranno che, impotente a realizzare da sè e per le vie legali i suoi sogni di dominio e di ricchezza si accosta agli anarchici per sfruttarne la solidarietà morale o materiale.
La questione, secondo me, non è dunque tra "comunisti" e "individualisti", ma tra anarchici e non anarchici. Ed è stato grande torto il nostro, o almeno di molti di noi, quello di discutere certo preteso "individualismo anarchico" come se fosse davvero una tra le varie tendenze dell’anarchismo, invece di combatterlo come una delle tante maschere dell’autoritarismo.
Ma, dice Adams "se si leva all’anarchismo individualista tutto ciò che non è anarchico non c’è più anarchismo individualista di sorta". E qui non siamo d’accordo.
Moralmente l’anarchismo basta a se stesso: ma per tradursi nei fatti ha bisogno di forme concrete di vita materiale, ed è la preferenza di una forma all’altra che differenzia l’una dall’altra le vane scuole anarchiche.
Comunismo, individualismo, collettivismo, mutualismo e tutti i programmi intermedi ed eclettici non sono, nel campo anarchico, che il modo creduto migliore per realizzare nella vita economica la libertà e la solidarietà, il modo creduto più rispondente a giustizia ed a libertà di distribuire tra gli uomini i mezzi di produzione ed i prodotti del lavoro.
Bakunin era anarchico, ed era collettivista, nemico fiero del comunismo perchè in esso vedeva la negazione della libertà e quindi della dignità umana. E con Bakunin e lungo tempo dopo di lui furono collettivisti (proprietà collettiva del suolo, delle materie prime e degli strumenti di lavoro, e attribuzione del prodotto integrale del lavoro a ciascun produttore, detratta la quota parte necessaria per i carichi sociali) quasi tutti gli anarchici spagnoli, che pur erano tra gli anarchici più coscienti e più conseguenti.
Altri per la stessa ragione di difesa e garanzia della libertà si dichiararono individualisti e vogliono che ciascun abbia in proprietà individuale la parte che gli spetta dei mezzi di produzione e quindi la libera disposizione dei prodotti del suo lavoro.
Altri escogita sistemi più o meno complicati di mutualità. Ma insomma è sempre la ricerca di una più sicura garanzia della libertà che forma la caratteristica degli anarchici e li divide in scuole diverse.
Noi crediamo che la distribuzione dei mezzi di produzione naturali e la determinazione del valore di scambio delle cose necessarie in qualunque sistema fuori del comunismo, mal si potrebbero attuare senza lotte e senza ingiustizie che poi potrebbero finire colla costituzione di nuove forme d’autorità e di governi. Ma d’altra parte non ci nascondiamo il pericolo che un comunismo voluto applicare prima che ne sia ben radicato il desiderio e la coscienza e più largamente che non lo permettano le condizioni obiettive della produzione e dei rapporti sociali meni al sorgere di una burocrazia parassitaria che accetterebbe tutto nelle sue mani e diventerebbe il peggiore dei governi.
E perciò noi restiamo comunisti nel sentimento o nell’aspirazione, ma vogliam lasciare libero campo alla sperimentazione di tutti i modi di vita che si possono immaginare e desiderare.
Per noi è necessario ed è sufficiente che tutti abbiano piena libertà e che nessuno possa monopolizzare i mezzi di produzione e vivere del lavoro altrui.
Adams poi parla della necessità di "un movimento anarchico organizzato, omogeneo, continuativo e collegato per un’azione comune di lotta e di rivendicazione" e dice che la nostra propaganda a fatti deve consistere "non nell’aspettare ad agire, muoversi, organizzarsi, ecc, che tutti quelli che si dicono anarchici siano d’accordo su quello che si deve fare, ma nel fare subito, noi stessi, tutti quanti siamo d’accordo, secondo il nostro programma teorico e tattico senza astenercene per uno sciocco timore d’urtare le suscettibilità dei dissenzienti delle varie frazioni o tendenze".
Ed io convengo perfettamente con lui; ma mi pare ch’egli si sbagli quando pensa che se quello ch’egli desidera non si è fatto finora, o si è fatto poco e male, sia la colpa degli "individualisti".
Secondo me la colpa è di uno stato d’animo degli anarchici che li ha fatti riluttanti ad ogni piano pratico di azione e che deriva da errori teorici propagati fin dalle origini del nostro movimento. E questi errori dipendono da una specie di provvidenzialismo naturale, che ha fatto credere che le vicende umane avvengono automaticamente, naturalmente, senza preparazione, senza organizzazione, senza piani preconcetti. Come molti di noi credono che la rivoluzione verrà da sè, quando i tempi saranno maturi, per opera spontanea della massa, così credono pure che dopo la rivoluzione la spontaneità popolare basterà a tutto e che non v’è bisogno di prevedere e di preparare nulla. E questa è la ragione dei mali che Adams lamenta, e non già gli "individualisti" che dopo tutto sono sempre stati in mezzo a noi una scarsissima minoranza, generalmente senza credito e senza influenza.
Non sono stati gl’individualìsti che hanno inventata la massima, secondo me diametralmente opposta al vero, che "l’anarchia è l’ordine naturale"!

5. IL GOVERNO RIVOLUZIONARIO E LA DITTATURA DEL PROLETARIATO

a. La dittatura del proletariato53

Carissimo Fabbri,
...Sulla questione che tanti si preoccupa, quella della dittatura del proletariato, mi pare che siamo fondamentalmente d’accordo.
A me sembra che su questa questione l’opinione degli anarchici non potrebbe esser dubbia, ed infatti prima della rivoluzione bolscevista non era dubbia per nessuno. Anarchia significa non-governo e quindi a maggior ragione non-dittatura, che è governo assoluto senza controllo e senza limiti costituzionali.
Ma quando è scoppiata la rivoluzione bolscevista parecchi nostri amici hanno confuso ciò che era rivoluzione contro il governo preesistente, e ciò che era nuovo governo che veniva a sovrapporsi alla rivoluzione per frenarla e dirigerla ai fini particolari di un partito - e quasi quasi si sono dichiarati bolscevisti essi stessi.
Ora, i bolscevisti sono semplicemente dei marxisti, che sono onestamente e conseguentemente restati marxisti, a differenza dei loro maestri e modelli, i Guesde, i Plekanoff, gli Hyndmann, gli Scheidemann, i Noske, ecc, ecc., che han fatto la fine che tu sai. Noi rispettiamo la loro sincerità, ammiriamo la loro energia, ma come non siamo stati mai d’accordo con loro sul terreno teorico, non sapremmo solidarizzarci con loro quando dalla teoria si passa alla pratica.
Ma forse la verità è semplicemente questa: che i nostri amici bolscevizzanti coll’espressione "dittatura del proletariato" intendono semplicemente il fatto rivoluzionario dei lavoratori che prendono possesso della terra e degli strumenti di lavoro e cercano di costituire una società, di organizzare un modo di vita in cui non vi sia posto per una classe che sfrutti ed opprima i produttori.
Intesa così, la "dittatura del proletariato" sarebbe il potere effettivo di tutti i lavoratori intenti ad abbattere la società capitalistica, e diventerebbe l’anarchia non appena fosse cessata la resistenza reazionaria e nessuno più pretendesse di obbligare con la forza la massa ad ubbidirgli ed a lavorare per lui. Ed allora il nostro dissenso non sarebbe più che una questione di parole. Dittatura del proletariato significherebbe dittatura di tutti, vale a dire non sarebbe più dittatura, come governo di tutti non è più governo, nel senso autoritario, storico, pratico della parola.
Ma i partigiani veri della "dittatura del proletariato" non la intendono così, e ce lo fanno ben vedere in Russia. Il proletariato naturalmente c’entra come c’entra il popolo nei regimi democratici, cioè semplicemente per nascondere l’essenza reale della cosa. In realtà si tratta della dittatura di un partito, o piuttosto dei capi di un partito; ed è dittatura vera e propria, coi suoi decreti, colle sue sanzioni penali, coi suoi agenti esecutivi e soprattutto colla sua forza armata, che serve oggi anche a difendere la rivoluzione dai suoi nemici esterni, ma che servirà domani per imporre ai lavoratori la volontà dei dittatori, arrestare la rivoluzione, consolidare i nuovi interessi che si vanno costituendo e difendere contro la massa una nuova classe privilegiata.
Anche il generale Bonaparte servì a difendere la rivoluzione francese contro la reazione europea, ma nel difenderla la strozzò. Lenin, Trotski e compagni sono di sicuro dei rivoluzionari sinceri, così come essi intendono la rivoluzione, e non tradiranno; ma essi preparano i quadri governativi che serviranno a quelli che verranno dopo per profittare della rivoluzione ed ucciderla. Essi saranno le prime vittime del loro metodo, e con loro, io temo, cadrà la rivoluzione. È la storia che si ripete: mutatis mutandis, è la dittatura di Robespierre che porta Robespierre alla ghigliottina e prepara la via a Napoleone.
Queste sono le mie idee generali sulle cose di Russia. In quanto ai particolari le notizie che abbiamo sono ancora troppo varie e contraddittorie per potere arrischiare un giudizio. Può anche darsi che molte cose che ci sembrano cattive siano il frutto della situazione e che nelle circostanze speciali della Russia non fosse possibile fare diversamente di quello che hanno fatto. È meglio aspettare, tanto più che quello che noi diremmo non può avere nessuna influenza sullo svolgimento dei fatti in Russia, e potrebbe in Italia essere male interpretato e darci l’aria di far eco alle calunnie interessate della reazione.
L’importante è quello che dobbiamo fare noi - siamo sempre lì, io sto lontano ed impossibilitato a fare la parte mia...

b. Il governo rivoluzionario dei socialisti54

Passiamo ora alla questione di quello che intendiamo fare dopo l’insurrezione vittoriosa.
Questa è la questione essenziale, poichè è il nostro modo di ricostruire che costituisce propriamente l’anarchismo e che ci distingue dai socialisti. L’insurrezione, i mezzi per distruggere sono cosa contingente, e a rigore si potrebbe essere anarchici anche essendo pacifisti, come si può essere socialisti essendo insurrezionisti.
Si è detto che gli anarchici sono antistatalisti ed è giusto: ma che cosa è lo Stato? Stato è parola soggetta a cento interpretazioni, e noi preferiamo adoperare parole chiare che non dan luogo ad equivoci.
Malgrado la cosa possa sembrar nuova a chi non ha penetrato il concetto fondamentale dell’anarchismo, la verità è che i socialisti sono dei violenti, mentre noi siamo contrari ad ogni violenza, salvo quando essa ci è imposta, per ragion di difesa, dalla violenza altrui. Siamo per la violenza oggi perchè è il mezzo necessario per abbattere la violenza borghese; saremmo per la violenza domani se ci si volesse imporre violentemente un modo di vita che non ci convenisse. Ma il nostro ideale, l’anarchia, è una società fondata sul libero accordo delle libere volontà dei singoli. Siamo contro l’autorità perchè l’autorità è violenza, in pratica, di pochi contro i molti; ma saremmo contro l’autorità lo stesso, se essa fosse, secondo l’utopia democratica, la violenza della maggioranza contro la minoranza.
I socialisti sono dittatoriali o parlamentari.
La dittatura, s’intitoli pure dittatura del proletariato, è il governo assoluto di un partito, o piuttosto dei capi di un partito che impongono a tutti il loro speciale programma, quando non siano i loro speciali interessi. Essa si annunzia sempre provvisoria, ma, come ogni potere, tende sempre a perpetuarsi e ad ingrandire il proprio potere, e finisce o col provocare la ribellione o col consolidare un regime di oppressione.
Noi anarchici non possiamo non essere avversari di ogni e qualsiasi dittatura. I socialisti, che preparano gli animi a subire la dittatura, pensino almeno ad assicurarsi che al potere vadano i dittatori che essi desiderano, giacchè, se il popolo è disposto ad ubbidire, c’è sempre pericolo che ubbidisca ai più abili, cioè ai più malvagi.
Resta il parlamento, la democrazia...
Noi, anche nella migliore ed utopistica ipotesi che i corpi eletti riescano a rappresentare la volontà della maggioranza, non potremmo mai riconoscere nella maggioranza il diritto d’imporre la propria volontà alla minoranza per mezzo della legge, cioè per mezzo della forza bruta.
Ma vuol dire questo che noi non vogliamo organizzazioni coordinazione, divisione e delegazione di funzioni?
Niente affatto. Noi comprendiamo tutta la complessità della vita civile e non vogliamo rinunziare a nessuno dei vantaggi della civiltà; ma vogliamo che tutto, anche le necessarie limitazioni di libertà, sia il risultato del libero accordo, in cui la volontà di ciascuno non è violentata dalla forza altrui, ma è temperata dall’interesse che tutti hanno ad accordarsi, nonchè dai fatti naturali indipendenti dalla volontà umana.
L’idea della libera volontà sembra spaventare i socialisti. Ma, in tutto ciò che dipende dagli uomini, non è sempre la volontà che decide? E perchè allora la volontà degli uni piuttosto che degli altri? E chi deciderebbe della volontà che ha diritto a prevalere? La forza brutale? quella che sarebbe riuscita ad assicurarsi un corpo di poliziotti abbastanza forte?
Noi crediamo che si potrà raggiungere l’accordo ed arrivare al miglior modo di convivenza sociale solo se nessuno può imporre la volontà sua colla forza, e ciascuno quindi dovrà cercare, per necessità di cose oltre che per impulso di spirito fraterno, il modo di conciliare i desideri propri con quelli degli altri. Un maestro di scuola, mi si passi l’esempio, che abbia il diritto di bastonare i discepoli e si fa ubbidire colla sferza, risparmia ogni lavoro intellettuale per comprendere l’animo dei fanciulli a lui affidati ed alleva dei selvaggi; un maestro invece che bastonare non può o non vuole cerca di farsi amare e ci riesce.
Noi siamo comunisti; ma il comunismo imposto dai birri, no. Questo comunismo non solo violerebbe la libertà che ci è cara, non solo non riuscirebbe a produrre effetti benefici perchè gli mancherebbe il cordiale concorso delle masse e dovrebbe contare solo sull’azione sterile e perniciosa dei burocrati, ma condurrebbe certamente alla ribellione, la quale, essendo per le circostanze anti-comunista, rischierebbe di finire in una restaurazione borghese.
Questa differenza di programma tra noi ed i socialisti ci farà nemici l’indomani della rivoluzione, ed indurrà gli anarchici, che probabilmente saranno in minoranza, a preparare una nuova insurrezione violenta contro i socialisti?
Non necessariamente.
L’anarchia, l’abbiamo ripetuto spesso, non si fa per forza e noi non potremmo voler imporre agli altri le nostre concezioni, senza cessare di essere anarchici, Ma noi anarchici vorremo vivere anarchicamente per quanto le circostanze esteriori e le capacità nostre ce lo permetteranno.
Se i socialisti ci lasceranno libertà di propaganda, di organizzazione, di sperimentazione; se non vorranno obbligarci colla forza ad ubbidire alle loro leggi quando noi sapessimo vivere ignorandole, allora non vi sarà nessuna ragione di conflitto violento.
Una volta conquistata la libertà ed assicuratoci il diritto di disporre dei mezzi di produzione, noi contiamo, per il trionfo dell’Anarchia, solo sulla superiorità delle nostre idee. Ed intanto potremmo concorrere tutti, ciascuno coi metodi suoi, al bene comune. Chè se invece i governanti socialisti volessero con la forza dei poliziotti, sottoporre i recalcitranti alloro dominio, allora... sarebbe la lotta.

c. La ricetta dei comunisti55

Al contrario degli anarchici vi sono molti rivoluzionari i quali non hanno fiducia nell’istinto costruttivo nelle masse, credono di avere essi la ricetta infallibile per assicurare la felicità universale, temono la possibile reazione, temono forse più la concorrenza di altri partiti ed altre scuole di riformatori sociali, e vogliono perciò impossessarsi del potere e sostituire al governo "democratico" di oggi un governo dittatoriale.
Dittatura dunque: ma chi sarebbero i dittatori? Naturalmente, pensano essi, i capi del loro partito. Dicono ancora per abitudine contratta o per desiderio cosciente di evitare le spiegazioni chiare, "dittatura del proletariato" ma questa è una burletta oramai sfatata.
Ecco come si spiega Lenin, o chi per lui (vedi "Avanti!" del 20 luglio 1920):
"La dittatura significa l’abbattimento della borghesia per opera di un’avanguardia rivoluzionaria (questa è la rivoluzione e non già la dittatura), in contrasto con la concezione che sia anzitutto necessario ottenere una maggioranza nelle elezioni. Per mezzo della dittatura si ottiene la maggioranza non già per mezzo della maggioranza la dittatura". (E sta bene; ma se è una minoranza che, impossessatasi del potere, deve poi conquistare la maggioranza è una menzogna il parlare di dittatura del proletariato. Il proletariato è evidentemente la maggioranza).
"La dittatura significa l’impiego della violenza e del terrore" (Per opera di chi e contro chi? Poichè si suppone la maggioranza ostile e non può trattarsi, nel concetto dittatoriale di folla scatenata che prende nelle sue mani la cosa pubblica, evidentemente la violenza ed il terrore dovranno essere praticati contro tutti coloro che non si piegano ai voleri dei dittatori per mezzo di sgherani al servizio di essi dittatori).
"La libertà di stampa e di riunione equivarrebbe ad autorizzare la borghesia ad avvelenare l’opinione pubblica." (Dunque dopo l’avvento della dittatura "del proletariato" che dovrebbe essere la totalità dei lavoratori, vi sarà ancora una borghesia che invece di lavorare avrà i mezzi di avvelenare "l’opinione pubblica" ed una opinione pubblica da avvelenare estranea a quei proletari che dovrebbero costituire la dittatura? Vi saranno dei censori onnipotenti che giudicheranno di quello che si può o non si può stampare e dei questori a cui bisognerà domandare il permesso per tenere un comizio. Inutile dire quale sarebbe la libertà lasciata a chi non è ligio ai dominatori del momento).
"Soltanto dopo la espropriazione degli espropriatori, dopo la vittoria, il proletariato attirerà a sè le masse della popolazione che prima seguiva la borghesia". (Ma ancora una volta che cosa è questo proletariato che non è la massa che lavora? Proletariato non significa dunque chi non ha proprietà ma chi ha certe date idee ed appartiene ad un dato partito?).
Lasciamo dunque questa falsa espressione di dittatura del proletariato atta a produrre tanti equivoci e discutiamo della dittatura quale essa è veramente, cioè il governo assoluto di uno o più individui i quali, appoggiandosi su di un partito o su di un esercito, s’impadroniscono della forza sociale ed impongono "colla violenza e col terrore" la loro volontà.
Quale sarà questa volontà dipende dalla specie di persone che all’atto pratico riusciranno ad impossessarsi del potere. Nel caso nostro si suppone che sarà la volontà dei comunisti e quindi una volontà ispirata al desiderio del bene di tutti.
È già una cosa molto dubbia, poichè generalmente gli uomini meglio dotati delle qualità necessarie per arraffare il potere non sono i più sinceri ed i più devoti alla causa pubblica; e se si predica alle masse la necessità di sottomettersi ad un nuovo governo non si fa che spianare la via agli intriganti ed agli ambiziosi.
Ma supponiamo pure che i nuovi governanti, i dittatori che dovrebbero realizzare gli scopi della rivoluzione siano dei veri comunisti, pieni di zelo, convinti che dall’opera loro, dall’energia loro dipenda la felicità del genere umano. Sarebbero degli uomini sul tipo dei Torquemada e dei Robespierre che, a fine di bene, in nome della salute privata o pubblica, soffocherebbero ogni voce discorde, distruggerebbero ogni alito di vita libera e spontanea: e poi, impotenti a risolvere i problemi pratici da loro sottratti alla competenza degli interessati, dovrebbero per amore e per forza lasciare il posto ai restauratori del passato.
La grande giustificazione della dittatura sarebbe l’incapacità delle masse e la necessità di difendere la rivoluzione dai tentativi reazionari.
Se davvero le masse fossero armento bruto incapace di vivere senza il bastone del pastore, se non vi fosse già una minoranza sufficientemente numerosa e cosciente capace di trascinare le masse colla predicazione e coll’esempio, allora comprenderemmo meglio i riformisti, i quali temono la sollevazione popolare e s’illudono di potere poco a poco, a forza di piccole riforme,che sono poi piccoli rammendi, minare lo Stato borghese e preparare le vie al socialismo; comprenderemmo meglio gli educazionisti che non valutando abbastanza l’influenza dell’ambiente sperano di poter cambiare la società cambiando prima tutti gli individui; non potremmo comprendere affatto i partigiani della dittatura, che vogliono educare ed elevare le masse "colla violenza e col terrore" e dovrebbero elevare a primi fattori di educazione i gendarmi ed i censori.
In realtà nessuno potrebbe istituire la dittatura rivoluzionaria se prima il popolo non avesse fatta la rivoluzione, mostrando così a fatti la sua capacità di farla; ed allora la dittatura non farebbe che sovrapporsi alla rivoluzione, sviarla, soffocarla ed ucciderla.
In una rivoluzione politica in cui si mira solo a buttar giù il governo lasciando in piedi tutta l’organizzazione sociale esistente, può una dittatura impossessarsi del potere, mettere i suoi uomini al posto dei funzionari scacciati ed organizzare dall’alto il nuovo regime. Ma in una rivoluzione sociale, dove sono rovesciate tutte le basi della convivenza sociale, dove la produzione indispensabile deve essere ripresa subito per conto e vantaggio dei lavoratori, dove la distribuzione deve essere immediatamente regolata secondo giustizia, la dittatura non potrebbe far nulla, O il popolo provvederebbe da sè nei diversi comuni e nelle diverse industrie, o la rivoluzione sarebbe fallita.
Forse in fondo i partigiani della dittatura (e già alcuni lo dicono apertamente) non desiderano subito che una rivoluzione politica, vale a dire che vorrebbero senz’altro impossessarsi del potere e poi gradualmente trasformare la società per mezzo di leggi e di decreti. In tal caso essi avrebbero probabilmente la sorpresa di vedere al potere ben altri che loro stessi; e in tutti i casi dovrebbero prima d’ogni altra cosa pensare a organizzare la forza armata (i poliziotti) necessaria ad imporre il rispetto delle loro leggi. Intanto la borghesia che sarebbe restata sostanzialmente la detentrice della ricchezza, superato il momento critico dell’ira popolare, preparerebbe la reazione, riempirebbe la polizia di propri agenti, sfrutterebbe il disagio e la disillusione di coloro che si aspettavano l’immediata realizzazione del paradiso terrestre... e ripiglierebbe il potere o attirando a sè i dittatori, o sostituendoli con uomini suoi.
Quella paura della reazione, addotta a giustificazione del regime dittatoriale dipende appunto dal fatto che si pretende fare la rivoluzione lasciando sussistere ancora una classe privilegiata in condizione di poter riprendere il potere.
Se invece s’incomincia con l’espropriazione completa, allora borghesi non ve ne sarà più; e tutte le forze vive del proletariato, tutte le capacità esistenti saranno impiegate nell’opera di ricostruzione sociale.
Del resto, in un paese come l’Italia (per applicare il già detto al paese in cui svolgiamo la nostra attività), in un paese come l’Italia, dove le masse sono pervase da istinti libertari e ribelli, dove gli anarchici rappresentano una forza considerevole, più che per le loro organizzazioni, per l’influenza che possono esercitare, un tentativo di dittatura non potrebbe essere fatto senza scatenare la guerra civile tra lavoratori e lavoratori e non potrebbe trionfare se non per mezzo della più feroce tirannia.
Allora, addio comunismo!
Non v’è che una via possibile di salvezza: la Libertà.

d. Bolscevismo e anarchismo56

Dopo circa due anni da quando fu scritto, il libro di Luigi Fabbri a proposito della rivoluzione russa conserva tutta la sua freschezza e resta il lavoro più completo e più organico che io conosca sull’argomento. Anzi gli avvenimenti posteriori che si sono svolti in Russia sono venuti a confermare il valore del libro dando un’ulteriore e più evidente conferma sperimentale alle deduzioni che il Fabbri cavava dai fatti allora conosciuti e dai principi generali sostenuti dagli anarchici.
Materia del libro è un caso particolare del vecchio eterno conflitto tra libertà e autorità che ha riempito di sè tutta la storia passata e travaglia più che mai il mondo contemporaneo, e dalle cui vicende dipende la sorte della rivoluzione in atto e di quelle che stanno per venire.
La rivoluzione russa si è svolta con lo stesso ritmo di tutte le rivoluzioni passate. Dopo un periodo ascendente verso una maggiore giustizia ed una maggiore libertà, che è durato fino a quando l’azione popolare attaccava ed abbatteva i poteri costituiti, è sopravvenuto, non appena un nuovo governo è riuscito a consolidarsi, il periodo della reazione, l’opera, a volte lenta e graduale, a volte rapida e violenta, del nuovo potere, intesa a distruggere quanto più è possibile delle conquiste della Rivoluzione e a stabilire un ordine che assicuri la permanenza al potere della nuova classe governante e difenda gli interessi dei nuovi privilegiati e di quelli tra i vecchi che sono riusciti a sopravvivere alla tormenta.
In Russia, grazie a circostanze eccezionali il popolo abbatté il regime zarista, costruì per libera e spontanea iniziativa i suoi sovieti (che furono comitati locali di operai e contadini, rappresentanti diretti dei lavoratori e sottoposti al controllo immediato degli interessati), espropriò gli industriali ed i grandi proprietari fondiari ed incominciò ad organizzare sulla base dell’uguaglianza e della libertà e con criteri di giustizia, sia pure relativa, la nuova vita sociale.
Così la Rivoluzione si andava sviluppando e, compiendo il più grandioso esperimento sociale che la storia ricordi si apprestava a dare al mondo l’esempio di un grande popolo che mette in opera per sforzo proprio tutte le sue facoltà, e raggiunge la sua emancipazione ed organizza la sua vita conformemente ai suoi bisogni, ai suoi istinti, alla sua volontà, senza la pressione di una forza esteriore che lo inceppi e lo costringa a servire gli interessi di una casta privilegiata.
Disgraziatamente però, tra gli uomini che maggiormente contribuirono a dare il colpo decisivo al vecchio regime, vi erano dei fanatici dottrinari, ferocemente autoritari perchè fermamente convinti di possedere "la verità" e di avere la missione di salvare il popolo il quale, secondo la loro opinione non poteva salvarsi se non per le vie indicate da loro. Costoro, profittando del prestigio che dava loro la parte presa nella rivoluzione e soprattutto della forza che veniva loro dalla propria organizzazione, riuscirono ad impossessarsi del potere, riducendo all’impotenza gli altri, ed in specie gli anarchici, che avevano contribuito alla rivoluzione quanto e più di loro, ma non potettero opporsi validamente alla loro usurpazione, perchè disgregati senza intese preventive, quasi senza alcuna organizzazione.
Da allora la rivoluzione era condannata.
Il nuovo potere, come è nella natura di tutti i governi, volle assorbire nelle sue mani tutta la vita del paese e sopprimere ogni iniziativa, ogni movimento che sorgesse dalle viscere popolari. Creò in sua difesa prima un corpo di pretoriani, poi un esercito regolare ed una potente polizia che uguagliò e superò in ferocia e mania liberticida quella stessa del regime zarista. Costituì un’innumere burocrazia; ridusse i sovieti a puri strumenti del potere centrale o li sciolse colla forza delle baionette; soppresse con la violenza, spesso sanguinaria ogni opposizione; volle imporre il programma sociale agli operai e ai contadini riluttanti, e così scoraggiò e paralizzò la produzione. Difese bensì con successo il territorio russo dagli attacchi della reazione europea, ma non riuscì con questo a salvare la rivoluzione poichè l’aveva strozzata esso stesso, pur cercando di difendere le apparenze formali. Ed ora si sforza di farsi riconoscere dai governi borghesi, di entrare con loro in rapporti cordiali, di ristabilire il sistema capitalistico... insomma di seppellire definitivamente la rivoluzione. Così tutte le speranze che la rivoluzione russa aveva suscitate nel proletariato mondiale saranno state tradite. La Russia non tornerà certo allo stato di prima, Poichè una grande rivoluzione non passa mai senza lasciar tracce profonde, senza scuotere ed innalzare l’animo popolare e senza creare delle nuove possibilità per l’avvenire. Ma i risultati ottenuti resteranno ben inferiori a quello che avrebbero potuto essere e si sperava che fossero, ed enormemente sproporzionati alle sofferenze patite ed al sangue versato.
Noi non vogliamo troppo approfondire la ricerca delle responsabilità. Certo molta colpa del disastro spetta alle direttive autoritarie che si dettero alla rivoluzione; molta colpa spetta anche alla singolare psicologia dei governanti bolscevichi, che pur sbagliando e riconoscendo e confessando i loro errori, restano sempre convinti lo stesso d’essere infallibili e vogliono sempre imporre con la forza le loro mutevoli e contraddittorie volontà. Ma è altrettanto, o più vero ancora, che quegli uomini si sono trovati alle prese con difficoltà inaudite e che forse molto di quello che a noi sembra errore e malvagità, fu l’effetto ineluttabile della necessità.
E perciò noi volentieri ci asterremmo dal dare un giudizio, lasciando che giudichi più tardi la storia serena ed imparziale, se è vero che una storia serena ed imparziale sia mai possibile. Ma v’è in Europa tutto un partito che è abbacinato dal mito russo e vorrebbe imporre alle prossime rivoluzioni gli stessi metodi bolscevichi che hanno uccisa la rivoluzione russa; ed è urgente quindi mettere in guardia le masse in generale, ed i rivoluzionari in specie, contro il pericolo dei tentativi dittatoriali dei partiti bolscevizzanti. E il Fabbri ha reso un segnalato servizio alla causa mostrando all’evidenza la contraddizione che v’è tra dittatura e rivoluzione.
L’argomento principe di cui si servono i difensori della dittatura che si continua a chiamare dittatura del proletariato, ma è poi in realtà - ormai tutti ne convengono - dittatura dei capi di un partito sopra tutta quanta la popolazione, l’argomento principe, dico, è la necessità di difendere la rivoluzione contro i tentativi interni di restaurazione borghese e contro gli attacchi che verrebbero dai governi esteri, se il proletariato dei loro paesi non sapesse tenerli in rispetto facendo, o almeno minacciando di fare, esso stesso la rivoluzione appena l’esercito fosse impegnato in una guerra.
Non v’è dubbio che bisogna difendersi; ma dal sistema che si adopera nella difesa dipende in gran parte la sorte della rivoluzione. Che se per vivere si dovesse rinunziare alle ragioni ed agli scopi della vita, se per difendere la rivoluzione si dovesse rinunziare alle conquiste che sono lo scopo primo della rivoluzione, allora varrebbe meglio essere vinti onoratamente e salvare le ragioni dell’avvenire, anzichè vincere tradendo la propria causa.
La difesa interna bisogna assicurarla distruggendo radicalmente tutte le istituzioni borghesi e rendendo impossibile ogni ritorno al passato.
È vano il volere difendere il proletariato contro i borghesi mettendo questi in condizioni d’inferiorità politica. Fino a che vi sarà gente che ha e gente che non ha, quelli che hanno finiranno sempre col burlarsi delle leggi; anzi, appena svaniti i primi bollori popolari, sono essi che andranno al potere e faranno le leggi.
Vane le misure di polizia, che possono ben servire ad opprimere, ma non serviranno mai per liberare.
Vano, e peggio che vano micidiale, il cosiddetto terrore rivoluzionario. Certo è tanto grande l’odio, il giusto odio, che gli oppressi covano nell’animo loro, sono tante le infamie commesse dai governi e dai signori, sono tanti gli esempi, di ferocia che vengono dall’alto, tanto il disprezzo della vita e delle sofferenze umane che ostentano le classi dominanti, che non c’è da meravigliarsi se in un giorno di rivoluzione la vendetta popolare scoppia tremenda ed inesorabile. Noi non ce ne scandalizzeremmo e non cercheremmo di frenarla se non con la propaganda, poichè il volerla frenare altrimenti porterebbe alla reazione. Ma è certo, secondo noi, che il terrore è un pericolo e non già una garanzia di successo per la rivoluzione. Il terrore in generale colpisce i meno responsabili; mette in valore i peggior elementi, quelli stessi che avrebbero fatto i birri e i carnefici sotto il vecchio regime e sono felici di sfogare, in nome della rivoluzione, i loro cattivi istinti e soddisfare sordidi interessi.
E questo se si tratta del terrore popolare esercitato direttamente dalle masse contro i loro oppressori diretti. Chè se poi il terrore dovesse essere organizzato da un centro, fatto per ordine di governo per mezzo della polizia e dei tribunali cosiddetti rivoluzionari, allora esso sarebbe il mezzo più sicuro per uccidere la rivoluzione e sarebbe esercitato, più che a danno dei reazionari, contro gli amanti di libertà che resistessero agli ordini del nuovo governo ed offendessero gli interessi dei nuovi privilegiati.
Alla difesa, al trionfo della rivoluzione si provvede interessando tutti alla sua riuscita, rispettando la libertà di tutti e levando a chiunque non solo il diritto, ma la possibilità di sfruttare il lavoro altrui.
Non bisogna sottomettere i borghesi ai proletari, ma abolire borghesia e proletariato assicurando a ciascuno la possibilità di lavorare nel modo che vuole e mettendo tutti gli uomini validi nell’impossibilità di vivere senza lavorare.
Una rivoluzione sociale, che dopo aver vinto sta ancora in pericolo di essere sopraffatta dalla classe spossessata è una rivoluzione che si è arrestata a mezzo cammino; e per assicurarsi la vittoria non ha che da andare sempre più avanti sempre più in fondo.
Resta la questione della difesa contro il nemico di fuori.
Una rivoluzione che non vuol finire sotto i talloni di un soldato fortunato non può difendersi che per mezzo di milizie volontarie, facendo in modo che ogni passo fatto dagli stranieri sul territorio insorto li faccia cadere in un tranello, cercando di offrire tutti i vantaggi possibili ai soldati mandati per forza e trattando senza pietà gli ufficiali nemici che vengono volontariamente. Si deve organizzare il meglio possibile l’azione guerresca; ma è essenziale evitare che coloro i quali si specializzano nella lotta militare esercitino, in quanto militari, una qualsiasi azione sulla vita civile della popolazione.
Noi non neghiamo che dal punto di vista tecnico più un esercito è retto autoritariamente e più ha probabilità di vittoria, e che il concentramento di tutti i poteri nelle mani di uno solo - se capita che quest’uno sia un genio militare - costituirebbe un grande elemento di successo. Ma la questione tecnica non ha che una importanza secondaria - e se per rischiare una sconfitta da parte dello straniero si dovesse rischiare di uccidere noi stessi la rivoluzione, si servirebbe molto male la causa.
L’esempio della Russia serva a tutti.
Il farsi mettere il freno nella speranza di essere meglio guidati non può condurre che alla schiavitù. Tutti i rivoluzionari studino il libro di Fabbri. È necessario per esser bene preparati ad evitare gli errori in cui sono caduti i Russi.

6. L’ALLUVIONE FASCISTA

a. Analisi di un errore57

Dico la mia opinione sui bisogni del nostro movimento nell’ora attuale. I compagni giudicheranno ed agiranno con quella disciplina anarchica che non è l’ubbidienza ai voleri di altri, ma spontanea coerenza con le proprie convinzioni.
Quando tornai in Italia, nelle circostanze che tutti conoscono, la rivoluzione era all’ordine del giorno. Proletariato, borghesia, governo, partiti, tutti vivevano nella speranza o nel timore di una prossima, imminente sollevazione popolare, dalla quale poteva risultare un radicale cambiamento negli ordini politici ed economici. Ma, come sempre, occorreva la spinta iniziale per determinare il movimento ed occorreva l’intesa di nuclei coscienti e fattivi per indirizzare detto movimento a scopi determinanti ed impedire che esso si esaurisse in disordini inutili e sanguinosi, senza risultati tangibili e duraturi.
La situazione era urgente. Lo stato di tensione spirituale in cui si trovavano le masse non poteva durare a lungo; il governo o la borghesia sarebbero usciti dallo stato di depressione morale e d’impotenza materiale in cui erano caduti, e difatti già incominciavano ad apprestare i mezzi di repressione; nè le condizioni economiche, colle crescenti esigenze dei lavoratori e la progressiva diminuzione della produzione, potevano ammettere il prolungarsi di una condizione di ansia e di incertezza che impediva al capitalismo di funzionare mentre non permetteva il lavoro libero, associato, senza sfruttamento padronale, che avrebbe dovuto risolvere il problema.
Il partito socialista che comprendeva allora anche coloro che poi si sono costituiti in partito comunista, e che era di gran lunga il più forte tra i partiti anticostituzionali, cercava di procrastinare nella convinzione, o col pretesto, che il tempo lavorava per noi, che ogni giorno passato aumentava la probabilità di vittoria.
A me sembrava il contrario, e perciò desideravo che quel che si poteva fare si facesse subito.
La storia passata non m’ispirava soverchia fiducia nella capacità e soprattutto nella volontà rivoluzionaria dei dirigenti socialisti, e d’altra parte come anarchico non potevo non avere le peggiori prevenzioni contro il regime burocratico e dittatoriale che, in caso dì vittoria, i socialisti avrebbero tentato d’imporci.
Ma come fare? Noi eravamo troppo poco numerosi per potere, con qualche probabilità di successo, prendere da soli l’iniziativa dell’azione; e pure bisognava fare il possibile perchè la situazione tanto eccezionalmente favorevole alla rivoluzione non andasse miseramente sciupata! Perciò io fui tra i più caldi fautori del "fronte unico" che fu uno sforzo per trascinare all’azione coloro che, avendo promesso la rivoluzione, gli uni per scopi sporcamente elettorali, gli altri per un transitorio entusiasmo provocato dai fatti di Russia, non potevano decentemente confessare che essi la rivoluzione non la volevano, perchè, a non parlare che delle ragioni oneste, non la credevano possibile.
I fatti mi hanno dato torto. Il "fronte unico" non era stato voluto realmente che dagli anarchici e quando venne il momento di agire si sfasciò miseramente.
Il modo come si strozzò il magnifico movimento, che poteva ben essere risolutivo dell’occupazione delle fabbriche, la fine vergognosa dell’agitazione pro vittime politiche cessata non appena furono arrestati i membri anarchici del comitato mostrarono quanto torto avevamo avuto fidando nel concorso degli "affini".
Noi dicemmo parole dure, gridammo al tradimento; ed avevamo ragione se consideriamo le promesse che i socialisti avevano fatto alle masse, se ci ricordiamo il modo come essi soffocavano ogni agitazione promettendo la rivoluzione sicura a breve scadenza. L’Avanti!, per esempio, per indurre gli operai a lasciare tranquillamente le fabbriche assicurava che la rivoluzione si sarebbe fatta "tra poche settimane"!
Ma se trascuriamo i modi poco leali e guardiamo il fondo delle cose, se consideriamo il tipo di organizzazione adottato dai socialisti ed il personale che costituisce la loro classe dirigente, e principalmente la maniera come essi concepiscono il divenire rivoluzionario, allora dovremo convenire che non furono essi i traditori, ma noi gl’ingenui.

b. Che fare?58

"Che fare?" è la domanda che con più o meno forza tormenta sempre l’animo di tutti gli uomini lottanti per un ideale e che risorge imperiosa nei momenti di crisi, quando un insuccesso, una disillusione spinge al riesame della tattica seguita, alla critica degli errori eventuali, ed alla ricerca di mezzi più efficaci. E ben fa il compagno Outcast a rimettere la questione sul tappeto ed invitare i compagni a riflettere ed a decidere sul da farsi.
La situazione oggi è per noi difficile ed in certe regioni addirittura disastrosa. Ma insomma chi era anarchico resta anarchico, e, se da una parte siamo indeboliti dalle molteplici sconfitte, abbiamo guadagnato dall’altra una preziosa esperienza, che aumenterà in seguito la nostra efficienza, se poco poco sappiamo farne tesoro. Le defezioni, del resto rare, che si sono prodotte nel campo nostro in fondo ci giovano perchè ci hanno sbarazzato di elementi deboli ed infidi.
Che fare dunque?
Non m’intratterrò dell’agitazione fatta all’estero contro la reazione italiana. Certamente tutto ciò che serve a far conoscere al proletariato mondiale le vere condizioni d’Italia e le infamie inaudite che sono state commesse e continuano a commettersi dagli scherani della borghesia per soffocare e distruggere ogni movimento emancipatore, non può che giovare. Già leggiamo di un comizio internazionale di protesta contro il fascismo che ha avuto luogo a New York il 18 corrente - siam sicuri che i nostri amici e quanti han senso di libertà e di giustizia faranno tutto quello che possono in America, Inghilterra, Francia, Spagna, ecc.
Ma a noi interessa soprattutto quello che si deve fare qui in Italia, perchè siamo noi che dobbiamo farlo, e perchè, se è bene tener conto di tutte le forze ausiliarie, è essenziale però non contare troppo sugli altri e cercare la salute in noi stessi, nell’opera nostra.
Noi in questi ultimi anni ci siamo accostati per un’azione pratica ai diversi partiti d’avanguardia e ne siamo usciti sempre male. Dobbiamo per questo isolarci, rifuggire dai contatti impuri, e non muoverci o tentare di muoverci se non quando potremo farlo con le sole nostre forze ed in nome del nostro programma integrale?
Io non lo credo.
Poichè la rivoluzione non possiamo farla da soli, cioè poichè non possiamo colle nostre sole forze attirare e spingere all’azione le grandi masse necessarie alla vittoria, e poichè anche aspettando un tempo illimitato le masse non potranno diventare anarchiche prima che la rivoluzione sia incominciata, e noi resteremo necessariamente una minoranza relativamente piccola fino al giorno in cui potremo cimentare le nostre idee nella pratica rivoluzionaria, negare il nostro concorso agli altri ed aspettare per agire di essere in grado di farlo da soli, sarebbe in pratica, e malgrado le parole grosse ed i propositi radicali, un fare opera addormentatrice ed impedire che s’incominci colla scusa di volere con un salto arrivare di botto alla fine.
So bene - se non lo sapessi da lungo tempo lo avrei appreso recentemente - che salvo individui e gruppi che mordono il freno della disciplina dei partiti autoritari e vi restano colla speranza che i loro capi un qualche giorno si decideranno ad ordinare l’azione generale noi, gli anarchici, siamo i soli a volere la rivoluzione davvero, ed a volerla il più presto possibile Ma so anche che le circostanze sono spesso più forti della volontà degli individui e che una volta o l’altra, se i nostri cugini dei vari lati non vorranno morire ignominiosamente come partiti e fare omaggio alla monarchia di tutte le loro idee e di tutte le loro tradizioni, di tutti i loro sentimenti migliori, dovranno decidersi a rischiare la lotta finale. Oggi potrebbero anche esservi spinti dalla necessità di difendere la loro libertà, i loro beni, la loro vita.
Noi dovremmo quindi essere sempre disposti a secondare chi vuole agire, anche se questo implica il rischio di essere poi lasciati soli e traditi.
Ma nel dare agli altri il nostro concorso, o meglio nel cercare sempre di utilizzare le forze degli altri e profittare di tutte le possibilità di azione, noi dobbiamo restare sempre noi stessi, e metterci in grado di far sentire la nostra influenza e contare almeno in proporzione delle nostre forze reali.
E per questo importa intendersi, collegarsi, organizzarsi nel modo più efficace possibile.
Altri, per fini che non vogliamo qualificare continui pure a svisare e calunniare i nostri scopi. Tutti i compagni che vogliono fare davvero, giudicheranno che cosa convenga loro di fare.
In questo momento, come in tutti i periodi di depressione e di stasi, siamo afflitti da una recrudescenza di bizantinismo; e v’è chi si diverte a discutere se siamo un partito o un movimento, se bisogna unirsi in unioni o federazioni e mille altre simili sciocchezze; forse sentiremo dire un’altra volta che "i gruppi non debbono avere nè segretario nè cassiere, ma debbono incaricare un compagno di custodire il denaro". I bizantini son capaci di tutto; ma gli uomini fattivi lascino cuocere nel loro brodo quelli in buona fede e soprattutto quelli in cattiva fede, e pensino a fare.
Ciascuno faccia quello che gli pare, con chi gli pare, ma faccia.
Nessun uomo di buona fede e di buon senso negherà che per agire con efficacia bisogna intendersi, unirsi, organizzarsi.
Oggi la reazione tende a soffocare ogni movimento pubblico, e naturalmente il movimento tende a "nascondersi sotto terra", come dicevano i russi.
Ritorniamo alla necessità dell’organizzazione segreta, e sia.
Ma l’organizzazione segreta non può esser tutto e non può comprendere tutti.
Noi abbiamo bisogno di mantenere e di accrescere il nostro contatto colle masse, abbiamo bisogno di cercare nuovi proseliti facendo la più ampia propaganda possibile, abbiamo bisogno di serbare nel movimento tutti quegli elementi che non sono adatti per un’organizzazione segreta e quelli che per essere troppo conosciuti rischierebbero di comprometterla. Non bisogna dimenticare che i membri più utili per un’organizzazione segreta sono quelli di cui gli avversari non sanno le idee, e che possono lavorare senza essere sospettati.
Non bisogna dunque, secondo me, disfare nulla di quello che esiste. Bisogna aggiungervi dell’altro: e quest’altro sia fatto in modo che risponda ai bisogni del momento. Non si aspetti l’iniziativa degli altri: che ciascuno prenda le iniziative che crede nella sua località, nel suo ambiente, e cerchi poi, colle dovute precauzioni, di collegare la propria alle altrui iniziative per arrivare a quell’intesa generale che è necessaria per un’azione che valga. Siamo, è vero, in un momento di depressione. Ma oggi la storia cammina veloce: apprestiamoci per i prossimi avvenimenti.

c. La fallita ricerca di alleanze59

...Noi abbiamo sempre ricercata l’alleanza di tutti quelli che vogliono fare la rivoluzione per potere abbattere la forza materiale del comune nemico, ma abbiamo sempre altamente proclamato che questa alleanza doveva durare solo il tempo dell’atto insurrezionale, e che subito dopo o magari, se possibile e necessario, durante la stessa insurrezione cercheremmo di attuare le idee nostre opponendoci alla costituzione di qualsiasi governo, di qualsiasi centro autoritario, e trascinando le masse alla presa di possesso immediata di tutti i mezzi di produzione e di tutta la ricchezza sociale ed all’organizzazione diretta della nuova vita sociale conformemente al grado di sviluppo ed alla volontà delle stesse masse nelle varie località.
Purtroppo i partiti sovversivi autoritari italiani han mostrato di non avere capacità e voglia di fare la rivoluzione e dureranno a non potere e non volere farla sino a quando saranno affetti dalla lue parlamentaristica. Ma ciò non impedisce che noi, non potendo fare la rivoluzione da soli, dobbiamo spiare tutte le occasioni che potrebbero, magari contro la volontà dei capi, determinare un movimento insurrezionale.
E d’altra parte, se anche vedessimo la possibilità di fare da soli una insurrezione vittoriosa, non dovremmo noi - poichè il nostro scopo non è fare un colpo di mano per impossessarci del potere, ma è quello di suscitare tutte le energie popolari ad iniziare l’era della libera evoluzione - non dovremmo noi far appello a tutti i partiti sovversivi, a tutte le organizzazioni proletarie per cercare di trascinare nel movimento tutta la massa che sta divisa tra i vari partiti e le varie organizzazioni?
Noi non vogliamo "aspettare che le masse diventino anarchiche per fare la rivoluzione", tanto più che siamo convinti che esse non lo diventeranno mai se prima non si abbattino violentemente le istituzioni che le tengono in schiavitù. E siccome noi abbiamo bisogno del concorso delle masse, sia per costituire una forza materiale sufficiente, sia per raggiungere il nostro scopo specifico di combattimento radicale dell’organismo sociale per opera diretta delle masse, noi dobbiamo accostarci ad esse, prenderle come sono, e come parti di esse spingerle il più avanti che sia possibile. Questo, s’intende, se vogliamo davvero lavorare per l’attuazione pratica dei nostri ideali e non già contentarci di predicare al deserto per la semplice soddisfazione del nostro orgoglio intellettuale.

d. Mussolini al potere60

I lavoratori non seppero opporre la violenza alla violenza perchè erano stati educati a credere nella legalità, e perchè, anche quando ogni illusione era diventata impossibile e gl’incendi e gli assassini si moltiplicavano sotto lo sguardo benevolo delle autorità, gli uomini in cui avevano fiducia predicarono loro la pazienza, la calma, la bellezza e la saggezza di farsi battere "eroicamente" senza resistere - e perciò furono vinti ed offesi negli averi, nelle persone, nella dignità, negli affetti più sacri.
Forse, quando tutte le istituzioni operaie erano state distrutte, le organizzazioni sbandate, gli uomini più invisi e considerati più pericolosi, uccisi o imprigionati o comunque ridotti all’impotenza, la borghesia ed il governo avrebbero voluto mettere un freno ai nuovi pretoriani che oramai aspiravano a diventare i padroni di quelli che avevano serviti. Ma era troppo tardi. I fascisti oramai sono i più forti ed intendono farsi pagare ad usura i servizi resi. E la borghesia pagherà, cercando naturalmente di ripagarsi sulle spalle del proletariato.
In conclusione, aumentata miseria, aumentata oppressione.
In quanto a noi, non abbiamo che da continuare la nostra battaglia, sempre pieni di fede, pieni di entusiasmo.
Noi sappiamo che la nostra via è seminata di triboli, ma la scegliemmo coscientemente e volontariamente, e non abbiamo ragione per abbandonarla. Così sappiano tutti coloro i quali han senso di dignità e pietà umana e vogliono consacrarsi alla lotta per il bene di tutti, che essi debbono essere preparati a tutti i disinganni, a tutti i dolori, a tutti i sacrifici.
Poichè non mancano mai di quelli che si lasciano abbagliare dalle apparenze della forza ed hanno sempre una specie di ammirazione segreta per chi vince, vi sono anche dei sovversivi i quali dicono che "i fascisti ci hanno insegnato come si fa la rivoluzione".
No, i fascisti non ci hanno insegnato proprio nulla.
Essi hanno fatto la rivoluzione, se rivoluzione si vuol chiamare, col permesso dei superiori ed in servizio dei superiori.
Tradire i propri amici, rinnegare ogni giorno le idee professate ieri, se così conviene al proprio vantaggio, mettersi al servizio dei padroni, assicurarsi l’acquiescenza delle autorità politiche e giudiziarie, far disarmare dai carabinieri i propri avversari per poi attaccarli in dieci contro uno, prepararsi militarmente senza bisogno di nascondersi, anzi ricevendo dal governo armi, mezzi di trasporto ed oggetti di casermaggio, e poi esser chiamato dal re e mettersi sotto la protezione di dio... è tutta roba che noi non potremmo e non vorremmo fare. Ed è tutta roba che noi avevamo preveduto che avverrebbe il giorno in cui la borghesia si sentisse seriamente minacciata.
Piuttosto l’avvento del fascismo deve servire di lezione ai socialisti legalitari, i quali credevano, e ahimè! credono ancora, che si possa abbattere la borghesia mediante i voti della metà più uno degli elettori, e non vollero crederci quando dicemmo loro che se mai raggiungessero la maggioranza in parlamento e volessero - tanto per fare delle ipotesi assurde - attuare il socialismo dal parlamento, ne sarebbero cacciati a calci nel sedere.


e. I nostri propositi61

Anarchici, noi restiamo anarchici malgrado tutto e malgrado tutti.
Noi siamo stati vinti in quel periodo di lotta che si è chiuso colla "presa di Roma" dell’ottobre 1922. Ma non sarà una sconfitta, del resto prevedibile, che ci farà rinunziare alla lotta, nè alla speranza e certezza di vincere. Non vi rinunzieremo nemmeno per cento, mille sconfitte, poichè sappiamo che nei progressi umani è stato sempre a forza di perdere che s’è finito col vincere.
Invece, noi studieremo le ragioni che furono causa del nostro insuccesso per trovarci meglio preparati ad agire con risultati migliori quando circostanze nuove ci richiameranno all’azione pratica.
Quali furono i nostri errori? Quali le nostre deficienze? Quale la nostra parte di responsabilità nella sconfitta?
A parte le questioni tecniche di organizzazione e di preparazione, che non vanno trattate in questo luogo, gli anarchici, o almeno il più degli anarchici, han creduto le cose molto più facili di quello che realmente sono, e si sono beatamente cullati in una specie di provvidenzialismo, che ha fatto creder loro che bastano un ideale luminoso ed uno spirito eroico perchè poi tutto si accomodasse da sè. Han creduto nella "spontaneità delle masse", nell’"ordine naturale" ed in altri miti creati dal desiderio ed anche da pigrizia intellettuale... e la "natura" è restata sorda e cieca come sempre, e le masse hanno ondeggiato da un polo all’altro secondo che le spingeva ora l’illusione di un facile paradiso, ora la speranza dì qualche meschino vantaggio materiale, ora lo scoraggiamento e la livida paura.
No! le cose non si accomodano da sè, e le masse, fino a che non saranno illuminate, sono materia bruta, buona, secondo che i coscienti ed i volenti le guidano, per ogni opera bella come per ogni mostruosità.
In fondo, resta sempre vero il proverbio che "il mondo è di chi se lo piglia", cioè favorisce gli uni o gli altri, cammina avanti o indietro secondo gl’impulsi che riceve. Ma a volerselo pigliare si è in molti e per scopi vani e contrastanti. Bisogna quindi che si tenga conto di tutte le forze operanti per dirigerne la risultante il più possibile verso la propria meta.
Sapere quello che si vuole, misurare quello che si può, ed invece di perdersi nei sogni, preparare un programma pratico applicabile mano mano alle questioni che giornalmente si presentano e non già buono solo per quando l’anarchia sarà fatta. Ecco quello che occorre.
Santo è l’ideale; ma esso non si realizza da sè per "leggi storiche" o per interventi provvidenziali. C’è una via, o piuttosto ci sono delle vie per giungere all’ideale, e queste vie noi ci proponiamo specialmente di studiare.
In alto i cuori.
I tempi sono tristi, e dalle parole che dicono alcuni nostri collaboratori in questo primo numero spira una certa aria di pessimismo. Ma non importa. Il pessimismo, quando non è vile adattamento, quando è coscienza delle difficoltà, serve a meglio temprare gli animi alla lotta.
La grandezza degli ostacoli sia la misura dello sforzo che tutti dobbiamo fare.

f. Dopo un’eventuale trionfo insurrezionale62

Io non parlerò del modo come può essere combattuta ed abbattuta la tirannia che oggi opprime il popolo italiano. Qui noi ci proponiamo di fare semplicemente opera di chiarificazione delle idee e di preparazione morale in vista di un avvenire, prossimo o lontano, perchè non ci è possibile far altro. E del resto, quando credessimo giunto il momento di una più fattiva azione... ne parleremmo anche meno.
Mi occuperò dunque solo, e ipoteticamente, dell’indomani di una insurrezione trionfante e dei metodi di violenza che alcuni vorrebbero adoperare per "fare giustizia" ed altri credono necessari per difendere la Rivoluzione contro le insidie dei nemici.
Mettiamo da parte "la giustizia", concetto che è servito sempre di pretesto a tutte le oppressioni, a tutte le ingiustizie e che spesso non significa altro che vendetta. L’odio ed il desiderio di vendetta sono sentimenti irrefrenabili che l’oppressione naturalmente risveglia ed alimenta; ma se essi possono rappresentare una forza utile a scuotere il giogo, sono poi una forza negativa quando si tratta di sostituire all’oppressione non un’oppressione novella, ma la libertà e la fratellanza fra gli uomini. E perciò noi dobbiamo sforzarci di suscitare quei sentimenti superiori che attingono l’energia nel fervido amore del bene, pur guardandoci dallo spezzare l’impeto, fatto di fattori buoni e cattivi, necessario a vincere. Lasciamo che la massa agisca come la passione la spinge, se per meglio indirizzarla occorresse metterle un freno che si tradurrebbe in una nuova tirannia - ma ricordiamoci sempre che noi anarchici non possiamo essere nè dei vendicatori, nè dei "giustizieri". Noi vogliamo essere dei liberatori e dobbiamo agire come tali per mezzo della predicazione e dell’esempio.
Occupiamoci della questione più importante, che è poi la sola cosa seria messa innanzi, in quest’argomento, dai miei critici: la difesa della rivoluzione.
Vi sono ancora molti che sono affascinati dall’idea del "terrore". Ad essi sembra che ghigliottina, fucilazioni, massacri, deportazioni, galera ("forca e galera" mi diceva recentemente un comunista dei più noti) siano armi potenti ed indispensabili della rivoluzione, e trovano che se tante rivoluzioni sono state sconfitte e non han dato il risultato che se ne aspettava è stato a causa della bontà, della "debolezza" dei rivoluzionari, che non hanno perseguitato, represso, ammazzato abbastanza.
È un pregiudizio corrente in certi ambienti rivoluzionari, che ha origine dalla rettorica e dalle falsificazioni storiche degli apologisti della Grande Rivoluzione francese e che è stato rinvigorito in questi ultimi anni dalla propaganda dei bolscevichi. Ma la verità è proprio l’opposto; il terrore è sempre stato strumento di tirannia. In Francia servì alla bieca tirannia di Robespierre e spianò la via a Napoleone ed alla susseguente reazione. In Russia han perseguitato ed ucciso anarchici e socialisti, han massacrato operai e contadini ribelli, ed han stroncato insomma lo slancio di una rivoluzione che poteva davvero aprire alla civiltà un’era novella.
Coloro che credono nella efficacia rivoluzionaria, liberatrice della repressione e della ferocia hanno la stessa mentalità arretrata dei giuristi i quali credono che si possa evitare il delitto e moralizzare il mondo per mezzo di pene severe.
Il terrore, come la guerra, risveglia i sentimenti atavici belluini ancora mai coperti da una vernice di civiltà, e porta ai primi posti gli elementi peggiori che sono nella popolazione. E piuttosto che servire a difendere la rivoluzione serve a discreditarla, a renderla odiosa alle masse e, dopo un periodo di lotte feroci, mette capo necessariamente a quello che oggi chiamerebbero "normalizzazione", cioè alla legalizzazione e perpetuazione della tirannia. Vinca una parte o l’altra, si arriva sempre alla costituzione di un governo forte, il quale assicura agli uni la pace a spese della libertà ed agli altri il dominio senza troppi pericoli.
So bene che gli anarchici terroristi (quei pochi che vi sono) respingono ogni terrore organizzato, fatto per ordine di un governo da agenti prezzolatì, e vorrebbero che fosse la massa che direttamente mettesse a morte i suoi nemici. Ma questo non farebbe che peggiorare la situazione. Il terrore può piacere ai fanatici, ma conviene soprattutto ai veri malvagi avidi di denaro e di sangue. E non bisogna idealizzare la massa e figurarsela tutta composta di uomini semplici, che possono bensì commettere degli eccessi, ma sono sempre animati da buone intenzioni. I birri ed i fascisti servono i borghesi, ma escono dal seno della massa!
Il fascismo ha accolto molti delinquenti e così ha, fino ad un certo punto, purificato preventivamente l’ambiente in cui si svolgerà la rivoluzione; ma non bisogna credere che tutti i Dumini e tutti i Cesarino Rossi siano fascisti. Vi sono di quelli che per una ragione qualsiasi non hanno voluto o non han potuto diventare fascisti; ma sono disposti a fare in nome della "rivoluzione" quello che i fascisti fanno in nome della "patria". E d’altronde, come gli scherani di tutti i regimi sono stati sempre pronti a mettersi al servizio dei nuovi regimi e diventarne i più zelanti strumenti, così i fascisti di oggi si affretteranno domani a dichiararsi anarchici, o comunisti o quel che si voglia, pur di continuare a fare i prepotenti e sfogare i loro istinti malvagi E se non potranno nei loro paesi perchè conosciuti e compromessi, andranno a fare i rivoluzionari altrove e cercheranno di emergere mostrandosi più violenti, più "energici" degli altri e trattando da moderati, da codini, da "pompieri" da contro-rivoluzionari quelli che la rivoluzione concepiscono come una grande opera di bontà e di amore.
Certamente la rivoluzione va difesa e sviluppata con logica inesorabile; ma non si deve e non si può difenderla con mezzi che contraddicono ai suoi fini.
Il grande mezzo di difesa della rivoluzione resta sempre quello di togliere ai borghesi i mezzi economici del dominio, di armare tutti (fino a quando non si possa indurre tutti a gettare le armi come giocattoli inutili e pericolosi) e di interessare alla vittoria tutta la grande massa della popolazione.
Se per vincere si dovesse elevare la forca nelle piazze, io preferirei perdere.

g. Repubblica "democratica"?63

Si afferma che, mutata la situazione attuale, si farà la repubblica. E sia! Conveniamo anche noi che, non potendo noi per mancanza di consensi e di forze sufficienti, instaurare oggi la libera federazione delle comunità anarchiche, la sola soluzione pratica immediata del problema politico è la repubblica.
Ma che specie di repubblica sarà quella che dovrà governarci e, naturalmente, opprimerci e sfruttarci?
Giuseppe Mazzini diceva, ed i repubblicani ripetono approvando: "L’argomento continuamente ripetuto che per fondare la repubblica si richiedono anzi tutto repubblicani e virtù repubblicane, somma a dire che l’educazione repubblicana deve darsi dalle monarchie e, in altri termini, che la fede in un principio deve insegnarsi dal principio contrario. Le repubbliche si formano appunto per creare, con l’educazione repubblicana, i repubblicani".
Ma allora chi farà questa repubblica che dovrà creare i repubblicani?
Il popolo per mezzo del suffragio universale?
Il popolo, nella sua stragrande maggioranza non è repubblicano, e non può esserlo perchè, secondo lo stesso Mazzini, è stato educato dalla monarchia ad un principio contrario. Perciò si potrà ben fare una repubblica come se ne son fatte tante in America ed in Europa per la mancanza di pretendenti monarchici abbastanza forti e prestigiosi e per altre circostanze politiche; ma sarà, al pari di tutte le altre esistenti, una repubblica fondata, come le monarchie, sui privilegi di pochi e sulla miseria e l’ignoranza dei molti, non già quella repubblica vagheggiata dal Mazzini, che dovrebbe creare repubblicani e virtù repubblicane.
Infatti la repubblica esiste da secoli in Svizzera, esiste da oltre un secolo nelle Americhe, da cinquantacinque anni in Francia, e in nessun luogo vediamo un popolo repubblicano nel senso elevato che Mazzini dava alla parola. Dappertutto domina il capitalismo, dappertutto durano gli stessi mali che si lamentano nelle monarchie, dappertutto urge sempre il pericolo della reazione e la minaccia di un fascismo nazionale.
L’esperienza storica degli ultimi centocinquanta anni smentisce tutte le speranze poste nel suffragio universale e nel governo popolare. La democrazia, intesa come strumento di liberazione e di giustizia, ha fatto fallimento dovunque e sempre; essa non ha fatto che illudere il popolo con la parvenza di una bugiarda sovranità, ha tradito la volontà della stessa maggioranza ed ha sostituito l’onnipotenza di una piccola oligarchia di capitalisti e di politicanti a quella dei re e degli imperatori.
Per emanciparsi bisogna essere capaci e degni di emancipazione, e per arrivare a quella capacità ed a quella dignità bisogna prima essere emancipati. Come si esce da questo circolo vizioso?
Esclusa la monarchia, più o meno costituzionale, escluso il cosiddetto governo della maggioranza (democrazia), non restano altri modi di reggimento politico che la dittatura e l’anarchia.
Forse nel pensiero intimo di Mazzini era la dittatura ("la dittatura dei migliori"), che avrebbe dovuto educare il popolo alle virtù repubblicane e fondare la vera repubblica. Ma nè Mazzini, nè quelli che egli avrebbe giudicati migliori, avevano le qualità che occorrono per conquistare ed esercitare la dittatura. Uomini di fede e d’alta moralità, sacerdoti di un’idea, inceppati dai più nobili scrupoli, essi avrebbero potuto, se i tempi fossero stati propizi, fondare forse una religione ed una chiesa, ma certamente non avrebbero potuto dominare uno Stato e resistere all’assalto degl’interessi contrari. Di ben altra stoffa e ben meno pura, sono fatti i dittatori!
Esempi contemporanei ci dispensano dal fare una critica estesa del sistema dittatoriale. Esso, senza parlare delle difficoltà pratiche che lo rendono impotente a risolvere i problemi sociali, è la negazione della libertà e dell’iniziativa, e quindi non può dare quell’educazione che si acquista solo coll’esercizio della libertà. Perciò noi siamo decisamente avversi - ed in questo crediamo avere consenzienti i repubblicani - ad ogni dittatura, sia che si presenti apertamente come dominio di uno o pochi individui, sia che si nasconda dietro la maschera di un partito o di una classe.
Resta l’anarchia.
Ma se l’anarchia non può farsi subito perchè la grande massa non la comprende e non la vuole?
Certo l’anarchia qual regime generale applicato in tutti i luoghi ed a tutte le funzioni della vita sociale non può farsi domani; ma può sempre farsi, quando vi sia libertà sufficiente, in quei luoghi ed in quelle categorie dove si trovano anarchici forti abbastanza per applicare le loro idee.
Dunque, non governo di uno, di pochi o di molti, non governo della maggioranza, ma libertà per tutti di fare quello che sono capaci di fare, senza ledere l’eguale libertà degli altri.
Ed in fondo è così, con spirito e con metodi essenzialmente, anche se incoscientemente, anarchici, per libera iniziativa di individui e di aggruppamenti volontari, che il mondo ha progredito, che la civiltà è andata faticosamente costituendosi. I governi, autocratici o democratici, monarchici o repubblicani sono stati sempre fattori di conservazione e di reazione, sempre difensori dei privilegi stabiliti, sempre ostacolo al progresso; e si è andato avanti solo quando, ed in quanto, delle forze, intellettuali e materiali, sono riuscite a sfuggire alla pressione governativa.
Il problema dunque è di conquistare almeno un minimo di libertà, indispensabile ad ogni progresso.
In Italia avremo la repubblica, e noi contribuiremo al suo trionfo concorrendo ad abbattere l’ostacolo comune che preclude il cammino a noi ed ai repubblicani; ma non diventeremo repubblicani per questo. Noi profitteremo delle circostanze per rinforzare la nostra compagine, per allargare la nostra propaganda e mireremo sempre all’immediata espropriazione dei capitalisti, come condizione preliminare di ogni vera libertà.
Io non sono repubblicano, perchè repubblica significa democrazia, cioè, nel senso più genuino della parola, governo della maggioranza. Ed io sono contrario al governo della maggioranza come al governo della minoranza - anche lasciando da parte la questione, pure importantissima, del modo come fatalmente, in qualunque regime elettoralistico, si fabbrica una maggioranza e se ne falsifica la opinione.
Perciò sono anarchico.
Gli aggettivi "sociale", "federalista" ecc. appiccicati alla parola repubblica mi sono sempre sembrati una burletta. Vi possono essere dei repubblicani socialisti, come ve ne possono essere borghesi o clericali, dei repubblicani unitari e accentratori, come dei repubblicani federalisti e discentratori, i quali potranno fare la propaganda per far votare le leggi che loro piacciono. Ma la repubblica resta la repubblica, cioè una forma di governo a cui dà sostanza la volontà di quelli che riescono a farsi passare come rappresentanti della maggioranza - e se la sua proclamazione non sarà preceduta da una profonda rivoluzione sociale che distrugga nel fatto il privilegio economico, essa sarà necessariamente capitalistica e accentratrice, e forse anche clericale.
Un governo repubblicano, come qualsiasi altro governo, tende innanzi tutto a consolidare e ad allargare il suo potere; ed il solo limite alle sue invasioni contro la libertà dei singoli, individui o collettività, sta nella resistenza che si riesce ad opporgli.
Il compito degli anarchici, poichè non possono per mancanza di forza e di consensi fare l’anarchia dappertutto, è di creare alimentare, organizzare quella resistenza, rifiutare per conto loro qualsiasi contributo obbligatorio allo Stato (servizio militare, pagamento d’imposte, ecc.) e reclamare e pretendere per loro e per quelli che con loro consentono, piena libertà e libero accesso ai mezzi di produzione.

h. Perchè voglio rimanere in Italia64

Non voglio abbandonare l’Italia, sebbene, malgrado l’apparenza di libertà che mi è concessa, io sia prigioniero come se fossi chiuso in una cella o in una tomba. Tutti i miei movimenti sono sorvegliati; i poliziotti non mi lasciano un momento; la corrispondenza è censurata; se ricevo una visita, se qualcuno, per la strada, mi rivolge la parola o mi saluta, se vado a trovare un amico, inchieste e rapporti seguono immediatamente compromettendo spesso le persone con le quali sono in relazione.
È una situazione intollerabile e ne soffro assai.
Può darsi che, essendo in Francia, io abbia l’opportunità, insieme con te e coi nostri compagni, tra i rifugiati e proscritti italiani, numerosissimi a Parigi, di fare un lavoro più utile. Come tu dici, potrei spendervi, ai fini della nostra propaganda, il bisogno d’attività che mi tormenta.
Ciò nonostante, non voglio allontanarmi da Roma. Mussolini non è immortale; il regime abominevole che la dittatura fascista impone all’Italia non può più durare a lungo; un giorno verrà e presto, forse, in cui questo regime odioso crollerà. Ebbene, io voglio essere qui. Quasi tutti gli amici nostri sono carcerati o proscritti Quando avverrà il crollo del fascismo, rientreranno in massa e con tanto più ardore alla lotta, quanto più a lungo ne saranno stati, loro malgrado, lontani; ma non conosceranno abbastanza bene la situazione: saranno poco o male informati sul corso degli avvenimenti, sulla mentalità delle masse popolari, sui centri di agitazione antifascista e sulle possibilità di azione rivoluzionaria, ed avranno necessariamente di quelle esitazioni, di quelle mancanze d’audacia, di quegli eccessi di temerità, di quegli errori tattici che possono riuscire fatali ai movimenti rivoluzionari.
Ebbene! Io sarò qui. So bene che non ci sono uomini indispensabili ma in determinate circostanze, ce ne sono degli utilissimi ed io spero che il giorno in cui, scosso il giogo dittatoriale e debellato il virus fascista, il proletariato d’Italia ritornerà allo spirito di rivolta e al senso della libertà, io spero che quel giorno la mia presenza e la mia lunga esperienza non saranno inutili. Comprendi, ora, per quali gravi ragioni, e malgrado il dispiacere che ne provo, ricuso di abbandonare il posto, di vigilanza oggi e di lotta domani, che gli eventi mi assegnano?
5. Alla ricerca dell’anarchismo: problemi da approfondire

1. IL GRADUALISMO ANARCHICO

a. La rivoluzione in pratica65

Noi vogliamo fare la rivoluzione al più presto possibile, profittando di tutte le occasioni che si possono presentare. Meno un piccolo numero di "educazionisti", i quali credono nella possibilità di elevare le masse alle idealità anarchiche prima che siano cambiate le condizioni materiali e morali in cui esse vivono e quindi rimettono la rivoluzione a quando tutti saranno capaci di vivere anarchicamente, gli anarchici sono tutti d’accordo in questo desiderio di rovesciare al più presto possibile i regimi vigenti: anzi spesso sono essi soli quelli che mostrano una reale volontà di farlo.
Del resto, rivoluzioni ne sono avvenute, ne avvengono e ne avverranno indipendentemente dalla volontà e dall’azione degli anarchici; e poichè gli anarchici non sono che una piccolissima minoranza della popolazione e l’anarchia non è cosa che si possa fare per forza, per imposizione violenta di alcuni, è chiaro che le rivoluzioni passate e quelle prossime future non sono state e non potranno essere rivoluzioni anarchiche.
In Italia due anni or sono la rivoluzione stava per scoppiare e noi facemmo tutto quello che potemmo per farla scoppiare, e trattammo da traditori del proletariato i socialisti ed i confederali che, in occasione dei moti contro il caro-vita, degli scioperi del Piemonte, della sommossa di Ancona, dell’occupazione delle fabbriche, arrestarono lo slancio delle masse e salvarono il traballante regime monarchico.
Che cosa avremmo fatto se la rivoluzione fosse scoppiata davvero?
Che cosa faremo nella rivoluzione che scoppierà domani?
Che cosa han fatto, che cosa avrebbero potuto e dovuto fare i nostri compagni nelle recenti rivoluzioni avvenute in Russia, in Baviera, in Ungheria ed altrove?
Noi non possiamo far l’anarchia, o almeno l’anarchia estesa a tutta una popolazione ed a tutti i rapporti sociali perchè finora nessuna popolazione è anarchica, e non possiamo accettare un altro regime senza rinunziare alle nostre aspirazioni e perdere ogni ragion di essere in quanto anarchici. E allora che cosa possiamo e dobbiamo fare?
Questo era il problema messo in discussione a Bienne, e questo è il problema che maggiormente interessa nel momento attuale, così gravido di possibilità, quando ci potremmo trovare improvvisamente di fronte a situazioni tali che c’impongano di agire subito e senza esitazione o di sparire dal campo della lotta dopo di aver facilitata la vittoria agli altri.
Non si trattava di dipingere una rivoluzione quale noi la vorremmo, una vera rivoluzione anarchica quale sarebbe possibile se tutti, o almeno la grande maggioranza degli uomini abitanti un dato territorio fossero anarchici. Si trattava invece di cercare quello che di meglio si potrebbe fare in favore della causa anarchica in un rivolgimento sociale quale può avvenire nella realtà presente.
I partiti autoritari hanno un programma determinato e vogliono imporlo colla forza; perciò aspirano ad impossessarsi del potere, non importa se con mezzi legali od illegali, e quindi trasformare la società a modo loro, mediante una nuova legislazione. E da questo dipende il fatto che essi, rivoluzionari a parole e spesso anche nelle intenzioni, esitano poi a fare la rivoluzione quando le occasioni si presentano; essi non sono sicuri della acquiescenza sia pure passiva, della maggioranza, non hanno forza militare sufficiente per far eseguire i loro ordini su tutto il territorio, mancano di uomini devoti competenti in tutte le infinite branche dell’attività sociale... e sono quindi indotti a rinviare sempre l’azione a più tardi, fino a quando la sommossa popolare non li spinga quasi riluttanti al governo, dove poi vorrebbero restare indefinitivamente, e perciò cercano di frenare, sviare, arrestare la rivoluzione che li ha innalzati.
Noi al contrario abbiamo bensì un ideale per il quale combattiamo, che vorremmo veder realizzato, ma non crediamo che un ideale di libertà, di giustizia, di amore possa realizzarsi per mezzo della violenza governativa. Noi non vogliamo andare al potere e non vogliamo che nessuno vi vada. Se non possiamo impedire, per mancanza di forza, che governi esistano e si costituiscano, noi ci sforziamo e ci sforzeremo perchè questi governi restino o diventino più deboli che sia possibile, e perciò siamo sempre pronti ad agire quando si tratta di abbattere o di indebolire un governo, senza troppo (dico troppo e non punto) preoccuparci di quello che verrà dopo.
Per noi la violenza non serve e non può servire che a respingere la violenza e quando invece è adoperata per raggiungere dei fini positivi, o fallisce completamente, o riesce a stabilire l’oppressione e lo sfruttamento degli uni sugli altri.
La costituzione di una società di liberi, ed il suo progressivo miglioramento non può essere che il risultato della libera evoluzione; ed il nostro compito di anarchici è appunto quello di difendere, di assicurare la libertà dell’evoluzione.
Abbattere, o concorrere ad abbattere il potere politico, qualunque esso sia, con tutta la sequela di forze repressive che lo sostengono; impedire, o cercare d’impedire che si costituiscano nuovi governi e nuove forze repressive, e in tutti i casi non riconoscere mai alcun governo e restare sempre in lotta contro di esso e reclamare, e pretendere potendo anche colla forza, il diritto di organizzarci e vivere come ci pare ed esperimentare le forme sociali che ci sembrano migliori, sempre, s’intende, che non ledano l’eguale libertà degli altri: ecco la nostra missione.
Fuori di questa lotta contro l’imposizione governativa che genera e rende possibile lo sfruttamento capitalistico; quando avessimo spinto ed aiutato la massa del popolo ad impossessarsi della ricchezza esistente e specialmente dei mezzi di produzione, quando fossimo arrivati al punto che nessuno possa imporre agli altri con la violenza la propria volontà e nessuno possa colla forza sottrarre agli altri il prodotto del loro lavoro, noi non potremmo più che agire mediante la propaganda e l’esempio.
Distruggere le istituzioni i meccanismi, le organizzazioni sociali esistenti? Certamente, se si tratta d’istituzioni repressive, ma esse in fondo non sono che piccola cosa nella complessità della vita sociale. Polizia, esercito, carcere, magistratura, cose potenti per il male, non esercitano che una funzione parassitaria. Sono altre le istituzioni e le organizzazioni che, bene o male, riescono ad assicurare la vita all’umanità; e queste istituzioni non si possono utilmente distruggere se non sostituendole con qualche cosa di meglio.
Lo scambio delle materie prime e dei prodotti, la distribuzione delle sostanze alimentari, le ferrovie, le poste e tutti i servizi pubblici esercitati dallo Stato o dai privati, sono stati organizzati in modo da servire interessi monopolistici e capitalistici, ma rispondono ad interessi reali della popolazione. Non possiamo disorganizzarli (e del resto non ce lo permetterebbe la popolazione interessata) se non riorganizzandoli in modo migliore. E questo non si può fare in un giorno; nè, allo stato delle cose, noi abbiamo le capacità necessarie a farlo. Felicissimi dunque se, aspettando che possano farlo gli anarchici, lo facciano altri, magari con criteri diversi dai nostri.
La vita sociale non ammette interruzioni, e la gente vuol vivere il giorno della rivoluzione, il giorno dopo, e sempre.
Guai a noi, guai all’avvenire delle nostre idee, se noi dovessimo assumere la responsabilità di una distruzione insensata che compromettesse la continuità della vita!
Discutendo di queste materie fu sollevata a Bienne la questione del danaro questione grave quanto altre mai.
D’abitudine nel campo nostro si risolve semplicisticamente la questione dicendo che il danaro si deve abolire. E sta bene, se si tratta di una società anarchica, o di una ipotetica rivoluzione da fare di qui a cento anni, sempre nell’ipotesi che le masse possano diventare anarchiche e comuniste prima che una rivoluzione abbia cambiate radicalmente le condizioni in cui vivono.
Ma oggi la questione è ben altrimenti complicata.
Il danaro è mezzo potente di sfruttamento e di oppressione; ma è anche il solo mezzo (fuori della più tirannica dittatura, o del più idillico accordo) escogitato finora dall’intelligenza umana per regolare automaticamente la produzione e la distribuzione.
Per ora, forse più che preoccuparsi dell’abolizione del denaro, bisognerebbe cercare un modo perchè il denaro rappresenti davvero lo sforzo utile fatto da chi lo possiede.
Ma veniamo alla pratica immediata, che è la questione che veramente si discuteva a Bienne.
Figuriamoci che domani avvenga una insurrezione vittoriosa. Anarchia o non anarchia, bisogna che la popolazione continui a mangiare ed a soddisfare a tutti i bisogni primordiali. Bisogna che le grandi città siano approvvigionate più o meno come d’abitudine.
Se i contadini e i carrettieri, ecc., si rifiutano di fornire i generi che sono nelle loro mani ed i loro servizi gratuitamente, senza riceverne il danaro che essi sono abituati a considerare ricchezza reale, che cosa si fa?
Obbligarli colla forza? allora non solo addio anarchia, ma addio ogni qualsiasi rivolgimento per il meglio. La Russia insegni.
Dunque?
Ma, rispondono generalmente i compagni, i contadini comprenderanno i vantaggi del comunismo o almeno della permuta diretta tra merce e merce.
Sta benissimo; ma non certo in un giorno, e la gente non può restare senza mangiare nemmeno un giorno.
Io non ho inteso proporre delle soluzioni.
Intendo piuttosto richiamare l’attenzione dei compagni sopra problemi gravissimi, di fronte ai quali ci troveremo nella realtà di domani.

b. anarchia e anarchismo66

Il mio ultimo articolo sull’argomento ha attirato l’attenzione di parecchi compagni e mi ha procurato osservazioni e domande numerose.
Forse non fui abbastanza chiaro; forse anche disturbai le abitudini mentali di alcuni che più di tormentarsi il cervello amano adagiarsi sulle formule tradizionali e sono infastiditi da tutto ciò che li costringe a pensare.
In ogni modo io cercherò di spiegarmi meglio, contento se coloro a cui quello che dico sembra alquanto eretico vorranno intervenire nella discussione e concorrere a determinare un programma pratico di azione, che possa servirci di guida nei prossimi rivolgimenti sociali.
I nostri propagandisti si sono finora occupati principalmente della critica della società attuale e della dimostrazione della desiderabilità e della possibilità di un nuovo ordinamento sociale fondato sul libero accordo, in cui tutti potessero trovare, nella fratellanza e nella solidarietà e colla più completa libertà, le condizioni per il massimo sviluppo materiale, morale ed intellettuale. Essi cercavano anzitutto d’infiammare gli animi colla concezione di quello stato di perfezione individuale e sociale che altri chiama utopia e noi chiamiamo ideale, e compivano opera buona e necessaria, perchè stabilivano la mèta verso la quale debbono tendere i nostri sforzi; ma erano (eravamo) deficienti e presso che incuranti nella ricerca delle vie e dei mezzi che a quella mèta possono condurci. Ci occupammo molto della necessità di distruggere radicalmente le cattive istituzioni sociali, ma non prestammo sufficiente attenzione a quello che bisognava fare, o lasciar fare, di positivo, nell’atto e nell’immediato indomani della distruzione perchè la vita degl’individui e della società potesse continuare nel miglior modo possibile, pensando, o agendo come se pensassimo, che le cose si sarebbero accomodate da loro stesse, per legge naturale, senza il cosciente intervento della volontà per indirizzare gli sforzi verso lo scopo prefisso. Ed a questo si deve probabilmente l’insuccesso relativo dell’opera nostra.
È tempo oramai di guardare il problema della trasformazione sociale in tutta la sua vasta complessità e cercare di approfondire il lato pratico della questione. La rivoluzione potrebbe avvenire domani, e noi dobbiamo metterci in grado di agire nel suo seno colla più grande efficacia possibile.
Poichè in questo transitorio momento la trionfante reazione c’impedisce di fare molto per allargare la propaganda in mezzo alle masse, utilizziamo il tempo per approfondire e chiarificare le nostre idee sul da farsi, intanto che cerchiamo di affrettare coi voti e coll’opera il momento di agire e di attuare.
Io mettevo a base delle mie osservazioni due principi.
Primo: L’anarchia non si fa per forza. Il comunismo anarchico, applicato in tutta la sua ampiezza e portante tutti i suoi benefici effetti, non è possibile se non quando grandi masse di popolo, che abbracciano tutti gli elementi necessari ad attuare una civiltà superiore alla presente, lo comprendano e lo vogliano. Si possono concepire dei gruppi selezionati, i cui membri vivano tra di loro e con gruppi consimili in rapporti di volontaria e libera comunanza, e sarà bene che ve ne siano e dovrà essere compito nostro il costituirne, per la sperimentazione e per l’esempio; ma questi gruppi non saranno ancora la società comunista anarchica e saranno piuttosto casi di devozione e di sacrificio in favore della causa, fino a quando non saranno riusciti a conglobare tutta o gran parte della popolazione. Non si tratterà dunque, l’indomani della rivoluzione violenta, se rivoluzione violenta deve essere, di attuare il comunismo anarchico, ma di avviarsi verso il comunismo anarchico.
Secondo: la conversione delle masse all’anarchia ed al comunismo - e nemmeno al più blando dei socialismi - non è possibile fino a che durano le attuali condizioni politiche ed economiche. E siccome queste condizioni, che mantengono i lavoratori in schiavitù, per il beneficio dei privilegiati, sono mantenute e perpetuate per mezzo della forza brutale, è necessario cambiarle violentemente per l’opera dell’azione rivoluzionaria di minoranze coscienti. Dunque, se è ammesso il principio che l’anarchia non si fa per forza, senza la volontà cosciente delle masse, la rivoluzione non può essere fatta per attuare direttamente ed immediatamente l’anarchia, ma piuttosto per creare le condizioni che rendano possibile una rapida evoluzione verso l’anarchia.
È stata spesso ripetuta la frase: "La rivoluzione sarà anarchica o non sarà". L’affermazione può sembrare molto "rivoluzionaria", molto "anarchica"; ma in realtà è una sciocchezza quando non è un mezzo peggiore dello stesso riformismo per paralizzare le buone volontà ed indurre la gente a star tranquilla, a sopportare in pace il presente, aspettando il paradiso futuro.
Evidentemente, "la rivoluzione anarchica" o sarà anarchica o non sarà. Ma non vi sono state rivoluzioni nel mondo, quando non ancora si concepiva la possibilità in una società anarchica? E non ve ne saranno più fino a quando le masse non saranno convertite all’anarchismo? E poichè non riusciamo a convertire all’anarchismo le masse abbrutite dalle condizioni in cui vivono, dobbiamo rinunziare ad ogni rivoluzione ed acconciarci a vivere in regime monarchico-borghese?
La verità è che la rivoluzione sarà quello che potrà essere, ed è nostro compito affrettarla il più possibile e sforzarci perchè essa sia il più radicale possibile.
Ma intendiamoci bene.
La rivoluzione non sarà anarchica, se come è purtroppo il caso, le masse non saranno anarchiche. Ma noi siamo anarchici, dobbiamo restare anarchici ed agire come anarchici, prima, durante e dopo della rivoluzione.
Senza gli anarchici, senza l’opera degli anarchici, se gli anarchici aderissero ad una qualsiasi forma di governo e ad una qualsiasi costituzione cosiddetta di transazione, la prossima rivoluzione invece di segnare un progresso della libertà e della giustizia ed un avviamento verso la liberazione integrale dell’umanità, darebbe luogo a nuove forme di oppressione e di sfruttamento forse peggiori delle attuali, o nella migliore ipotesi non produrrebbe che un miglioramento superficiale, in gran parte illusorio e completamente sproporzionato allo sforzo, ai sacrifici, ai dolori di una rivoluzione, quale quella che si annunzia per un avvenire più o meno prossimo.
Nostro compito dopo aver concorso ad abbattere il regime attuale è quello di impedire, o cercare d’impedire, che si costituisca un nuovo governo; o non riuscendovi, lottare almeno perchè il nuovo governo non sia unico, non accentri nelle sue mani tutto il potere sociale, resti debole e vacillante, non riesca a disporre di sufficiente forza militare e finanziaria, e sia riconosciuto ed ubbidito il meno possibile. In tutti i casi, noi anarchici non dobbiamo mai parteciparvi, mai riconoscerlo e restare in lotta contro di esso come siamo in lotta contro il governo attuale.
Noi dobbiamo restare in mezzo alle masse, spingerle all’azione diretta, alla presa di possesso degli strumenti di produzione ed all’organizzazione del lavoro e della distribuzione dei prodotti, all’occupazione degli ambienti abitabili, all’esecuzione dei servizi pubblici senza aspettare deliberazioni od ordini di autorità superiori - e a quest’opera noi dobbiamo concorrere con tutte le nostre forze, e per questo cercare fin da ora dì acquistare quante più cognizioni c’è possibile.
Ma se dobbiamo essere intransigenti nell’opposizione contro tutti gli organi di compressione e di repressione contro tutto ciò che tende ad ostacolare colla forza la volontà popolare e la libertà delle minoranze, noi dobbiamo ben guardarci dal distruggere quelle cose e disorganizzare quei servizi utili non possiamo sostituire in modo migliore.
Noi dobbiamo ricordarci che la violenza, necessaria purtroppo per resistere alla violenza, non serve per edificare niente di buono: che essa è la nemica naturale della libertà, la genitrice della tirannia e che perciò deve essere contenuta nei limiti della più stretta necessità.
La rivoluzione serve, è necessaria, per abbattere la violenza dei governi e dei privilegiati; ma la costituzione di una società di liberi non può essere che l’effetto della libera evoluzione. Ed alla libertà dell’evoluzione, continuamente minacciata fino a che esisterà negli uomini sete di dominio e di privilegi, gli anarchici debbono vegliare.

c. Gradualismo e realismo67

...A parte l’odiosità della parola, che è stata abusata e discreditata dai politicanti, l’anarchismo è stato sempre e non potrà mai essere altro che riformista. Noi preferiamo dire riformatore per evitare ogni possibile confusione con coloro che sono ufficialmente classificati come "riformisti" e vogliono con piccoli e spesso illusori miglioramenti rendere più sopportabile e quindi consolidare il regime attuale, oppure s’illudono in buona fede di potere eliminare i lamentati mali sociali riconoscendo e rispettando, in pratica se non in teoria, le fondamentali istituzioni politiche ed economiche che di quei mali sono la causa ed il sostegno. Ma insomma è sempre di riforme che si tratta, e la differenza essenziale sta nel genere di riforma che si vuole e nel modo come si crede di poter raggiungere la nuova forma cui si aspira.
Rivoluzione significa, nel senso storico della parola, riforma radicale delle istituzioni, conquistata rapidamente per mezzo della insurrezione violenta del popolo contro il potere ed i privilegi costituiti; e noi siamo rivoluzionari ed insurrezionisti perchè vogliamo non già migliorare le istituzioni attuali ma distruggerle completamente, abolendo ogni dominio dell’uomo sull’uomo ed ogni parassitismo sul lavoro umano; perchè vogliamo far questo il più presto possibile e perchè siamo convinti che le istituzioni nate dalla violenza, si sostengono colla violenza e non cederanno che ad una violenza sufficiente.
Ma la rivoluzione non si può fare quando si vuole. Dovremo noi restare inerti, aspettando che i tempi maturino da loro?
E anche dopo un’insurrezione vittoriosa, potremo noi di punto in bianco realizzare tutti i nostri desideri e passare come per miracolo dall’inferno governativo e capitalistico al paradiso del comunismo libertario, che è la completa libertà dell’individuo nella voluta solidarietà d’interessi con gli altri uomini?
Queste sono illusioni che possono allignare in mezzo agli autoritari i quali considerano la massa come materia bruta alla quale chi possiede il potere può dare, a forza di decreti e con l’aiuto dei fucili e delle manette, l’impronta che vuole.
Ma non hanno presa in mezzo agli anarchici. Noi abbiamo bisogno del consenso della gente, e quindi dobbiamo persuadere colla propaganda e coll’esempio, dobbiamo educare e cercare di modificare l’ambiente in modo che l’educazione possa raggiungere un numero sempre più grande di persone.
Tutto è graduale nella storia come nella natura. Come la diga cede d’un tratto (cioè rapidissimamente, ma sempre condizionata dal tempo) o perchè l’acqua si è andata accumulando fino a superare con la sua pressione la resistenza oppostagli, oppure per il disgregarsi progressivo delle molecole che ne compongono il materiale, così le rivoluzioni scoppiano per il crescere delle forze che aspirano alla trasformazione sociale fino al punto sufficiente per abbattere il governo esistente e per l’indebolimento crescente, per ragioni interne, delle forze di conservazione.
Siamo riformatori oggi in quanto cerchiamo di creare le condizioni più favorevoli ed il personale più cosciente e più numeroso che si può per menare a bene una insurrezione di popolo; saremo riformatori domani, ad insurrezione trionfante e a libertà conquistata, in quanto cercheremo, con tutti i mezzi che la libertà consente, cioè con la propaganda, con l’esempio, con la resistenza anche violenta contro chiunque volesse coartare la nostra libertà, cercheremo, dico, di conquistare alle nostre idee un numero sempre più grande di adesioni.
Ma non riconosceremo mai - ed in questo il nostro "riformismo" si distingue da certo "rivoluzionarismo" che va ad affogarsi nelle urne elettorali di Mussolini o di altri - non riconosceremo mai le istituzioni, prenderemo o conquisteremo le riforme possibili con lo spirito con cui si va strappando al nemico il terreno occupato per procedere sempre più avanti, e resteremo sempre nemici di qualsiasi governo, sia quello monarchico di oggi, sia quello repubblicano o bolscevico di domani.

d. Il possibilismo anarchico68

Nelle polemiche che sorgono tra gli anarchici sulla tattica migliore per giungere o avvicinarsi alla realizzazione dell’anarchia - e sono polemiche utili, anzi necessarie, quando sono ispirate alla mutua tolleranza ed alla mutua fiducia e non trascendono in odiose questioni personali - avviene sovente che gli uni in tono di rimprovero chiamano gli altri gradualisti e questi respingono la qualifica come se fosse un’ingiuria.
Ed intanto il fatto è che, nel senso proprio della parola, gradualisti siamo tutti, e tutti, sia pure in modi diversi, dobbiamo esserlo per la logica stessa dei nostri principi.
È vero che certe parole, specialmente in politica, cambiano continuamente di significato e spesso ne assumono uno contrario a quello originale, logico e naturale.
Gioverebbe mettere un freno a questo sistema di usare le parole in un senso diverso dal loro proprio, che è fonte di tante confusioni e tanti malintesi. Ma chi potrebbe riuscirvi, specie quando il cambiamento è prodotto dall’interesse che hanno i politicanti a coprire con buone parole i loro fini malvagi?
Potrebbe darsi dunque che la parola gradualista, applicata agli anarchici, finisse coll’indicare davvero quelli che colla scusa di fare le cose gradualmente, a misura che diventano possibili, finiscono col non muoversi più o col muoversi in una direzione opposta a quella che conduce all’anarchia. E allora bisognerebbe respingere il nome; ma la cosa resterebbe vera lo stesso, cioè che tutto nella natura e nella vita procede a gradi e che, applicando al caso nostro, l’anarchia non può venire che poco a poco.
L’anarchismo, dicevo, deve essere necessariamente gradualista.
Si può concepire l’anarchia come la perfezione assoluta, ed è bene che quella concezione resti sempre presente alla nostra mente, quale faro ideale che guida i nostri passi. Ma è evidente che quell’ideale non può raggiungersi d’un salto, passando di botto dall’inferno attuale al paradiso agognato.
I partiti autoritari, quelli cioè che credono morale ed espediente imporre colla forza una data costituzione sociale, possono sperare (vana speranza del resto!) che, quando si saranno impossessati del potere, potranno a forza di leggi, decreti... e gendarmi sottoporre tutti e durevolmente al loro volere.
Ma una tale speranza ed un tale volere non sono concepibili negli anarchici, i quali non vogliono nulla imporre salvo il rispetto della libertà e contano per la realizzazione dei loro ideali sulla persuasione e sui vantaggi sperimentati della libera cooperazione.
Ciò non significa che io creda (come a scopo polemico mi ha fatto dire un giornale riformista poco informato o poco scrupoloso) che per fare l’anarchia bisogna aspettare che tutti siano anarchici. Io credo al contrario - e perciò sono rivoluzionario - che nelle condizioni attuali solo una piccola minoranza favorita da circostanze speciali possa arrivare a concepire l’anarchia, e che sarebbe una chimera lo sperare nella conversione generale se prima non si cambia l’ambiente, nel quale prosperano l’autorità ed il privilegio. Ed appunto per questa credo che bisogna, appena è possibile, cioè appena si sia conquistata la libertà sufficiente e vi sia in un dato luogo un nucleo di anarchici abbastanza forte per numero e capacità da bastare a sè stesso ed irradiare intorno a sè la propria influenza, bisogna, dico, organizzarsi per applicare l’anarchia o quel tanto di anarchia che diventa mano a mano possibile.
Poichè non si può convertire la gente tutta in una volta e non si può isolarsi per necessità di vita e per l’interesse della propaganda bisogna cercare il modo di realizzare quanto più di anarchia è possibile in mezzo a gente che non è anarchica o lo è in gradi diversi.
Il problema dunque non è se bisogna o no procedere gradualmente, ma quello di cercare quale è la via che più rapidamente e più sinceramente conduce all’attuazione dei nostri ideali.
Oggi in tutti i paesi del mondo la via è preclusa dai privilegi conquistati attraverso una lunga storia di violenze e di errori, da certe classi, che oltre la supremazia intellettuale e tecnica che deriva loro da quei privilegi, dispongono per difendere la loro posizione della forza bruta assoldata nelle classi soggette e ne usano, quando occorre, senza scrupoli e senza limite. Perciò è necessaria una rivoluzione, la quale distrugga lo stato di violenza nel quale oggi si vive e renda possibile la pacifica evoluzione verso sempre maggiore libertà, maggiore giustizia, maggiore solidarietà
Quale dovrebbe essere la tattica degli anarchici prima, durante e dopo la rivoluzione?
Quello che sarebbe necessario fare prima della rivoluzione per prepararla ed attuarla la censura forse non lo lascerebbe dire; ed in ogni modo è sempre un argomento che si tratta male in presenza del nemico. Ci sarà però lecito il dire che bisogna restare sempre se stessi, propagare ed educare il più possibile, fuggire ogni transazione col nemico e tenersi pronti, almeno spiritualmente, per afferrare tutte le occasioni che si possono presentare.
Durante la rivoluzione?
Incominciamo col dire che la rivoluzione non la possiamo fare noi soli; e non sarebbe, a parte la questione della forza materiale, nemmeno desiderabile il farla da soli; perchè se non si mettono in movimento tutte le forze spirituali del paese e con esse tutti gl’interessi e tutte le aspirazioni palesi o latenti che stanno nel popolo, la rivoluzione sarebbe un aborto. E nel caso, poco probabile, che vincessimo da soli, ci troveremmo nell’assurda posizione o di imporsi, comandare, costringere gli altri e quindi cessare di essere anarchici ed uccidere la rivoluzione stessa col nostro autoritarismo, oppure di "fare per viltade il gran rifiuto", cioè ritrarci indietro e lasciare che altri profitti dell’opera nostra per scopi opposti ai nostri.
Bisognerebbe dunque agire di conserva con tutte le forze progressiste esistenti, con tutti i partiti d’avanguardia ed attirare nel movimento, sommuovere, interessare le grandi masse, lasciando che la rivoluzione, della quale noi saremmo un fattore fra gli altri, produca quello che può produrre.
Ma non per questo dovremmo rinunziare al nostro scopo specifico: al contrario dovremmo tenerci ben uniti tra noi e ben distinti dagli altri per combattere in favore del nostro programma: abolizione del potere politico ed espropriazione dei capitalisti. E se, nonostante i nostri sforzi, riuscissero a costituirsi nuovi poteri che vogliono ostacolare l’iniziativa popolare ed imporre il loro volere, noi dovremmo non parteciparvi, non riconoscerli mai cercare che il popolo rifiuti loro i mezzi per governare, cioè i soldati e le contribuzioni, fare in modo ch’essi restino deboli... fino al giorno in cui si potrà abbatterli del tutto. In tutti i casi reclamare ed esigere, magari colla forza, la nostra piena autonomia ed il diritto ed i mezzi per organizzarci a modo nostro ed esperimentare i metodi nostri.
E dopo la rivoluzione, cioè dopo la caduta del potere esistente ed il trionfo definitivo delle forze insorte?
Qui entra veramente in campo il gradualismo.
Bisogna studiare tutti i problemi pratici della vita: produzione, scambio, mezzi di comunicazione relazioni fra gli aggruppamenti anarchici e quelli che vivono sotto un’autorità, tra collettività comunistiche e quelli che vivono in regime individualistico, rapporti tra città e campagna, utilizzazione a vantaggio di tutti delle forze naturali e delle materie prime, distribuzione delle industrie e delle colture secondo le condizioni naturali dei vari paesi, istruzione pubblica, cura dei fanciulli e degl’impotenti, servizi igienici e medici, difesa contro i delinquerti comuni e quelli più pericolosi, che tentassero ancora di sopprimere la libertà degli altri a vantaggio di individui o di partiti, ecc, ecc. E d’ogni problema preferire quelle soluzioni che non solo sono economicamente più convenienti, ma che rispondono meglio al bisogno di giustizia e di libertà e lasciano più aperta la via ai futuri miglioramenti, Nel caso, anteporre la giustizia, la libertà, la solidarietà ai vantaggi economici.
Non bisogna proporsi di tutto distruggere credendo che poi le cose si aggiusteranno da loro. La civiltà attuale è frutto di una evoluzione millenaria ed ha risolto in qualche modo il problema della convivenza di milioni e milioni di uomini, spesso affollati sopra territori ristretti, e quello della soddisfazione di bisogni sempre crescenti e sempre più complicati. I suoi benefici sono diminuiti - e per la gran massa quasi annullati - dal fatto che l’evoluzione si è compiuta sotto la pressione dell’autorità e nell’interesse dei dominatori; ma se si toglie l’autorità ed il privilegio, restano sempre i vantaggi acquisiti, i trionfi dell’uomo sulle forze avverse della natura l’esperienza accumulata dalle generazioni estinte, le abitudini di socievolezza contratte nella lunga convivenza e negli esperimentati benefici del mutuo appoggio - e sarebbe stolto, e del resto impossibile, rinunziare a tutto questo.
Noi dobbiamo dunque combattere l’autorità ed il privilegio, ma profittare di tutti i benefici della civiltà; e nulla distruggere di quanto soddisfi, sia pur malamente, ad un bisogno umano se non quando abbiamo qualche cosa di meglio da sostituirvi.
Intransigenti contro ogni imposizione ed ogni sfruttamento capitalistico, noi dovremo essere tolleranti con tutte le concezioni sociali che prevalgono nei vari raggruppamenti umani, purchè non ledano la libertà ed il diritto uguale degli altri; e contentarci di progredire gradualmente a misura che si eleva il livello morale degli uomini e crescono i mezzi materiali ed intellettuali di cui dispone l’umanità - facendo, questo s’intende, il più che possiamo - con lo studio, il lavoro, la propaganda, per affrettare l’evoluzione verso ideali sempre più alti.

Io ho qui sopra prospettato dei problemi più che delle soluzioni; ma credo di avere esposto succintamente i criteri che debbono guidarci nella ricerca e nell’applicazione delle soluzioni, le quali saranno certamente varie e variabili a seconda delle circostanze ma dovranno sempre uniformarsi, per quanto dipende da noi, ai principi basilari dell’anarchismo: nessun comando dell’uomo sull’uomo, nessuno sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.
Ai compagni tutti il compito di pensare, studiare, prepararsi - e farlo sollecitamente ed intensamente, perchè i tempi sono "dinamici" ed occorre tenersi pronti per ciò che può accadere.

2. GRADUALISMO. CHIARIMENTI, DIVERGENZE ED ERRORI

a. Rimasticature autoritarie69

Dalle scarse notizie che accidentalmente arrivano fino a me, rilevo che vi sono alcuni compagni che si sono rimessi a sostenere che per far trionfare l’anarchia sarà necessario, quando scoppierà la rivoluzione, obbligare la gente a fare a modo nostro, fino a quando essa si sarà convinta che noi abbiamo ragione e farà spontaneamente quello che al principio le faremo fare per forza. Insomma assumere la funzione di governo.
S’intende che il governo che vorrebbero costituire quei singolari anarchici dovrebbe essere una cosa blanda e provvisoria, dovrebbe governare il meno possibile e durare pochissimo: ma anche ridotto ai minimi termini dovrebbe sempre essere un governo, cioè un gruppo di uomini che si attribuiscono la facoltà d’imporre al popolo le proprie idee... ed i propri interessi.
E questo per essere pratici, per aderire alla realtà, ecc. Sembra sentire i discorsi che facevano i guerraioli quando predicavano la guerra per distruggere la guerra!
La cosa non è nuova. Durante tutto il corso del nostro movimento vi sono stati degl’individui che, pur dicendosi anarchici anzi più anarchici degli altri, hanno espresso concetti e propositi ultra autoritari: soppressione per i nostri avversari delle libertà elementari di parola, stampa, riunione, ecc.; lavoro forzato sotto il comando di soprastanti anarchici; fanciulli strappati alle famiglie per educarli anarchicamente; polizia rossa, armata rossa, terrore rosso. E per quanto sia evidente la contraddizione tra l’idea di libertà che è l’anima dell’anarchismo, e l’idea di coercizione, pure a rifletterci bene non v’è di che troppo meravigliarsi. Nati e cresciuti in una società in cui ognuno è costretto a comandare o essere comandato, influenzati da una tradizione millenaria d’oppressione e di servitù, non avendo altro mezzo per emanciparsi che quello di ricorrere alla violenza, per abbattere la violenza che ci opprime, è difficile pensare e sentire da anarchici, è difficile soprattutto concepire e rispettare il limite che separa la violenza che è giusta e necessaria difesa dei propri diritti, dalla violenza che è violazione di diritti altrui. E perciò v’è sempre chi ricade nell’autoritarismo e per arrivare all’anarchia vuole agire come agiscono i governi, vuole insomma essere governo.
Naturalmente le intenzioni sono sempre buone; siamo anarchici sì, essi dicono, ma siccome le masse sono tanto arretrate bisogna spingerle avanti colla forza. Qualche cosa come insegnare ad uno a camminare legandogli le gambe!
Io non voglio qui dilungarmi su questo errore di voler educare la gente alla libertà, all’iniziativa ed alla fiducia in se stessa per mezzo della coercizione. Nè voglio insistere sul fatto che chi sta al governo ci vuol restare, sia pure col sincero proposito di fare il bene, e quindi prima di tutto pensa a costituire un partito o una classe di cointeressati ed una forza armata fedele e disciplinata per tenere a freno i ricalcitranti; cose che accadrebbero ai governanti "anarchici" come agli altri, sia perchè sono una necessità della situazione, sia perchè noi anarchici non siamo poi di tanto migliori della comune umanità. Questo menerebbe a ripetere tutte le ragioni che l’anarchismo oppone all’autoritarismo, ragioni che quei compagni, i quali, a quanto mi si dice non sono dei novellini, debbono conoscere al pari di me.
Voglio solo far notare, che, come avviene spessissimo, quelli che più si vantano di essere pratici e di non perdersi nei sogni, sono poi quelli che più sognano cose impossibili.
Infatti, è chiaro che per impossessarsi del governo e non esporci ad un fiasco sicuro che ci discrediterebbe e c’impedirebbe per molto tempo ogni azione utile, bisognerebbe disporre di una forza numerica e di una capacità tecnica sufficienti. Noi probabilmente non avremo al principio della prossima rivoluzione, quella forza e quella capacità, ma, supposto che l’avessimo, che bisogno ci sarebbe allora di farsi governo e mettersi sopra una via che necessariamente ci condurrebbe verso una mèta opposta a quella che vogliamo raggiungere? Essendo così forti, noi potremmo facilmente mettere la gente sulla buona via per mezzo della propaganda e dell’esempio, e sviluppare e difendere la rivoluzione con metodo perfettamente anarchico, cioè col concorso volontario ed entusiasta della massa interessata al suo trionfo.
Questo per quelli che intendessero impossessarsi del governo come anarchici per fare l’anarchia, o almeno indirizzare la rivoluzione verso l’anarchia. Che se si volesse andare al governo insieme coi partiti autoritari, i quali mirerebbero innanzi tutto a soffocare l’iniziativa popolare e ad assicurare lo sviluppo e la permanenza delle istituzioni governative, allora sarebbe il caso di defezione pura e semplice, e conservare il nome d’anarchici sarebbe una menzogna e un inganno. Col risultato che, dopo di aver messo le nostre forze al servizio dei nuovi dominatori ed averli aiutati a consolidarsi al governo, non appena non si avrebbe più bisogno di noi, saremmo ignominiosamente scacciati e resteremmo impotenti e disonorati.
Invece, pur minoranza come siamo, restando in mezzo alle masse per spingerle ad abbattere l’autorità politica ed il privilegio economico e ad organizzare da loro stesse la nuova vita sociale e dandone noi stessi l’esempio, in grande o in piccolo secondo le forze che potremo raccogliere nelle varie località e nelle varie corporazioni operaie, senza prendere responsabilità che non possiamo assolvere, noi potremo dare alla rivoluzione un carattere profondamente rinnovatore e preparare la via per il trionfo dell’anarchia integrale.
Non riusciremo forse ad impedire la costituzione di un nuovo governo, ma potremo impedire ch’esso diventi forte e tirannico ed obbligarlo a rispettare, per noi e per quelli che si unirebbero a noi, la massima libertà possibile ed il diritto all’uso gratuito dei mezzi necessari alla produzione.
In ogni caso, anche vinti, daremo un esempio fecondo di risultati concreti in un prossimo avvenire.

b. L'errore del "tutto e subito"70

Voglio esprimere la mia opinione sulla causa per la quale alcuni compagni, certamente sinceri e pieni di ardore per il trionfo dell’anarchia, sono indotti a rimettere in discussione le basi stesse dell’anarchismo.
Fenomeni simili si producono in tutti i partiti all’indomani di una sconfitta, e non vi sarebbe nulla di strano che lo stesso avvenisse in mezzo a noi. Ma a me pare che, nel caso nostro, questa ricerca affannosa di vie novelle, piuttosto che la conseguenza di nuove e più ardite e più vere concezioni, sia l’effetto della persistenza di vecchie illusioni che quei compagni, malgrado la lunga esperienza, sperano ancora di poter realizzare immediatamente, come lo si sperava agli inizi del movimento.
Sessanta e più anni or sono noi pensavamo che l’anarchia ed il comunismo potessero sorgere come conseguenza diretta, immediata di un’insurrezione vittoriosa. Non si tratta, dicevamo, di giungere un giorno all’anarchia e al comunismo, ma di cominciare la rivoluzione sociale coll’anarchia e col comunismo. Bisogna, ripetevamo nei nostri manifesti, che la sera del giorno stesso in cui saranno vinte le forze governative ciascuno possa soddisfare pienamente i suoi bisogni essenziali, sentire senz’altro ritardo i benefici della rivoluzione.
Era insomma l’idea che, accettata un po’ più tardi da Kropotkin, fu da lui popolarizzata e quasi fissata come programma definitivo dell’anarchismo.
Secondo noi bastava distruggere gli ostacoli materiali, cioè sconfiggere la forza armata che difendeva i proprietari, e tutto sarebbe andato da sè.
E badavamo soprattutto a perfezionare il nostro ideale, facendoci l’illusione che la massa ci seguisse, anzi credendo di non essere che gl’interpreti degl’istinti profondi di essa massa.
Eravamo in pochi, ma avevamo una fiducia illimitata sull’efficacia della propaganda. Il nostro ragionamento in proposito era dei più ingenui: se, noi pensavamo, essendo in dieci a far propaganda in un mese siamo diventati venti, ora che siamo in venti in un altro mese diventeremo quaranta, e poi da quaranta ottanta e così di seguito. Raddoppiando il numero di mese in mese presto avremo avuto la forza necessaria per fare la rivoluzione.
La rapida organizzazione dei corpi di mestiere e lo spirito di solidarietà tra gli oppressi in lotta per l’emancipazione avrebbero risolte tutte le difficoltà. L’Associazione Internazionale dei Lavoratori (la Prima Internazionale) che stava allora nel suo più florido periodo, sembrava già pronta per sostituire la sua organizzazione a quella della società borghese.
Data questa idea, è chiaro che ci doveva sembrare che l’anarchia stesse per sorgere subito, spontaneamente, per la volontà e la capacità di tutta la popolazione, o almeno della parte cosciente e attiva della popolazione, appena fosse liberata dalla forza bruta che la teneva soggetta.
Ma coll’andar del tempo lo studio e più la dura esperienza ci mostrarono che molte delle nostre convinzioni erano effetto del nostro desiderio e delle nostre speranze e non corrispondevano ai fatti reali...
Stando così le cose, che cosa bisognava fare? Abbandonare la lotta, diventare scettici ed indifferenti, o rinunziare all’anarchia ed aderire ad un partito autoritario?
Alcuni lo fecero; ma i più tra noi, quelli che avevano nell’animo "il fuoco sacro" furono compresi più che mai della nobiltà e della grandezza della missione che gli anarchici si erano data. Essi restarono convinti che l’aspirazione alla libertà integrale (quello che potrebbe chiamarsi lo spirito anarchico) è stata sempre la causa di ogni progresso individuale e sociale, e che invece tutti i privilegi politici ed economici (che sono poi i diversi aspetti di una stessa oppressione) se non trovano nell’anarchismo più o meno cosciente un ostacolo sufficiente, tendono a respingere indietro l’umanità verso la più fosca barbarie. Essi compresero che l’anarchia non poteva venire che gradualmente, a misura che la massa arriva a concepirla e desiderarla; ma che non verrebbe mai se mancasse la spinta di una minoranza più o meno coscientemente anarchica, che agisce in modo da preparare l’ambiente necessario.
Restare anarchici, agire da anarchici in tutte le possibili circostanze restava il dovere da noi liberamente scelto ed accettato.
Ho detto più sopra che, secondo me, i cosiddetti revisionisti, ancora sotto l’influenza dei pregiudizi dell’anarchismo primitivo, s’illudono di poter fare il comunismo e l’anarchia d’un colpo solo; ma siccome comprendono anch’essi che la massa è ancora impreparata, cadono nell’assurdo di volerla preparare coi metodi autoritari. Lo dicono poco chiaramente, credo anzi che essi stessi non se ne rendano conto esatto, ma il fatto mi sembra questo: essi vorrebbero fare il comunismo rimandando la libertà a più tardi, e vorrebbero educare il popolo alla libertà per mezzo della tirannia.
A me pare, e credo che questa sia oramai l’opinione di quasi tutti gli anarchici, che la rivoluzione non può cominciare col comunismo, o sarebbe, come la Russia, un comunismo da convento, da caserma e da galera, peggiore dello stesso capitalismo. Essa deve attuare subito quello che si può, ma non più di quello che si può; basterebbe per cominciare attaccare con tutti i mezzi possibili l’autorità politica ed il privilegio economico, disciogliere l’esercito e tutti i corpi di polizia, armare tutta quanta la popolazione, requisire a vantaggio di tutti le sostanze alimentari e provvedere alla continuità dell’approvvigionamento e spingere le masse, soprattutto spingere le masse ad agire senza aspettare ordini dall’alto. E badare a non distruggere se non quello che si può sostituire con qualche cosa di migliore. Poi si procederà verso l’organizzazione del comunismo volontario o quelle altre forme, probabilmente varie e multiple, di convivenza sociale che i lavoratori, illuminati dall’esperienza, preferiranno.
Se gli anarchici volessero assumere da soli la funzione di governo (cosa del resto che non avrebbero la forza di fare), o, peggio ancora, volessero unirsi ai partiti autoritari per dettar leggi e regole obbligatorie, non farebbero che tradire se stessi e la rivoluzione. Allora essi, invece di spingere verso l’anarchia colla propaganda e coll’esempio, contribuirebbero, volenti o nolenti, a strappare al popolo quelle conquiste ch’esso avrebbe fatte nel periodo insurrezionale: farebbero insomma quello che han fatto sempre tutti i governi.

e. Un governo di "anarchici"?71

...Dunque Pardaillan è d’accordo con me e con tutti gli anarchici nel "respingere assolutamente" un governo che sia quello che generalmente s’intende per governo e che è stato ed è ogni governo esistito ed esistente, cioè un organo che fa la legge e la impone a tutti mediante la forza materiale.
Solamente egli ha un debole per la parola governo e per conservarla, pur restando anarchico, vorrebbe cambiarne il significato.
Egli mi domanda: "Possono gli anarchici, senza cessare di esser tali, concepire un governo che non abbia il significato antilibertario del solito governo?"
Rispondo: Si. Se io, per esempio, cambio il significato della parola carnefice, posso benissimo concepire un carnefice dall’animo buono e sensibile che non farebbe male una mosca; o se do alla parola sedia il significato di lampada elettrica posso benissimo concepire una sedia che mi faccia lume.
Ma a che servirebbe rivoluzionare in tal modo il dizionario? Evidentemente ad intenderci meno che mai.
E perchè il Pardaillan, il quale vorrebbe che gli anarchici costituissero una forza capace d’influire potentemente sul corso degli eventi, non esita a porsi in contrasto con la massa degli anarchici e creare nuovi ragioni di scissione e quindi di debolezze per la fisima di chiamare governo quello che non sarebbe governo?
Egli ragiona così: Il popolo è abituato ad essere governato ed ubbidisce al governo qualunque esso sia; può in certi momenti abbattere un dato governo, ma lo fa con l’idea di vederlo sostituito da un governo migliore. Chi è più svelto ad occupare il posto lasciato vuoto dal governo caduto e dire il governo sono io è subito riconosciuto ed ubbidito. Facciamo in modo d’essere noi i primi a dire il governo siamo noi e potremo fare non l’anarchia, ma quel tanto di bene che si potrà, ed intanto toglieremo ai politicanti la possibilità di sfruttare la situazione.
Mi perdoni il compagno Pardaillan, se glielo dico un po’ ruvidamente: il suo ragionamento ed il suo proposito mi sembrano tanto ingenui da raggiungere quasi l’infantilità, poichè certamente non sarebbe cosa seria il dirsi governo e non fare quello che deve fare un governo e che la gente aspetta da esso, cioè dare degli ordini e farli eseguire per mezzo della polizia, dell’esercito, dei magistrati e dei carcerieri.
Pardaillan dice che ha l’impressione (non so da dove ricavata) che io, accettando la proposta di dare un significato libertario alla parola governo per servircene noi a modo nostro, sia già disposto a cercare insieme a loro (i revisionisti) il modo migliore per impedire a questo governo di diventare quello che assolutamente non deve essere.
Ma se il governo sarà composto di anarchici, chi s’incaricherebbe di tenerli nei limiti assegnatigli da Pardaillan? Non potrebbero essere che gli anarchici che non sono al governo, vale a dire che gli anarchici dovrebbero trattare il governo formato dai loro compagni come tratterebbero qualunque altro governo. E allora?
No: sarà colpa del mio modo di esprimermi, ma Pardaillan mi ha compreso proprio a rovescio.
Io credo - gioco di parole a parte - che noi non potremmo diventare governo se non in combutta coi partiti autoritari e dopo che gli anarchici avessero perduto quell’ardente desiderio di libertà per tutti, che forma la loro specifica ragion d’essere. E credo che se per singolarissime circostanze noi riuscissimo a sembrare governo, presto vorremmo essere governo sul serio, e non saremmo migliori degli altri.
Ma supponiamo pure che riuscissimo ad impadronirci del governo ed avere a nostra disposizione le forze dello Stato senza avere prima cessato di essere anarchici, e supponiamo che riuscissimo a resistere all’influenza corruttrice della nuova posizione e restassimo intenti solo a garantire la libertà di tutti ed a promuovere il bene generale, che cosa ne risulterebbe?
Il popolo, dice Pardaillan, è abituato ad esser governato e se abbatte un governo è sempre pronto ad accettarne un altro. È vero; ma questo popolo accettando un governo aspetta che esso governi, cioè che emani ordini e decreti e mandi dappertutto i suoi funzionari per farli eseguire. Se gli ordini non vengono, se non vengono le nuove autorità con i relativi gendarmi, allora o il popolo fa da sè ed in questo caso entrerebbe nella via dell’anarchismo, o accetta un altro governo che governi davvero.
Mi pare che Pardaillan fraintenda completamente, se non lo scopo supremo degli anarchici, certo l’attuale compito loro nel movimento sociale.
Il nostro compito è quello di spingere il popolo a reclamare e prendersi tutte le libertà possibili e a provvedere da sè ai propri bisogni senza aspettare gli ordini di una qualsiasi autorità. Nostro compito è quello di dimostrare l’inutilità e la dannosità del governo, provocando ed incoraggiando, colla predicazione e con l’azione, tutte le buone iniziative individuali e collettive...
In conclusione, Pardaillan vorrebbe impossessarsi del governo per impedire che se ne impossessassero gli altri. Io penso al contrario che se governo v’ha da essere, se cioè noi fossimo impotenti ad impedire che si formi un nuovo governo, sarebbe preferibile che lo formino gli autoritari anzichè gli "anarchici". Un governo di autoritari potrebbe trovare un freno nell’opposizione degli anarchici ed esaurirsi a misura che il popolo impara ad organizzarsi e fare da sè. Ma di un governo di "anarchici" chi ce ne libererebbe?...
Si rassicurino i compagni "revisionisti". Noi siamo tutt’altro che "dogmatici" Noi siamo travagliati come loro dalla ricerca del meglio; noi sappiamo come loro che c’è tante idee da rivedere, tanti problemi da approfondire; ed accogliamo con simpatia qualunque opinione sulla nostra condotta passata, qualunque critica,qualunque proposta anche contrarie alle opinioni nostre per vedere ciò che se ne può cavare in pro della causa comune. Ma siamo e vogliamo restare anarchici, e gli scritti dei "revisionisti" fanno l’impressione - parlo per me personalmente - che si voglia fare un’evoluzione verso metodi autoritari. Di qui la scissione ed il tono aspro della polemica.
Vi sono quattro problemi che, secondo me, sono per gli anarchici di tutti i paesi i problemi massimi dell’ora presente:
1. Concorrere all’insurrezione con tutte le forze rivoluzionarie progressiste senza lasciarsi assorbire e dominare dai partiti più numerosi, più ricchi e meglio organizzati;
2. Utilizzare le organizzazioni operaie per la demolizione e la ricostruzione pur evitando i mali ed i pericoli del sindacalismo;
3. Assicurare l’alimentazione del popolo senza l’intervento di un potere centrale che, avendo il monopolio delle cose di prima necessità, diventerebbe il peggiore e più potente dei tiranni;
4. Provvedere all’armamento di tutta la popolazione: cosa indispensabile perchè se qualcuno (individuo, partito o classe) avesse il monopolio della forza armata, egli sarebbe in fin dei conti il dominatore di tutto e di tutti.
Il mio voto è che si lavori tutti alla soluzione - teorica e pratica - di questi problemi, senza escludere naturalmente gli altri cento problemi che altri potrà formulare.
Se potremo trovarci tutti d’accordo tanto meglio; e se no faccia ciascuno a suo modo tutto quello che può.
Il campo della lotta è immenso; c’è posto per tutte le buone volontà.

d. Il rovescio dela medaglia: l'attendismo dei compagni spagnoli72

Roma, 9giugno 1931

...In quanto alla corrispondenza dalla Spagna pare anche a me che quei compagni non si rendono un conto chiaro di quello che stanno facendo i governi di Madrid e di Barcellona, i quali, al pari d’ogni governo, cercano innanzi tutto di consolidarsi al potere appoggiandosi su vecchi e nuovi privilegi. Sorti da un movimento popolare debbono mostrarsi più liberali del regime decaduto, ma fatalmente, per necessità d’esistenza e per istinto di comando, faranno tutto il possibile per ostacolare lo sviluppo della rivoluzione.
Secondo me, bisognerebbe profittare di questi primi tempi di debolezza e di disorganizzazione governative, per strappare allo Stato ed al capitalismo il più che si può. Più tardi la Costituente ed il potere esecutivo cercheranno di ritogliere al popolo i vantaggi ottenuti, e non rispetteranno che quelle conquiste popolari che stimeranno troppo pericoloso attaccare.
Trovo veramente troppo esageratamente ottimista il dire che la "libertà politica non è limitata da nessuna autorità" quando sappiamo che la guardia civile (che corrisponde ai nostri carabinieri) e stata conservata e leggiamo che qua e là in tutta la Spagna, da Sevilla a San Sebastiano, si spara sulla folla e si proclamano stati d’assedio. Il fatto di aver permesso un comizio in un teatro di Barcellona prova solo che il governo non lo ha creduto pericoloso, o non si è sentito abbastanza forte per impedirlo.
Il compito dei rivoluzionari sarebbe quello di profittare della presente debolezza del governo per imporgli la dissoluzione dei corpi di polizia, l’armamento generale della popolazione, la demolizione del Castello di Montjuich, ecc.
Non sono poi nemmeno d’accordo con quei compagni dell’"Ufficio libertario di corrispondenza" nel pensare che la situazione, dal nostro punto di vista e per gli scopi nostri, sia più favorevole in Catalogna che nelle altre parti della Spagna.
Il proletariato catalano, secondo l’idea che me ne feci nelle due volte che sono stato in quei paesi, è il proletariato più cosciente, più serio, più avanzato che vi sia nel mondo. Metto quindi in lui le più grandi speranze; ma mi pare che se in Catalogna si può fare più facilmente che altrove una radicale rivoluzione politica, vi sono invece maggiori difficoltà per raggiungere l’emancipazione economica, senza la quale le libertà politiche finiscono col non contar nulla e sparire. E credo che la difficoltà viene proprio dal grande sviluppo industriale del paese.
A causa dell’industria la massa degli operai catalani si trova legata alla borghesia da una certa solidarietà d’interessi. Se cessa l’esportazione, se si disorganizza il commercio (e ciò non potrebbe non avvenire in caso di rivoluzione economica) l’operaio della città catalana resta senza lavoro e non mangia. Quindi una rivoluzione economica non si potrebbe fare che sopra vasta scala, quando il proletariato delle città e quello delle campagne di molta parte della Spagna agissero d’accordo. Con energia ed unione, gli operai catalani potrebbero, io credo, fin da ora costringere i padroni a dar lavoro a tutti (cioè a dividere fra tutti il lavoro che c’è), e pagare salari sufficienti per una vita decente; ma non potrebbero sopprimere completamente i padroni, i quali hanno in mano non solo gli strumenti di lavoro, che si possono toglier loro con facilità, ma anche l’organizzazione dello scambio colle altre regioni della Spagna e dell’estero, che è più difficile sostituire da un giorno all’altro.
Invece in altre regioni, e specialmente al Sud, in Andalusia, la situazione mi sembra più favorevole. Là la massa vive coi prodotti della campagna, e vive male perchè il più dei prodotti è portato via dai proprietari ed inoltre grandi estensioni di terre sono lasciate incolte. I lavoratori andalusi, che hanno spirito ribelle ed aspirano da secoli al possesso della terra, potrebbero occupare le terre incolte e coltivarle per loro conto, e nello stesso tempo impedire ai proprietari delle terre coltivabili di asportare e mandare via i prodotti. Sarebbe l’espropriazione pura e semplice, e non si avrebbe da resistere che ai tentativi di repressione militari, i quali sarebbero impotenti di fronte ad un movimento di una certa importanza.
Ma io parlo da lontano e posso facilmente sbagliarmi. In ogni modo mi pare che la situazione spagnuola presenta infinite possibilità e dà la speranza che il movimento possa svilupparsi e metter capo ad una vera rivoluzione sociale.
Io pagherei non so che per poter andare in Spagna e mi arrabbio per la mia impotenza. Sono sempre sotto gli occhi dei poliziotti e non posso fare un passo senza averli attorno...

Roma, 7 marzo 1932
...Sono stato quasi due mesi senza sapere nulla dalla Spagna. Solo da qualche giorno ricomincio a ricevere dei giornali di Spagna e vado apprendendo quello che è avvenuto in questi ultimi tempi. Peccato! quale situazione è stata sciupata! Ma forse c’è ancora da sperare.
Sono così incompletamente e male informato che non oso esprimere una opinione decisa sulla condotta dei compagni spagnoli: sono essi che stanno sul posto, sono essi che hanno la responsabilità morale e materiale, e quindi sono essi che debbono decidere. Nullameno mi pare di poter dire che gli anarchici ed i sindacalisti spagnoli non seppero profittare dell’occasione che offriva loro la rivoluzione del 14 aprile con il susseguente entusiasmo popolare. Secondo me fu un errore grandissimo il rimettersi a fare degli scioperi per limitati miglioramenti economici, come quelli che si fanno in tempi tranquilli. Quello era il tempo della lotta politica; non già s’intende nel senso in cui generalmente i compagni spagnoli prendono la parola politica; ma nel senso di lotta contro il potere politico. Bisognava armarsi, esigere la dissoluzione della Guardia Civica e degli altri corpi di polizia, obbligare i padroni (se per il momento non si poteva abolirli) a dar lavoro a tutti i disoccupati, ecc. In ogni modo, disertare le urne e restare in posizione d’aperta ostilità contro il Governo di Madrid e quello della Generalidad di Catalogna. E come sarebbe stato bello, almeno quale atto simbolico, la demolizione del Castello di Montjuich...

3. I PROBLEMI DELLA RICOSTRUZIONE

a. La nostra "mania ricostruttoria"73

...Ci si accusa di "mania ricostruttoria"; si dice che parlare di "indomani della rivoluzione", come facciamo noi, è una frase che non significa nulla perchè la rivoluzione è un profondo cambiamento di tutta la vita sociale, che è già cominciata e che durerà secoli e secoli.
Tutto questo è un semplice equivoco di parole. Se si piglia la rivoluzione in quel senso, essa è sinonimo di progresso, è sinonimo di vita storica, che attraverso mille vicende metterà capo, se i nostri desideri si realizzano, al trionfo totale dell’anarchia in tutto quanto il mondo. Ed in quel senso era un rivoluzionario Bovio e sono rivoluzionari anche Treves e Turati e magari lo stesso d’Aragona. Quando ci mettete di mezzo i secoli, ognuno vi concederà tutto quello che volete.
Ma quando noi parliamo di rivoluzione, quando di rivoluzione parla il popolo, come quando si parla di rivoluzione nella storia s’intende semplicemente insurrezione vittoriosa.
Le insurrezioni saranno necessarie fino a che vi saranno dei poteri che colla forza materiale costringeranno le masse all’obbedienza; ed è probabile, purtroppo, che di insurrezioni se ne dovranno fare parecchie prima che si sia conquistato quel minimo di condizioni indispensabili perchè sia possibile l’evoluzione libera e pacifica e l’umanità possa camminare senza lotte cruente ed inutili sofferenze verso i suoi alti destini.
Ma ora dobbiamo occuparci della prossima insurrezione, che come ogni insurrezione non potrà durare che un breve tempo, prepararci a quello che dobbiamo fare mentre essa dura e nel suo immediato indomani per trarne il massimo profitto possibile in favore dei nostri ideali.
Poichè non possiamo e non vogliamo imporre le nostre idee a nessuno ed in fin dei conti se la gente crede necessario un governo noi non possiamo impedire che se lo faccia e se lo goda, noi dobbiamo reclamare per noi e per coloro che riusciremo ad attirare nella nostra orbita, il diritto ai mezzi di lavoro e la piena libertà di non riconoscere il governo costituito; e questa libertà siamo disposti a difendere, potendo, anche colle armi.
Ma se non riconosciamo il governo bisogna pure che troviamo un modo di vivere per liberi accordi, senza governo, nonchè un modo per mantenere le necessarie relazioni economiche colle masse che ad un governo stanno sottoposte.
Noi abbiamo sempre reclamata la libertà di propaganda e di esperimentazione. Che cosa esperimenteremmo se non avessimo qualche idea concreta da mettere in pratica? Noi fidiamo per la propagazione delle nostre idee, in periodo insurrezionale e post-insurrezionale, sulla efficacia dell’esempio, ma quali esempi potremmo dare se non sapessimo che cosa fare? Se non riusciamo a vivere meglio degli altri, come potremmo sperare che le masse accettassero i metodi nostri? Se un governo intelligente, conoscendo la nostra incompetenza, la nostra impreparazione, ci facesse il tiro birbone di lasciarci per un momento la libertà che noi reclamiamo, che figura faremmo se non sapessimo come organizzare una vita sociale rispondente ai nostri ideali?
La nostra missione di anarchici, secondo alcuni, sarebbe solo quella di distruggere. Ma mentre distruggiamo dobbiamo pur vivere, cioè consumare; vorremo noi che gli altri lavorassero e producessero per provvedere ai nostri bisogni, mentre noi ci dedichiamo all’opera geniale del distruggere?
E poi, distruggere che cosa? Una volta distrutta la forza brutale che ci opprime, non si distrugge più se non quello che si sostituisce con qualche cosa di meglio.
Io non credo negli schemi logici, direi quasi nelle fantasticherie storico-filosofiche di Vico e di Ferrari, le quali del resto non si applicano realmente che alle forme più appariscenti, ma meno sostanziali della vita sociale. Non v’è generazioni che distruggono e generazioni che edificano. La vita è un tutto inscindibile, e la distruzione e la creazione sono atti contemporanei. Vi sono soltanto periodi in cui si crea e si distrugge rapidamente, ed altri in cui si crea e si distrugge meno rapidamente...

b. Lo sviluppo delle idee e la loro applicazione alle attuali contingenze74

Ho l’impressione, sia per quello che appare nei vani nostri periodici in Italia e fuori, sia per quello che i compagni ci mandano e che resta in gran parte impubblicato per mancanza di spazio o per soverchia insufficienza di composizione, ho l’impressione, dico, che non siamo ancora riusciti a far comprendere a tutti gli scopi che ci proponiamo con questa pubblicazione.
V’è infatti chi, interpretando a modo suo il nostro espresso desiderio di praticità e di realizzazione, crede che noi intendiamo "iniziare un processo revisionista dei valori dell’anarchismo teorico" e, secondo le proprie tendenze e le proprie preferenze teme, o spera, che noi si voglia rinunziare, in pratica, se non in teoria, alle nostre concezioni rigorosamente anarchiche.
Non v’è da tanto.
In realtà noi non crediamo, come qualcuno ci ha fatto dire, che vi sia "antinomia tra teoria e pratica". Crediamo invece che in generale la teoria è vera solo se è confermata dalla pratica, e che nel caso nostro se non si può fare subito l’anarchia non è già per deficienza della teoria, ma perchè non tutti sono anarchici, e gli anarchici non hanno ancora la forza di conquistare almeno la loro libertà e di imporne il rispetto.
Insomma noi restiamo fermi nelle idee che fin dall’origine sono state l’anima del movimento anarchico e non abbiamo proprio nulla da rinnegare. Diciamo questo non a titolo di merito, poichè se credessimo di essere nel passato caduti in errore sentiremmo il dovere di confessarlo e di correggerci; ma lo diciamo perchè è un fatto. E chi conosce gli scritti di propaganda sparsi un po’ dappertutto dai fondatori di questa rivista ben difficilmente riuscirebbe a trovare una sola contraddizione tra quello che diciamo ora e quello che dicevamo già più di cinquant’anni or sono.
Non è dunque di "revisione" che si tratta, ma di sviluppo delle idee e della loro applicazione alle contingenze attuali.
Quando le idee anarchiche erano una novità che meravigliava e sbalordiva e non si poteva che far la propaganda in vista di un lontano avvenire e gli stessi tentativi insurrezionali ed i processi volontariamente provocati ed affrontati non servivano che a richiamare l’attenzione pubblica a scopo di propaganda, poteva bastare la critica della società attuale e l’esposizione dell’ideale a cui si aspirava. Anche le questioni di tattica non erano in fondo che questioni sui mezzi migliori per propagare le idee e preparare gl’individui e le masse alle agognate trasformazioni.
Ma oggi i tempi sono più maturi, le circostanze sono cambiate, e tutto fa credere che, in un tempo che potrebbe essere imminente ma che certo non è molto lontano, ci troveremo nella possibilità e nella necessità di applicare le teorie ai fatti reali e mostrare che non solo abbiamo più ragione degli altri per la superiorità del nostro ideale di libertà, ma anche perchè le nostre idee ed i nostri metodi sono i più pratici per il raggiungimento del massimo di libertà e di benessere possibile allo stato attuale della civilizzazione.
La stessa reazione imperversante e trepida mantiene il paese in uno stato di equilibrio instabile che lascia aperta la via a tutte le speranze come a tutte le catastrofi. E gli anarchici possono da un momento all’altro esser chiamati a mostrare il loro valore e ad esercitare sugli avvenimenti una pressione che potrà a prima giunta non essere preponderante, ma che sarà tanto più grande quanto maggiore sarà il loro numero e la loro capacità morale e tecnica.
Necessità quindi di approfittare di questo periodo transitorio, che non può essere se non di calma preparazione, per mettere insieme il più possibile di forze morali e materiali e tenersi pronti per tutto quello che potrà avvenire.
Il fatto che non bisogna perder di vista è questo: noi siamo una minoranza relativamente piccola, e resteremo tale fino al giorno in cui un cambiamento nelle circostanze esteriori - condizioni economiche migliorate e libertà aumentata - non metterà le masse in condizioni di potere meglio comprenderci e noi in posizione di potere esplicare praticamente l’opera nostra.
Ora, le condizioni economiche non miglioreranno sensibilmente e stabilmente e la libertà non aumenterà seriamente fino a che vigerà il sistema capitalistico e l’organizzazione statale che sta a difesa del privilegio. Quindi il giorno in cui per cause che sfuggono in gran parte alla nostra volontà ma che esistono e dovranno produrre i loro effetti, l’equilibrio sarà rotto e scoppierà la rivoluzione, noi ci troveremo come ora in esigua minoranza tra le varie forze in conflitto.
Che cosa dovremo fare?
Disinteressarsi del movimento sarebbe un suicidio morale per ora e per sempre, poichè senza l’opera nostra, senza l’opera di quelli che vogliono spingere la rivoluzione fino alla trasformazione totale di tutti gli ordinamenti sociali, fino all’abolizione di tutti i privilegi di tutte le autorità, la rivoluzione finirebbe senza aver nulla trasformato d’essenziale, e noi ci troveremmo nelle stesse condizioni d’ora. In un’altra futura rivoluzione saremmo sempre piccola minoranza e dovremmo ancora disinteressarci del movimento, e cioè rinunziare alla ragione stessa della nostra esistenza che è quella di combattere sempre per la diminuzione (fino a che non si potrà conseguire l’abolizione completa) dell’autorità e del privilegio - almeno per noi che crediamo che la propaganda, l’educazione non possa, in ogni dato ambiente sociale, che raggiungere un numero limitato d’individui, e che occorre cambiare le condizioni ambientali prima che sia possibile l’elevazione morale di un nuovo strato d’individui.
Che fare dunque?
Provocare, se ci è possibile, noi stessi il movimento, parteciparvi in ogni modo con tutte le nostre forze, imprimervi il carattere più libertario e più egualitario che per noi si potrà, appoggiare tutte le forze di progresso, difendere il meglio quando non si può raggiungere l’ottimo; ma conservare sempre ben distinto il nostro carattere di anarchici che non vogliono il potere, e mal sopportano che altri lo prenda.
V’è tra gli anarchici - noi diremmo tra sedicenti anarchici - chi pensa che, non essendo le masse capaci ora di organizzarsi anarchicamente e di difendere la rivoluzione con metodi anarchici, dovremmo noi stessi impossessarci del potere ed "imporre l’anarchia con la forza". (La frase, come sanno i nostri lettori, è stata pronunziata letteralmente, in tutta la sua crudezza).
Io non starò a ripetere qui che chi crede nella potenza educativa della forza brutale e nella libertà promossa e sviluppata per opera dei governi, può essere tutto quello che vuole, potrebbe anche aver ragione contro di noi, ma certamente non può dirsi anarchico se non mentendo a se stesso ed agli altri...

e. Il pericolo dell'interruzione rivoluzionaria75

A proposito della recensione ch’io feci nel numero 9 di "Pensiero e Volontà" del libro di Galleani La fine dell’anarchismo? il compagno Benigno Bianchi mi scrive:
"Credo che non ti rincrescerà se ti scrivo per richiamare la tua attenzione su un tuo periodo che potrebbe provocare malintesi incresciosi. Intendo parlare del secondo capoverso delle parole del Galleani riportate nel tuo articolo.
"In detto passo il Galleani dice della necessità di sgombrare ai nepoti il terreno dai pregiudizi, dai privilegi, dalle chiese, dalle galere, dalle caserme, dai lupanari, ecc. È perciò necessario distruggere e non costruire.
"Tu rispondi candidamente che sarebbe ridicolo, e mortale se si facesse davvero, il voler distruggere tutti i forni malsani, tutti i mulini anti-economici, tutte le culture arretrate rimettendo ai posteri la cura di cercare ed applicare metodi migliori per coltivare il grano, per fare la farina e cuocere il pane.
"O buon Errico, il cuocere il pane, in un modo o nell’altro è indispensabile, come è necessario coltivare il grano e macinarlo ed il voler distruggere questi mezzi come altri consimili, più che l’essere ridicolo è vera pazzia!
"Quindi queste cose si rinnoveranno, si trasformeranno si perfezioneranno; ma non vorrai mica rinnovare e perfezionare le galere, le chiese, le caserme, i lupanari e nemmeno i monopoli ed i privilegi di cui parlava il Galleani.
"A me pare che il paragone non regga e conseguentemente cade tutto l’ordito dell’articolo critico in parola. La serietà della Rivista e l’autorità della tua parola mal sopportano questi stiracchiamenti polemici".

Naturalmente le osservazioni del compagno Bianchi non mi rincrescono punto. Al contrario, io la ringrazio di avermi fornito l’occasione di ritornare sopra una questione ch’io considero di vitale importanza per lo sviluppo e la riuscita del nostro movimento.
Lasciamo da parte Galleani. Se l’ho male interpretato egli può dirlo meglio di chiunque altro, ed io sono sempre pronto a fare ammenda. Discutiamo l’argomento in sè.
L’esempio del pane da me citato pare al Bianchi uno stiracchiamento polemico: a me invece sembra calzante. Io ho l’abitudine (non so se è un pregio o un difetto) di cercare sempre esempi elementari, semplici, direi anche grossolani, perchè essi scartano tutti gli artifici retorici e mettono a nudo il nocciolo delle questioni.
I mezzi per fare il pane sono indispensabili, quindi, dice il Bianchi, sarebbe pazzia pensare alla loro distruzione anzichè al loro perfezionamento. Ma il pane non è la sola cosa indispensabile - io dico anzi che sarebbe molto difficile trovare una qualsiasi istituzione attuale, anche fra le peggiori, anche le galere, i lupanari, le caserme, i privilegi, i monopoli, che non risponda direttamente o indirettamente ad un bisogno sociale e che sia possibile distruggere realmente e permanentemente se non si sostituisce con qualche cosa che soddisfi meglio il bisogno che l’ha generata.
Non mi domandate, diceva un compagno, che cosa sostituiremo al colera: questo è un male, ed il male bisogna distruggerlo e non sostituirlo. È vero, ma il guaio è che il colera perdura e ritorna se non si sostituiscono condizioni igieniche migliori a quelle che permettono il sorgere ed il propagarsi dell’infezione.
Il pane è una cosa necessaria, siamo d’accordo. Ma la questione del pane è più complessa di quello che può sembrare a chi vive in un piccolo centro agricolo e magari produce egli stesso il grano necessario alla sua famiglia. Fornire il pane a tutti e un problema che abbraccia tutta quanta l’organizzazione sociale; il modo di possedere e di lavorare la terra, i mezzi di scambio, i trasporti, l’importazione del grano se quello che si produce nel paese è insufficiente, la distribuzione tra i vari centri abitati e poscia tra i singoli consumatori; vale a dire implica le soluzioni da dare alle questioni della proprietà, del valore, della moneta, del commercio, ecc. Oggi la produzione e la distribuzione del pane si fa in modo che i lavoratori restano sfruttati ed umiliati, i consumatori restano derubati, e a spese dei produttori e dei consumatori prospera tutto un esercito di parassiti. Noi vogliamo invece che il pane si produca e si distribuisca per il maggior bene di tutti, senza sciupio di forze e di materiale, senza oppressione di alcuno, senza parassitismi, con giustizia e con bontà; e dobbiamo cercare il modo di realizzare la nostra aspirazione o quanto più è possibile, in un dato momento, di quella nostra aspirazione i nipoti faranno certamente meglio di noi; ma noi dobbiamo fare come sappiamo e possiamo - e farlo subito, il giorno stesso della crisi, poichè, se per l’interruzione del servizio ferroviario, o le manovre dei padroni mugnai e fornai, o l’occultamento del prodotti, i grandi centri venissero a mancare di pane (e altre cose di prima necessità) la rivoluzione sarebbe perduta e trionferebbe la reazione sotto forma di restaurazione, e sotto forma di dittatura.
Distruggiamo i monopoli, d’accordo. Ma i monopoli, quando non siano quelli dei bottoncini da camicia o del rossetto per le labbra di certe signorine, i grossi monopoli (acqua, elettricità, carbone, trasporti di terra e di mare, ecc.) rispondono sempre ad un servizio pubblico necessario; e non si distruggono quei monopoli, o se ne produce il sollecito ritorno, se nell’atto stesso che si mandano via i monopolisti non si continua il servizio e, possibilmente, in modo migliore di quello che avveniva sotto di loro.
Bisogna abolire le galere, questi tetri luoghi di pena e di corruzione dove, mentre i detenuti gemono, i guardiani si fanno il cuore duro e diventano peggiori dei guardati: d’accordo. Ma quando si scopre un satiro che stupra e strazia dei corpicini di povere bimbe bisogna pur provvedere a metterlo in stato di non poter nuocere, se non si vuole ch’egli faccia altre vittime e finisca poi coll’essere linciato dalla folla. Ci penseranno i futuri? No, dobbiamo pensarci noi, perchè questi fatti avvengono oggi Nel futuro, speriamo, i progressi della scienza ed il mutato ambiente sociale avranno rese impossibili quelle mostruosità.
Distruggere i lupanari, questa turpe vergogna umana, vergogna più per chi ne sta fuori che per le disgraziate che vi stanno dentro: certamente. Ma il lupanare si riformerà subito, pubblico o clandestino, sempre che vi saranno donne che non trovano lavoro adatto e vita conveniente. Quindi necessità di un’organizzazione del lavoro in cui vi sia posto per tutti, e un’organizzazione del consumo in modo che tutti possano soddisfare i loro bisogni.
Abolire il gendarme, quest’uomo che protegge con la forza tutti i privilegi ed è il simbolo vivente dello Stato: d’accordissimo. Ma per potere abolirlo permanentemente e non vederlo ricomparire sotto altro nome ed altra uniforme, occorre saper vivere senza di esso, cioè senza violenza, senza sopraffazioni senza ingiustizie, senza privilegi.
Abolire l’ignoranza: d’accordo. Ma evidentemente bisogna prima istruire ed educare, e prima ancora creare condizioni sociali, che permettano a tutti di profittare dell’educazione e dell’istruzione.
"Lasciare ai nepoti una terra senza privilegi, senza chiese, senza tribunali, senza lupanari, senza caserme, senza ignoranza, senza stolide paure". Sì, questo è il nostro sogno e per realizzare questo sogno noi combattiamo. Ma questo significa lasciar loro una nuova organizzazione sociale, nuove e migliori condizioni morali e materiali. Non si può sgomberare il terreno e lasciarlo nudo, se su di esso debbono vivere degli uomini: non si può distruggere il male senza sostituirvi il bene, o almeno qualche cosa che sia meno male.
Non si tratta d’imporre niente ai nepoti. È da sperare, ripeto, ch’essi faranno meglio di noi; ma noi dobbiamo fare oggi quel che sappiamo e possiamo, per vivere noi, e per lasciare ai nepoti qualche cosa di più che belle parole e vaporose aspirazioni.
È uno stato d’animo che, malgrado molta propaganda in contrario, persiste ancora in parecchi compagni e che, secondo me, sarebbe urgente cambiare.
La convinzione, che è anche la mia, della necessità di una rivoluzione per eliminare le forze materiali che stanno a difendere il privilegio e ad impedire ogni reale progresso sociale, ha fatto sì che molti han dato importanza esclusiva al fatto insurrezionale senza pensare a quello che bisogna fare perchè una insurrezione non resti uno sterile atto di violenza a cui poi verrebbe a rispondere un altro atto di violenza reazionaria. Per questi compagni tutte le questioni pratiche, le questioni di organizzazione, il modo di provvedere al pane quotidiano sono oggi questioni oziose: sono cose, essi dicono che si risolveranno da sè, o le risolveranno i posteri.
Ricordo il 1920, quando ero incaricato della direzione di "Umanità Nova". Era l’epoca in cui i socialisti cercavano d’impedire la rivoluzione, e purtroppo vi riuscirono, dicendo che, in caso di movimento insurrezionale, le comunicazioni coll’estero sarebbero interrotte e che saremmo morti tutti di fame per mancanza di grano: vi fu perfino chi disse che la rivoluzione non si poteva fare perchè in Italia non si produce caucciù! Io, preoccupato della questione essenziale dell’alimentazione e convinto che la deficienza di grano si poteva compensare utilizzando tutte le terre disponibili per la cultura di piante e semi nutritivi a rapido sviluppo, pregai il nostro compagno dottor Giovanni Rossi, agronomo provetto, di scrivere una serie di articoli con nozioni pratiche di agricoltura dirette appunto allo scopo che avevamo in vista. Il Rossi gentilmente lo fece. Era cosa evidentemente utilissima ma era cosa pratica e perciò non piacque a tutti. Vi fu un compagno, irritato perchè io gli avevo rifiutato l’inserzione non so più se di una poesia o di una novella, il quale mi disse bruscamente: "Già, tu preferisci che in "Umanità Nova" si parli di aratri, di fagioli, di cavoli e simili sciocchezze!"
Ed un altro compagno, che la pretendeva allora a superanarchico, tirava incoscientemente la conseguenza logica di quello stato d’animo. Messo colle spalle al muro in una discussione, come quella che facciamo adesso mi rispose: "Ma queste sono cose che non mi riguardano. A provvedere il pane ed il resto ci debbono pensare i dirigenti".
E la conclusione è proprio questa: o alla riorganizzazione sociale ci pensiamo tutti, ci pensano i lavoratori da loro stessi e ci pensano subito, mano mano che vanno distruggendo il vecchio, e si avrà una società più umana, più giusta, più aperta ai progressi futuri; o ci penseranno "i dirigenti" e avremo un nuovo governo, che farà quello che han fatto sempre i governi, cioè farà pagare alla massa gli scarsi e cattivi servizi che rende, togliendole la libertà e lasciandola sfruttare da parassiti e privilegiati di tutte le specie.

d. La sicurezza pubblica76

Il mio articolo del n. 10 Demoliamo e poi? ha lasciato perplesso qualche compagno, forse perchè scuoteva delle vecchie abitudini mentali, o forse piuttosto perchè io non sviluppai abbastanza il mio pensiero e riuscii oscuro.
Cercherò di spiegarmi meglio.
C’è, per esempio, il compagno Salvatore Carrone il quale immagina nientedimeno! ch’io, dopo o durante la rivoluzione, vorrei conservare provvisoriamente gendarmi, tribunali, galere, e tutto l’apparato repressivo dello Stato; e getta il suo grido d’allarme contro questo che ci lascerebbe nel circolo vizioso: la reazione che provoca la rivoluzione e la rivoluzione che sbocca in una nuova reazione. E giustamente osserva che "la rivoluzione può essere guidata da uomini di cuore, di buon senso e volenterosi di fare il bene, ma a poco a poco attorno a questi buoni s’infiltrano torbidi elementi che avendo una vasta rete d’accoliti sparsi nella nazione, accerchiano i buoni e fatalmente li spodestano, o questi per reggersi al potere tradiscono la rivoluzione, adoperando per la bisogna appunto il gendarme, e il tribunale coi suoi accessori".
Perfettamente d’accordo, ed io non ho mai detto cosa diversa.
Io dico che per abolire il gendarme e tutte le istituzioni sociali malefiche bisogna sapere che cosa vogliamo sostituirvi, non in un domani più o meno lontano, ma subito, il giorno stesso della demolizione. Non si distrugge, realmente e permanentemente, se non quello che si sostituisce; e rimandare a più tardi la soluzione dei problemi che si presentano coll’urgenza della necessità sarebbe dare alle istituzioni che si pretende abolire il tempo di rifarsi della scossa ricevuta ed imporsi di nuovo, forse con altri nomi, ma certo colla stessa sostanza.
Le nostre soluzioni potranno essere accettate da una parte sufficiente della popolazione ed avremo fatto l’anarchia, o un passo verso l’anarchia; o potranno non essere comprese ed accettate e allora la nostra opera servirà per propaganda, e poserà innanzi al grande pubblico il programma del prossimo avvenire. Ma in ogni caso delle soluzioni nostre dobbiamo averle: soluzioni provvisorie, rivedibili, e correggibili sempre al lume dell’esperienza, ma necessarie se non vogliamo subire passivamente le soluzioni degli altri, limitandoci alla poco proficua funzione dì brontoloni incapaci ed impotenti.
A proposito di gendarmi io citavo il caso del satiro e dicevo della necessità di provvedere a metterlo nell’impossibilità di nuocere.
Il Carrone sembra propendere per il linciaggio. È una soluzione primitiva, selvaggia, che ripugna alla mentalità moderna, ma è una soluzione; e varrebbe sempre meglio che la beata fiducia che quelle cose, fatta la rivoluzione, non avverranno più, o il magro espediente di rimandare il problema ai nepoti. Senonchè avverrebbe come è sempre avvenuto in casi simili (ed anche recentemente a Roma ed altrove) che la folla irritata, commossa, non sapendo con chi prendersela, si scagli chi sa su quanti poveri diavoli indicati al suo furore da donne rese isteriche dallo sdegno e dalla paura. E allora la gente calma invocherebbe l’intervento della polizia, di una qualsiasi polizia professionale... che a sua volta molesterebbe molti innocenti e d’abitudine non riuscirebbe a trovare il colpevole.
Che cosa bisognerebbe dunque fare?
Persuadere la gente che la sicurezza pubblica, la difesa della incolumità e della libertà di ciascuno deve essere affidata a tutti; che tutti debbono vigilare, che tutti debbono mettere all’indice il prepotente ed intervenire in difesa del debole, che i compaesani, i vicini, i compagni di lavoro debbono all’occorrenza farsi giudici e, nei casi estremi, come quello in discussione, affidare chi è riconosciuto colpevole alla custodia ed alla cura di un manicomio, aperto sempre al controllo del pubblico. Ed in ogni caso evitare che la difesa contro i delinquenti diventi una professione e serva di pretesto alla costituzione di tribunali permanenti e di corpi armati, che diventerebbero presto strumenti di tirannide.
Ma insomma questa della delinquenza non è che una questione secondaria, per quanto sia la prima che si affaccia alla mente di coloro a cui si parla per la prima volta dell’inutilità e della nocuità del governo. Nessuno pretenderà che qualche satiro o qualche prepotente sanguinano possano arrestare il corso della rivoluzione!
L’importante, l’immediatamente urgente è l’organizzazione della vita materiale, la soddisfazione cioè dei bisogni primordiali ed il lavoro che a quei bisogni deve provvedere. Poichè quello che non riusciremo noi a fare ed a far fare con metodi nostri sarà fatto necessariamente da altri con metodi autoritari.
L’anarchia non si realizzerà se non quando si saprà vivere senza autorità, ed in quelle proporzioni in cui si riuscirà a fare a meno dell’autorità.
Ma ciò non vuoi dire che bisogna, come il Carrone pensa o crede ch’io pensi, "aiutare in caso di rivoluzione il partito più affine colla speranza che questo faccia meno reazione durante l’opera nostra di sostituire il bene al male".
Noi possiamo avere rapporti di cooperazione coi partiti non anarchici finché abbiamo con loro un nemico comune da combattere e che non potremmo abbattere da soli; ma dal momento che un partito va al potere e diventa governo, noi non possiamo avere con lui che rapporti di nemico a nemico.
Certamente noi abbiamo interesse, finchè esiste un governo, che questo sia il meno oppressivo, cioè il meno governo possibile. Ma la libertà, anche una libertà relativa, non si ottiene da un governo aiutandolo. Si ottiene solo facendogli sentire il pericolo di troppo comprimere.

4. IL RUOLO DEL MOVIMENTO ANARCHICO

a. Revisionismo anarchico?77

...Premetto che di "atti di contrizione" non ne ho fatto alcuno. Io potrei facilmente documentare che quello che dico adesso sono andato dicendolo da anni; e se ora v’insisto di più ed altri vi fa più attenzione di prima si è perchè i tempi sono più maturi, in quanto l’esperienza ha persuasi molti, i quali prima si pascevano di quel beato ottimismo kropotkiniano, che io solevo chiamare "provvidenzialismo ateo", a scendere dalle nuvole e tener calcolo delle cose quali sono, tanto differenti da quelle che si vorrebbe che fossero.
Ma lasciamo questi ricordi storici d’interesse personale, e veniamo alla questione generale ed attuale.
Noi di questa rivista, al pari di altri compagni in altre pubblicazioni nostre, non abbiamo per nulla preteso di avere bella e pronta la soluzione infallibile ed universale di tutti i problemi che ci si affacciano alla mente; ma, riconosciuta la necessità di un programma pratico, adattabile alle varie circostanze che possono presentarsi nello svolgersi della vita sociale prima, durante e dopo la rivoluzione, abbiamo invitato tutti i compagni che hanno delle idee da esporre e delle proposte da fare a concorrere alla elaborazione di detto programma. Quindi, quelli che trovano che tutto è andato bene finora e che bisogna continuare come per il passato, non hanno che da difendere il loro punto di vista; mentre gli altri che d’accordo con noi pensano che bisogna prepararsi intellettualmente e materialmente alla funzione pratica spettante agli anarchici, anzichè aspettare passivamente il verbo nostro dovrebbero cercare di dare essi stessi il loro contributo al dibattito che li interessa.
Per conto mio, io credo che non vi sia "una soluzione" ai problemi sociali, ma mille soluzioni diverse e variabili, come è diversa e variabile, nel tempo e nello spazio, la vita sociale.
In fondo, tutte le intuizioni, tutti i progetti, tutte le utopie sarebbero egualmente buone a risolvere il problema, cioè a contentar la gente, se tutti gli uomini avessero gli stessi desideri e le stesse opinioni e si trovassero nelle stesse condizioni. Ma questa unanimità di pensiero e questa identità di condizioni sono impossibili e a dir vero non sarebbero nemmeno desiderabili; e perciò nella nostra condotta attuale e nel nostro progetto d’avvenire dobbiamo tener presente che non viviamo, e non vivremo neppure domani in un mondo popolato da soli anarchici: invece siamo e saremo ancora per lungo tempo una minoranza relativamente piccola. Isolarsi non è generalmente possibile, e qualora lo fosse sarebbe a detrimento della missione che ci siamo dati, nonchè del nostro benessere personale. Bisogna dunque trovare il modo di vivere in mezzo ai non anarchici nel modo il più anarchico possibile e con il maggior vantaggio possibile per la propaganda e per l’attuazione delle nostre idee.
Noi vogliamo fare la rivoluzione, perchè crediamo nella necessità di un cambiamento radicale, che non può essere pacifico a causa della resistenza dei poteri costituiti, negli ordinamenti politici ed economici vigenti per creare un nuovo ambiente sociale che renda possibile quell’elevamento morale e materiale delle masse che la propaganda, l’educazione, è impotente a produrre nelle circostanze attuali, ma non potremmo fare una rivoluzione esclusivamente "nostra" appunto perchè siamo piccola minoranza, perchè non abbiamo il consenso delle masse e non vorremmo, anche potendolo, imporre con la forza la volontà nostra per non andare contro i fini che ci proponiamo. Dunque, per uscire dal circolo vizioso, dobbiamo contentarci di fare una rivoluzione il più "nostra" che sia possibile, favorendo e partecipando, moralmente e materialmente, ad ogni movimento diretto nel senso della giustizia e della libertà e maggiore giustizia. E questo non significa "accodarci" agli altri partiti, ma spingerli avanti e mettere le masse in presenza dei vari metodi affinché possano giudicare e scegliere. Potremo essere abbandonati, traditi, come ci è avvenuto altre volte; ma bisogna ben correrne il rischio se non si vuoi restare praticamente inattivi e rinunziare ad apportare la forza delle nostre idee e della nostra azione nel corso della storia.
Altra osservazione... Il socialismo nel senso largo; della parola, l’aspirazione al socialismo si presenta quale problema di distribuzione in quanto è lo spettacolo della miseria dei lavoratori di fronte all’agiatezza ed al lusso dei parassiti e la rivolta morale contro la patente ingiustizia sociale che hanno spinto i sofferenti e tutti gli uomini di cuore a ricercare ed immaginare dei modi migliori di convivenza sociale. Ma la realizzazione del socialismo - sia esso anarchico o autoritario, mutualista o individualista, ecc. - è eminentemente problema di produzione. Quando la roba non c’è, è vano cercare il miglior modo di distribuirla, e se gli uomini sono ridotti a contendersi il tozzo di pane, i sentimenti di amore e di fratellanza si trovano in gran pericolo di cedere il passo alla lotta brutale per la vita.
Oggi fortunatamente i mezzi di produzione abbondano. La meccanica, la chimica, l’agraria, ecc, hanno centuplicata la potenza produttiva del lavoro umano. Ma bisogna lavorare, e per lavorare utilmente bisogna sapere: sapere come si deve lavorare e come si può economicamente organizzare il lavoro.
Se gli anarchici vogliono agire efficacemente fra la concorrenza dei diversi partiti bisogna che si approfondiscano, ciascuno nel ramo in cui si sente più adatto, nello studio di tutti i problemi teorici e pratici del lavoro utile.
Ancora. Noi non siamo più in tempi ed in paesi in cui bastava ad una famiglia un pezzo di terra, una vanga, un pugno di semi, una vacca ed un po’ di galline per vivere soddisfatta. Oggi i bisogni si sono moltiplicati e complicati in modo enorme. L’ineguale distribuzione naturale delle materie prime obbliga ogni agglomerazione d’uomini ad avere rapporti internazionali. La stessa densità della popolazione rende, nonchè miserabile, assolutamente impossibile la vita dell’eremita, se fossero molti ad avere di quei gusti.
Noi abbiamo bisogno di ricevere i prodotti di tutto il globo, noi vogliamo la scuola, la ferrovia, la posta, il telegrafo, il teatro, la pubblica igiene, il libro, il giornale, ecc.
Tutto questo, che è il frutto della civiltà, bene o male funziona: funziona a vantaggio principalmente delle classi privilegiate, ma funziona; ed i benefici possono con relativa facilità essere estesi a tutti, quando fosse abolito il monopolio della ricchezza e del potere.
Vogliamo noi distruggerlo?
O siamo in grado di organizzarlo subito in modo migliore?
La vita sociale, specialmente la vita economica non ammette interruzione. Bisogna mangiare ogni giorno, bisogna ogni giorno alimentare i fanciulli, i malati, gl’impotenti; e vi sarebbe anche chi dopo aver fatto le schioppettate durante la giornata vorrebbe la sera andare al cinema. Per provvedere a questi bisogni improrogabili - lasciamo stare il cinema - vi è tutta un’organizzazione commerciale, che compie male, ma in qualche modo compie la sua funzione. Bisogna evidentemente utilizzarla, togliendole quanto più è possibile del suo carattere sfruttatore ed accaparratore.
È tempo di finirla con quella retorica - poichè non si tratta che di retorica - che voleva compendiare tutto il programma anarchico nel famoso "demoliamo".
Demoliamo, sì, o cerchiamo di demolire, ogni tirannia, ogni privilegio. Ricordiamoci però, che governo e capitalismo sono solamente delle superstrutture che tendono a restringere i benefizi della civiltà ad un piccolo numero d’individui, e che per abolirli non occorre rinunziare a nessuno dei prodotti dell’ingegno e del lavoro umano. E quindi è ben più quello che bisogna conservare di quello che bisogna distruggere.
In quanto a noi non dobbiamo distruggere se non quello che possiamo sostituire con cosa migliore. Ed intanto lavorare in tutti i rami per migliorarci e migliorare: rifiutandoci s’intende ad accettare ed esercitare qualunque funzione coercitiva.
Ho gettato giù qualche osservazione. Altre ne farò quando capiterà l’occasione.
I compagni le tengano nel conto che credono, e se pare loro che ne valga la pena, ne facciano argomento di discussione.
Ma per carità, non aspettino da noi la formula magica.
Noi non siamo e non vogliamo parere dei padri eterni.

b. La funzione degli anarchici78

Vi è in una sezione del nostro movimento un gran fervore di discussioni sui problemi pratici che la rivoluzione dovrà risolvere.
Ed è questo un gran bene e di ottimo augurio, anche se le soluzioni proposte finora non sono nè abbondanti nè soddisfacenti.
È passato il tempo in cui si pensava che l’insurrezione bastasse a tutto, e che una volta vinti l’esercito e la polizia ed abbattuti tutti i poteri costituiti, il resto, che era poi l’essenziale, verrebbe da sè.
Siamo dunque d’accordo nel pensare che oltre il problema di assicurare la vittoria contro le forze materiali dell’avversario vi è anche il problema di far vivere la rivoluzione dopo la vittoria. Siamo d’accordo che una rivoluzione la quale producesse il caos non sarebbe vitale.
Ma non bisogna esagerare: non bisogna credere che noi si debba e si possa fin d’ora trovare una soluzione ideale per tutti i possibili problemi. Non bisogna voler troppo prevedere e troppo determinare, altrimenti invece di preparare l’anarchia faremmo dei sogni irrealizzabili oppure cadremmo nell’autoritarismo e, coscientemente o no, ci proporremmo di agire come un governo che in nome della libertà e della volontà popolare sottopone il popolo al proprio dominio.
Mi accade infatti di leggere le più strane cose: strane se si considera che sono scritte da anarchici.
Un compagno, ad esempio, dice che "le folle avrebbero ragione d’inveire contro di noi se dopo di averle invitate ai dolorosissimi sacrifici di una rivoluzione si dicesse loro: fate ciò che la volontà vi suggerisce, raggruppatevi, producete convivete come meglio vi aggrada".
Ma come! non abbiamo noi sempre detto alle folle che non debbono aspettarsi il bene nè da noi nè da altri, che il bene debbono conquistarselo da loro stesse e che avranno solo quello che sapranno prendere e conserveranno solo quello che sapranno difendere? È giusto e naturale che noi, iniziatori e propulsori e parte della massa noi stessi, dobbiamo cercare di spingere il movimento nella direzione che ci sembra migliore e perciò essere preparati il più possibile per le cose che si debbono fare, ma resta sempre fondamentale il principio che la decisione spetta alla libera volontà degli interessati.
Leggo pure: "Creeremo un regime che se non sia del tutto libertario abbia l’impronta nostra e soprattutto dia adito alla progressiva attuazione dei nostri postulati".
Che cosa è questo? Un piccolo governo, bono bono, che avrà cura di suicidarsi al più presto per far luogo all’anarchia!!!
Ma non eravamo già d’accordo nel pensare che ogni governo ha tendenza non a suicidarsi, ma a perpetuarsi e diventare sempre più dispotico, e che missione degli anarchici è quella di combattere, anche se obbligati a subirlo, qualunque regime non fondato sulla libertà piena e intera? E non dicevamo anche che gli anarchici al potere non potrebbero fare diversamente dagli altri?
Un altro compagno, tra quelli che più si preoccupano della necessità di avere un "piano" e che in sostanza non spera che nei sindacati operai, dice:
"A rivoluzione trionfata, si affidi alla classe lavoratrice - già da noi precedentemente educata a questa grande funzione sociale - la gestione di tutti i mezzi di produzione, di trasporto, di scambio, ecc.".
Già da noi precedentemente educata a questa grande funzione sociale! Ma tra quanti secoli quel compagno vuol fare la invocata rivoluzione? E almeno bastassero i secoli! Ma il fatto è che non si educa la massa se essa non si trova nella possibilità e nella necessità di fare da sè, e che l’organizzazione rivoluzionaria dei lavoratori, utile e necessaria finchè si vuole, non può estendersi e durare indefinitamente: arrivata ad un certo punto, se non sbocca nell’azione rivoluzionaria, o il governo la strozza, o essa da se stessa si corrompe o si sfascia - e bisogna ricominciare da capo.
Come è vero che gli uomini "pratici" sono spesso i più ingenui utopisti!
Ma tutta questa discussione non saprebbe forse alquanto di accademia se nel caso concreto si trattasse di un paese in cui la libera organizzazione dei lavoratori è distrutta ed interdetta, la libertà di stampa, di riunione, di associazione soppresse ed i propagandisti anarchici, socialisti, comunisti, repubblicani sono o rifugiati all’estero, o relegati nelle isole, o chiusi in prigione, o messi altrimenti in condizioni di non poter nè parlare, nè muoversi e quasi neppure respirare?
Si può ragionevolmente sperare che il prossimo rivolgimento, in un paese ridotto nelle condizioni descritte, sarà la rivoluzione sociale in tutto il senso ampio e profondo che noi diamo alla parola? Non sembra che oggi il possibile e l’urgente sia piuttosto la riconquista delle condizioni necessarie alla propaganda e all’organizzazione?
A me sembra che la ragione per cui si veggono tante difficoltà e si cade in tante incertezze e contraddizioni si è che o si vuole fare l’anarchia senza anarchici, o perchè si crede che la propaganda basti a convertire all’anarchia tutta o gran parte della popolazione prima che le condizioni ambientali siano radicalmente mutate.
Vi è chi suol dire che "la rivoluzione sarà anarchica o non sarà". Ancora una di quelle frasi d’effetto che guardate in fondo o non dicono nulla o dicono uno sproposito. Infatti, se s’intende dire che la rivoluzione quale la vorremmo noi deve essere anarchica, si fa una vera tautologia, cioè un giro di parole che non spiega nulla, come se si dicesse, per esempio, la carta bianca deve essere bianca. Se poi s’intende dire che non vi può essere altra rivoluzione che quella anarchica, allora si dice uno sproposito perchè vi sono stati e certamente vi saranno ancora nella vita delle società umane dei movimenti che, cambiando radicalmente le condizioni esistenti danno una nuova direzione alla storia successiva, e perciò meritano il nome di rivoluzioni. Ed io non saprei ammettere che tutte le rivoluzioni passate pur non essendo anarchiche siano state inutili, nè che saranno inutili quelle future che non saranno ancora anarchiche. Anzi inclino a credere che il trionfo completo dell’anarchia, piuttosto che per rivoluzione violenta, verrà per evoluzione, gradualmente, quando una precedente o delle precedenti rivoluzioni avranno distrutti i più grossi ostacoli militari ed economici, che si oppongono allo sviluppo morale delle popolazioni, all’aumento della produzione fino al livello dei bisogni e dei desideri e all’armonizzazione degl’interessi contrastanti.
In ogni modo, se teniamo conto delle nostre scarse forze e delle disposizioni prevalenti tra le masse e se non vogliamo prendere per realtà i nostri desideri, dobbiamo aspettarci che la prossima, forse imminente, rivoluzione non sarà anarchica, e perciò quello che più urge è di pensare a quello che possiamo e dobbiamo fare in una rivoluzione in cui non saremo che una minoranza relativamente piccola e mal armata.
Alcuni compagni, forse suggestionati ancora dalle vanterie socialiste e dalle illusioni che fece nascere la rivoluzione russa, credono che il compito degli autoritari sia più facile del nostro perchè essi hanno un "piano"; impossessarsi del potere e imporre con la forza i loro sistemi.
Ciò non è vero. Il desiderio di afferrare il potere socialisti e comunisti ce l’hanno certamente, ed in date circostanze possono riuscirci. Ma i più intelligenti tra loro sanno bene che stando al potere potrebbero bensì tiranneggiare il popolo e sottoporlo ad esperimenti capricciosi e pericolosi, potrebbero sostituire alla borghesia attuale una nuova classe privilegiata, ma il socialismo non potrebbero farlo, il "piano" non potrebbero applicarlo. Come si può mai distruggere una società millenaria e fondare una nuova e migliore società con decreti fatti da pochi uomini ed imposti colle baionette! Ed è questa la ragione onesta (delle altre meno confessabili ragioni non voglio occuparmi) è questa la ragione onesta per la quale in Italia socialisti e comunisti negarono il loro concorso ed impedirono la rivoluzione quando c’era la possibilità di farla. Essi sentivano che non avrebbero potuto dominare la situazione ed avrebbero dovuto o lasciar libero il campo agli anarchici o farsi strumenti della reazione. Nei paesi poi dove al potere ci sono andati si sa quello che hanno fatto.
Il compito nostro, se solamente avessimo la forza materiale per sbarazzarci della forza materiale che ci opprime, sarebbe di molto più facile, perchè noi non pretendiamo dalla massa se non quello che la massa è capace e vogliosa di fare, limitandoci a fare tutto quello che possiamo per svilupparne la capacità e la volontà.
Dobbiamo guardarci però dal diventare noi stessi meno anarchici perchè la massa non è capace d’anarchia. Se la massa vorrà un governo, noi probabilmente non potremo impedire che un nuovo governo si formi, ma non dovremo meno per questo fare il possibile per persuadere la gente che il governo è inutile e dannoso e per impedire che il nuovo governo s’imponga anche a noi ed a quelli che non lo vogliono. Noi dovremo adoperarci perchè la vita sociale, e specialmente la vita economica, continui e migliori senza l’intervento del governo, e perciò dobbiamo essere preparati il più possibile pei problemi pratici della produzione e della distribuzione, ricordandoci d’altronde che i più adatti ad organizzare il lavoro sono quelli che lo fanno, ciascuno nel proprio mestiere.

Noi dovremo cercare di essere parte attiva, e se possibile preponderante, nell’atto insurrezionale. Ma, abbattute le forze repressive che servono a tenere il popolo nella schiavitù, disfatti l’esercito, la polizia, la magistratura, ecc., armata tutta la popolazione perchè possa opporsi ad ogni ritorno offensivo della reazione, indotti i volonterosi a prendere in mano l’organizzazione della cosa pubblica ed a provvedere, con criteri di giustizia distributiva, ai bisogni più urgenti servendosi con parsimonia delle ricchezze esistenti nelle varie località, dovremo adoperarci perchè si eviti ogni sperpero e si rispettino e si utilizzino quelle istituzioni, quei costumi, quelle abitudini, quei sistemi di produzione, di scambi, d’assistenza che compiono, sia pure in modo insufficiente e cattivo, delle funzioni necessarie, cercando bensì di far sparire ogni traccia di privilegio, ma guardandoci dal distruggere ciò che non si può ancora sostituire con qualche cosa che risponda meglio al bene di tutti. Spingere gli operai ad impossessarsi delle fabbriche, federarsi tra loro e lavorare per conto delle collettività, e così spingere i contadini ad impossessarsi delle terre e dei prodotti usurpati dai signori ed intendersi cogli operai pei necessari scambi.
Se non potremo impedire la costituzione di un nuovo governo, se non potremo abbatterlo subito, dovremo in tutti i casi negargli ogni concorso. Negare il servizio militare, negare il pagamento delle imposte. Non ubbidire per principio, resistere fino all’ultima estremità ad ogni imposizione delle autorità e rifiutarsi assolutamente ad accettare qualunque posto di comando.
Se non potremo abbattere il capitalismo, dovremo esigere per noi e per tutti quelli che vogliono il diritto all’uso gratuito dei mezzi di produzione necessari per una vita indipendente.
Consigliare quando avremo consigli da dare, insegnare se sappiamo più degli altri; dar l’esempio della vita per libero accordo; difendere, anche colla forza, se è necessario e se è possibile, la nostra autonomia contro qualunque pretesa governativa... ma comandare mai.
Cosi non faremo l’anarchia, perchè l’anarchia non si fa contro la volontà della gente, ma almeno la prepareremo.

e. La libera sperimentazione79

La presente, incerta, tormentata, instabile situazione politico-sociale dell’Europa e del mondo, che dà luogo a tutte le speranze ed a tutti i timori, rende più che mai urgente il bisogno di tenersi pronti per i più o meno prossimi, ma immancabili rivolgimenti. E perciò si ravviva la discussione, del resto sempre attuale, del modo come adattare le nostre aspirazioni ideali alla realtà contingente dei vari paesi, e passare dalla predicazione ideale alla pratica realizzazione.
E, come è naturale in un movimento quale è il nostro, che non riconosce autorità di uomini e di testi ed è tutto fondate sulla libera critica, varie sono le opinioni e varia la tattica seguita.
Così, alcuni dedicano tutta la loro attività a perfezionare predicare l’ideale, senza poi troppo guardare se sono compresi e seguiti e se quell’ideale sia o non applicabile nello stato attuale della mentalità popolare e delle esistenti risorse materiali Essi, più o meno esplicitamente ed in gradi che variano da persona a persona, restringono il compito degli anarchici, oggi alla demolizione degli attuali istituti oppressivi e repressivi, domani alla vigile sorveglianza contro il costituirsi di nuovi governi e nuovi privilegi, trascurando tutto il resto, che è poi il grave, ineluttabile ed improrogabile problema della riorganizzazione sociale sopra basi libertarie. Essi credono, per quel che riguarda i problemi di ricostruzione, che tutto si accomodi da sè, spontaneamente, senza preparazione precedente e senza piani prestabiliti, grazie ad una mitica capacità creativa della massa, o in forza di una pretesa legge naturale per la quale, non appena eliminata la violenza statale ed il privilegio capitalistico, gli uomini diventerebbero tutti buoni ed intelligenti, sparirebbero subito gli antagonismi d’interessi, e l’abbondanza, la pace, l’armonia regnerebbero sovrane nel mondo.
Altri invece, animati soprattutto dal desiderio di essere, o sembrare pratici, preoccupati dalle prevedibili difficoltà della situazione all’indomani della rivoluzione, consci della necessità di conquistare l’adesione del grosso pubblico, o almeno di vincerne le ostili prevenzioni causate dall’ignoranza dei nostri propositi, vorrebbero formulare un programma, un piano completo di riorganizzazione sociale, che rispondesse a tutte le difficoltà e potesse soddisfare quelli che, con frase tradotta dall’inglese, han preso a chiamare "l’uomo della strada", cioè l’uomo qualunque che non ha partito preso, non ha idee determinate, giudica a volta a volta secondo che è ispirato dalle passioni e dagli interessi del momento.
Da parte mia, credo che gli uni e gli altri hanno la loro parte di ragione e la loro parte di torto; e che, se non fosse la malaugurata tendenza all’esagerazione ed all’esclusivismo, le due opinioni potrebbero contemperarsi e completarsi l’una con l’altra per adeguare la nostra condotta alle esigenze dell’ideale ed alle necessità della situazione, e raggiungere cosi la massima efficienza pratica, pur restando strettamente fedeli al nostro programma di libertà e giustizia integrali.
Negligere tutti i problemi di ricostruzione, o prestabilire piani completi ed uniformi sono due errori, due eccessi, che per vie diverse menerebbero alla nostra sconfitta in quanto anarchici ed al trionfo di nuovi o vecchi regimi autoritari. La verità sta nel mezzo.
È assurdo il credere che, abbattuti i governi ed espropriati i capitalisti, "le cose si accomoderanno da sè", senza l’azione di uomini che abbiano un’idea preconcetta sul da farsi e si mettano subito all’opera per farlo. Forse ciò potrebbe accadere - e magari sarebbe preferibile che così accadesse - se si avesse tempo di aspettare che la gente, tutta la gente, trovasse modo, provando e riprovando, di soddisfare nel miglior modo i propri bisogni e i propri gusti, d’accordo con i bisogni e con i gusti degli altri. Ma la vita della società, come la vita degli individui non ammette interruzioni. L’indomani immediato della rivoluzione anzi il giorno stesso dell’insurrezione, bisogna provvedere all’alimentazione ed agli altri bisogni urgenti della popolazione, e quindi occorre assicurare la continuazione della produzione necessaria (pane, ecc.), il funzionamento dei principali servizi pubblici (acqua, trasporti, elettricità, ecc.) e lo scambio ininterrotto tra le città e le campagne.
Più tardi le maggiori difficoltà spariranno: il lavoro organizzato direttamente da coloro che realmente lavorano diventerà facile ed attraente; l’abbondanza della produzione renderà inutile ogni calcolo sul rapporto tra prodotti fatti e prodotti consumati e ciascuno potrà davvero "prendere nel mucchio" quello che gli piace; le mostruose agglomerazioni cittadine si dissolveranno, la popolazione si distribuirà razionalmente su tutto il territorio abitabile, ed ogni località, ogni raggruppamento, pur conservando ed aumentando a benefizio di tutti tutte le comodità fornite dalle grandi imprese industriali e pur restando legato a tutta l’umanità per sentimento di simpatia e di solidarietà umane, potrà in generale bastare a sè stesso e non essere afflitto dalle opprimenti e dispendiose complicazioni della vita economica attuale. Ma queste, e mille altre belle cose che si possono immaginare, riguardano l’avvenire, mentre ora urge pensare al modo di vivere oggi, nella situazione che la storia ci ha tramandata e che la rivoluzione, cioè un atto di forza, non potrà cambiare radicalmente, da un giorno all’altro, come con un colpo di bacchetta magica. E poichè, bene o male, bisogna vivere, se noi non sapremo o non potremo fare il necessario, lo faranno altri con scopi e risultati opposti a quelli a cui miriamo noi.
Non bisogna trascurare "l’uomo della strada", che è poi in tutti i paesi la grande maggioranza della popolazione, e senza il cui concorso non v’è emancipazione possibile; ma non bisogna neppure fare troppo affidamento sulla sua intelligenza e sulla sua capacità d’iniziativa.
L’uomo ordinario, "l’uomo della strada", ha molte ottime qualità, ha immense potenzialità che danno sicura speranza ch’esso potrà un giorno formare l’umanità ideale che noi vagheggiamo; ma esso ha intanto un grave difetto che spiega in gran parte il sorgere ed il persistere delle tirannie: esso non ama pensare, ed anche nei suoi conati di emancipazione segue sempre più volentieri chi gli risparmia la fatica di pensare e prende su di sè la responsabilità di organizzare, dirigere... e comandare. Esso, purchè non lo si disturbi troppo nelle sue abitudini, è soddisfatto se altri pensa per lui e gli dice quello che deve fare anche se a lui non resta che il dovere di lavorare e di ubbidire.
Questa debolezza, questa tendenza della folla ad aspettare e seguire gli ordini di chi si mette alla sua testa, ha mandato a male tante rivoluzioni e continua ad essere il pericolo che minaccia le rivoluzioni prossime future.
Se la folla non fa da sè e subito, bisogna bene che provvedano al necessario gli uomini di buona volontà, capaci di iniziativa e di decisione. Ed è in questo, cioè nel modo di provvedere alle necessità urgenti, che dobbiamo distinguerci nettamente dai partiti autoritari.
Gli autoritari intendono risolvere la questione costituendosi in governo ed imponendo colla forza il loro programma. Essi possono anche essere in buona fede e credere sinceramente di fare il bene di tutti, ma in realtà, ostacolando la libera azione popolare, non riuscirebbero ad altro che a creare una nuova classe privilegiata interessata a sostenere il nuovo governo, ed in sostanza a sostituire una tirannia con un’altra.
Gli anarchici devono bensì sforzarsi di rendere il meno faticoso possibile il passaggio dallo stato di servitù a quello di libertà, fornendo al pubblico il più possibile d’idee pratiche ed immediatamente applicabili, ma debbono guardarsi bene dall’incoraggiare quell’inerzia intellettuale e quella tendenza a lasciare fare agli altri ed ubbidire, che abbiamo lamentate.
La rivoluzione, per riuscire veramente emancipatrice, dovrà svolgersi liberamente in mille modi diversi, corrispondenti alle mille diverse condizioni morali e materiali degli uomini d’oggi per la libera iniziativa di tutti e di ciascuno. E noi dovremo suggerire e realizzare il più possibile quei modi di vita che meglio corrispondono ai nostri ideali, ma soprattutto dobbiamo sforzarci di suscitare nelle masse lo spirito d’iniziativa e l’abitudine di fare da sè.
Noi dobbiamo evitare anche le apparenze del comando, ed agire colla parola e con l’esempio come compagni tra compagni; e ricordandoci che a voler troppo forzare le cose nel senso nostro e far trionfare i nostri piani, correremmo il rischio di tarpare le ali alla rivoluzione ed assumere noi stessi, più o meno inconsciamente, quella funzione di governo, che tanto deprechiamo negli altri.
E come governo noi non varremmo certamente meglio degli altri. Forse anche saremmo più pericolosi per la libertà, perchè convinti fortemente di aver ragione e di fare il bene, saremmo inclini, da veri fanatici, a considerare quali contro-rivoluzionari e nemici del bene tutti quelli che non pensassero ed agissero come noi.
Chè se poi quello che gli altri fanno non fosse quello che vorremmo noi, la cosa non avrebbe importanza, sempre che fosse salvaguardata la libertà di tutti. Ciò che veramente importa è che la gente faccia come vuole, perchè non vi sono conquiste assicurate se non quelle che il popolo fa coi propri sforzi, non vi sono riforme definitive se non quelle reclamate ed imposte dalla coscienza popolare.
1 Dalla Prefazione a M. NETTLAU, Bakunin e l’Internazionale in Italia, Ginevra, Il Risveglio, 1928.
2 Su M. Bakunin, Malatesta così scriveva in "Pensiero e volontà", Roma, 1 luglio 1926:
"Io fui bakunista, come lo furono tutti i miei compagni di quelle, ahimè! ormai lontane generazioni. Oggi - e già da lunghi anni - non mi direi più tale.
"Le idee si sono sviluppate e modificate. Oggi trovo che Bakunin fu, nell’economia politica e nell’interpretazione della storia, troppo marxista; trovo che la sua filosofia si dibatteva, senza possibilità d’uscita, nella contraddizione tra la concezione meccanica dell’universo e la fede nell’efficacia della volontà sui destini dell’uomo e dell’umanità. Ma tutto questo importa poco. Le teorie sono concetti incerti e mutabili; e la filosofia, fatta generalmente d’ipotesi campate sulle nuvole, ha in sostanza poca o nessuna influenza sulla vita. E Bakunin resta sempre, malgrado tutti i possibili dissensi, il nostro grande maestro ed il nostro forte ispiratore.
"Di lui è sempre viva la critica radicale del principio d’autorità e dello Stato che lo incarna; viva è sempre la lotta contro le sue menzogne, le due forme colle quali sì opprimono e si sfruttano le masse: quella democratica e quella dittatoriale; e viva è la confutazione magistrale di quel falso socialismo ch’egli chiamava addormentatore, e che mira, cosciente o incoscientemente, a consolidare il dominio dalla borghesia addormentando i lavoratori con vane riforme. E vivi sono soprattutto l’odio intenso contro tutto ciò che degrada ed umilia l’uomo e l’amor illimitato per la libertà, per tutta la libertà".
3 Titolo originale: "Pietro Kropotkin. Ricordi e critiche di un vecchio amico", in Studi Sociali, Montevideo, 15 aprile 1931.
4 Titolo originale "Un po’ di teoria", in "En-Dehors", Parigi, 17 agosto 1892.
5 La lettera inviata alla Pezzi a Firenze da Londra il 29 aprile1892 (rintracciata in C.P.C. dell’A.C.S.R , Fascicolo E. Malatesta, ora in L. GESTRI, , "Dieci lettere inedite di Cipriani, Malatesta e Merlino", in Movimento operaio e socialista, XVII (1971), pp.325-27.
6 "Un peu de théorie", apparso nell'"En-Dehors" del 21 agosto 1891 e ripubblicato più volte in opuscolo.
7 In Cause ed effetti. 1898-1900, n. u., Londra, sett. 1900.
8 Titolo originale Errori e rimedi. Schiarimenti, in L’Anarchia, n. u., Londra, agosto 1896.
9 In Umanità Nova, Roma, 12 luglio 1922.
10 Titolo originale Questioni rivoluzionarie, in La Révolte, Parigi, 10 ottobre 1890. Si tratta di una lettera assai più ampia: la prima parte è riprodotta nel paragrafo successivo
11 "L’Art.248", Ancona, 4 febbraio 1894.
12 Titolo originale Il compito degli anarchici, in "La Questione Sociale", Paterson, sett-ott. 1899. AI suo rientro in Europa, Malatesta lanciava da Londra, sempre nel 1899, un breve opuscolo largamente diffuso in Italia, clandestinamente, dal titolo Aritmetica elementare. In realtà esso era un "appello a tutti gli uomini di progresso" contro la monarchia: mirava cioè all’unione di tutti i partiti antimonarchici invitando all’insurrezione, senza pregiudiziale alcuna per i principi che ciascun partito professava e senza impegni circa quanto ciascuno di essi avrebbe creduto di dover fare dopo la caduta della monarchia. La parte sostanziale dell’opuscolo venne ripubblicata insieme ad altro scritto del 1920 di Malatesta e ad un saggio del 1920 di E. Molinari, sotto il titolo Contro la monarchia / Le due vie / I fattori economici pel successo della rivoluzione sociale, Ginevra, Il Risveglio, 1932.
13 Lettera a N. Converti, Londra 10 marzo 1896.
14 Titolo originale L’organizzazione, in "L'Agitazione" di Ancona, 4 giugno 1897.
15 Brevi e insignificanti correzioni di forma furono apportate da Malatesta al testo originale dell’articolo, apparso sulla "Agitazione" di Ancona dell’11 giugno 1897, sotto il titolo L’organizzazione. Il testo corretto venne poi pubblicato insieme al precedente articolo in E. MALATESTA, Organizzazione e L. FABBRI, Libera sperimentazione, Montevideo, Studi Sociali, 1950, da cui l’ho tratto.
16 Da Un progetto di organizzazione anarchica in "Il Risveglio", Ginevra 1-15 ottobre 1927. L’articolo venne scritto in polemica con la Plateforme di organisation de l’Union générale des anarchistes (Projet) pubblicata da un "gruppo di anarchici russi all’estero", fra i quali Makno. Il progetto insisteva fra l’altro sulla "necessità" della "responsabilità collettiva", come presupposto basilare di un’organizzazione anarchica efficiente: una "necessità" in cui Malatesta scorgeva una deviazione autoritaria.
17 Ibidem.
18 E. MALATESTA, La politica parlamentare nel movimento socialista, Londra, 1890 (opuscolo). I titoli dei paragrafi sono di Gino Cerrito.
19 Lettera datata Londra (per ingannare la polizia, giacchè Malatesta era già in Ancona), in "L'Agitazione", 14 marzo 1897.
20 In "L'Agitazione", 14 marzo 1897.
21 In "L'Agitazione", 28 marzo 1897
22 In "L'Agitazione" 19 aprile 1897.
23 In "L'Agitazione" 25 aprile 1897.
24 In "L'Agitazione" 19 agosto 1897.
25 In "L'Agitazione" 23 dicembre 1897. Titolo originale Problemi di oggi e di domani. In un precedente articolo, pubblicato nel n. del 2 dicembre 1897, Malatesta sostiene che nessuno può precisare le forme dell'avvenire e che la questione è del modo e dei mezzi con cui alla futura società si vuole pervenire.
A tal proposito chiede a Merlino di rispondere "ad una domanda alla quale nessun socialista democratico" ha voluto darmi una risposta esplicita. Io vorrei sapere, se, nell'opinione sua, quel tal governo o parlamento che egli crede necessario alla vita sociale, dovrà avere a sua disposizione una forza armata. Nel caso che no, allora davvero che la differenza tra noi sarebbe poca cosa, poichè io sopporterei di buona grazia un governo... che non potrebbe obbligarmi a nulla". A questa domanda Merino risponde nel n. del 16 dicembre 1897 con un articolo dal titolo Uso ed abuso della forza, in cui sostiene che l'uso della forza dovrà essere riservato ai casi estremi dai cittadini all'uopo chiamati e non dalle istituzioni "come già in Inghilterra e negli Stati Uniti". In altri termini Merlino cerca di eludere la domanda, oppure crede realmente che la "guardia nazionale" sia espressione della libera volontà della popolazione tutta e non abbia nulla a che fare con il governo.
26 Titolo originale Un’intervista, fatta a Malatesta da G. Ciancabilla allora redattore dell’"Avanti!" e poi anarchico. L’intervista venne pubblicata sull’"Avanti!" del 3 ottobre 1897. Ciancabilla per non denunciare la presenza di Malatesta in Ancona, finge di averlo intervistato "in una piccola stazione di provincia, tra l’arrivo e la partenza di un treno".
27 Titolo originale Conferma, in "L’Agitazione", 14 ottobre 1897.
28 Titolo originale "Chiarimento" in L’Agitazione del 28 ottobre 1897.
29 In "Pensiero e Volontà", 15 maggio 1924.
30 Dalla lettera a Luigi Fabbri datata Roma 18 maggio 1931, poi pubblicata in "Studi Sociali" del 30 settembre 1932.
31 In "Almanacco della Rivoluzione", Paterson, N.J., 1907, pp. 19-22.
32 In "Volontà", Ancona, 20 settembre 1913.
33 In Umanità Nova, Roma, 26, 27 e 28 ottobre 1921.
34 L’Unione Anarchica Italiana fu costituita al congresso di Bologna dell’1-4 Luglio 1920. Essa adottava la dichiarazione dei principi formulata da Malatesta e più volte ristampata con il titolo Il nostro programma o Programma Comunista Anarchico. Il congresso faceva seguito a quello di Firenze del 12-14 Aprile 1919, che aveva costituito l’Unione Comunista-Anarchica Italiana.
35 In Umanità Nova, 13 Aprile 1922. Malatesta richiama qui l’articolo pubblicato nel numero del 6 aprile 1922.
36 Titolo originale Lo sciopero generale, in Umanità Nova, 7 giugno 1922.
37 Titolo originale La condotta degli anarchici nel movimento operaio (Rapporto al Congresso Anarchico Internazionale di Parigi del 1923) In "Fede", Roma, 30 settembre 1923.
38 In "Pensiero e Volontà", 16 febbraio-16 marzo 1925.
39 Titolo originale Quel che vogliamo In "Volontà", 8 giugno 1913.
40 In Volontà, 1 novembre 1913.
41 Manifesto degli anarchici al popolo, pubblicato in "Volontà" del 17 giugno 1914, probabilmente scritto da Malatesta. Nel supplemento al n. 17 di "Volontà" dell’aprile 1914, gli anarchici anconetani avevano indirizzato un manifesto ai socialisti riuniti a congresso nazionale nella loro città, Il manifesto, scritto certamente da Malatesta, invitava i socialisti a porsi su una piattaforma rivoluzionaria insieme con gli anarchici, a "tornare alle origini", a smetterla con le posizioni equivoche ed a schierarsi contro lo Stato e fuori dello Stato.
42 Articolo non firmato, ma di Malatesta, In "Volontà", 20 giugno 1914.
43 In "Umanità Nova", 28 giugno 1922.
44 In "Umanità Nova", 13 marzo 1920.
45 In "Umanità Nova", 12 agosto 1920.
46 Titolo originale La "fretta" dei rivoluzionari"in "Umanità Nova", Roma, 6 settembre 1921 (polemica con il socialista "La Giustizia" di Reggio E.).
47 In "Umanità Nova", 28 giugno 1922. Il "pezzo" qui riportata era preceduto da due pagine sulla "settimana rossa" riprodotta nel precedente paragrafo.
48 Titolo originale La condotta degli anarchici nel movimento sindacale cit. e già in parte riportato, in "Fede", 30 settembre 1923.
49 Il programma era stato già pubblicato a puntate nella "Questione Sociale" di Patterson del 1899 ed era stato poi raccolto in opuscolo dal gruppo socialista-anarchico "L’Avvenire" di New London, Connecticut, nel 1903 e ripubblicato a Patterson nel 1905. Nell’edizione del 1920 proposta al congresso e da esso pienamente accettata, Malatesta aveva apportato alcune modifiche. Il programma è ancor oggi adottato dalla Federazione Anarchica Italiana, nonostante il mutamento dei tempi e delle condizioni obiettive e nonostante il mutamento del patto federale organizzativo della FAI.
Del programma si riproducono qui alcune parti, dal momento in cui le altre sarebbero una ripetizione di "pezzi" già riportati o che si riproducono nelle pp. seguenti.

50 In "Umanità Nova", 20 giugno 1922.
51 Titolo originale La fine dell'anarchismo di Luigi Galleani, In "Pensiero e Volontà", 1 giugno 1926.
52 Titolo originale Nota all’articolo "Individualismo anarchico" di Adams, In Pensiero e Volontà, 1 agosto 1924. L'Adams aveva polemizzato con l’art. pubblicato da Malatesta nel n. del periodico del 1 luglio 1924.
53 Lettera a Luigi Fabbri sulla "Dittatura del proletariato" (premessa al libro "Dittatura e Rivoluzione"), datata Londra 30 luglio 1919, in "Volontà" Ancona, 16 agosto 1919 e apparsa poi come prefazione al vol. di L. Fabbri, Dittatura e Rivoluzione, Ancona, 1921.
54 Titolo originale Gli anarchici e i socialisti, in Umanità Nova, 1 maggio 1920.
55 Titolo originale Le due vie: libertà o dittatura In "Umanità Nova", 15 agosto 1920.
56 Titolo originale A proposito del libro "Dittatura e Rivoluzione" di L. Fabbri, Ancona 1921, in "Libero Accordo", Roma 7 novembre 1923. L'art. è la prefazione dell'ed. spagnola del vol. di Fabbri, pubblicata a Buenos Aires nel 1923 ma fu scritto da Malatesta nel luglio 1922.
57 Titolo originale Ricominciando: il compito dell'ora presente, in "Umanità Nova" Roma, 21 agosto 1921.
58 In "Umanità Nova", 26 agosto 1922.
59 Titolo originale Discorrendo di rivoluzione, in "Umanità Nova", 25 novembre 1922.
60 Ibidem
61 In "Pensiero e Volontà", 1 gennaio 1924.
62 In "Pensiero e Volontà", 1 ottobre 1924.
63 Titolo originale Repubblica?, in "Pensiero e Volontà", 16 ottobre 1925.
64 Lettera a G. Damiani da Roma nel 1926. Malatesta era stato ed era sollecitato da diversi ad abbandonare il paese. La lettera, apparsa nella "Adunata dei Refrattari" del 28 agosto 1932, spiega i motivi del suo rifiuto.
65 In "Umanità Nova", 7 ottobre 1922. L’articolo è parte della relazione delle discussioni del Convegno Internazionale Anarchico di Bienne (Svizzera) tenuto in occasione del cinquantenario del congresso antiautoritario di Saint-Imier del settembre 1872.
66 Titolo originale Ancora sulla rivoluzione in pratica, in "Umanità Nova", 14 ottobre 1922.
67 Titolo originale Anarchismo e riforme, in Pensiero e Volontà, 1 marzo 1924.
68 Titolo originale Gradualismo, in Pensiero e Volontà, 1 ottobre 1925.
69 In Il Risveglio, 1 maggio 1931.
70 Titolo originale A proposito di revisionismo, in "L’Adunata dei Refrattari", 1 agosto 1931.
71 Titolo originale Un governo che non è governo, in "L’Adunata dei Refrattari", 26 dicembre 1931.
72 La lettera del 9giugno 1931, indirizzata al "Carissimo Adolfo" in "L’Adunata dei Refrattari", 20 agosto 1932; quella del 7 marzo 1932, indirizzata ad A.Borghi, in E.MALATESTA, scritti scelti, Napoli, 1954, pp.230-232
73 Titolo originale Discorrendo di Rivoluzione in "Umanità Nova", 25 novembre 1922.
74 Titolo originale Intorno al "nostro" anarchismo, in "Pensiero e Volontà", 1 aprile 1924.
75 Titolo originale Demoliamo e poi?, in "Pensiero e Volontà", 16 giugno 1926. L’articolo fa seguito alla recensione di Malatesta al libro di Luigi Galleani, riprodotta nel capitolo precedente, sotto il titolo L'antiorganizzazione degli adunatisti.
76 Titolo originale E poi?, in "Pensiero e Volontà", 1 agosto 1926.
77 Titolo originale A proposito di "revisionismo anarchico", in "Pensiero e Volontà", 1 maggio 1924.
78 Titolo originale Gli anarchici nel momento attuale, in "Vogliamo", Biasca, giugno 1930.
79 Titolo originale Questione di tattica, in "Almanacco Libertario pro vittime politiche", Ginevra, 1931.