Biblioteca Multimediale Marxista


Capitolo tredicesimo
Reazioni a catena



Un rappresentante, per quanto operi nei paesi, deve pur mantenere un certo decoro nell'abbigliamento: unica concessione ai tempi, il basco blu. Nicola percorre la Valle Olona spostandosi da una zona all'altra in bicicletta: da Legnano a Pero, a Nerviano o, a piedi, fra i casolari della Garbatola. Il rappresentante ha più di un recapito. Di solito, anche se attraversa le campagne fangose nei pressi della cascina Ghiringhella, si è certi di ritrovarlo sulla strada asfaltata inappuntabile, come se uscisse appena allora da un bar; ma questa volta è sorpreso all'uscita di un capanno adibito normalmente a deposito di attrezzi. Vi ha appena depositato i suoi abiti migliori, scambiandoli con quattro stracci, un cappello stinto e moscio, giacca e calzoni pieni di toppe, sporchi di terriccio. Sembra un contadino uso alla zappa e ai rastrelli. Tre uomini in uniforme si profilano all'imbocco del sentiero che dalla cascina Ghiringhella42 conduce alla provinciale, mentre il contadino esamina la lama di una falce, sebbene la stagione sia prematura per il taglio del foraggio. I tre uomini col mitra si affrettano verso l'uomo occupato a pulire i propri attrezzi di lavoro. Il contadino accende una sigaretta. Continuando ad avanzare i fascisti gridano: "Mani in alto." Gli chiedono i documenti e se sia il proprietario della cascina. "Hai visto passare della gente da questa parte? Risulta che un certo Visone si nasconda in questa cascina."
Il contadino a sua volta si informa se intendono il passaggio sulla strada provinciale o sul sentiero davanti al capanno e conclude: "Sono qui da quando si è fatto giorno ma non si è visto nessuno."
"Sai dov'è la Ghiringhella? Andiamo anche noi all'appuntamento dei partigiani. Siamo in molti a cercarli ma se qualcuno ci indica il posto li raggiungeremo per primi."
Si guarda a lungo la punta degli zoccoli. "Ma non c'è mica pericolo per me?" chiede.
"Macché, non preoccuparti, basterà che ci indichi la strada." Non c'è da scegliere. Non può deporre gli zoccoli e ritirare le pistole che tiene nella busta di cuoio nel capanno. Potrebbe accompagnarli per un tratto e poi tentare la fuga.
"Andiamo da questa parte," dice. E comincia a camminare verso un gruppo di casolari in lontananza. Cammina avanti, seguito a qualche metro dai tre militi che si guardano ansiosamente in giro, i mitra in posizione di sparo. "Hanno paura," pensa, "possono perdere la calma e sparare ancor più facilmente." Cammina e riflette.
Non ci sono nascondigli accessibili nelle vicinanze. E chi avvertirà gli altri partigiani che l'appuntamento si è trasformato in una trappola? Condurrà i tre repubblichini sul luogo dell'appuntamento cercando di avvertire i partigiani. Può andar bene, come è accaduto altre volte, oppure no. Sarebbe terribilmente stupido finire in quel modo, quasi per distrazione, per non aver scoperto in tempo i tre repubblichini. Avrebbe potuto evitarli, o sorprenderli a sua volta. Ma, ormai, è andata così.
Come avvertirà i compagni? I suoi partigiani sono in gamba. Sono dei gappisti tra i più addestrati e precisi alla mira. Basterebbe qualche secondo, anzi un solo secondo, perché si rendano conto della situazione e reagiscano. Ma bisogna almeno assicurare un altro secondo perché possano riaversi della sorpresa. Nonostante tutto si sente ottimista. Cammina senza fretta ma anche senza esitazioni.
È ormai trascorsa quasi mezz'ora dall'inizio di quella singolare passeggiata a quattro. I tre repubblichini, adesso, si mostrano impazienti. "E allora, ci manca molto?" "Siamo quasi arrivati." Ghiringhella è dietro la casa dalla quale distano meno di mezzo chilometro. Ma bisogna che i repubblichini non la notino per primi. Per fortuna è impossibile scorgere Ghiringhella, un mucchio di vecchie case. Si sentono vicinissimi dei passi. Da un angolo della casa spuntano due o tre bambini che si inseguono ridendo. Fanno il giro dell'edificio e spariscono di nuovo, ma le loro voci si sentono ancora. Se i bambini continuano a giocare sono anche loro in pericolo. A un centinaio di metri una donna si affaccia alla finestra per ritirare un lenzuolo teso ad asciugare e scorge il gruppo; istintivamente si tappa la bocca, chiude la finestra, scende precipitosamente a pianterreno. I bambini non si odono più. Il contadino si volta sorridendo. "Altri cinquecento metri, dieci minuti di strada e ci siamo." Superano la casa. Il luogo è appena visibile dietro un gruppo di alberi. I repubblichini si preparano a percorrere altri cinquecento metri sempre in fila indiana. "Speriamo che i ragazzi siano di guardia" pensa Nicola. Cammina in testa. A pochi metri dalla cappellina, li vede. Non si sono accorti di nulla. Nicola dà una rapida occhiata intorno. La casa è alle spalle, davanti c'è un fossato appena sbozzato. Qualcosa si muove dietro un cespuglio. I partigiani non possono rendersi conto di quello che sta accadendo: Nicola ha coperto la visuale ai repubblichini, ma nasconde ai partigiani il pericolo incombente. Perde uno degli zoccoli. Si china come per infilarselo e sfila invece anche l'altro mentre scatta di corsa, curvo in avanti, gridando: "Sparate, sparate, sparate!" Schizza nel fossato senza respirare per una botta allo stomaco. Le pistole dei gappisti non lasciano ai repubblichini il tempo di agire: uno cade ucciso, gli altri due, abbandonando le armi, fuggono.

*

"Friza affrettiamoci, ci stanno cercando in tutta la zona."
"Bisogna aspettare, prepararsi e agire al momento buono," continua a sostenere uno degli uomini più vicini al Conte. Se potessero, farebbero fare esercitazioni di marcia e turni di sentinella ai miei ragazzi. Non concepiscono la nostra guerra, non ne colgono l'aderenza alla mentalità e alle doti della gente, che senz'essere tutta contadina, è nata e vissuta in campagna.
Influenzeranno i miei uomini? Che cosa significa aspettare il momento buono? Avere magazzini pieni d'armi, munizioni, viveri? Ma le hanno poi? Le poche che possiedono, le hanno tenute nascoste. Dei lanci aerei? Non è proprio il caso di parlarne. Il momento buono! Gente addestrata, esperta!.. Il combattimento è la migliore scuola di guerra.

A Nerviano la nostra azione viene paralizzata dall'inerzia. Devo trovare una soluzione che scuota il piccolo centro chiuso e isolato, in cui si manifesta più deleteria l'influenza degli attendisti.
Ragazzi in gamba ce ne sono, non meno coraggiosi di quelli di Mazzo. Devo far leva su di loro, affrontarli. Non si tratta di ottenere un risultato immediato, quanto una partecipazione politica generale. Parlo agli uomini del distaccamento di Nerviano, ne stimolo l'orgoglio: "Che distaccamento siete se vi limitate a custodire pistole?"
Propongo un'azione contro il posto di blocco di Legnano: un colpo di mano fulmineo, un combattimento rapidissimo, secondo la tesi che le occasioni favorevoli non si attendono, ma si creano. Il comandante del distaccamento propendendo per un momento "più favorevole" non partecipa all'azione dei suoi uomini.
La notte del sette novembre, presenti il vice comandante della brigata, Walter, Gini, Cip, Carletto, Giovanni e Renda, i partigiani raggiungono la periferia di Legnano alle 22, si appostano intorno al posto di blocco. Osservano a lungo, dai loro nascondigli, i fascisti che si muovono, che escono dal loro abitacolo e controllano i documenti di quanti transitano.
Alle 23,30 aprono il fuoco. I fascisti rispondono. In città viene dato l'allarme. L'attacco ha buon esito: due fascisti vengono abbattuti e la reazione dei superstiti viene contenuta. Intervengono i tedeschi; due dei nostri vengono feriti. Riusciamo a salvarne uno. Ci allontaniamo percorrendo un viottolo che porta in aperta campagna. Abbiamo dovuto abbandonare a terra Francesco Renda, di 24 anni. I tedeschi lo torturano, lo uccidono rabbiosamente, senza aver saputo nulla da lui: Il successo militare dell'azione è superato dalle ripercussioni politiche. L'opinione pubblica è coi partigiani che hanno dimostrato che il nemico è vulnerabile.
Alcuni giorni dopo parlo agli uomini del distaccamento di Nerviano. È presente anche il comandante. Lodo il loro coraggio e critico la loro impreparazione che è costata la vita a Renda. Renda è caduto eroicamente ma appunto per questo era indispensabile che vivesse. L'arte del sopravvivere si acquista solo con l'esperienza del combattimento. E se non l'avessero acquistata, non sarebbero stati in grado di battersi neppure quando fosse giunta la mitica occasione favorevole.
Mi paiono convinti.

*

Le azioni si susseguono con una reazione a catena. I fascisti debbono colpire brutalmente per tentare di interrompere l'assedio di una armata invisibile ed inafferrabile. Per questo hanno fucilato i cinque partigiani a Turbigo. Lilla Ferrari, segretaria del fascio di Arese, spia e responsabile dell'arresto di diversi 'resistenti, è stata giustiziata. I fascisti hanno bisogno di ristabilire la situazione nella Valle Olona, focolaio di rivolta, dove le strade, la sera, sono diventate malsicure, per loro, per i tedeschi, per le autocolonne, per i convogli ferroviari.
Il 18 ottobre, quarantott'ore dopo l'esecuzione, ci saranno i funerali della spia fascista, con un imponente spiegamento di forze. Dall'alba gli automezzi e le autoblinde sferragliano sulle strade della cittadina. La gente dapprima si affaccia alle finestre; poi sbarra le persiane.
Accade quello che il comando della formazione ha previsto: il nemico tenta di risalire, psicologicamente, la china. I funerali sono un pretesto per una manifestazione di forza, il "via" a rappresaglie indiscriminate. La nostra legge, appresa nei mesi più duri di Torino e di Milano, è di non dar tregua al nemico. Di non farsi intimidire dalle rappresaglie. È l'unico modo per mantenere in efficienza le nostre forze e far capire al nemico l'inutilità della sua ferocia. Abbiamo reagito immediatamente alla manifestazione di forza dei repubblichini e dei fascisti.
Muniti di armi automatiche attaccheremo l'automobile del federale Costa all'altezza di Pero, approfittando dello scompiglio per dileguarci. Dobbiamo dimostrare che siamo in grado di agire in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo, contro qualsiasi schieramento, in pieno giorno.

Il luogo d'incontro dei tre partigiani che dovranno affiancarmi è stato stabilito alle porte di Rho. Ci divideremo armi e munizioni e ognuno attenderà al suo compito. Giungo per tempo sul luogo dell'incontro e attendo per due ore i compagni. Finalmente sento il rombo di una motocicletta: è Sergio, la staffetta che deve precedere i fascisti e segnalarci l'arrivo del nemico. "Come, sei solo?" chiede Sergio. Non ho il coraggio di dirgli la verità. "Gli altri sono già appostati, piú avanti." "Come vanno le cose?" "Il grosso sarà qui tra cinque minuti, mi sembra che vengano avanti piuttosto velocemente. Vattene subito,"
Sono solo: i miei compagni forse sono catturati, forse non hanno potuto raggiungermi, forse hanno avuto paura. Li capisco. La nostra è una guerra terribile e noi non abbiamo superuomini. Anch'io, il loro comandante, sono un uomo come gli altri; la paura e l'ansia non mi sono ignote. Se una cappa di piombo calasse dopo la manifestazione di forza dei repubblichini, le rappresaglie accelererebbero la nostra ritirata. So che quello è il momento decisivo. A Rho il nemico getta sulla bilancia tutte le sue forze; a Rho dobbiamo rispondergli. Anche se sono solo, devo fare qualcosa. Se l'azione andrà bene, sarà un'iniezione di fiducia per i miei, una staffilata per rianimarli.
Sono nei pressi della piazza del Duomo. Non c'è grande folla ad attendere il feretro che trascorre tra due cordoni ininterrotti di repubblichini. Vicino ad un gruppetto di civili ho la tentazione di tornare indietro.
Il carro è già passato dinanzi a me, e sono passati anche i parenti della spia. Seguono i gerarchi. Mi stacco dal gruppetto, al quale sembro aggregato e mi avvicino al cordone di militi schierati. Estraggo una bomba, una delle cosiddette "umanitarie": molto chiasso, poche schegge. C'è bisogno di chiasso. Sono pronto ad usare le due rivoltelle. Stacco rabbiosamente la sicura e la lancio. Prima che raggiunga terra, mi allontano velocemente. Il drappello di religiosi che precede il feretro si dissolve in un attimo. Anche l'impeccabile fila dei militi diviene confusa. Cominciano ad echeggiare raffiche. Dapprima isolate, poi in coro. La gente fugge da tutte le parti, i fascisti si gettano a terra, si muovono carponi, fuggono senza ritegno verso gli androni delle case. L'aria pregna di fumo è diventata irrespirabile. Ad una raffica, da una parte, rispondono dieci dall'altra. Si odono i colpi secchi dei "mauser" tedeschi.
Io solo so. In quel momento repubblichini e tedeschi si stanno sparando addosso l'un l'altro. Raggiungo un posto noto. Tramite una staffetta chiedo a Carmen un'uniforme fascista. Mi travestirò sebbene i tedeschi possano spararmi addosso, proprio perché sono in divisa. Tra il momento del lancio del petardo e l'arrivo di Carmen è trascorsa un'ora. Indosso l'uniforme ed esco con lei. La sparatoria continua. I funerali hanno avuto inizio alle ore 17, ma, dopo un'ora, nessuno dei contendenti si è ancora reso conto che sulla piazza di Rho non ci sono partigiani. Il fuoco è terribile. Si direbbe che due reggimenti si fronteggino in uno spazio adatto appena a una recita teatrale. Facciamo un lungo giro per sfuggire il nemico. Ci fermiamo ripetutamente dove sappiamo di poter trovare un ricovero tranquillo. Quando giungo alla strada che conduce alla cascina Ghiringhella sono quasi le 19. Solo allora lo scambio di raffiche comincia a diminuire gradatamente. Il paese è stato bloccato. Sento un passo cadenzato, ho appena il tempo, scorgendo una pattuglia tedesca, di afferrare Carmen e di abbracciarla. Sento le sue unghie sulla faccia. Carmen è una nostra staffetta coraggiosa e fidata, ma non ama le confidenze. Capisce quando la pattuglia ci passa accanto. "Amore fascista,", dice uno dei tedeschi e ride. Gli altri fanno coro. La pattuglia si allontana. Carmen mi accompagna verso la cascina Ghiringhella. Cerco invano un fazzoletto per asciugarmi il sudore. Nella tasca dell'uniforme non c'è.

Ogni notte nel territorio della 106ª i tedeschi e i fascisti vivono ore di angoscia: molti fra i loro soldati, lo si è saputo dai nostri informatori, sono profondamente scossi dalle nostre azioni offensive: sanno che ogni notte i nostri uomini colpiranno: non sanno dove e come; se li assaliremo con cariche di esplosivo su ponti o su tratti di ferrovia; se attaccheremo le loro autocolonne. Ma sanno che certamente li attaccheremo. In tutto il territorio della 106ª i gappisti incutono terrore al nemico: l'arma usata contro le nostre popolazioni, l'oppressore se la sente alla gola. Non si dorme nelle caserme, nei depositi, negli accantonamenti repubblichini e tedeschi; gli uomini di guardia agli impianti, agli automezzi ed alle caserme maledicono il momento in cui sono arrivati in questa pianura che sembrava così tranquilla e disadatta alla guerriglia.
Colpiremo non solo di notte ma anche di giorno. Non è la prima volta che accade. Per le forze partigiane è importante effettuare un'azione di guerra che abbia, oltre una efficacia militare, anche un chiaro significato politico.
La scelta dell'obiettivo è decisa da una segnalazione di Nerviano. In uno stabilimento dell'Isotta Fraschini, alla periferia del paese, si producono delicati congegni di guerra; parti di armi, modernissime, della Wehrmacht.
Alcuni partigiani vengono incaricati d'assumere dettagliate informazioni sull'attività bellica della fabbrica. Decido, senza informare nessuno, di compiere un sopralluogo. Con la mia vecchia bicicletta, i miei abiti da contadino, mi avvio verso la misteriosa fabbrica. Per raggiungerla bisogna attraversare, da Nerviano, la statale del Sempione e superare il ponte del canale Villoresi. Indubbiamente a destra si segue una strada che corre dapprima sull'argine del canale e si addentra poi nella campagna: è la via Rovereto che conduce attraverso un gruppo di case, in via Duca di Pistoia. Scorgo la fabbrica, un complesso abbastanza grande ma vetusto. Lunghi capannoni, un grande cortile cintato e deserto. Tre lati della fabbrica (l'ingresso è sulla via Duca di Pistoia) sono circondati da aperta campagna. Sul lato destro vi è anche una stradicciola campestre ombreggiata da grandi alberi che accompagnano la strada in aperta campagna, offrendo la possibilità di un nascondiglio, all'occorrenza. Dopo la perlustrazione, mi fermo in una bettola discosta dal paese. All'oste, nostro amico, chiedo un panino, un bicchiere di vino e alcune informazioni "beati voi che non avete a che fare con i brigatisti neri." "Si sbaglia," risponde, "i fascisti ci sono, in borghese." I tedeschi non escono quasi mai dalla fabbrica ma ci sono anch'essi. Pago il piccolo spuntino e mi allontano, velocemente.
Le informazioni raccolte sono sensazionali. Nella fabbrica Isotta Fraschini destinata a produrre spolette per bombe si lavorano parti del congegno di dotazione della V-1 e della V-2. Dentro quei capannoni senza apparente sorveglianza, si fabbricano, quasi alla chetichella, per non dare nell'occhio e non richiamare l'attenzione dei partigiani e dei servizi di informazione alleati, delicatissime parti della terribile arma che sta devastando le città inglesi. I nazisti sono riusciti ad evitare sia il nostro sabotaggio, sia i bombardamenti alleati. Decidiamo un'azione che provochi non solo danni materiali allo stabilimento ma ne riveli la segreta attività. "Azione militare ma anche appello agli operai," sostengo nel corso della ristretta riunione preparatoria.
Due gappisti, con l'aiuto di partigiani del luogo, trasporteranno lungo i sentieri di campagna le cariche di tritolo e le innescheranno in modo da far coincidere lo scoppio con l'avvenuta uscita degli operai. Nel pomeriggio del 9 dicembre i due compagni raggiungeranno la fabbrica, seguendo un fossato asciutto e collocheranno gli esplosivi; altri partigiani nelle vicinanze saranno pronti ad intervenire.

Sono le 17,15. Gli operai finiranno il loro turno alle 17,40. Lo scoppio avverrà alle 18, al momento del loro esodo in bicicletta dalla fabbrica.
Il nostro obiettivo è di danneggiare gli impianti della centrale elettrica, separata dagli altri edifici; la nostra preoccupazione è di assicurare l'incolumità alle maestranze comunque rimaste al lavoro. Fra i cespugli in prossimità del canale Villoresi attendo con relativa calma l'eco delle esplosioni, I lunghi mesi della clandestinità a Torino e a Milano, mi hanno educato a saper attendere e a riflettere. Controllo mentalmente i particolari dell'azione, le precauzioni prese, gli uomini scelti fra gli esperti della "scuola guastatori" di Lainate e Nerviano — fiorentissimo vivaio di gappisti, gente coraggiosa che alla generosità combattiva unisce una eccezionale capacità tecnica.
Mentre il nemico dopo l'esplosione si lancerà alla ricerca degli autori dell'attentato, ormai in fuga da 15 minuti, io muoverò verso la porta principale.
Le lancette dell'orologio stanno per scoccare le 18. La zona è tranquilla. Non c'è anima viva. Afferro la bicicletta, esco dal mio nascondiglio e pedalo verso la via Duca di Pistoia. Puntualmente, alle 18, tre formidabili scoppi scuotono l'aria. Un gigantesco lampo azzurrognolo si leva subito avvolto da una fumata nerissima. Le tre cariche sono esplose nella cabina elettrica. Il corto circuito che ne è seguito ha provocato l'incendio dei grandi trasformatori d'olio. La produzione resterà ferma per qualche tempo. Ora tocca a me.
Pedalando velocemente, decine e decine di operai, lavoratori dell'Isotta Fraschini stanno fuggendo, duecento metri piú indietro c'è la statale del Sempione, a destra il ponte che attraversa il canale Villoresi. Depongo la bicicletta sulla scarpata dell'argine ed estraggo dalla giacca due grossi pacchi. I fascisti ed i tedeschi stanno cercando i partigiani, ormai vicini ai loro rifugi, senza immaginare che il comandante della 106ª Brigata Garibaldi SAP è sul posto. Lancio volantini fra gli operai: alcuni sono spauriti, altri mi guardano con stupore, mentre mi metto al centro della strada; alcuni mi scansano senza capire, ma parecchi si fermano per ritirare il volantino con l'appello alla lotta del CLN. Grido con quanto fiato ho in corpo: "Viva i partigiani, viva la Resistenza, lottiamo uniti contro i fascisti e i tedeschi."
Ho distribuito e lanciato tutti i volantini. Corro indietro passando in mezzo a gruppi di operai. Raggiungo il ponte sul Villoresi, lo attraverso. Il gioco è fatto. Anche se molti non hanno udito le mie parole, quasi tutti hanno ricevuto i volantini e li leggono nelle loro case.

Manca poco alle 23,30. A quest'ora sull'oscuro nastro della strada transitano quasi esclusivamente automezzi militari. Gli occhi dei ragazzi frugano nel buio. Mi avvicino con cautela alla strada, saltando con un balzo il fossato; in lontananza si ode il rumore sommesso di un motore. I ragazzi mi preoccupano. Sono dei nuovi. L'inesperienza e l'eccitazione possono giocare brutti tiri e provocare disastri. Ho un'idea. Abbandono ogni atteggiamento circospetto, dopo essermi accertato che la zona è deserta, e, camminando eretto, impartisco gli ordini a dieci metri di distanza dal gruppetto al quale mi sto avvicinando. Parlo a voce alta, come se invece di un'azione clandestina, si trattasse di un'esercitazione tattica. Con la mano indico a tre dei ragazzi di accostarsi alla sinistra, a una ventina di metri; colloco un altro gruppo al centro e il resto della piccola formazione in posizione più arretrata a destra, a una ventina di metri. Le disposizioni impartite con voce energica e con sicurezza allentano la tensione dei ragazzi ai quali raccomando di accostarsi dietro ripari rocciosi per evitare la risposta delle raffiche, nella macchia. I ragazzi si distendono con apparente calma. Continuo a dare disposizioni con pignoleria come il regista di un film: è questo un modo sicuro per infondere la calma. Grido ai ragazzi appostati a sinistra: "Fate attenzione agli automezzi militari. Dobbiamo colpirne uno con il rimorchio dove è presumibile che ci siano materiali e non uomini a bordo." Il battesimo del fuoco di questi ragazzi deve essere graduale. È opportuno evitare un confronto armato. Mi rivolgo agli altri due gruppi, rimasti al centro e a destra. "Voialtri dovete essere pronti a sparare solo se il nemico reagisce e se ne impartirò l'ordine. Tenete pronte le armi e fate in modo che non si inceppino. Ma niente fuoco senza ordine. Capito?" Sono un po' perplessi, forse si chiedono come attaccheranno il camion se non spareranno subito.
Si può combattere efficacemente il nemico, anche se si è in pochi, quando si ha fiducia nelle proprie forze, nella propria intelligenza, ma soprattutto si ha coraggio. Quella di stasera sarà una lezione di coraggio e un esempio di tipica azione di guerra partigiana. Chiamo Angelo ad alta voce: "Ti apposterai in quella macchia, lancerai una bomba a mano contro il camion, restando al riparo fino all'ultimo. Quando toglierai la sicura alla bomba e conterai fino a cinque, dovrai farlo in modo che il camion sia a una decina di metri. È chiaro?" Angelo assicura d'aver capito ma forse è turbato; non prevedeva di dover agire da solo. Ho molta fiducia in lui. L'accompagno nel centro del macchione. "Ricordati che ti devi poter muovere senza essere intralciato dai rami." Un camion si avvicina, ma non sarà quello che attaccheremo; servirà per una prova generale. "Ragazzi, state fermi. Angelo," riprendo ad alta voce, "adesso proverai a contare fino a cinque, come se avessi tolto la sicura alla bomba." Angelo si apposta. Il camion si avvicina. Comincia a contare. "Uno, due,... tre," la voce gli trema, "quattro, cinque..." "Molto bene," gli dico, "ricordati di tirare la bomba sul parabrezza. Anche se il tiro è corto, colpirà il motore. Tienti al riparo perché gli altri possano sparare senza colpirti. Quando darò il segnale di ritirata, raggiungerai il filare di alberi a cento metri, dove ci ritroveremo di nuovo. Non perdere la calma e per i primi metri della ritirata, striscia a terra. Chiaro?" "Chiarissimo," risponde.
Mi accosto al gruppo di sinistra. Un ragazzo ha la pistola in mano. "Sai usarla?" "La smonto e la rimonto in un minuto," risponde spavaldo. "Fammi vedere." Smonta con facilità i pezzi della pistola ma trova difficoltà nel ricomporli. "Se ti si inceppa, la rivoltella, quando ne hai bisogno, cosa fai? La porti dall'armaiolo?" Il ragazzo è umiliato. Gli do un colpo sulla spalla e me la prendo con gli altri due che non segnalano un automezzo in arrivo. "Che camion è quello? È distante ancora mezzo chilometro ma è indubbiamente un camion militare." "Sembra un camion tedesco con rimorchio," rispondono i ragazzi. "Bene, attenti a non sbagliare, badate che sia proprio un camion militare: quando sarà a cento metri, se sarete sicuri del fatto vostro, date il segnale ad Angelo, il resto dovrà farlo lui. Hai capito Angelo? Avete capito tutti?"
Continuo a parlare, coperto dal rumore del motore:
"Non dovete sparare se non do il segnale. Dobbiamo proteggere la ritirata di Angelo e del primo gruppo a sinistra. Il gruppo di destra dovrà proteggere il gruppo di centro e sganciarsi. Sarò con voi: fate attenzione ai miei ordini. Chiaro? Rispondete forte: 'tutto chiaro.' Allora siamo pronti."
Il rombo del motore e i fanalini azzurri rettangolari sono quelli di un camion militare. Trascorre qualche secondo. Nel gruppo di sinistra c'è animazione. Arriva il segnale. "Calma, fa' tutto con calma, Angelo," riesco a dirgli, "e mira al parabrezza."
Stavolta ho abbassato il tono della voce. Mi sposto verso il gruppo di destra. Se Angelo mancherà la mira o ci sarà una reazione, dovremo sparare subito senza lasciare un attimo di respiro al nemico. Purché sia carico di materiale e non di uomini. I ragazzi sono alla prima battaglia. Angelo ha preparato il lancio della bomba, ha spostato il fogliame, dovrebbe togliere la sicura. Il camion è a cinquanta metri. Angelo non ha mai lanciato una bomba. Il camion si avvicina. "State pronti a fare fuoco al mio ordine. Seguite il camion con le armi puntate," dico ai ragazzi. Riesco a scorgere il gesto fulmineo, violentissimo di Angelo. Con quella forza — penso — avrebbe fermato il camion anche con un sasso. Un fragore, un bagliore accecante, il motore impazzito urla. Camion e rimorchio percorrono un ultimo tratto di strada sbandando paurosamente e sulla scarpata di sinistra si rovesciano incendiandosi. "Angelo?" "Si." "Vattene subito e chiama anche i ragazzi del tuo gruppo. Al posto stabilito."
"Bene," risponde una voce diversa da quella esitante di prima. Per evitare ogni sorpresa aspettiamo qualche secondo. E evidente che sul camion c'era solo materiale che ora sta bruciando. È tempo di allontanarsi. "Ragazzi, dietro front; via di corsa." _
Li vedo passare tutti davanti a me, infangati, felici. Nel punto stabilito come primo ritrovo raggiungo Angelo. "Sei stato in gamba, bravo."
Non c'è tempo per i commenti. "Adesso ragazzi rientrate, fate presto, camminate celermente lungo i sentieri di campagna, ma siate guardinghi. Chi abita in paese è preferibile che dorma in uno dei rifugi o presso la cascina di qualche amico. A quest'ora il nemico è già in allarme." La piccola formazione si disperde. I ragazzi incominciano ad imparare le prime regole della guerra clandestina.

I ragazzi ci sono tutti; è la prima grande azione simultanea in tutta la Valle Olona. Le antenne del nemico dovrebbero aver intercettato almeno qualche segno di preparazione della nostra offensiva. Mi preoccupa l'assenza delle immancabili avvisaglie: nessuna animazione nella sede del distaccamento fascista di Nerviano, un edificio poco illuminato, tetro e silenzioso, sorvegliato da un paio di sentinelle. Anche a Lainate il distaccamento tedesco sembra ignorare la minaccia incombente. La grande villa Borromeo, al centro del parco, è ancora piú silenziosa del solito, con le finestre ermeticamente chiuse. La calma del nemico mi inquieta. Per diretta esperienza so che soltanto le piccole azioni riescono a sfuggire al nemico e che le offensive su vasta scala fanno suonare qualche campanello d'allarme tra le brigate nere e nei comandi della Wehrmacht. Anche se nessuna infiltrazione nemica si fosse verificata nelle nostre file, qualche parola, qualche accenno dei nostri ragazzi, alcuni dei quali quindicenni, la sorveglianza degli informatori repubblichini, avrebbero potuto far sorgere il sospetto di quanto stava per accadere in Valle Olona, dalle 23 alle 24.
E' opportuna una ispezione, la più ampia possibile. Molti degli uomini della brigata maneggiano le armi per la prima volta, altri hanno esperienza militare e i guastatori hanno già dimostrato notevole capacità tecnica e sangue freddo. Chi ha combattuto in Africa Settentrionale, nella guerra sbagliata, ora combatte contro i nazifascisti, ma la brigata è composta prevalentemente di ragazzi.
Affretto il passo, un distaccamento di Lainate è appostato sulla strada provinciale. Ci sono macchie di cespugli lungo la grande arteria e, dietro i filari di alberi, fossati. Un terreno favorevole alle rapide azioni notturne di sorpresa. I riflettori delle autocolonne tedesche non potrebbero illuminare in profondità il terreno, quando fossero attaccate. Anche se le fotoelettriche fossero di elevata potenza, i fasci di luce si arresterebbero ai filari di alberi, senza poter frugare nei fossati, protetti da arbusti, macchie, cespugli.
Una vegetazione senza piante nobili, ma preziosa in una pianura piatta e uniforme. I ragazzi stanno lì, proprio nel bel mezzo del macchione, perfettamente appostati. Controllano la strada nei due sensi ma le canne dei fucili e dei mitra sono celate nel fogliame. Un irregolare filare di pioppi li separa dalla strada. Potrebbero colpire il nemico d'infilata, e operare un rapido sganciamento. In quel macchione ci sono adolescenti dai quindici ai diciotto anni. Ridono nervosamente per un nonnulla, forse è lo stesso stato d'animo degli studenti agli esami.
Combattiamo la Wehrmacht coi ragazzini; attacchiamo le SS con gli alunni delle medie! "Hai paura?" chiedo ad uno. "Macché paura. Non vedo l'ora di cominciare." Niente affatto convinto, ne interrogo un altro, alto e magro, studente di liceo classico, più maturo e cosciente. A lui non chiedo e ha paura, ma se ritiene che gli altri temano lo scontro. "No, al contrario, aspettiamo soltanto il momento di sparare addosso ai tedeschi." "Scusi tanto," chiede un altro timido, "a che ora crede che avremo finito?" "Sei in guerra e vuoi l'orario?" rispondo brusco e non aggiungo parola perché alle mie spalle, tranquillo come a un pic-nic scorgo un altro che, con un gavettino in mano sta mangiando una minestra di pasta e fagioli. Lo interrompo prima che pronunci una parola: "Non avrai fatto rifornimento in qualche osteria dei dintorni?" Sarebbe piuttosto preoccupante se, nell'attesa dell'agguato qualcuno si fosse recato a fare provviste in locali pubblici. Il ragazzo si mette a ridere. "La minestra l'ha preparata mia madre e mi ha dato anche una bistecca con le patate." È ancora peggio di quello che temessi. Non solo dobbiamo attaccare í tedeschi con i ragazzini ma questo agguato segreto è a conoscenza delle madri di Lainate che, per i loro ragazzi, hanno preparato un piatto speciale. Anche altri stanno mangiando, hanno perfino la bottiglietta del vino. "Ma avete detto alle vostre famiglie che dovevate partecipare ad un attacco contro i tedeschi?" Mi risponde un "no" corale e scandalizzato. Si rifà vivo il ragazzino timido: "abbiamo avvertito le nostre famiglie che stasera, dopo il lavoro e la scuola, saremmo andati direttamente a una festicciola. Non vorrei che mia madre si preoccupasse eccessivamente del mio ritardo, perciò avevo chiesto a che ora avremmo potuto terminare..." È tutto chiaro, meglio del previsto. "Finirete abbastanza presto, ragazzi, non molto dopo la mezzanotte, perché in ogni caso, sarà bene sfollare, dopo questa ora." Sollievo generale. E' incredibile, ma quello che li angoscia è il timore di allarmare le famiglie. Che i tedeschi di lì a poco, debbano rispondere al fuoco, li turba meno.

*

Avevo salutato il distaccamento di Lainate, deciso a dare un'occhiata agli uomini di Nerviano e di Mazzo. La notte è splendida e silenziosa. Il cielo nero è freddo come ghiaccio.
Il distaccamento di Mazzo è il più brillante della brigata. Il capo è Grassi, l'uomo più calmo che abbia mai incontrato nella guerra partigiana in pianura. Lavora il suo podere, accudisce al bestiame, si avvolge in un mantello scuro che abbandona solo a primavera fatta. È stato guastatore e maneggia gli esplosivi con la stessa serenità e sicurezza con la quale dispone il foraggio nelle greppie. Fa la guerra come accudisce al suo lavoro: con serenità, con precisione, con il medesimo impegno che mette nel coltivare il suo fazzoletto di terra.
Quando deve trasportare dell'esplosivo il più possibile vicino al luogo dell'operazione, si "veste della festa," si copre con il tabarro e se ne va tranquillo con lo zaino pieno di dinamite, per le vie del paese, salutando senza fretta gli amici, con in bocca la pipa decrepita sempre accesa. Durante la mia ispezione ai distaccamenti lo incontro alla riva del Villoresi, lontano dal paese, dall'obiettivo e da ogni occhio indiscreto. In questa zona si respira un'altra aria, un'aria nostra; si può fare uno spuntino all'osteria, con pane, salame e un bicchiere di vino. L'oste è uno dei nostri e il suo locale una base di transito. Lì sono raccolti assieme a Grassi i ragazzi di Mazzo. All'ora stabilita aggireranno il cimitero per avvicinarsi alla linea ferroviaria sorvegliata da sentinelle tedesche e far saltare parecchie decine di metri di binario, interrompendo il traffico con Milano. Faccio ritorno alla mia base, una fabbrica in costruzione dove perverranno via via le notizie sulla grande operazione simultanea in Valle Olona. Transito davanti a una cappellina dedicata a S. Rocco; guardo il dipinto familiare, la mano protesa in un gesto di saluto. Il lucignolo esile schermato da un vetro azzurro è stato acceso come ogni sera e non saprò mai se dalla pietà dei credenti o dalla prudenza dei patrioti che depositano esplosivi e mitragliatrici dietro l'altare. Il lumino spostato a destra e i due vasi ai lati dell'altare mi dicono, in linguaggio convenzionale, che le armi sono state ritirate per essere adoperate sulla strada di Rho, su quella di Lainate e nella zona di Mazzo. Do un'ultima occhiata a S. Rocca e raggiungo lo sgabuzzino sopravvissuto alle demolizioni e ai bombardamenti, il "quartier generale." Dal cielo mi arriva il ronzio familiare di pippo, l'aereo che ogni sera puntualmente scarica bombe sulla strada e su ogni luce. Sono le 23.
In quel momento i miei uomini stanno muovendosi dietro i cespugli, i ragazzi di Lainate controllano gli otturatori delle loro armi, ascoltando le ultime istruzioni. Forse è irragionevole, ma sento che tutto andrà per il meglio, nonostante la zona, l'inesperienza dei giovani e la complessità di una mobilitazione in grande stile. Per ottenere le armi dal Conte, dopo il colloquio in casa delle sorelle Crespi, ho dovuto partecipare alla distribuzione di vin brulé ai convenuti davanti all'oste-ria, una specie di rancio militare.
Ricordo rabbrividendo il viaggio in automobile verso Lecco, l'arrivo alla villa per ritirare il baule dal guardiano, la penosa trafila delle presentazioni sussurrate; la sentinella tedesca di guardia, l'andirivieni sospetto dell'incaricato, il nostro "deprofundis" con le mani sul calcio della rivoltella e infine la sorpresa del baule carico di armi trafugate sotto il naso dei tedeschi.
È gioco d'azzardo, melodramma. Che cosa sapevamo di quell'uomo di mondo, intabarrato in stile ottocentesco? Che era in contatto con gli angloamericani? Che ospitava ufficiali americani lanciati col paracadute? Voci. Se sono ancora libero, se i miei partigiani possono combattere contro il nemico, lo devo alla buona fortuna, alla severa preparazione, al rispetto scrupoloso delle norme clandestine e, soprattutto, al silenzio di questi paesi legati alle tradizioni, popolati da gente chiusa in se stessa, come fortezze impenetrabili. Nemmeno il saluto barattano con i forestieri. Tacciono volentieri, sia che sappiano, sia che ignorino. Per superare la barriera della loro diffidenza, bisogna stare dalla parte giusta della barricata, rispettare il loro orgoglio, per feroce fedeltà al passato, la fedeltà alla profonda vocazione contadina. Non c'è da dubitare di quella gente. Del resto, ormai, manca solo qualche secondo alla mezzanotte. La "base" sede del mio comando, è provvista d'uno sgabello, una branda, il mitra, esplosivo e caricatori. Resto al buio, in attesa.
A quell'ora, con il coprifuoco, o sono i nostri o una motocicletta delle brigate nere: distinguo alcuni passi, sento qualche sasso smosso, a poca distanza dal mio ricovero, osservo da una fessura, tenendo imbracciato il mitra. Ci sono due uomini, ad una decina di metri di distanza. Il primo fa il segnale convenzionale: butta un sasso contro la porta e ripete subito dopo il gesto. So-no i miei ragazzi. Apro la porta. Appena il tempo di richiudere e il primo che è entrato, ansimando mi dice: "Tutto bene, tutti i fili della Wehrmacht sono tagliati a Rho e i ragazzi sono filati al sicuro prima che i tedeschi ed i fascisti potessero intervenire."
La prima staffetta porta buone notizie, da celebrare subito. Un comando partigiano può essere sfornito di tutto, ma non d'una sorsata di grappa. Un'eco di raffiche di mitra ci raggiunge da lontano. Usciamo dal ricovero, si scorgono fiammelle insistenti, che fanno udire un crepitio assordante in direzione della strada provinciale. I riflettori dell'autoparco frugano nel buio. Colpi sordi e fiammate violente di "Panzer-faust," fucilate isolate. I nostri si stanno allontanando e i tedeschi non riescono ad ostacolare la ritirata. Nella zona di Mazzo, un bagliore di un blu fosforescente dà un nuovo colore alla notte. La prima esplosione si confonde con la successiva. Dal distaccamento tedesco la guarnigione spara all'impazzata, con tutte le armi disponibili: mortai, anticarro, mitragliatrici.
Gruppi di automezzi tedeschi attaccati sulle strade, linee telefoniche interrotte a Rho, binari divelti sulla Milano-Domodossola, interruzione della Milano-Torino. Questo il bilancio immediato dell'attacco simultaneo.
Ora comincia un'altra fase, altrettanto dura.
Le decisioni del comando tedesco non si fanno attendere: coprifuoco, rastrellamenti, tetri manifesti della Plazkommandatur, vari gruppi di sentinelle lungo la ferrovia. Il nemico sguinzaglia i suoi informatori, fa sfilare colonne di carri armati e camion carichi di soldati per seminare il terrore nei centri della Valle Olona, tentando di interrompere ogni contatto fra partigiani e popolazione.
Ora, ognuno dei miei uomini e dei miei ragazzi deve trovare in se stesso la forza d'animo per resistere da solo alle pressioni, la prontezza di spirito per rispondere alle domande: "dove sei stato tu stanotte? Come mai sei tornato a casa tutto sporco di, sangue? Perché hai dormito in casa di un amico?" Ora che il nemico passa alla controffensiva, è il momento di tenere ben salde le file di un'organizzazione di combattimento che ha già fatto ottima prova ma che deve superare quella più ardua.

La disciplina di ogni esercito riposa nella giustizia. Anche del nostro. La lotta per la libertà ha le sue norme. Non sono scritte in alcun codice ma vengono rispettate rigorosamente. Un partigiano è un combattente e non può tradire i compagni. Non può disertare senza una giustificazione. La nostra guerra non consente ritiri in buon ordine. Chi ci abbandona lo fa perché è accaduto qualcosa. Dobbiamo sapere di volta in volta e in ogni caso se quell'uomo costituisce un pericolo per noi o se è diventato addirittura un nemico.

Cerco di ricordare il volto di quell'uomo, lo sguardo un po' freddo, con lampi furbeschi. Non ha dato luogo a critiche. Poi cominciano a circolare le prime voci. M. era stato visto vicino a C., il giorno in cui c'era stata una rapina. I giornali repubblichini denunciano i partigiani come ladri. Ho ordinato ai comandanti di gruppo di tenere gli occhi bene aperti. Le segnalazioni delle rapine arrivano sempre più dettagliate e precise e sempre più insistenti. Le accuse contro M. si precisano.
Poi una notizia allarmante: M. è una spia. I fascisti dopo averlo catturato lo hanno rimesso in libertà. Non accade frequentemente che un partigiano venga liberato. Quando ciò si verifica, qualcosa di grosso è accaduto. La segnalazione del tradimento di M. ci costringe ad abbandonare i rifugi che egli conosce, ad abbandonare i compagni coi quali aveva i contatti e a spostare i depositi che gli sono noti. Quando il nemico passa all'azione trova il vuoto. Ma lui ha parlato.
Viene raggiunta mentre i repubblichini stanno ancora rastrellando la zona. È Bel a catturarlo: ha in tasca una rivoltella e una tessera delle SS. Al quartier generale M. appare apatico. La sua apatia nasce dalla presunzione di poterci trarre in inganno. Quando gli si muovono le prime contestazioni, è sopraffatto dalla paura.
"Perché ci hai traditi?"
"Cercate di essere ragionevoli..."
"Si può essere ragionevoli con una spia fascista?" "Ho dovuto farlo."
"Perché?"
"Per salvarmi. Mi avevano individuato."
"Per salvarti come partigiano o come rapinatore?"
M. tace, sconvolto. Poi vuota il sacco. "Il comandante delle SS mi disse che poteva fucilarmi per aver partecipato alle rapine, ma sapeva che ero a contatto con i partigiani. Cercai di negare. Mi picchiarono. Volevano sapere chi è Visone e dove si nasconde. Non ho potuto resistere."
M. si rende conto che ha pronunziato la sua condanna. Comincia a dibattersi, a divincolarsi, a implorare, a urlare: "lasciatemi, lasciatemi."
Ci allontaniamo per decidere. "Io non voglio influire," dico, "dovete decidere voi secondo coscienza." "È colpevole," conclude Bel.
I comandanti partigiani all'unanimità lo condannano a morte per spionaggio. La sentenza è eseguita.
Dopo due giorni il Comando mi ordina di raggiungere Milano. Lascio i miei compagni della Valle Olona: lascio gli uomini, le donne, i ragazzi, il popolo insomma, che ha combattuto la dura lotta clandestina; lascio i comandanti e í commissari della 106a. Chi sono? Così come me la ricordo la moltitudine dei volti e dei nomi: Sandro, comandante di distaccamento che usava l'officina come rifugio, salvando la vita all'ing. Silvio, Mauro, Luciano, Mosca, Renato, Sante Boselli, Scalabrino, Beccarelli, cap. Costa.
Lascio i valorosi partigiani dei distaccamenti di , di Rho, di Nerviano, di Garbagnate, di Barbaiana, di Garbatola, di Pantanedo; lascio una folla di eroi oscuri.43

42 La Ghiringhella era una grande cascina, in cui avevamo una base in casa della famiglia Gariboldi
43 Zoni Pio e Lino, Belia, Anelli, Casnaghi, Cechetta, Martinelli, Gini, Milo, Gippin, Ceriani, Comi, Zanichelli, Foglia, Carletto, Giuseppe, Remo, Cip, Anzani, Zonca, Zerbi, Giudici, Boniforti, Carugo, Carcano, Pravettoni, Grassi, Giovanni, Ronda, Marco, Puricelli, Walter, Franco, Barba, Roda, Villani, Sada Fausto, Martignoni, Bellasio, Guido, Pecora, Basega Bruno, Zaminato, Rigoli, Meazza, Zanoni: i giovanissimi, fedeli e coraggiosi Parma di 15 anni, Borroni di 16, Taminato di 17, Menegatto di 16 anni fucilato alla vigilia del 25 aprile, e Bellasio.