Biblioteca Multimediale Marxista


Scritti e documenti della Sinistra Universitaria a Napoli


sommario

Premesse politiche

Introduzione ad un discorso sulla politica internazionale

"Sinistra da governo" e opposizione rivoluzionaria

Problemi del movimento universitario in Italia

Valore politico del Movimento studentesco

Nuovi obiettivi per il Movimento Universitario di opposizione

La sinistra universitaria di Napoli: Cronaca

La sinistra universitaria di Napoli: Documenti

Gli avvenimenti francesi e l'"unità antifascista"

In questo numero unico della Sinistra Universitaria, napoletana sono raccolti scritti e documenti di carattere politico generale ed altri scritti, di argomento più specifico, legati alle polemiche universitarie.Con questo lavoro, la Sinistra Universitaria vuole offrire un quadro delle sue posizioni politiche, soprattutto nei punti più essenziali e qualificanti.

Gli scritti ed i documenti di questo numero unico devono servire ad una presentazione; ed è bene che questa avvenga in termini abbastanza ampi e generali. Nel seguito, la Sinistra Universitaria napoletana inizierà una attività pubblicistica più regolare e arricchirà la sua presentazione; con scritti e documenti sulle lotte universitarie, dove cercherà di condensare i risultati delle esperienze del movimento studentesco di opposizione dell'Università di Napoli negli ultimi anni.

NUMERO UNICO DELLA SINISTRA UNIVERSITARIA DI NAPOLI — AMMINISTRAZIONE E REDAZIONE: U G O T R O I A — VIA GIROLAMO SANTACROCE, 5 — 80129 N A P O L I — 15 GIUGNO 1968


PREMESSE POLITICHE


Durante le agitazioni universitarie degli ultimi anni si sono venuti maturando, in molte città, nuovi gruppi giovanili, in polemica con la linea politica proposta, fuori e dentro la coalizione di governo, dai partiti che, "ufficialmente", sono di sinistra. Nelle occupazioni delle università e nelle relative esperienze di lotta, nei dibattiti e nelle polemiche che si svolgevano nelle sedi occupate si mostrarono limpidamente gli orientamenti di retroguardia dell'ufficialità di sinistra, e dei suoi sostenitori. Molti gruppi furono inizialmente sollecitati a contrapporre soltanto una linea di "politica universitaria", diversa da quella "ortodossa" sia nei contenuti che nella strategia di lotta; in seguito, cercarono e trovarono l'incontro con altri gruppi politici, a sinistra degli schieramenti ufficiali, e cominciarono a proporre e orientamenti politici più ampi.

A Napoli, la Sinistra Universitaria si è formata su queste basi circa un anno fa, raccogliendo insieme le sollecitazioni del movimento di opposizione che si sviluppava nell'Università e i contributi di. alcuni gruppi della dissidenza di sinistra. La base immediata per l'attività comune fu inizialmente fissata dagli aderenti alla Sinistra Universitaria in una dichiarazione politica. Vi si ribadivano, in contrapposizione soprattutto con i gruppi di "mediatori", che pretendevano conciliare i gruppi della dissidenza di sinistra ed i partiti della sinistra ufficiale, il rifiuto di ogni strategia politica fondata sul fronte unico antimperialista e sulla cosiddetta tattica entrista. Si riconosceva d'altra parte, che la polemica per il socialismo può oggi svilupparsi, nelle università, su ampie basi di massa, contro la politica di coesistenza e di integrazione dell'ufficialità di sinistra.

Nei mesi seguenti, gli aderenti alla Sinistra Universitaria hanno verificato che questa piattaforma poteva offrire, nelle condizioni concrete in cui si muovevano i gruppi della dissidenza di sinistra, un importante punto di partenza. Più precisamente, si può affermare che la piattaforma di partenza e tornata utile perché i diversi gruppi che vi si riconoscevano inizialmente non si sono limitati a mantenere tra essi uno stato di neutralità permanente, ma sono stati apertamente disponibili alla polemica interna, e vi si sono impegnati decisamente.

Per questa via, l'esperienza che compiono gli aderenti alla Sinistra Universitaria napoletana si ricollega via via a quella dei gruppi italiani della dissidenza che si impegnano oggi nel lavoro di ricostruzione di raggruppamenti politici rivoluzionari. L'esigenza di superare le formulazioni approssimative, spesso soltanto motivo di convergenze occasionali, si va facendo strada negli ambienti della dissidenza di sinistra - e spinge anche noi ad uno sforzo di lavoro interno di precisazione e di approfondimento teorico

Introduzione ad un discorso sulla politica internazionale


La strategia dell'imperialismo e le sue interne contraddizioni


Lo sviluppo dell’economia mondiale fino ad oggi dimostra che si sono verificate le tendenze storiche del processo di sviluppo del capitalismo analizzato a suo tempo da Marx: la spietata espropriazione di tutti i detentori di merci e dei mezzi produttivi (artigiani, contadini, piccoli e medi imprenditori, industriali...), l'accumulazione crescente dei capitali con i aumento ed il rinnovamento dell'insieme dei mezzi di produzione, la concentrazione in un numero sempre minore di mani di queste forze sociali, con la creazione di giganteschi complessi di stabilimenti e di aziende.

Sulla base della previsione marxista intorno alla crescente concentrazione e centralizzazione del capitale e dell'analisi marxista intorno alla scissione fra guadagno dell'imprenditore ed interesse, e alla autonomizzazione del capitale produttivo di interesse in forme parassitarie, Lenin indica nel 1915 i cinque principali contrassegni della fase imperialista, tutti ampiamente ritrovati nell'analisi strutturale della realtà storica contemporanea:


1) la concentrazione della produzione o del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica;

2) la fusione del capitale bancario con il capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo capitale (finanziario), di una oligarchia finanziaria;

3) la grande importanza acquisita dall'esportazione del capitale in confronto con la esportazione di merci;

4) il sorgere delle associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo;

5) la completa ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.


Per la comprensione delle forme dell'intervento delle forze imperialiste nel mondo moderno, non ci si può distaccare da tali premesse di fondo: ancora una volta l'analisi rimanda a Marx ed a Lenin. Verifichiamo oggi come le corporazioni multinazionali si estendano fino a dimensioni che superano largamente i confini dei singoli stati, e le holdings nazionali si colleghino in accordi, dividendosi i mercati e le fonti di materia prima. Questa tendenza all'integrazione del capitale a livello internazionale non annulla però l'influenza dello ineguale sviluppo del capitalismo nei vari paesi, e le contraddizioni tra i gruppi imperialistici continuano a riprodursi.

I governi dei paesi imperialisti intervengono nella vita economica in forme che vanno molto oltre i limiti tradizionali degli interventi in materia fiscale e creditizia; usano largamente strumenti nuovi e tradizionali per una azione continua di equilibrio e di orientamento. L'introduzione di una pianificazione economica di lungo periodo mossa dagli interessi economici e politici dei grandi gruppi del capitale finanziario, si accompagna alla compressione dei centri decisionali indipendenti nei vari paesi. I sindacati sono aggiogati strettamente alle corporazioni economiche e politiche dominanti attraverso svariati mezzi, fino alla politica dei redditi; i partiti politici tendono ad integrarsi reciprocamente e ad agganciarsi alle centrali politiche degli stati. Tutto questo permette agli stati imperialisti di trovarsi oggi inseriti in un ampio organismo e di contenere la spinta delle classi sfruttate dei loro paesi, e di temperare gli effetti di crisi parziali, economiche e politiche, utilizzando la solidale collaborazione degli altri stati imperialisti.

Partendo dall'analisi degli Stati Uniti d'America, della sua economia interna e della sua iniziativa a livello internazionale come centro dell'imperialismo occidentale potremo avere una visione un po' più completa delle contraddizioni che travagliano l'area propria del capitalismo avanzato e dell'intero sistema imperialistico.

Negli Stati Uniti d'America, gli inizi del 1967 hanno visto un graduale indebolimento dell'attività economica: dopo l'exploit industriale degli ultimi dieci anni (durante i quali si è avuto un aumento di quasi il 50% della produzione industriale) gli Stati Uniti si avviano verso una fase che se non è ancora di recessione, è di un pesante ristagno. La produttività industriale è diminuita, mentre crescono i salari ed il costo dei prodotti; lo stesso mercato finanziario è incerto, mentre le riserve di Fort Knox si sono ridotte pericolosamente. Tutto ciò avviene in una fase di elevata concentrazione: agli inizi del 1967 si registra la fusione dl oltre mille società; e sulle 200.000 esistenti le 20 maggiori controllano il 25% della produzione nazionale, le prime 200 il 75%.

Nella strategia che gli Stati Uniti mettono in esecuzione nel loro intervento imperialistico, è presente una prima direttiva: quella di mantenere in un costante rapporto di subordinazione economica e politica alla propria potenza, tutti gli altri paesi capitalistici del mondo occidentale. Sebbene la supremazia americana in tale ambito sia ancora ben salda, già possono notarsi a questo livello delle incrinature non lievi della posizione di predominio degli Stati Uniti. Partiti da una posizione di assoluta preminenza nel dopoguerra, gli Stati Uniti trovano da qualche tempo delle resistenze nel campo economico come in quello politico, da più punti del sistema di alleanze con gli altri stati a capitalismo avanzato; la penetrazione del capitale americano comincia a trovare nuovi ostacoli, mentre diventa sempre più difficile la stabilizzazione del dollaro come unità monetaria dominante del commercio internazionale.

Il piano Marshall dell'immediato dopoguerra, con tutti gli accordi successivi, mettendo in pochi anni l'Europa in grado di comprare, permetteva all'economia statunitense la soluzione di gravi problemi di giacenze finanziarie. Dei 500 miliardi di dollari, con i quali le società americane hanno raddoppiato negli ultimi sette anni i loro investimenti all'estero, oltre 1/3 riguardano l'area europea, che per molta società americane rappresenta ormai un mercato estero di vendita, superiore a quelle interno L’influenza del capitale americano è tuttora permanente, ai fini di evitare gravi squilibri nei mercati dei paesi occidentali nel campo finanziario come in quello più propriamente economico. Tuttavia, anche i capitalismi "inferiori" iniziano la produzione di beni strumentali in maniera specifica ad un certo livello del ciclo produttivo, pur non avendo né la forza né i mezzi necessari per portare a compimento un intero ciclo. L'industria americana — che è ben più forte, e può intervenire in qualsiasi momento del ciclo di produzione - domina a tal punto la situazione che, le industrie dei paesi occidentali per quanto accentrato (al meno in questi ultimissimi anni), incontrano enormi difficoltà per rompere la situazione presente a loro favore.

Comunque, i primi segni di una reazione all'assoluto predominio americano sono evidenti. Basti guardare all'antiamericanismo della Francia, dove il gollismo rappresenta gli interessi della grande borghesia francese, impegnata anch'essa strenuamente per una redistribuzione del mercato internazionale; o anche ai possibili sviluppi di un M.E.C. che non faccia parte della "frontiera della democrazia, che passando oltre l'Atlantico comprenda in sé pure l'Europa" (sono i termini con cui Kennedy esprimeva il programma americano di fagocitare interamente il capitalismo europeo) ma che anzi s'inserisce con proprie precise pretese imperialistiche, nel sistema del capitalismo internazionale, in lotta quindi con gli stessi Stati Uniti.

L'altra direttiva fondamentale dell'imperialismo americano investe le aree dei paesi ex-coloniali, dell'Asia, dell'Africa, dell'America Latina, dove, dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno soppiantato gli imperialisti tedeschi, belgi, francesi etc. In tali aree la politica americana è rivolta a favorire un graduale sviluppo delle forze produttive indigene, in limiti che non pregiudichino il proprio processo di accumulazione (è il caso di quei paesi che si sono conquistati l'indipendenza politica, ma che restano economicamente dipendenti dall’ex-metropoli o dai loro nuovi protettori come India, Turchia, Tailandia); oppure mira a conservare con la violenza, nell'arretratezza economica e sociale, quei paesi che non hanno ottenuto né l'indipendenza né l'unificazione territoriale, o che, dopo averla ottenuta sono ricaduti sotto il giogo dirette dell'imperialismo (come Congo e Vietnam).

Nell'uno e nell'altro caso l'imperialismo americano svolge da un canto, la funzione di scaricare all'esterno dei propri territori le pressioni economico-sociali interne, dall'altra parte mira a conservare, o ad ampliare la sua espansione. Gli investimenti dei paesi imperialistici nelle aree economicamente arretrate sono cresciuti di 47,4 miliardi di dollari dal 1951 al 1961. Ma questi capitali sono stati in effetti 20,9 miliardi se si tien conto degli interessi, pari a 26,5 miliardi che i paesi arretrati hanno dovuto consegnare e sono ancora maggiori se si tengono in conto i 13,1 miliardi praticamente annullati dalla degradazione della ragione di scambio.

Infatti all'incremento delle esportazioni dei paesi arretrati è seguito un crollo dei prezzi sempre più notevole; e l'aumento del tenore di vita delle popolazioni, derivante dall'accentuarsi degli scambi, ha approfondito la subordinazione all'imperialismo americano. Come unico esempio ricorderemo quello della Colombia dove se nel 1954 bisognava pagare 19 sacchi di caffè per un auto, nel 1962 ce ne volevano 32.

In tal modo, l'esportazione del capitale nelle aree del cosiddetto "sottosviluppo" si è estesa, conservando un ruolo importantissimo nell'economia dei paesi avanzati I profitti degli Stati Uniti in tali aree sono più che raddoppiati in percentuale negli ultimi anni; i guadagni delle grandi corporazioni economiche statunitensi per gli investimenti all'estero sono aumentati dal 1950 al 1965 di quasi quattro volte, da 2,1 miliardi a 7,8 miliardi di dollari

Per conservare tale posizione di predominio sulle aree arretrate i grandi paesi imperialisti si sono impegnati in una serie di vaste azioni di repressione, per isolare e distruggere i focolai di iniziativa politica e di azione armata che seguivano un orientamento antimperialista conseguente. Allo scopo di indebolire i gruppi anti-imperialisti, hanno spesso tentato di introdurre in essi elementi di divisione muovendosi a parziali concessioni nei confronti dei gruppi più moderati dei movimenti di liberazione sostenuti dalle borghesie nazionali; nella maggioranza dei casi, tuttavia, hanno dato incondizionato appoggio ai gruppi più reazionari ed alle caste privilegiate feudali, contribuendo a spingere nelle file delle forze anti-imperialiste ampi gruppi popolari. A difesa del sistema imperialista su scala mondiale, gli Stati Uniti, forti dell'enorme supremazia politica, economica e tecnologica sugli altri paesi imperialisti, hanno assunto una posizione di punta. Essi si presentano, ovunque nel mondo come i principali tutori dell'ordine politico promosso dai grandi stati imperialisti. Le basi militari, le flotte, gli aerei e gli eserciti americani sono sparsi in tutto il mondo; ed in tutto il mondo, gli uffici culturali e le organizzazioni economiche americane sono centro di raccolta del gruppi più retrivi e delle iniziative più reazionarie, dal Ghana al Congo, dall'Indonesia al Medio-Oriente e così via.

I ceti popolari sfruttati dei paesi coloniali e semicoloniali sono invece per la loro posizione pratica nelle società sottosviluppate, irriducibili nemici non solo dell'imperialismo ma anche dei vecchi ceti feudali e delle borghesie nazionali. Tuttavia i loro movimenti politici sono riusciti raramente a portare a compimento la lotta contro i gruppi privilegiati dei loro paesi e contro gli stati imperialisti. L'esperienza delle lotte dei popoli coloniali e semi coloniali, ha smentito in modo definitivo negli ultimi anni i propagandisti di un "Terzo Mondo" unitario, da riguardarsi come un blocco di forze sostanzialmente compatto. In realtà questi paesi sono oggi profondamente ed appositamente divisi, e forze molto diverse e contrastanti operano in essi.

Nella maggior parte di questi paesi economicamente arretrati, specie dell'Asia e dell'America latina, dominano ancora i gruppi peggiori agganciati strettamente alle centrali dell'imperialismo ed innanzi tutto ai circoli dirigenti degli Stati Uniti e questi gruppi seguono all'interno e sul piano internazionale una politica scopertamente reazionaria. In altri paesi, sono al potere gruppi relativamente illuminati della borghesia nazionale che assumono posizioni "centriste" e premono per un accordo generalizzato tra Stati Uniti ed URSS, e per una stretta collaborazione nell'ambito dell'ONU. In altri paesi ancora prevalgono gruppi più strettamente condizionati dai movimenti anti-imperialisti, che organizzano il loro potere sulla base del partito unico e della centralizzazione dell'economia intorno alle iniziative di Stato; sul fronte internazionale essi tendono a collegarsi con i paesi dominati dalle burocrazie, pur riservandosi ampi margini di indipendenza. Soltanto in pochi paesi i gruppi dirigenti dei movimenti popolari sono rimasti legati alle più radicali impostazioni anti-imperialiste e di lotta per il socialismo e sono riuscite a sconfiggere i gruppi più moderati. In tutti gli altri paesi, tuttavia, le condizioni raggiunte sono estremamente instabili, e le forze politiche rivoluzionarie hanno grandi possibilità di azione sui vari fronti, per la liberazione nazionale, contro l'imperialismo, e per il socialismo.

Negli ultimi decenni quindi sono venute sviluppandosi ancor più le contraddizioni tra popoli sfruttati del cosiddetto "Terzo Mondo" e i gruppi imperialisti dei paesi metropolitani: all'estensione praticamente illimitata del fronte di repressione imperialista degli Stati Uniti si va accompagnando un indebolimento sul fronte interno e sul fronte esterno della stessa potenza americana. Sicché tali aree acquistano un particolare ruolo nella lotta per il definitivo abbattimento mondiale dell'imperialismo.

In ogni caso la profondità dei loro colpi all'imperialismo sarà efficace solo se stabilirà un accordo con le lotte che nei parsi di capitalismo avanzato le avanguardie rivoluzionarie portano e porteranno avanti nella precisa convinzione che bisogna battere l'imperialismo nei centri vitali delle sue metropoli.


U.S.A.-U.R.S.S., coesistenza pacifica e competizione economica


L'ultima direttiva della strategia imperialistica, politicamente forse la più importante, è volta a stabilire un mantenimento stabile dell'equilibrio internazionale, attraverso la minaccia o l'accordo, tacito e palese, con quella potenza che in campo mondiale le ostacola più il passo: l'Unione Sovietica

Nella fase successiva alla fine del secondo conflitto mondiale si è attuato il consolidamento di quelle due potenze, la sovietica e la statunitense, che avevano saputo e potuto sfruttare abilmente il crollo dell'imperialismo tedesco. Sin d'allora si poneva un dilemma tra due vie strutturalmente possibili: o le due potenze affrontavano una disputa definitiva per il dominio mondiale oppure tentavano di incontrarsi in una economia mercantile unica. A vent'anni di distanza si può ben verificare come tra le due sia prevalsa la seconda. USA ed URSS partecipano oggi ad un unico sistema mondiale, e gli interessi dell'una e dell'altra potenza sono diventati interdipendenti, se non identici. A comprovare queste conclusioni sono i dati della politica economica internazionale sui rapporti di scambio tra i due "blocchi", quello occidente e quelle sovietico.

Gli Stati Uniti d'America, portando fino in fondo la strategia imperialistica di accordo internazionale cui si e prima accennato hanno abolito i controlli sull'esportazione nel commercio Est-Ovest, hanno concesso crediti commerciali sempre più vantaggiosi a Polonia, Bulgaria, Ungheria, Cecoslovacchia; hanno ridotto i debiti della Polonia, hanno offerto un prestito di 50 milioni di dollari per finanziare l'industria che la FIAT costruisce nell'URSS. A questi e molti altri trattati economici, si aggiungono accordi di natura strettamente diplomatica.

Per valutare la politica internazionale sovietica bisogna considerare la strutturale involuzione interna ed esterna dello stato sovietico, pure uscito della gloriosa rivoluzione d'ottobre. Fermiamoci per il momento sulI'anti-imperialismo pacifico e coesistenziale dell'URSS. Dall'affermazione della possibilità di costruire una economia nazionale che infrangesse la legge generale dell'accumulazione capitalistica o sfuggire alle ferree esigenze del mercato mondiale, fino a sostenere che in campo internazionale i paesi arretrati potessero accedere alla "indipendenza economica" ed al "progresso sociale" nel regime internazionale odierno, il passo è stato breve.

Ricordiamo Kruscev: "La competizione economica è diventata la via maestra della storia moderna"; o anche Suslov: "Oggi che la conquista della indipendenza economica ed il progresso sociale sono divenuti il principale orientamento della lotta anti-imperialista dei paesi liberati, una importanza particolare assume l’estensione della collaborazione economica dei paesi socialisti con loro, la concessione a questi paesi di un aiuto economico fraterno".

E' evidente che tali affermazioni si propongono di far credere che esistono delle formule di sviluppo del capitalismo mondiale che escludono il sottosviluppo, cioè il ritardo crescente dei paesi arretrati rispetto a poche grandi potenze. In altri termini il "capitalismo del nostro tempo" non comporterebbe più l'accumulazione della ricchezza da un lato e la crescente miseria dall'altro; esso sarebbe divenuto popolare, sarebbe in grado di risolvere in campo nazionale ed internazionale le sue contraddizioni.

La teoria della coesistenza pacifica e della competizione economica sono saldamente impiantate sulle tesi di Kautsky. Costui riconosceva il processo di concentrazione capitalistica, la dominazione del capitale finanziario ma affermava altresì che l'emancipazione delle colonie, il loro sviluppo industriale e gli accordi internazionali erano mezzi suscettibili di attenuare le ineguaglianze e le contraddizioni dell'economia mondiale.

Le tesi della coesistenza pacifica e della competizione economica diventano una copia delle formulazioni kautskiane sull'ultra-imperialismo. A rispondervi basta ancor oggi la critica di Lenin che denuncia l'utopia di uno sviluppo "uguale" di tutti i popoli, dimostrando il crescente divario tra i paesi superindustrializzati e quelli (che i russi di oggi chiamano) "sottosviluppati", e fa contemporaneamente rilevare la lotta accanita tra gli stati imperialisti per la suddivisione del mondo. Come esempi della realtà storica odierna basti ricordare che solo un quarto del commercio dei paesi imperialisti si rivolge al "Terzo Mondo", mentre il commercio di queste aree con i paesi superindustrializzati e ben 3/4 di quello globale; che tali paesi arretrati, mantenuti nelle forme economiche della monocoltura, sono dipendenti in modo assoluto dal paesi imperialisti nei loro scambi, e che i prezzi dei manufatti importati aumentano, mentre quelli dei prodotti di base esportati diminuiscono costantemente.

Questi pochi esempi mostrano la costante subordinazione economica di tali paesi alle grandi potenze capitaliste. Ma ci si può convincere dell'assurdità delle tesi revisionistiche di una emancipazione economica pacifica per i paesi arretrati, guardando alle continue guerre che piagano a morte le aree economicamente arretrate, prima tra tutte il Vietnam.

In conclusione, la politica estera sovietica non contrasta granché gli interessi economici e politici perseguiti dagli Stati Uniti d'America. Su tale base il disegno politico dell'imperialismo su base mondiale è ampiamente incoraggiato ed aiutato dai gruppi dirigenti dell'Unione Sovietica. Nei paesi "sottosviluppati", essi hanno sostenuto e sostengono, con aiuti economici, politici e militari, governi e movimenti che hanno la loro base economica nella borghesia e nei ceti feudali impedendo quindi la trasformazione di movimenti democratici di liberazione nazionale in movimenti per il socialismo e combattendone le avanguardie politiche rivoluzionarie. Negli stessi rapporti con le potenze imperialistiche I'URSS ha perseguito una politica dettata esclusivamente dalle esigenze di stato, ripiegando davanti all'iniziativa dell'imperialismo ed abbandonando i programmi internazionalisti di sostegno alla rivoluzione negli altri paesi.

Tale è la coesistenza pacifica, non strategia, semplicemente "errata", effetto esclusivo dei limiti "soggettivi" dei gruppi politici che dirigono lo stato sovietico, ma l'espressione più coerente ed organica degli interessi pratici della classe dirigente sovietica, interessi che, d'altra parte, non sono di genere "subordinato", ma interessi profondi di sfruttamento e di oppressione, né più né meno di quelli dei gruppi dominanti dei paesi imperialisti.

In realtà, il collegamento dell'URSS col mercato mondiale capitalistico, nelle torme della coesistenza pacifica e della competizione economica, e la penetrazione del capitale occidentale nei suoi territori, si sono realizzati nel quadro di uno sconvolgimento delle strutture proprie dell'economia russa. Si è cioè determinato in URSS e nei paesi dell'Est una situazione ben lontana dall'auspicata organizzazione nelle forme di una economia socialista. Tale situazione è caratterizzata strutturalmente dal prevalere di un ceto privilegiato che basa il suo dominio sullo sfruttamento dei ceti eminentemente produttivi: situazione da non considerarsi di livello "subordinato" rispetto a quella di più vecchia origine, che vede nei paesi del capitalismo occidentale la classe operaia opposta alla borghesia dominante.

Il XXI Congresso del PCUS colle sue rivelazioni sulla economia sovietica, mal strutturata e mal diretta da Stalin, rimetteva in discussione il sistema staliniano di pianificazione centralizzata e con essa l'intera teoria staliniana che l'avanzamento delle forze del socialismo dipendeva dalle capacità dello stato sovietico di tener testa all'imperialismo, in realtà, dal fallimento strutturale dell'esperienza del "socialismo in un sol paese", la classe dirigente sovietica concludeva che la centralizzazione statale dell’intera economia nazionale era più un impedimento che un vantaggio, e considerava che la "guerra fredda" non rispondeva né agli interessi economici, né a quelli politici dell'URSS. L'industria sovietica, ormai entrata a far parte organicamente del mercato mondiale, di fronte ai gruppi del capitalismo occidentale di elevatissima concentrazione, era nella necessità di diminuire i costi di produzione e di aumentare la produttività del lavoro, se voleva portare avanti, nel miglior modo, la concorrenza che l'entrata nel mercato mondiale imponeva necessariamente.

Il Congresso della destalinizzazione ripropone perciò la pratica liberal-democratica "della competizione economica", affibbiandole il nome di "socialista". E' in questo il più profondo significato delle nuove riforme che sanciscono, fra l'altro, il principio giuridico dell'autonomia di gestione e di finanziamento delle aziende di stato in URSS. A questo provvedimento se ne vanno man mano aggiungendo altri, che autorizzano le concessioni di crediti secondo il rendimento aziendale, l'aumento delle possibilità decisionali dei direttori di azienda fino al licenziamento degli operai senza la consultazione coi sindacati, etc.; ed effettivamente, in seguito a tali provvedimenti — d'altronde perseguiti in tutti i paesi dell’area socialista sovietica — si è constatato, a tutto i primi del 1967, un incremento produttivo.

Questo incremento avviene grazie all'ormai completa apertura del mercato interno agli investimenti dei paesi dell'area occidentale basti ricordare gli accordi con la FIAT, con l'Olivetti, con la BMC inglese, con parecchie branche dell’industria francese (per la televisione a colori, e per forniture di auto dalla Renault e dalla Peugeot); ed è addirittura vicino un accordo di vaste proporzioni con l'American Motor Corporation. Conseguentemente all'integrazione tra le aziende occidentali e quelle orientali dell’area sovietica, si va formando una fonte di sovraprofitti in campo internazionale. I gruppi revisionisti dei paesi cosiddetti socialisti tendono a partecipare più strettamente al mercato capitalistico internazionale, insieme con quel partiti dell’occidente europeo che usano ancora e falsamente il nome di "comunisti", a ricavare da ciò la possibilità di sopravvivere come incancrenito fenomeno di corruzione in seno al movimento operaio.

Si conservano dovunque le distinzioni tra il sistema occidentale e quello sovietico. A differenza del primo, che sfrutta ormai le sue forze produttive in maniera parassitaria, il sistema sovietico è In fase di pieno sviluppo delle proprie forze produttive. D'altra parte il particolare accentramento statale sovietico compiuto a più livelli, vi ha reso ormai definitivo il distacco tra società civile e società politica, e stabilito un rapporto di assoluta subordinazione della prima alla seconda attraverso un capillare apparato di controllo e di repressione burocratica. Possiamo perciò avanzare l'ipotesi che fa della Russia il modello sociale, in prospettiva, più avanzato.

In rapporto a tali conclusioni, risulta evidente che il tradimento da parte dell'URSS degli interessi del movimento operaio internazionale assume il valore di un disastro storico incalcolabile. L'appoggio strutturale nel campo economico-politico, che lo stato sovietico ha offerto ed offre alle potenze del mercato mondiale capitalistico, e l'organico inserimento della stessa URSS in esso, propone alle forze rivoluzionarie la tesi che l'avversario principale da combattere nella realtà storica contemporanea non sia più solamente il capitalismo occidentale nella sua veste internazionale, ma forse, ancor più la stessa URSS.


I problemi della costruzione del socialismo in Cina


La Cina , negli anni. Sessanta, svolge un ruolo di primaria importanza storica, aiutando l’allargamento della comprensione del tradimento sovietico, oltre le ristrette avanguardie ancora ligie agli ideali rivoluzionari, alle più vaste masse struttale nel mondo. La posizione politica della Cina, di rinnovata rottura dell'equilibrio internazionale, si contrappone alle false tesi di pacifico progresso economico e sociale, propagandato tanto da parte americana quanto da parte sovietica.

Essa contribuisce a rendere coscienti più vasti strati del movimento operaio della situazione di crisi in cui si trova oggi il movimento comunista internazionale. Questa situazione è caratterizzata, a livello internazionale dal passaggio dell'URSS nel campo dei paesi che si reggono sullo sfruttamento e sull'oppressione, fatto che si riflette nella politica revisionata da essa perseguita a livello internazionale. A questa situazione si collega l'assoluta mancanza di partiti politici, strumenti di guida della rottura rivoluzionaria dell'ordine costituito, nelle realtà nazionali ed in quelle internazionali.

Senza impegnarsi in un discorso politico sulle possibilità rivoluzionarie a lunga scadenza della Cina, si può dire che l'esperienza cinese, anche se non completamente adeguabile alla realtà dei paesi industrialmente avanzati dà un contributo largamente positivo all'allargamento della preparazione, teorica e pratica della futura rivoluzione comunista. In realtà questa esperienza va inquadrata nelle difficoltà storiche che la Cina si trova ad affrontare nella costruzione del socialismo, difficoltà — dovute soprattutto alla realtà internazionale che la condiziona da ogni lato.

Per studiare un po' più da vicino tali difficoltà e quindi i limiti di alcune soluzioni ma anche gli aspetti positivi da recuperare, per una strategia rivoluzionaria nazionale ed internazionale, possiamo analizzare la realtà politica cinese sulla base delle condizioni che Trotsky poneva, in un discorso al IV congresso dell'Internazionale Comunista del 1922, come preliminari alla costruzione politica ed economica del socialismo. Egli vedeva tale costruzione come dipendente: 1) dal livello delle forze produttive, specialmente dai rapporti reciproci tra industria ed economia contadina; 2) dal livello culturale ed organizzativo della classe lavoratrice che ha conquistato il potere statale; 3) dalla situazione politica nazionale ed internazionale (se la borghesia è stata vinta completamente o offre ancora resistenza, se hanno luogo interventi militari stranieri e così via). Tali tre punti non costituiscono per noi naturalmente, un arido elenco ma lo sfondo problematico su cui basare una indagine sulla realtà economica e politica della Cina.

Un primo punto fermo per una comprensione un po' più approfondita della realtà economico-sociale della Cina dei nostri giorni è il giudizio sulla natura della rivoluzione cinese. Tale giudizio ce lo offre lo stesso Mao-Tse-Tung ne "La Nuova Democrazia": "La rivoluzione cinese è una rivoluzione contadina, la lotta contro gli invasori giapponesi è fondamentalmente una lotta contadina, il regime di nuova democrazia consiste fondamentalmente nel dare il potere ai contadini".

La sconfitta del proletariato cinese, avvenuta ad opera del nazionalista Ciang Khai-Scek, fece sì che la rivoluzione dovesse ripartire dalle campagne; e ciò ha posto un primo condizionamento ed un primo limite ai fini della costruzione del socialismo. La tradizione marxista, ha, in effetti, giustamente sottolineato l'incapacità delle classi contadino e piccolo-borghesi di avere una politica propria e Lenin ha più volte specificato come la condizione prima per movimenti rivoluzionari dell'oriente economicamente arretrato fosse quella di una direzione proletaria che trascinasse dietro di se i contadini, secondo quella formula della "dittatura rivoluzionarla e democratica degli operai e contadini" che era stata positivamente sperimentata nella rivoluzione del 1917 in Russia.

Troviamo dunque in Cina una realtà in cui prevale fondamentalmente l'agricoltura sull'industria, in una situazione politica internazionale di isolamento della Cina del resto del mondo (un isolamento cui contribuisce attivamente la politica dello stato sovietico). Come affermare in realtà il socialismo in Cina su di una base economica strutturalmente contadina? Come risolvere i problemi dell'industrializzazione e creare una grande industria moderna, condizione per una politica autonoma indipendente dall'intrusione e dall'influenza dell'URSS e del blocco occidentale?

Queste domande pongono in tutta la loro drammaticità la lotta che strenuamente il popolo cinese sta portando avanti per avviare e consolidare le prime forme di economia socialista. In realtà non è assente dai convincimenti dei dirigenti cinesi che l'impianto economico e politico del socialismo nel loro paese può diventare duraturo solo nel contesto di un rivoluzionamento economico e politico internazionale e nella realtà di una alta industrializzazione, sulla base di una situazione interna che veda definitivamente sconfitte le ancor vive resistenze dei ceti medi e piccolo-borghesi.

Questa giusta impostazione nella linea della costruzione del socialismo in Cina ha determinato conseguenti comportamenti storici: il primo convincimento è rispecchiato nel rigetto deciso delle tesi sovietiche delle coesistenza pacifica e sulla competizione puramente economica con le forze imperialistiche, e ha dato luogo, a partire dagli anni 1958-59, ad un violento conflitto tra i due paesi; il secondo ha doto luogo ad un potente rivolgimento interno alla stessa Cina. Su richiamo della direzione del PCC le masse cinesi si muovevano per superare le contraddizioni, seppur non antagonistiche in seno al popolo che Mao Tse-Tung aveva da tempo individuato: iniziava come fenomeno storico, la rivoluzione culturale e proletaria cinese.

Ci preme, a questo punto, caratterizzare correttamente la rivoluzione culturale proletaria cinese; per dimostrare come dalla maturazione dell'esperienza interna derivi il deciso atteggiamento di lotta in campo internazionale all'imperialismo ed al revisionismo di ogni tipo.

La rivoluzione culturale e proletaria è caratterizzata a nostro parere, da due aspetti fondamentali, il primo di questi deriva dalla suddetta esigenza interna di una rapida industrializzazione; la situazione storica della Cina in campo mondiale è tale che essa deve contare sulle sue sole forze e, in mancanza di aiuto esterno, ricorrere ad un poderoso sforzo di tutte le sue componenti sociali. Dunque, strutturalmente, la rivoluzione culturale e proletaria ha in primo luogo il significato di aiuto e appoggio solidale dell'intero popolo cinese alla classe proletaria, impegnata da questi anni in poi ad,un faticoso lavoro di produzione industriale.

A questo significato della rivoluzione culturale si collega l'altro, pur di per se fondamentale, significato, che è bene esprimere proprio con le parole della risoluzione dell'agosto 1966 del CC del PCC sulla grande rivoluzione culturale proletaria: "Trasformare la fisionomia morale di tutta la società col pensiero, la cultura ed i costumi nuovi, propri del proletariato".

E' difficile cogliere l'importanza di questo punto in tutti i suoi infiniti aspetti. Basti pensare, comunque, a quanto si mostra necessario, nello stesso Occidente, raggiungere, per tutte le forze autenticamente rivoluzionarie, una fondamentale impermeabilità nel confronti dell'ideologia borghese, che è una delle cause dell'ingabbiamento delle energie rivoluzionarie della classe operaia occidentale.

Al livello più propriamente politico, la rivoluzione culturale proletaria ricerca un livellamento ad un unico piano sociale di tutta la popolazione, con l'eliminazione di quei gruppi privilegiati che agivano nella convinzione della necessità della reintroduzione dello sfruttamento in Cina. E' qui il significato più profondo della rivoluzione culturale nella storia del movimento operaio: nel tentativo di sviluppare, in un paese economicamente arretrato che presenta le prime fisionomie del socialismo, una linea politica che eviti di ripetere quelle esperienze che in altri paesi "socialisti" hanno portato alla costituzione di società basate sulla diseguaglianza sociale e sullo sfruttamento. Questo tentativo si è esplicato in diverse forme: oltre che in quella già ricordata della mobilitazione di massa contro i gruppi privilegiati nel Partito e nell'economia, attraverso l'opera di rigenerazione dal basso degli istituti rivoluzionari, secondo le concezioni di "pratica sociale" e di dialettica rivoluzionaria proprie dell'esperienza maoista.

Questa è la risposta alla seconda condizione che Trotsky poneva come necessaria per la costruzione del socialismo. Non si può negare che "il livello culturale od organizzativo della classe lavoratrice che ha conquistato il potere statale" sia in Cina, effettivamente, molto alto.

Comunque rimane ancora aperta la soluzione del dilemma cinese: basteranno le forze oggettive e lo sforzo soggettivo della direzione e delle masse cinesi a resistere alla pesante oppressione ed al ricatto costantemente esercitato in campo internazionale sulla Cina da parte dello strapotere americano e sovietico? Di qui scaturisce, per maturazione colla sua propria esperienza politica, l'impegno che in campo internazionale la Cina promuove. Purtroppo tale impegno è ancora limitato dall'esperienza propria della rivoluzione cinese e reso sempre più difficile dalla poco intelligente politica che, alcuni gruppi che si richiamano alla Cina, portano avanti nei paesi a capitalismo avanzato.

Alle fondamentali acquisizioni storiche, che hanno portato alla rottura dei maggiori partiti comunisti della ufficialità dell'occidente europeo, non è in verità seguito un eguale sforzo di comprensione della realtà sociale ed economica dei paesi avanzati. Ed I cinesi sono i primi a riconoscere come non si possa meccanicamente applicare il risultato storico dell'esperienza cinese, anche nella sua più approfondita elaborazione. In realtà, se in campo internazionale la posizione della Cina è difensiva rispetto alla pressione imperialista, seppure in posizione di reale frattura dell'ordine mondiale costituito, bisogna riconoscere che nelle aree di capitalismo avanzato si e ancora in una posizione di riflusso storico ed ad un livello limitato di elaborazione teorica.

Solo quando questi pesanti condizionamenti che vincolano il proletariato occidentale verranno, col tempo e colla dura pratica politica, sciolti, la lotta nel cuore dell'imperialismo, insieme all'ingabbiamento dell'imperialismo nelle aree coloniali prospettato dai cinesi, potrà portare alla definitiva sconfitta del sistema mondiale di sfruttamento, ed alla possibilità per tutto il mondo di costruire una nuova realtà sociale ed economica, quale è prospettata dalla visione comunista di Marx e Lenin.


"Ritengo che per noi tutti, tanto per i compagni russi che per i compagni stranieri, l'essenziale sia questo: dopo cinque anni di rivoluzione russa, dobbiamo studiare. Soltanto ora abbiamo la possibilità di studiare. Non so per quanto tempo questa possibilità potrà durare. Non so per quanto tempo le potenze capitaliste ci lasceranno la possibilità di studiare tranquillamente. Ma ogni momento libero dall'attività combattiva dalla guerra, dobbiamo utilizzarlo per studiare , e per di più, cominciando dal principio. Tutto il partito e gli strati della popolazione in Russia lo dimostrano con la loro sete di sapere. Questa aspirazione allo studio dimostra che oggi il compito più importante per noi è: studiare, ancora studiare. Ma anche i compagni stranieri debbono studiare".


(LENIN, relazione tenuta al IV Congresso dell'Internazionale, il 13 novembre 1922)


"Sinistra da Governo"

e

opposizione rivoluzionaria

Nell'ambito della dissidenza di sinistra, in Italia e fuori, si discute da molto tempo sul giudizio da dare sulle organizzazioni politiche tradizionali del movimento operaio, e sull'opportunità di costruire nuovi raggruppamenti politici in grado di esprimere le esigenze rivoluzionarie del proletariato. In questo articolo, ci proponiamo di esaminare questi problemi e di delineare alcune risposte preliminari ai vari quesiti.


Movimento operaio e politica del P.C.I.


Non si può negare che, negli ultimi anni, all'interno del movimento operaio nei paesi di capitalismo avanzato si sia diffuso un fortissimo senso di disagio e di frustrazione. I gruppi dirigenti dei partiti e dei sindacati della sinistra ufficiale sono stati sempre più spesso indicati come i responsabili di questo stato di disagio per la loro politica di rinuncia e di capitolazione. Si sono così sviluppate ed acutizzate contraddizioni fra il movimento operaio di base e le sue organizzazioni tradizionali.

Consideriamo il caso dell'Italia. Gli operai disertano i sindacati ed i partiti politici; ad esempio, le cellule del P.C.I. sui luoghi di lavoro passano da 11.495 del 1954 a 5.917 del 1962, mentre gli iscritti al partito di condizione operaia passano da 856.314 del 1954 a 643.733 del 1962 (*).

Gli operai votano scheda bianca alle elezioni del. le commissioni interne di fabbrica; alla FIAT nelle votazioni del 1967 si è regolato così quasi il 30% del votanti. Ma gli operai non si limitano a queste reazioni; si ribellano contro i funzionari politici e sindacali, scioperano e manifestano contro il loro parere, si organizzano in nuovi gruppi dissidenti. Anche al di fuori della classe operaia si registrano manifestazioni cospicue di dissidenza nei confronti dei partiti della sinistra ufficiale; ad esempio, le ultime agitazioni universitarie hanno visto da parte degli studenti scesi in lotta una notevole insofferenza nei loro confronti.

Tale situazione e incoraggiata dagli stessi gruppi dirigenti di questi partiti, la cui linea politica è quella dell'alleanza con i gruppi più "avanzati" del capitalismo per realizzare un ordinamento che, pure eliminando alcune sacche di arretratezza presenti nella società italiana, vi conservi lo sfruttamento e il lavoro alienato. Si legge, infatti, nelle tesi del X congresso del P.C.I.:


(*) Dati citati da Enrico Berlinguer, attualmente membro dell'ufficio politico della direzione del P.C.I., nel fascicolo di settembre-dicembre 1963 di "Critica Marxista"


"Antistorico, assurdo, sarebbe, infatti, ritenere di poter fondare un'alternativa all'attuale corso economico sul ritorno a un meccanismo capitalistico concorrenziale di vecchio tipo e di poterla fondare comunque al di fuori del capitalismo di stato... Ciò significa che è da respingere ogni modello di programmazione che tenda a fare dell'attuale ordinamento proprietario, dell'attuale struttura economica un limite invalicabile e che tenda quindi a precludere la strada a un'ulteriore estensione del capitalismo di stato... L'affermazione dell'autonomia della classe operaia, e in. primo luogo l'autonomia rivendicativa e sindacale, non va intesa come tendenza della classe operaia a isolarsi o a difendersi della programmazione" (*).

Queste affermazioni non sono apparse improvvisamente negli ultimi anni ma sono la naturale conseguenza di una linea politica adottata fin dagli anni della resistenza. Su "Rinascita" n. 3, agosto-settembre 1944, si legge: "La classe operaia sa che non è oggi suo compito lottare per la instaurazione immediata di un regime socialista". Ma gli obbiettivi e la strategia dei Partiti della sinistra in questo dopoguerra sono meglio spiegati da Giorgio Amendola nella relazione presentata ad un convegno tenuto all'Istituto Gramsci in Roma nel marzo 1962:

"Il partito comunista pose l'obbiettivo della costruzione di una democrazia di tipo nuovo; non la restaurazione della vecchia democrazia prefascista, ma la creazione di una democrazia nella quale potesse essere limitato, attraverso profonde riforme di struttura, il potere delle vecchie classi dirigenti e del gruppi monopolistici e assicurata la partecipazione delle classi lavoratrici alla direzione del paese. Era una nuova concezione strategica della rivoluzione, secondo la quale la lotta per il socialismo coincideva con una lotta per una profonda trasformazione democratica del paese, che permettesse alla classe operaia ed alle forze lavoratrici di giungere democraticamente alla direzione del paese" (**).

In effetti tale "concezione strategica" è tutt'altro che nuova nella storia del movimento operaio. Già nel 1917 Lenin bollava di tradimento analoghi discorsi, e definiva "rinnegato" il loro autore, Karl Kautsky. Seguendo questa linea politica, la direzione della sinistra italiana ha costretto la classe operaia a limitarsi ad una lotta anti-fascista sotto la direzione della borghesia e ad appoggiare, nel dopoguerra, sempre in funzione subalterna, lo sforzo di riedificazione del capitalismo in Italia. In questo ambito, la linea della sinistra italiana è stata sempre molto precisa: appoggiare l'azione dei gruppi pi più avanzati del capitalismo, quelli legati alle forze più moderne del capitale finanziario e al capitale monopolistico di stato, nel loro sforzo di svecchiamento delle arretrate strutture della società italiana.


(*) Tesi del X congresso del P.C.I., pp. 48-51.

(**) G. Amendola, Classe operaia e programmazione democratica, Editori Riuniti, Pag. 208.


Sviluppo economico e linea politica dei gruppi dominanti


In Italia, il processo di a "rinnovamento" e di adeguamento delle strutture agli sviluppi della grande industria e iniziato relativamente tardi; solo negli ultimi 15 anni ha assunto un ritmo sostenuto e i gruppi "rinnovatori" hanno potuto acquistare un certo peso.

L'inserzione dell'Italia nel M.E.C. e la politica economica dei governi democristiani di cauto appoggio alle holdings di stato (esemplare è il peso che l'ENI ed Enrico Mattei hanno avuto nella politica italiana di questo dopoguerra), e alle grandi corporazioni ,private - anche se temperata da enormi riconoscimenti ai gruppi più retrivi, come nel settore agricolo - sono stati all'origine del cosiddetto miracolo economico italiano.

Si considerino alcuni dati. Tra il 1950 e il 1962 il reddito nazionale italiano si è raddoppiato sulla base di un tasso medio di sviluppo annuo di circa il 6%; la quota destinata agli investimenti è passata negli stessi anni dal 18% al 26%; tra il 1948 e il 1963 la produzione industriale si e quasi quadruplicata, mentre il reddito lordo prodotto per lavoratore dipendente era nel 1962 superiore dell'82% al 1953.

Tale sviluppo è stato fortemente aiutato dall'intervento pubblico che si valeva di uno stretto controllo statale sugli istituti di credito commerciale e industriale. La maggiore banca commerciale del paese, la Banca Nazionale del Lavoro, è controllata per l'80% dallo stato, mentre le altre tre maggiori banche sono controllate per 4/5 dall'IRI. Tutte le operazioni di credito si svolgono sotto il controllo dell'istituto centrale di credito, la Banca d'Italia.

Il ruolo del settore pubblico negli investimenti nel settore dell'industria e dei servizi è messo in rilievo dai seguenti dati; nel 1963 l'investimento fisso complessivo delle imprese pubbliche (IRI ed ENI) fu di 700 miliardi di lire rispetto ad un investimento totale complessivo di 3.150 miliardi. In particolare, l'IRI controlla il 100% delle linee aeree e dei servizi radio-televisivi e telefonici, l'85% della produzione di ghisa, l'80% dei cantieri navali, il 65% della produzione di mercurio, il 62% della navigazione passeggeri, il 55% della produzione d'acciaio, nonché rilevanti quote dell'industria meccanica. Si aggiunga il ruolo preminente dell'ENI nel settore del combustibili liquidi e gassosi e nella petrolchimica, nonché il monopolio statale della produzione e distribuzione dell'energia elettrica. Si rilevi infine che i settori controllati dall’IRI e dall'ENI si trovano ad un livello tecnologico superiore alla media nazionale e che nell'ambito del settore pubblico hanno quasi esclusivamente avuto luogo gli scarsi esperimenti italiani in materia di ricerca applicata e di forinazione di personale tecnico e specializzato.

Permangono tuttavia nella società italiana enormi sacche di arretratezza: l'agricoltura, la distribuzione, la scuola e l'università, l'organizzazione della ricerca scientifica, il settore edilizio, l'organizzazione sanitaria, la pubblica amministrazione. In questa situazione, le forze "rinnovatrici" non possono permettersi di combattere oltre certi limiti i gruppi più retrivi, che restano, sia pure in una posizione di subordinazione, dei partners ineliminabili. Questa circostanza e all'origine della cautela che i gruppi a rinnovatori" italiani dimostrano nella loro azione politica.

Si può comunque riconoscere l'esistenza di una linea "cavourriana" dei gruppi dirigenti italiani, volta a costruire un assetto polilico-sociale in cui le forme più progredite di conduzione dell'attività economica siano gradualmente introdotte, evitando però scontri troppo bruschi con le forze retrive del paleocapitalismo. La linea politica di centro-sinistra è stata elaborata appunto su questo filo. Questa politica è sufficientemente caratterizzata, anche alla luce delle considerazioni precedenti, dalla formulazione "progresso ordinato nella continuità", dovuta a Moro, e dall'altra, dovuta a Fanfani, "progresso senza avventure".

Un importante settore della sinistra ufficiale italiana, il partito socialista, si è inserito, attraverso la politica del centro sinistra, nella classe dirigente italiana, diventandone uno dei pilastri principali. Il ruolo del partito socialista viene illustrato dal. l'onorevole Giolitti che, pur figurando su posizioni di "sinistra" all'interno del suo partito, deve assegnare una posizione importante alle forze legate alla proprietà privata:

"L'obbiettivo finale della politica socialista comporta una trasformazione sostanziale del sistema capitalistico delle sue strutture economiche, dei suoi istituti giuridici (anche quando non venga più postulata la conversione totale della proprietà privata in proprietà pubblica), dei rapporti di potere tra le classi in esso esistenti, fino al totale superamento delle differenze e divisioni di classe" (*).

Dietro le roboanti promesse di "trasformazioni di struttura", si intravede l'assicurazione che resterà in auge tutta la vecchia merda della proprietà privata.


La politica del partito comunista in Italia


I margini troppo ampi che restano nell'organizzazione economica alle forme più arcaiche, le forme "privatistiche" creano gravi disfunzioni nel sistema produttivo, proprio per la presenza dl centri decisionali Indipendenti. La situazione è così sintetizzata da A. Shonfield:

"L'intero processo ricorda un poco il modo in cui un artista ostinato e sicuro di se come Picasso ha costruito alcune sue sculture, usando gli oggetti che gli capitavano sottomano, inclusi 2 giocattoli dei figli, e incorporandoli in un suo disegno"(**).

Ciò provoca lo sdegno del signor Amendola che, condividendo evidentemente il giudizio negativo di Krusciov sull'arte moderna, pare si sia assunto il compito di mettere un po' d'ordine, e magari di far rientrare nei ranghi perfino i cosiddetti "monopoli".

Leggiamo (***) la seguente giustificazione della politica del P.C.I. uscita dalla penna del sullodato signor Amendola:


(*) A. Giolitti, Un socialismo possibile, Einaudi, pag. 41.

(**) A. Shonfield, Il capitalismo moderno, Etas-Kompass, pag. 249.

(***) nelle pagine di "Critica marxista" del settembre-dicembre 1965.


"Il punto di partenza del nostro discorso sulla programmazione deve essere dunque questo: lo stato del paese, la gravità dei problemi, l'urgenza delle esigenze oggettive di sviluppo della società nazionale, la dimostrazione dell'impossibilità di rispondere a queste esigenze nel quadro di un sistema dominato dai gruppi monopolistici. La necessita di una linea di sviluppo economico che sia alternativa a quella seguita dai gruppi monopolistici deriva, dunque, da questa provata impossibilità. Il nostro discorso sulla programmazione acquisterà il respiro ed il vigore necessario, se sarà fondato sulla dimostrazione che si può uscire dalla crisi, superare lo stato di stagnazione, cui la politica del centro sinistra condanna l'economia italiana, e assicurare il progresso del paese, attraverso una politica di programmazione antimonopolistica, soltanto fondata sulle riforme di struttura. Riforme di struttura e programmazione democratica non sono le conseguenze di una aprioristica scelta ideologica, di una preferenza per un certo modello di sviluppo né un mezzo eversivo per scardinare il sistema e per aprire la strada al socialismo. Se fosse solo questo, se le riforme di struttura dovessero essere considerate unicamente, come a volte si dice, come "strumenti della lotta per il potere" esse potrebbero rispondere soltanto agli orientamenti di quell'avanguardia che ha già fatto una scelta socialista. E' vero che questa parte in Italia non è una piccola minoranza, è un movimento robusto che già, in tante regioni e province, rappresenta la maggioranza del popolo che lavora. E tuttavia vi è sempre la necessità di convincere gli altri, coloro che non hanno fatto ancora una scelta socialista, o che non intendono farla. E' per costoro non bastano la propaganda e l'agitazione; occorre la dimostrazione della necessità nazionale di un diverso tipo di sviluppo economico e politico, occorre la dimostrazione delI'impossibilità, senza un profondo rinnovamento strutturale e senza una programmazione democratica che determini la preminenza dell'interesse pubblico sugli interessi privati o di gruppo, di assicurare al paese non soltanto una precaria ripresa ma le condizioni di un regolare sviluppo economico, che garantisca a tutti gli italiani una occupazione migliori condizioni di lavoro e di vita, sicurezza di progresso democratico,

Riforme di struttura e programmazione democratica sono dunque gli strumenti necessari per dare una risposta ai problemi che travagliano il paese, per portare l'Italia fuori dalla crisi e dalla stagnazione. Se le riforme di struttura significano una modificazione del sistema di accumulazione capitalistico, dominato dai gruppi monopolistici, la loro necessità deriva dal tatto che questo sistema si e " inceppato", e che non si tratta di " riattivarlo", per passare poi, alle riforme, in un secondo tempo, ma di trasformarlo...

Il meccanismo dell'espansione monopolistica si inceppato, provocando una rottura del precario ed instabile equilibrio, e ha dimostrato in ogni modo, di non risolvere ma di aggravare tutti i problemi del paese. E' per realizzare un nuovo equilibrio, un "ordine nuovo" al posto del caos e dell'impossibilità del sistema capitalistico a risolvere i problemi della società italiana, che bisogna ricorrere alle riforme di strutture. Queste non sono, dunque un capriccio, il frutto di una astratta preferenza dottrinaria, ma una necessità nazionale... Perciò a questa linea di accumulazione monopolistica noi opponiamo, come alternativa democratica, una linea di politica economica programmata che vada oltre singole misure parziali non coordinate fra di loro, e sia fondata su una visione generale dello sviluppo economico del paese e su un piano di riforme volte a trasformare le strutture"(*)

Talvolta però anche il signor Amendola cede a debolezze "picassiane" , ed elogia disordine e confusione come nel seguente brano di un suo discorso al comitato centrale del P.C.I. nel maggio 1967, in cui esalta "un movimento generale di lotta che abbraccia. milioni di lavoratori: le popolazioni meridionali, i contadini, i medici, gli infermieri, i magistrati, i cancellieri, i professori, gli assistenti, gli studenti, gli impiegati degli istituti di previdenza, i dipendenti pubblici, i ferrotramvieri, i postelegrafonici, i pensionati", nell'elenco non figurano sol tanto le guardie e leprostitute, escluse queste ultime per evidenti motivi di moralità pubblica.

Una stringata enunciazione degli obbiettivi strategici del P.C.I. è stata esposta dal segretario del partito onorevole Longo - in una intervista al settimanale "L'Espresso", pubblicata il 20 settembre 1964 - "Noi non proponiamo la liquidazione del profitto, ma la liquidazione delle posizioni di rendita e di sovrapprofitto. Ogni imprenditore che si muoverà nell'ambito delle grandi scelte del piano dovrà avere la garanzia di un equo profitto". A garantire un "aequo profitto" agli imprenditori, come si deduce dal testo, potrebbero provvedere amici e collaboratori dell'onorevole Longo, inseriti in una rinnovata burocrazia, dove si ritrovino un po' tutti a godere le beatitudini del potere, in Una società dove permanga, con il profitto degli imprenditori, lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

La stessa prospettiva di "conciliazione" generale è presente nella proposta politica di Antonio Giolitti. Le riforme "vengono a perdere ogni inutile coloritura punitiva' si presentano — come in effetti sono — non orientate contro qualcuno, bensì per conseguire fini che interessano l'etera collettività e per i quali è possibile sollecitare la partecipazione, trasformare la protesta in iniziativa politica costruttiva" (**).


Strategia dei "rinnovatori" e lotte popolari


Il problema politico che maggiormente angustia i "rinnovatori", i gruppi legati alle forze più moderne del capitale finanziario e al capitalismo monopolistici di stato, e i raggruppamenti della sinistra ufficiale — è quindi quello di guadagnare forza nei confronti dei gruppi più retrivi, evitando tuttavia che dall'intervento delle masse possano nascere centri di riferimento rivoluzionari.

Una soluzione di questo problema è illustrata sia da Giolitti che da Amendola. In sintesi, tale soluzione, che del resto feremo esporre direttamente ai geniali autori, e la seguente: "da un lato eliminiamo ogni possibilità di generalizzazione delle lotte popolari, rinchiudendole nell'ambito della società civile; dall'altro lato, utilizziamo tali lotte a livello della società politica, come mezzo di pressione contro i gruppi più retrivi".

Leggiamo la funzione che Giolitti attribuisce ai sindacati:

"La piena autonomia del sindacato nello svolgimento della propia funzione istituzionale postula una rigorosa delimitazione e non una indefinita espansione de, suo campo di azione Per adempiere alla funzione che gli è propria, il sindacato deve


(*) G. Amendola, op. cit., pp. 605-607.

(**) A. Giolitti, loc. cit., pag. 63.


fare scelte di fini e di mezzi secondo un sistema di valori che non può essere quello di ordine politico-ideologico generale proprio dei partiti, bensì deve specificamente rappresentare in un insieme coerente le esigenze salariali e normative dei lavoratori dipendenti nel rapporto conflittuale a livello di azienda, di settore, di categoria" (*).

E se qualche partito suggerisse al lavoratori obbiettivi rivoluzionari? Per carità, sentenzia mastro Antonio Giolitti, ciò vorrebbe dire spingere "la prevaricazione fino a voler assoggettare il sindacato a... scelte politiche ed ideologiche, dando luogo a quel sindacalismo di partito che sovverte i termini "industriali" del conflitto e del contrasto tra lavoratori dipendenti e imprenditori, calpesta l'autonomia sindacale e rende impossibile l'unita operativa e organizzata di sindacati a ispirazione partitica" (**).

Ed ecco, di rincalzo, il signor Amendola:

"La lotta (dei metallurgici) non ha obbiettivi politici, ma dalla lotta, dai suoi sviluppi, dalle esperienze che suscita, derivano conseguenze politiche e, che vanno valutate in tutta la loro importanza. La lotta è stata condotta, in piena autonomia, dai sindacati, che hanno finora realizzato, malgrado momenti di acuta tensione, una larga unità. CGIL e FIOM dirigono con autorità ed efficacia la battaglia, in stretto contatto con la CISL e la UIL. Ma la direzione autonoma del movimento rivendicativo non toglie alla battaglia il suo obbiettivo significato politico. E spetta ai partiti politici della classe operaia, spetta a noi comunisti, nell'adempimento della nostra autonoma funzione, sottolineare questo significato politico, trarre dalla lotta in corso la lezione politica che essa comporta, agire perché la esperienza acquisita dalle masse nel corso della lotta si trasformi in coscienza politica e in volontà rivoluzionarie" (sic!) (***).

I dirigenti sindacali, autentiche "cinghie di trasmissione" del capitalismo, si sono naturalmente tuffati con entusiasmo nella nuova prospettiva. Dice il "teorico dl sinistra. Vittorio Foa:

"La situazione di movimento che si è determinata nella CISL (e che trova riscontri importanti nella CGIL, come dimostra tra, l'altro l'appassionato dibattito interno sull'accordo quadro) apre una fase nuova e promettente per l'unità sindacale, proprio In quanto rompe le cristallizzazioni tradizionali, che sono necessariamente condizionate dalle vicende degli schieramenti politici, e riapre il discorso unitario al solo livello in cui esso può procedere spedito, quello all'interno della società e delle sue organizzazioni sindacali, senza mediazioni esterne e tanto meno di governo... Al convegno dei giovani metalmeccanici tenuto dalla FIOM in febbraio, dall'insieme degli interventi e risultato che i giovani operai e tecnici non discriminano nel processo unitario a seconda della sigla sindacale, ma a seconda della combattività e della volontà di lotta. E, solo su quel terreno che l'azione unitaria ha spazio per andare avanti" (****).

Torna qui acconcio ricordare l'aforisma del padre del revisionismo classico, Bernstein: "Il movimento e tutto, il fine è nulla".

La naturale conclusione di tutti questi discorsi sul sindacato è la costituzione del sindacato unico di tutti i lavoratori, completamente sterilizzato dai discorsi politici (naturalmente di opposizione), ed invece aperto ai valori "industriali" della società (cioè alla ideologia della classe dominante).


(*) A. Giolitti, loc. cit., pag. 56.

(**) A. Giolitti, loc. cit., pag. 56.

(***) G. Amendola, loc. cit., pag. 343.

(****) V. Foa, Problemi del socialismo, n. 27 febbraio 1988.


La naturale conclusione dei discorsi sull'"unità nazionale" attorno alle "riforme di struttura" è la proposta della Costituzione del "partito unico della sinistra italiana". Qual'è l'ideologia di questo partito? Eccola, dalla penna del signor Giolitti:

"L'inizio del processo di revisione ideologica, sulla linea: delle "riforme di struttura", può farsi datare dalla pubblicazione delle opere di Gramsci; il suo sviluppo è divenuto poi irreversibile quando con il rapporto Krusciov è suonata l'ora della verità... Si è andata da allora svolgendo la elaborazione teorica — e, per quanto riguarda il partito socialista in Italia, anche un. prima esperimentazione pratica — di una nuova linea politica " riformatrice"... il livello tecnologico e l'organizzazione della produzione raggiunti dalle società industrializzate non consentono, senza compromettere quei risultati ai quali neppure la classe operaia e disposta a rinunciare, di reintegrare il lavoratore nella sua personalità di uomo a livello dell'impresa... La contraddizione tra la volontà di trasformare il sistema, e l'esigenza riconosciuta di assicurarne l'efficienza mentre lo si trasforma, e insita nei termini stessi in cui si svolge il conflitto di classe nella società industrializzata, e la politica riformatrice socialista non fa che rifletterla e darsene carico, La classe operaia per prima non e disposta a pagare, per la conquista del potere politico,, qualunque prezzo, e meno che mai il prezzo di una crisi dell'apparato produttivo esistente" (*).

Riassumiamo ora il piano della "sinistra" ufficiale. Le azioni a livello delle società politica, dell'organizzazione generale del sistema di sfruttamento, sono solidamente monopolizzate dal "partito unico della sinistra italiana" a vocazione governativa, in condominio con i partiti borghesi. Tale partito dà ampie assicurazioni alla classe dominante di non turbare l'efficienza del sistema produttivo, anzi di difenderlo dagli attacchi del singoli capitalisti, dei "monopoli" e degli operai. Esso non deve necessariamente avere l'appoggio attivo delle masse, che oltretutto sarebbero felici del tozzo di pane che gli si è gettato e non desidererebbero "fare la rivoluzione", ma solo quello dei gruppi di tecnici ed amministratori "progressisti ", dei funzionari degli enti di stato e simili. Per quanto riguarda le masse, basta che rinuncino a costituire centri alternativi di lotta politica. Esse possono sfogare gli eventuali bollori ribellistici nei movimenti settoriali (che i sindacati e i gruppi "spontaneisti" minoritari provvedono a tenere spoliticizzati), dove la loro lotta potrà essere utilizzata per la demolizione degli ultimi baluardi del potere delle forze più retrive.


La dissidenza di sinistra: spontaneisti della "sinistra" PSIUP e "conciliatori" della IV internazionale


Non ci si deve stupire se questa impostazione strategica, dei partiti di sinistra, volta esplicitamente ad incoraggiare il capitalismo di stato, ha condotto all'apparizione di cospicue manifestazioni di dissidenza a sinistra dello schieramento ufficiale. In questa sede vogliamo riferirci in modo particolare alla "sinistra" del PSIUP e ai trotzkisti.

La loro polemica si rivolge particolarmente contro la tendenza alla concentrazione tipica della società moderna; non si protesta contro la concentrazione capitalistica, ma contro la concentrazione tout court. Non a caso i modelli ideali di questi gruppi sono certe forme di "socialismo" contadino pre-industriale, rilanciate recentemente In alcuni paesi del terzo mondo.


(*) A. Giolitti, loc. cit., pp. 42-45.


L'origine dei mali, secondo costoro, risiederebbe nella concezione leninista del partito, che avrebbe portato all'espropriazione dell'iniziativa politica delle masse a beneficio di un ristretto gruppo di "dirigenti". Scrive ad esempio Lucio Libertini, "teorico" della "sinistra" del PSIUP:

"Viene in luce a questo punto un limite virtuale ma importante del pensiero leninista, perché contrapponendo così schematicamente l'elemento cosciente (ideologia e partito) e l'elemento spontaneità (lotte immediate di massa) si rischia di creare tra loro una frattura: può venire a cadere il necessario rapporto dialettico tra di essi e può aprirsi la strada alla concezione del partito-guida, del partito che sia l'unico depositario della verità rivoluzionaria, del partito-stato. Soggetta agli stessi limiti è la concezione del sindacato come cinghia di trasmissione dal partito alle masse; su questo terreno nasce una concezione strumentale del sindacato" (*).

In effetti, da questa esposizione traspare un sogno tipico della democrazia contadina, quello dell'"homo faber fortunae suae"; e, com'è noto, accade a molti che lasciano la campagna per la città, nel tentativo di far fortuna, di finire al servizio dei padroni delle fabbriche. Scriveva infatti Lenin nel "Che fare":

"Dal momento che non si può parlare di una ideologia indipendente elaborata dalle stesse masse operaie nel corso stesso del loro movimento, la questione si può porre solamente così: o ideologia borghese o ideologia socialista. Non c'è via di mezzo (poiché l'umanità non ha creato una "terza ideologia", e d'altronde, in una società dilaniata dagli antagonismi di classe, non potrebbe mai esistere una ideologia al di fuori o al di sopra delle classi). Ecco perché ogni menomazione dell'ideologia socialista, ogni allontanamento da essa, implica necessariamente un rafforzamento dell'ideologia borghese. Si parla della spontaneità, ma lo sviluppo spontaneo dei movimento operaio fa sì che esso si subordini all'ideologia borghese,... perché il movimento operaio spontaneo è il tradeunionismo, la Nur-Gewertschatlerei, e il tradeunionismo è l'asservimento ideologico degli operai alla borghesia, Perciò il nostro compito, il compito della socialdemocrazia, consiste nel combattere la spontaneità, nell'allontanare il movimento operaio dalla tendenza spontanea del tradeunionismo a rifugiarsi sotto l'ala della borghesia; il nostro compito consiste nell'attirare il movimento operaio sotto la ala della socialdemocrazia rivoluzionaria. Ma perché - domanderà il lettore - il movimento spontaneo, movimento che segue la linea del minimo sforzo conduce al predominio della ideologia borghese? Per la semplice ragione che, per le sue origini, l'ideologia borghese è ben più antica di quella socialista, essa è meglio elaborata in tutti i suoi aspetti e possiede una quantità incomparabilmente maggiore di mezzi di diffusione. E quanto più giovane è il movimento socialista di un determinato paese, tanto più energica deve essere la lotta contro tutti i tentativi di consolidare le Ideologia non socialiste, tanto più risolutamente bisogna premunire gli operai contro i cattivi consiglieri che gridano


(*) L. Libertini, Dieci tesi sul partito di classe, ed. Samonà e Savelli.


contro la sopravvalutazione dell'elemento cosciente... La classe operaia va spontaneamente al socialismo; ma l'ideologia borghese, che è la più diffusa (e che risuscita costantemente nelle più svariate forme), resta pur sempre l'ideologia che, spontaneamente, soprattutto si impone all'operaio" (*).

Queste affermazioni - se erano vere al tempo di Lenin, quando non esisteva ancora la società "pianificata" moderna - hanno oggi una validità incomparabilmente maggiore (e ciò si può desumere dalle testimonianze in negativo dei signori Giolitti ed Amendola). Ecco perché la classe dominante ed i suoi alleati "di sinistra" si battono così accanitamente contro la politicizzazione dei movimenti spontanei e ne rivendicano la assoluta autonomia e "genuinità". Essi sono così sicuri - e l'esperienza di tutti i tempi e di tutti I paesi lo conferma - che, in queste condizioni, i movimenti spontanei si rifuggeranno sotto le loro ali, senza bisogno di sollecitazioni particolari. Per essi il nemico principale da combattere è appunto rappresentato dalle posizioni leniniste; e, nel quadro di una precisa divisione del lavoro, affidano questo compito a colore che, apparentemente su posizioni di ultrasinistra, conducono la sciocca polemica della spontaneità contro l'elemento cosciente, delle "masse" contro i "capi" della società contadina contro la società industriale.

Cosa propone il signor Libertini al posto del partito leninista? Il partito di massa:

"La scelta del partito di massa - riconoscibile non solo e non tanto dal numero degli iscritti ma essenzialmente dal rapporto tra il partito, le masse e le loro lotte - nasce dall'esigenza di ricavare dalle contraddizioni dello sviluppo capitalistico, agendo nel cuore stesso della società, il rovesiamento del sistema e la costruzione di un potere nuovo. Questa scelta corrisponde alla concezione di un partito realmente democratico che non è il depositario di una misteriosa verità che apporta dall'esterno alle masse (mi riferisco qui esplicitamente a quel limite della concezione leninista del quale ho già parlato e che occorre superare), ma al contrario trae continuamente la sua teoria dalla esperienza dei lavoratori: un partito democratico per l'alto livello di consapevolezza che cancella, la distinzione tra dirigenti e militanti per il rapporto dialettico continuo con le lotte dei lavoratori che annulla la separazione tra organizzazione e masse per il rifiuto della doppia e tripla verità e il forte ancoraggio all'ideologia: perché ricava continuamente dalla lotta di classe un insieme organico di valori alternativi alla società borghese ed in tal senso costituisce il nucleo di una società nuova... La presenza politica del partito nei luoghi di produzione si realizza seriamente nelle condizioni italiane, se ha Il compito di collegare l'azione rivendicativa e la battaglia per il controllo operaio e lo esproprio dei mezzi di produzione: se si pone li problema di costruire partendo dalle condizioni concrete e dalle lotte di ogni giorno, gli strumenti unitari di un potere nuovo degli operai, tecnici, impiegati nei luoghi di produzione: e se a questo tema ricollega il problema del rapporto tra fabbrica e società, della linea politica generale" (**).

In un certo senso, le prospettive politiche del Libertini possono apparire scontate - data la posizione pratica che questi occupa all'interno del PSIUP; ma possono essere di guida nell'analisi delle posizioni dei "cinesi" Bobbio e Viale, e degli altri gruppetti che ad essi fanno riferimento.


(*) Lenin, Che fare, opere scelte, Editori Riuniti.

(**) L. Libertini, op. cit.


Allo scopo è estremamente indicativa l'ultima intervista dei due "teorici" del movimento studentesco (*)

"Di fatto, in questi ultimi mesi il movimento studentesco è stato un movimento extraparlamentare. Le stesse forme di partecipazione politica che sono state concretamente costruite nel corso del movimento hanno indicato nuovi strumenti di partecipazione diretta che contestano in ogni caso il principio della rappresentanza per delega. Questi temi, portati ad una ulteriore maturazione, non possono che condurre ad una critica complessiva delle istituzioni parlamentari e dello stesso tipo di rappresentanza borghese. Al momento delle elezioni credo che il movimento debba sapere esplicitare sempre più questi temi, e quindi essere in condizione di fornire precise indicazioni. Non ci interessa assolutamente, in questo momento, (e sarebbe inoltre contraria alla metodologia del movimento), una polemica con i partiti politici su un terreno, puramente astratto ed ideologico".

Potrà certamente servire ad accrescere la fama di sottili teorici dei due "cinesi" di Torino, la contraddizione tra prima e seconda parte del brano: si comincia affermando che il movimento universitario rifiuta una strategia di tipo parlamentare, e si finisce sentenziando che una polemica contro i partiti opportunisti - che vivono solo per il parlamento - non deve farsi, "al momento delle elezioni", su un piano "astratto ed ideologico". Si dovrà comunque sottolineare, per la verità, che i due dichiarano di ispirarsi ad una nuova metodologia, la "metodologia del movimento universitario" (sic!) - la cui formula centrale parrebbe quella che non vi è alcuna possibilità di conoscenza senza passare per esperienze soggettive di tipo immediato.

Si può notare che questa metodologia rientra perfettamente nel modello proposto dal Libertini; e per questa via, nei modelli raccomandati dai gruppi dirigenti dei partiti di sinistra. E ciò che è comune a queste metodologie della dissidenza spontaneista e populista è il rifiuto dei risultati del lavoro di Marx e di Lenin: la costruzione di una scienza del proletariato, in grado di cogliere le relazioni fondamentali che sono alla base del movimento della società. Si ripropongono una visione soggettivistica ed un attivismo irrazionalistico, che finiscono con il condurre, nei binari già tracciati dalla borghesia.

Nella moderna società capitalistica, infatti, sempre nell'ambito della divisione del lavoro, esiste un posto anche per gli apostoli delle non meglio precisate "contestazioni globali". Scrive infatti il sociologo borghese Dahrendorf:

"...ogni tentativo di eliminare completamente il conflitto è destinato in quanto tale a fallire e anzi contribuisce alla intensificazione dei contrasti esistenti. La regolazione esige l’accettazione del conflitto; la cogestione è basata invece sulla convinzione che il conflitto sia un male e che esso debba essere abolito, Dal punto di vista di una efficace regolazione del conflitto, essa costituisce una istituzione erroneamente concepita, che contrasta - anziché agevolare - la tendenza generale alla diminuzione della violenza e dell'intensità del conflitto industriale" (**).

Ben vengano quindi i suscitatori di conflitti, purché questi siano rigorosamente delimitati in ambiti settoriali, e sterilizzati dai germi generalizzatori di una concezione Politica globale.


(*) Pubblicata su "Mondo Nuovo" il 24 marzo 1968.

(**) R. Dahrendorf, Classi e conflitto di classe nella società industriale, Laterza, pag. 462.

Molte cose dette al riguardo della "sinistra" del PSIUP, possono essere ripetute per i trozkisti della quarta internazionale. In effetti, il legame che esiste fra questi gruppi non è occasionale, e già Lenin nel "Che fare" metteva in evidenza il legame che esiste fra due facce della sottomissione alla spontaneità, l'economismo e il terrorismo.

"In generale, fra gli economisti e i terroristi, esiste un legame non accidentale, ma necessario, intrinseco... Gli economisti e i terroristi della nostra epoca hanno una radice comune: la sottomissione alla spontaneità. Economisti e terroristi si prosterrano davanti ai due poli opposti della tendenza alla spontaneità: gli economisti dinnanzi alla spontaneità del "movimento operaio puro", i terroristi dinnanzi alla spontaneità e allo sdegno appassionato degli intellettuali che non sanno collegare il lavoro rivoluzionario e il movimento operaio e non ne hanno la possibilità... Gli intellettuali sviluppano la lotta politica con le loro proprie forze, ricorrendo naturalmente al terrorismo... L'attività politica, ha una propria logica indipendente dalla coscienza di coloro, che, con le migliori intenzioni del mondo, fanno appello al terrorismo oppure domandano che si dia alla stessa lotta economica un carattere politico, L'inferno è lastricato di buone intenzioni"(*).

Analogo il comportamento dei terroristi russi del 1900 è in generale il comportamento dei trozkisti. Da anni, in effetti, i gruppi trozkisti, nella incapacità di elaborare una strategia rivoluzionaria indipendente, vivono ai margini dei partiti della sinistra ufficiale, elaborando via via, nuove tecniche parassitarie, dall'entrismo nel PCI, negli ultimi tempi un po' fuori moda, al più recente entrismo nel PSIUP. In pratica non si contesta ai partiti opportunisti la direzione della lotta e si finisce con accettarne la strategia globale; ci si limita a cercare di sfruttare i mezzi di cui questi dispongono ,per portare avanti, di volta in volta, gli slogans più di moda nella sinistra "à la page". Del resto. Il costume "terroristico" dei trozkisti è facilmente verificabile: cosa è infatti, se non terrorismo, l'intervento che essi praticano alle manifestazioni promosse dal PCI? Essi vi si inseriscono senza nessun lavoro preparatorio serio, senza nessun rapporto reale con le masse, dando soltanto fondo ad un ricco repertorio di urla, che rivelano un inguaribile velleitarismo pseudo-rivoluzionario.

Il fatto che i gruppi trozkisti si impegnano in azioni di tipo "terroristico" è conseguenza del modesto livello delle loro analisi, che non consentono formulazioni strategiche al livello delle contraddizioni reali e della coscienza delle masse. Su questa base, essi si arrangiano come possono. Così accade che negli ultimi dieci anni, sulla bandiere della quarta internazionale sono stati scritti, di volta in volta, i nomi di Tito, Gomulka, Nasser, Castro, Guevara, O Chi Min; e, negli ultimi tempi, lo stesso "Mao" comincia a riscuotere un certo successo nel loro ambienti.

Onde riuscire a giustificare questi accostamenti, che oggi sembrano paradossali, si possono tenere presenti molte eloquenti testimonianze, ricavabili dalle enunciazioni politiche di Livio Maitan. Ad esempio nella prefazione alla "Rivoluzione tradita" (edita da Schwartz nel 1956) si legge:

"C'é appena bisogno di ricordare che la gestione operaia ha continuato e continua ad essere assente dalle fabbriche sovietiche; e quanto tale gestione comincia ad essere introdotta, sia pure in forme limitate, in Jugoslavia, la polemica dei "teorici" sovietici si è scatenata furibonda, per il timore evidente dei burocrati che l'esempio possa riuscire contagioso".


(*) Lenin, Che fare - Opere scelte - Editori Riuniti.


Nel numero di "Bandiera rossa" del Dicembre 1965, si può poi leggere il resoconto dell'intervento di Maitan al congresso mondiale della quarta internazionale:

"(Maitan) ha quindi formulato una sua ipotesi sulla struttura attuale dell'Egitto e sulla possibilità, a suo avviso oggettivamente esistente, di una trasformazione dell'Egitto in Stato operaio, sulla base ai uno sviluppo conseguente dei processi già delineatisi, soprattutto dal 1960..."

Il Pantheon dei trozkisti ha bisogno di rinnovare continuamente i suoi ideali.

I motivi di fondo della carenza di linea politica che i gruppi della quarta internazionale dimostrano, sono da ricercarsi essenzialmente nello spirito "conciliatore", di gusto socialdemocratico, da cui sono animati nei rapporti con la sinistra tradizionale. Sul loro atteggiamento pesa certamente l'esistenza dei notevoli interessi pratici che li legano ai partiti ufficiali, allo loro stampa ed al loro editori; ma, soprattutto, esso è il riflesso di una debolezza teorica di fondo, che impedisce di affrontare coerentemente le difficoltà connesse ad una scelta rivoluzionaria. I trozkisti introducono così nel mondo della sinistra un atteggiamento di superficialità e d'incoerenza, che serve a renderli estremamente popolari nella media borghesia alla ricerca di "emozionanti" esperienze rivoluzionarie. Strettamente connesso a questo loro atteggiamento di matrice socialdemocratica, è la loro valutazione dell'Unione Sovietica, fondata sul misconoscimento della natura insanabile delle contraddizioni in essa esistenti. Dalla convinzione che le contraddizioni esistenti nell'Unione Sovietica siano di "seconda classe" si fa poi seguire che ad essa va rimproverato soltanto di essere troppo debole nei confronti dei comuni "nemici di classe":

"Va considerato altresì che nelle fasi più recenti gli aiuti militari della stessa URSS sono sensibilmente aumentati. Nel Vietnam sussiste il maggiore epicentro delle contraddizioni del mondo attuale e si scontrano duramente le forze dell'imperialismo e le forze della rivoluzione...

E nella stessa solidarietà col Vietnam contro il nemico di classe è possibile e necessario stabilire un fronte unico che, pur senza ignorare le contrapposizioni e le divergenze esistenti, miri a realizzare la convergenza di tutte le forze legate, in ultima analisi da uno stesso interesse di classe" (sic!) (*).

Essi svolgono, in sostanza, il ruolo di copertura a sinistra dei partiti della sinistra ufficiale. Ciò è molto evidente, e diviene addirittura macroscopico se si guarda alle iniziative dei circoli "Che Guevara", i cui militanti trozkisti sono all'interno o all'esterno del PCI a seconda della situazione locale. Laddove si sono radicalizzati e cominciano ad avere consistenza gruppi che si pongono in alternativa all'ufficialità, intere sezioni del PCI di ispirazione trozkista escono dal partito e servono a creare poli di riferimento "esterni", che siano un elemento di confusione adeguata alla nuova situazione.


La situazione dei paesi capitalistici avanzati


La circostanza, ora verificata, che larga parte della dissidenza di sinistra finisce spesso con il porsi


(*) Editoriale di "Bandiera rossa" del 15 gennaio 1968.


sullo stesso piano politico della sinistra ufficiale e con l'accettarne oggettivamente la direzione, rafforza il punto di vista, perfettamente naturale nell'ambito di una genuina impostazione marxista, che le posizioni della sinistra ufficiale non dipendono tanto da errori o tradimenti soggettivi, quanto dal suo collegamento con forze reali ed interessi pratici esistenti nel mondo di oggi. Esiste uno stretto collegamento tra i partiti dell'ufficialità di sinistra ed i gruppi privilegiati che sono al potere in Unione Sovietica e nei paesi dell'Est europeo; ed esiste una precisa convergenza di obbiettivi, almeno a breve termine, tra questi ultimi e le forze legate all'ala più illuminata del capitale finanziario ed al capitale monopolistico di stato dei paesi occidentali.

Ogni gruppo che voglia realmente contribuire al processo di costruzione di un partito rivoluzionario, non può sottrarsi al compilo di analizzare ulteriormente le forze reali presenti nel mondo d'oggi, soprattutto nei paesi avanzati. Si possono così ricostruire pienamente, muovendo dal recupero della tradizione rivoluzionaria del proletariato, ed anzitutto del leninismo, la basi scientifiche, e non utopistiche o "ideologiche", per le lotte rivoluzionarie. Individuare gli avversari, riconoscere gli alleati, capire le contraddizioni reali: questo resta sempre il punto di partenza, la premessa per la costruzione di un partito rivoluzionario.

Nel seguito, accenneremo sommariamente ad alcuni aspetti delle moderne società "industriali". Analizzare pienamente questi aspetti e comprenderne la interna dinamica è certamente importante, per l'arricchimento della teoria rivoluzionaria al livello del problemi di oggi. Senza tutto ciò, il riferimento alla tradizione rivoluzionaria di Marx e di Lenin può finire con l'assumere un significato puramente formale e scolastico, e così non basterebbe ad offrire una base per le lotte rivoluzionarie.

Importanti trasformazioni sono in effetti avvenuti nei paesi avanzati nei caratteri del modo di produzione, in seguito agli straordinari sviluppi dell'apparato produttivo, dovuti alla espansione della grande industria, ai progressi della scienza e della tecnica. Si assiste in tutto il mondo ad una crescente concentrazione finanziaria ed industriale. Le connessioni fra le varie industrie diventano sempre più strette e si raggiungono così le basi minime per i colossali investimenti necessari alle nuove industrie, rese possibili dal risultati della ricerca applicata.

Le grandi concentrazioni industriali diventano però rapidamente insufficienti a dirigere le iniziative produttive rese possibili dalla loro stessa esistenza. Negli Stati Uniti nessuno dei grandi colossi dell'industria aeronautica è stato in grado di affrontare il programma per la costruzione di un missile interplanetario e si è dovuto ricorrere all'intervento decisivo dello stato, che ha patrocinato la alleanza di questi colossi in un unico consorzio. Gli stessi sviluppi della scienza, che tendono ormai a diventare una forza produttiva importantissima, non possono più essere controllati da nessun gruppo privato isolato e richiedono sempre più l'intervento dello stato.

Questi sviluppi introducono nuovi elementi di turbamento per le vecchie forme politiche e sociali, tipiche delle società fondate sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, che sono da tempo in crisi. Per superare le difficoltà, si cerca, oggi, di introdurre tutta quanta la pianificazione centrale compatibile con la esistenza della divisione in classi. Sospinti dalle esigenze di sviluppo delle forze produttive, gruppi privilegiati dei paesi capitalistici avanzati cercano nuove soluzioni, in grado di assicurare la loro posizione di privilegio, e quindi l'esistenza dello sfruttamento.

L'esistenza di forti spinte verso una nuova strutturazione della società, nel periodo dello sviluppo della grande industria, era sottolineata già da Federico Engels, nell'Anti-Duhring:

"... in un modo o nell'altro, con "trusts" o senza "trusts", una cosa è certa: che il rappresentante Ufficiale della società capitalistica, lo Stato, deve alla fine assumerne la direzione... Se le crisi hanno rivelato l'incapacità della borghesia a dirigere ulteriormente te moderne forze produttive, la trasformazione dei grandi organismi di produzione e di traffico in società anonime e proprietà statale mostra che la borghesia non è indispensabile per il raggiungimento di questo fine. Tutte le funzioni sociali del capitalista sono oggi compiute da impiegati salariati... Ma né la trasformazione in società anonime, né la trasformazione in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive. Nelle società anonime questo carattere è evidente. E a sua volta in stato moderno è l'organizzatore che la società capitalistica si dà per mantenere il modo di produzione capitalistico di fronte agli attacchi sia degli operai che dei singoli capitalisti.

Lo stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, è uno stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria delle forze produttive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta. Gli operai rimangono dei salariati, dei proletari. Il rapporto capitalistico non viene soppresso. viene invece spinto al suo apice" (*).

Tutto questo processo, che secondo Engels rappresenta l'ultima fase di esistenza della società divisa in classi prima della, rivoluzione socialista, è così sintetizzato:

"...Parziale riconoscimento del carattere sociale delle forze produttive, riconoscimento a cui è obbligato lo stesso capitalista. Appropriazione dei grandi organismi di produzione e di traffico, prima da parte di società anonime, più tardi da parte di trusts ed in ultimo da parte dello stato. La borghesia dimostra di essere una classe superflua, tutte le sue funzioni sociali vengono ora compiute da impiegati stipendiati (**).

Questo processo di adeguamento delle strutture politiche e sociali richiede, per compiersi, notevoli sconvolgimenti. Tuttavia le forze legate al capitalismo monopolistico di stato non riescono, da sole, ad imporre il loro programma per le resistenze delle forze legate alle più arcaiche forme di produzione. Le incrostazioni del passato, il peso dei compromessi che quasi ovunque i gruppi capitalistici hanno dovuto stipulare con le forze più arretrate per conquistare e conservare il potere politico, sono spesso troppo difficili da eliminare, per forze che devono escludere programmaticamente la rivoluzione politica.

In questa situazione, operano però oggi nuove forze, in qualche misura esterne al quadro interno al capitalismo dei paesi avanzati: le forze messe in moto dalla rivoluzione d'ottobre e dalle suo conseguenze. La rivoluzione del proletariato russo, dapprima vittoriosa, fu costretta, per la sconfitta della rivoluzione negli altri paesi europei e per il basso livello di sviluppo delle basi materiali della società russa, ad una battuta d'arresto prima ed ad una rovinosa ritirata poi.


Engels, Antiduhring.

Engels, op. cit.


L'ala moderata dello schieramento rivoluzionario - ispirata da gruppi provenienti dalle aristocrazie operale e dalla piccola borghesia - riuscì ad impadronirsi del potere ed a realizzare un assetto economico, politico e sociale ben distinto dal socialismo, che consentiva una piena concentrazione ed unificazione della produzione.

Questo assetto sociale ha pressoché abolito la proprietà privata dei mezzi di produzione e la conseguente anarchia, e ha colpito a morte i gruppi sociali collegati con questo istituto. Sulla base della proprietà statale dei mezzi di produzione, esso è in grado di padroneggiare meglio degli assetti capitalistici tradizionali lo sviluppo delle forze produttive. Naturalmente, il livello delle forze produttive in Unione Sovietica non è oggi più elevato di quello dei paesi capitalistici avanzati; ma le sue istituzioni politiche e sociali consentono, in prospettiva, uno straordinario allargamento delle basi materiali della società, come è documentato dal ritmo di sviluppo dell'Unione Sovietica negli ultimi cinquanta anni, di gran lunga maggiore di quello degli altri paesi.

Tutto ciò non vale però ad eliminare lo sfruttamento e l'oppressione che sono anzi spinti ai livelli più progrediti. Leggiamo la testimonianza di J. Kuron e K. Modzeleywski sulla Polonia "socialista":

"Secondo la dottrina ufficiale viviamo in un paese socialista. Questa tesi si basa sull'identificazione tra proprietà statale dei mezzi di produzione e proprietà sociale dei mezzi di produzione stessa. L'atto della nazionalizzazione avrebbe assicurato l'industria, i trasporti e le banche alla completa proprietà della società e i rapporti basati sulla proprietà sociale sarebbero socialisti per definizione.

Questo ragionamento può sembrare marxista. In realtà, si è introdotto nella teoria marxista un elemento che le è fondamentalmente estraneo, cioè la concezione formalistica e giuridica della proprietà. La nozione di proprietà statale può nascondere contenuti diversi a seconda della natura di classe dello stato...

La proprietà statale dei mezzi di produzione non è che una forma delle proprietà. Appartiene ai gruppi sociali cui appartiene lo stato. In un sistema di economia nazionalizzata ha un'influenza sulle decisioni economiche complessivo, (e, quindi, sul modo di disporre dei mezzi di produzione e sulla ripartizione e sull'impiego dei prodotti sociali) solo chi partecipa alle decisioni dei pubblici poteri o può influenzarle. Il potere politico è legato al potere esercitato sul processo di produzione e di distribuzione..." (*).

L'assetto sociale dell'Unione Sovietica e dei paesi dell'Est europeo conserva, dunque, lo sfruttamento e l’oppressione. Ricordiamo Engels: "... Quanto più si appropria delle forze produttive, ... tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta. Gli operai rimangono dei salariati, dei proletari". Il rapporto di sfruttamento, dice ancora Engels: "non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice". Anche questo assetto, dunque, è minato da profonde contraddizioni: esso contiene ancora in sé le forze che dovranno condurlo alla morte.

Nei paesi capitalistici avanzati, è intanto in atto un complesso processo di "rinnovamento", sospinto dai gruppi capitalistici più moderni, ed In primo luogo da quelli del capitalismo monopolistico di stato, con l'appoggio delle forze della sinistra ufficiale, legate ai gruppi privilegiati che sono al potere in Unione Sovietica.


(*) J, Kuron - K. Modzelewski, Il marxismo polacco all'opposizione.


Tutte queste forze sono unite, da un lato nell'obbiettivo di distruggere le forze più retrive, dall'altro allo scopo di imporre un completo dominio sulla società civile. Servono allo scopo l'introduzione di una pianificazione di lungo periodo, mossa degli interessi economici e politici dei gruppi dominanti, la compressione dei centri decisionali indipendenti nei vari paesi e l'integrazione dei sindacati e, dei partiti.

Torna ancora una volta utile, riferire il parere dell'onorevole Giolitti:

"I problemi di direzione politica nella società industrializzata non possono più essere affrontati con i metodi tradizionali del regime parlamentare, se non a prezzo di una crescente ed ineluttabile soggezione del potere politico pubblico al potere economico privato" (*),

Giolitti chiama a suo soccorso l'opinione di Maurice Duverger:

"La preminenza dei legislatore è tipica delle società ancora, debolmente integrate nelle quali i principali servizi collettivi sono espletati da imprese private ed in cui il ruolo essenziale del potere è quello di arginare i conflitti tra gli individui e tra i gruppi, di favorire l'elaborazione di compromessi che vi pongano fine, di regolare con norme generali tali compromessi e di gestire dei servizi comuni di natura amministrativa (polizia, esercito, fisco). In una società pianificata in cui lo stato coordini il complesso delle attività sociali, questa funzione organizzativa non può essere adempiuta dagli organi legislativi, ma soltanto dal governo che diviene così il centro di propulsione e di decisione politica. L'indebolimento dei parlamenti e l'accresciuta importanza dell'esecutivo, tratti connessi all'evoluzione odierna di tutte le democrazie, sono le conseguenze politiche della trasformazione delle strutture socio-economiche, trasformazione causata a sua volta dal progresso tecnico" (*).

Si può ben capire la simpatia con cui i gruppi capitalistici più progrediti guardano alle istituzioni dell'Unione Sovietica, dove è vero che i capitalisti isolati sono quasi spariti, ma in compenso le centrali statali organizzano strettamente la classe operaia e controllano rigorosamente l'economia. Questi gruppi tendono quindi ad ottenere l'alleanza delle organizzazioni della sinistra ufficiale e dei sindacati, e. si proclamano sostenitori del "socialismo moderno". Il legame di questo socialismo con gli interessi del capitale finanziario e del capitale monopolistico di stato è chiarito dalla seguente affermazione di Servan Schreiber, direttore dell'"Express", che, in un articolo dai titolo significativo, "Justice comme moyen", scrive del socialismo moderno:

"Non si fonda più sui criteri innanzitutto morali (sic!), ma su considerazioni economiche. La giustizia sociale è in primo luogo il mezzo più efficace per far funzionare la macchina produttiva... La sinistra evangelica, missionaria di un universo di eguaglianza e fraternità assoluta, non ha che un avvenire di setta. La sinistra di governo (sic!), che per fare progredire il proprio ideale si applica a dimostrare la sua capacità di produrre più e meglio della destra, ha una grande carriera davanti a sé" (*).

Su queste basi. il collegamento tra le forze della sinistra ufficiale e dell'Unione Sovietica, e le forze più "progredite" del capitalismo, assume nettamente un carattere internazionale.


(*) Giolitti - Un socialismo possibile.


Tale carattere si manifesta attraverso gli accordi economici che collegano Unione Sovietica e i grandi paesi imperialistici, e attraverso il tentativo di costruire accordi di dimensione mondiale, i gruppi dirigenti sovietici e americani, dopo lunghi anni di "guerra fredda", hanno lanciato la linea di coesistenza pacifica con questo scopo; essi erano interessati ad una prospettiva di pianificazione delle forze produttive sul piano mondiale, che li ponesse in una posizione di preminenza e non li esponesse al rischio di una diminuzione di potere, per sommovimenti e turbamenti dello status quo, nei paesi capitalistici avanzati e nel terzo mondo.

Nella linea della coesistenza pacifica si realizza l'alleanza tra le potenze imperialiste, a tutt'oggi caratterizzate da un alto sviluppo delle forze produttive, e l'Unione Sovietica caratterizzata da posizioni politico-economiche più stabili. Tale linea segna la trasposizione al livello mondiale della alleanza tra i gruppi del capitalismo monopolistico di stato e la sinistra ufficiale: e non a caso, ha suscitato l'entusiasmo delle forze che nei vari paesi portano avanti la bandiera del "rinnovamento" del capitalismo.


La ripresa dei raggruppamenti rivoluzionari


L'esame delle posizioni dominanti nei paesi capitalistici avanzati, e nell'area sovietica del mondo "socialista", conferma che le "debolezze" governative e collaborazioniste dei gruppi politici di sinistra sono espressione di forze profonde e di interessi reali. Il processo di formazione di nuovi raggruppamenti rivoluzionari nei paesi avanzati, che possano contrastare il loro disegno politico, è appena agli inizi. Tuttavia, esso è spinto avanti, man mano che larghe masse compiono nuove esperienze del ruolo di copertura che l'ufficialità di sinistra si assume sempre più apertamente.

La formazione di una rinnovata coscienza dell'ineliminabilità delle contraddizioni tra il movimento operaio ed i gruppi riformisti resta una condizione preliminare per questi sviluppi. In effetti, la persistenza di incrinature nell'apparato di dominio sollecita spesso ad azioni positive, attorno a cui riescono a cristallizzarsi piccoli gruppi politici. Tuttavia, il processo di maturazione dei gruppi che si formano dietro la spinta immediata di lotte di massa va avanti lentamente, in mancanza di solidi centri di orientamento teorico e politico, Nell'ambiente culturale della sinistra italiana e della stessa dissidenza, le formulazioni nella linea della tradizione leninista sono un po' fuori moda; i successi dei vari Giolitti, Amendola, Libertini hanno prodotto un grave corrompimento teorico.

In questa situazione, è di grande importanza che si vada determinando una ripresa di studi e di interessi per il pensiero di Lenin, tale che ponga via i pregiudizi diffusi dalle interpretazioni di comodo (se ne legga un esempio nelle precedenti citazioni dalle tesi di Libertini). Accanto ai gruppi tradizionali, sollecitano oggi questa ripresa i comunisti cinesi con le loro polemiche teoriche e la loro iniziativa politica a livello internazionale. Le formulazioni della rivoluzione culturale cinese In particolare, cercano di inserirsi nell'ambito della tradizione leninista e di arricchirla anzi al livello delle più recenti esperienze, anzitutto dell'esperienza sovietica, che ha segnato insieme una grave battuta di arresto per il movimento operaio e la riaffermazione dello sfruttamento.

Si può valutare l'importanza della rivoluzione culturale cinese quando si tenga presente che, anche all'interno della repubblica popolare cinese, esistono forze contrastanti, ma qui i gruppi più avanzati sono riusciti, almeno finora, a sconfiggere le influenze più moderate, che potevano condurre ad una ripetizione dell'esperienza sovietica. Questa circostanza è stata indubbiamente facilitata dall'ampiezza della partecipazione popolare alla lotta contro il Kuomintang e, in seguito, dalla ampia partecipazione al processo dì costruzione della repubblica popolare cinese.

Dietro le parole d'ordine della rivoluzione culturale proletaria, si sono masse grandi masse, che hanno combattuto i gruppi privilegiati a tutti i livelli della società civile, nel tentativo di estirpare le radici di quelle forze, che, nell'URSS, esercitano oggi lo sfruttamento. La distruzione del gruppo di Liu-schao-chi, "quartier generale delle forze che hanno imboccato la via del capitalismo" in Cina, non è stata perseguita attraverso destituzioni dall'alto e misure amministrative, ma attraverso la mobilitazione delle masse contro gruppi privilegiati nel partito, nello stato e nell'economia, e la rigenerazione dal basso degli istituti rivoluzionari.

Si legge nella "risoluzione del comitato centrale del partito comunista cinese" dell'8 agosto 1966:

"Il principale bersaglio dell'attuale movimento è costituito da coloro che nel partito sono provvisti di autorità e stanno imboccando la strada del capitalismo. Il risultato di questa grande rivoluzione culturale sarà determinato dalla capacità o meno della direzione del partito di risvegliare coraggiosamente le masse... Nella grande rivoluzione culturale sono cominciati ad emergere molti elementi nuovi; i gruppi, i comitati della rivoluzione culturale e le altre forme di organizzazione create dalle masse, in molte scuole e complessi, rappresentano qualcosa di nuovo che riveste grande importanza storica.

Questi gruppi, comitati e congressi rivoluzionari sono eccellenti forme nuove di organizzazione, che consentono alle masse di autoeducarsi, sotto la direzione del partito comunista. Costituiscono un ottimo ponte di contatto tra il nostro partito e le masse, sono organi di potere della rivoluzione culturale proletaria.

La lotta del proletariato contro le vecchie idee, la vecchia cultura, le vecchie abitudini, eredità di tutte le classi sfruttatrici che hanno dominato per migliaia di anni, prenderà necessariamente molto tempo. Perciò i gruppi, i comitati e i congressi della rivoluzione culturale non dovranno essere organizzazioni di massa temporanee, ma permanenti... Dato che la rivoluzione culturale è una rivoluzione, è inevitabile che incontri resistenza soprattutto da parte di coloro, che, provvisti di autorità si sono fatta strada insidiosamente nel partito e stanno imboccando la via del capitalismo. La resistenza viene anche dalla forza delle vecchie abitudini esistenti nella società".

Questa risoluzione serve molto bene a caratterizzare gli obbiettivi della rivoluzione culturale proletaria. Essa riconosce implicitamente che i problemi della gestione e del controllo del potere hanno oggi una grande importanza, nelle condizioni concrete della fase post-rivoluzionaria in Cina. Le soluzioni proposte sono nella linea della tradizione leninista: il partito stimola le masse all'azione, ed esercita nei loro confronti una funzione di direzione; parallelamente, si formano consigli operai ed altre associazioni di massa con lo scopo di introdurre un reale controllo operaio e popolare; a tutti i livelli questi organismi cercano di stabilire un "ponte", tra le masse e il partito stesso, che diviene infine strumento centrale delle decisioni popolari.

L'importanza storica delle indicazioni della rivoluzione culturale cinese deriva dal fatto che essa è una prima azione di massa contro l'organizzazione della società e del potere che è riuscita a prevalere nell'Unione Sovietica e nei paesi dell'Est europeo. Naturalmente, non si può negare che l'espansione di questo movimento di massa è fortemente ostacolato, da un lato dall'esistenza di un implacabile accerchiamento internazionale - opera dei paesi imperialistici e dell'Unione Sovietica - attorno alla repubblica popolare cinese; dall'altro, dalla stessa situazione cinese, che presenta i caratteri tipici di una società contadina in via di sviluppo. Il basso livello delle forze produttive e delle relazioni materiali fra gli uomini pone rilevanti problemi, in connessione con la necessità dell'accumulazione primitiva; e si deve temere che, nel corso dello sviluppo sociale ed economico della Cina, possano riproporsi e prevalere soluzioni dello stesso tipo di quelle dell'Unione Sovietica, con i loro limiti profondi.

Su questa base, tenendo presenti le enormi difficoltà dei comunisti cinesi, si devono valutare alcune delle più estreme e deboli loro formulazioni - da quelle che sembrano proporre una soluzione ai problemi della costruzione del socialismo in Cina sulla base della sola lotta "contro i residui ideologici del passato"; a quelle che sembrano ignorare che la vittoria dei socialismo richiede che le forze nemiche siano battute nel cuore dell'apparato mondiale di sfruttamento, nelle "metropoli" del mondo, e ad opera, anzitutto, delle forze che agiscono al loro interno.

L'influenza che può avere la rivoluzione culturale nei paesi dell'Europa occidentale è molto grande. Per la prima volta, dopo molti anni, sono riproposte, al livello di massa, le tesi leniniste: e nello stesso momento la Repubblica popolare cinese, sul piano internazionale, si presenta come elemento di rottura, dell'equilibrio coesistenziale tra Stati Uniti ed Unione Sovietica.

In effetti, le sollecitazioni della rivoluzione culturale proletaria cinese come quelle che nel primo dopoguerra venivano dalle iniziative di Lenin, non sempre sono profondamente recepite negli ambienti di sinistra. Richiamati dall'esistenza del nuovo centro di riferimento esterno al livello internazionale, si formano numerosi gruppi di vocazione "estremista", espressioni del ribellismo endemico della piccola borghesia, del sottoproletariato, e dei gruppi sociali che, tagliati fuori dal progresso delle forze produttive, sognano, con le mani in mano, il riscatto dallo stato di frustrazione. Questo fenomeno è un segno accessorio dell'incapacità, propria di questi gruppi sleali, di porsi come forze antagoniste rispetto alla società, nel suo sviluppo: ai margini delle contraddizioni fondamentali del sistema capitalistico moderno, essi sono spesso i detriti di vecchie forme economico-sociali.

Il fatto è che lo stesso richiamo al leninismo può finire con l'assumere un significato puramente formale, in mancanza di una analisi adeguata delle contraddizioni proprie del mondo moderno, a livello dei paesi avanzati. E' necessario perciò il recupero pieno della tradizione teorica e politica del proletariato, devastata degli ultimi decenni, e la comprensione delle "novità", che discendono dalla comparsa della pianificazione introdotta sulla onda delle esperienze sovietiche.

* * *

Abbiamo già riconosciuto che lo sfruttamento e la lotta di classe sono tuttora vivissimi, e che le contraddizioni fra i ristretti gruppi dei detentori dei mezzi di produzione e del potere politico e le masse popolari, in primo luogo il proletariato, sono molto acute. Un pilastro fondamentale nel sistema di sfruttamento è costituito dai gruppi dominanti nella unione sovietica e nei paesi dell'est europeo e dal sistema di cui sono espressione, caratterizzato da un elevato grado di centralizzazione e dalla introduzione della pianificazione economica. Nei paesi occidentali i gruppi legati all'ala più dinamica del capitalismo, al capitale finanziario ed alle centrali statali, tentano di padroneggiare lo sviluppo impetuoso delle forze produttive e le conseguenti contraddizioni, orientandosi sempre di più verso il capitalismo di stato; in questo sforzo essi trovano la naturale alleanza delle forze della sinistra ufficiale, legate con i gruppi dominanti nell'Unione Sovietica. Si apre così una contraddizione fra il proletariato e le sue organizzazioni ufficiali. Partiti della sinistra ufficiale e sindacati diventano, da un lato i principali stimoli per la modernizzaione del sistema capitalistico, dall'altro i garanti della non pericolosità delle opposizioni.

Il sistema dominante diviene sempre più centralizzato, i vari centri della società civile si trovano sempre più dipendenti dall'organizzazione politica centrale della società. Perciò le conclusioni di Lenin - che è indispensabile, per le forze rivoluzionarie, costituire un centro di reale contropotere a livello della società politica: il partito rivoluzionario - e sono potentemente rafforzato dall'esperienza dei "nuovi" sviluppi della società moderna, piuttosto che confutate, come vorrebbe l'ala "spontaneista" del movimento operaio.

Ai nostri giorni, i gruppi rivoluzionari, le avanguardie, che si formano all'interno delle società moderne, hanno due strade aperte. La prima strada passa attraverso l'impegno attivistico nelle varie lotte particolari, la sottomissione alla spontaneità nelle lotte settoriali contro i gruppi più retrivi, nell'interesse dei "rinnovatori": essa quali che siano le intenzioni dei suoi propagandisti, conduce all'arruolamento nelle file dell'esercito dei gruppi "rinnovatori", in lotta per l'introduzione di forme più "progredite" di sfruttamento.

La seconda strada invece è quella che porta alla costruzione di una forza rivoluzionaria del proletariato, rinnovata ed indipendente: su questa strada, le varie lotte particolari diventano, oggi, l'occasione per una scuola politica in cui, da un lato, le avanguardie apprendono dalle vive esperienze e sperimentano le proprio capacità di direzione politica, e dall'altro, le masse maturano la propria coscienza e acquistano una più precisa consapevolezza della reale natura della oppressione e dello sfruttamento subiti.

La formazione di avanguardie politiche di tipo embrionale, di centri di riferimento permanenti, potrà favorire l'innalzamento dei livello della attività spontanea delle masse, ponendole in condizione di combattere con efficacia l'influenza della ideologia borghese e dei discorsi truffaldini "moderni". Ma sono anzitutto necessari lo sviluppo e l'approfondimento dell'analisi delle contraddizioni del sistema mondiale di sfruttamento, l'inizio della formazione di una più ampia coscienza dì massa: di qui si deve muovere per la costruzione di un nuovo partito rivoluzionario.

Il processo di formazione di un partito realmente rivoluzionario inizia soltanto su queste premesse. E' vero che "senza partito rivoluzionario, niente rivoluzione", ma è vero altresì che "senza teoria rivoluzionaria, niente partito rivoluzionario".


"L'organizzazione del Partito comunista d'avanguardia in Germania era dì questo tipo. In accordo coi principi del suo Manifesto (pubblicato nel 1848), e con le posizioni esposte nella serie di articoli su Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, pubblicati nella New York Daily Tribune, questo partito non si era mai fatto l'illusione di essere capace di produrre, in, qualsiasi momento e a suo piacere, quella rivoluzione che doveva tradurre in pratica le sue idee. Esso aveva studiato le cause che avevano prodotto i movimenti rivoluzionari del 1848, e le cause che ne provocarono la sconfitta. Riconoscendo che l'antagonismo sociale delle classi è la base di tutte le lotte politiche, esso si dedicò allo studio delle condizioni nelle quali una classe della società può e deve essere chiamata a rappresentare la somma degli interessi della nazione, e quindi a governarla politicamente".


(KARL MARX, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850)


PROBLEMI DEL MOVIMENTO UNIVERSITARIO DI OPPOSIZIONE IN ITALIA


Gli articoli che seguono sono dedicati ai problemi del movimento universitario di opposizione in Italia - alle questioni generali di definizione della natura e degli obiettivi del movimento, ed alle questioni di indirizzo politico dopo le ultime agitazioni. Nella linea proposta in questi scritti si sono mossi i rappresentanti della Sinistra Universitaria napoletana nei vari convegni nazionali dell'inverno scorso, a Mano, a Torino, a Roma, a Firenze ed a Genova.


VALORE POLITICO del Movimento Studentesco


Negli ultimi anni si sono sviluppate lotte universitarie particolarmente ampie, in diverse città statunitensi, tedesche, giapponesi, italiane. Un comune denominatore di queste lotte è la reazione degli studenti alla nuova organizzazione che le Università vanno assumendo, coerentemente con le nuove esigenze di formazione di larghi strati di lavoratori intellettuali; il tipo di rivendicazioni che comunemente viene avanzato consiste nella richiesta dei controllo e della gestione della struttura universitaria. Vedremo come questo tipo di proposta politica può essere adoperato come momento di maturazione verso un discorso politico più ampio e corretto, o come elemento di mistificazione in funzione di una lotta che si rinchiuda all'interno dell'Università.


Questo articolo, basandosi sull'analisi precedentemente svolta dei mutamenti delle forze produttive e dei ruolo degli intellettuali (*), ed analizzando la struttura universitaria e la figura sociale dello studente, intende proporre una prima soluzione della natura e del significato del movimento studentesco, alla luce del compito politico attuale: il problema della costruzione di un partito politico rivoluzionario. L'articolo procederà attraverso un confronto polemico con le risposte che agli analoghi problemi danno quei gruppi politici che si rifanno alle tesi della sindacalizzazione; nel confronto vengono adoperate, relativamente alla sindacalizzazione, le cosiddette tesi di Pisa, in quanto le più organiche e le più diffuse, ("Nuovo Impegno", n. 8; "Lavoro Politico", n. 2) e le tesi di "Potere Studentesco" ("Quindici", n. 7).


Forze economiche-politiche e gruppi accademici


Nel nostro paese le contraddizioni tra gruppi dei grande capitale e gruppi paleocapitalistici si sono sviluppate relativamente tardi, ed hanno ricevuto una forte spinta negli ultimi quindici anni, soprattutto nel periodo dei cosiddetto "miracolo economico", che rafforzò enormemente le grandi corporazioni private e le grandi holdings di stato.


(*) Questa analisi viene riportata nell'ultima parte dei presente numero unico, sotto il titolo: "Gli intellettuali nella attività produttiva. Proposte politiche".


Questa espansione, tuttavia, non ha condotto né al superamento delle debolezze originarie dei capitale finanziario italiano, né ad una rafforzata stabilità delle basi di potere dei gruppi privilegiati. In questa situazione, le forze rinnovatrici non possono permettersi di combattere oltre certi limiti i gruppi più retrivi, che restano, sia pure in condizione di subordinazione, dei partners ineliminabili. Questa circostanza è all'origine della debolezza dell'azione politica dei gruppi rinnovatori italiani, negli ultimi anni. Non è quindi per caso che i gruppi politici del centro-sinistra si devono adattare a lasciare largo spazio alle forze più retrive, in ogni settore della società civile, ogni volta che pongono mano ad una riforma.

La particolare ristrettezza dei contenuto "rinnovatore" del centro-sinistra si è manifestato, con grande evidenza, nell'ambito della politica scolastica, ed in particolare nell'ambito della politica universitaria. Negli interventi legislativi (vedi Piano Gui-Codignola) si ritrovano larghissime concessioni ai gruppi più retrivi, che ne limitano profondamente gli stessi contenuti "rinnovatori". E' indubbio che la istituzione dei tre livelli di laurea corrisponde alle esigenze del grande capitale; ma in altri settori il progetto di riforma lascia largo spazio ai gruppi più retrivi, non contenendo né una regolamentazione dei rapporto di lavoro universitario su basi di pieno impiego, né un'effettiva contestazione della baronia delle cattedre.

Anche all’interno dell'Università esistono raggruppamenti di forze accademiche, naturalmente in connessione con i più ampi schieramenti sociali ed economici di cui prima parlavamo. L'Università non è comunque, un organismo essenzialmente economico, ma si caratterizza piuttosto come una grande istituzione della società pratica umana. I gruppi che operano all'interno della Università non si qualificano quindi principalmente per i loro interessi economici, ma piuttosto per i collegamenti che stabiliscono con le classi economiche e per il ruolo conseguente che assumono nell'insieme della vita sociale.

Non si deve perciò considerare l'Università come una piccola società chiusa, in cui i contrasti sorgono sulla base delle contraddizioni economiche interne tra i vari gruppi; bisogna invece muovere dall'esame della posizioni che le varie classi sociali hanno nei confronti dell'Università, dell'istruzione, della tecnica, della cultura in generale, e pervenire. a determinare le connessioni tra le forze accademiche e le più ampie forze sociali dei paese. Con una formulazione schematica si può dire che esistono due raggruppamenti tra le forze accademiche.


Un primo blocco di forze si raccoglie intorno ai gruppi accademici privilegiati (clinici progettisti, managers dell'economia e della politica) che adoperano il loro potere accademico e le strutture stesse dell'Università per attività d'interesse privato, e sostengono una strutturazione dell'Università su base artigianale (nel cui ambito, ristrettezza mentale e paternalismo sono sufficienti strumenti di governo e di formazione dei giovani); costoro fanno capo alle forze che nel nostro paese ancora sostengono le forme più arretrate di sfruttamento capitalistico, e gli ordinamenti più scopertamente autoritari della società paleocapitalistica.

Un secondo blocco di forze, politicamente piuttosto eterogeneo, si raccoglie intorno ai gruppi di docenti più giovani e dinamici, che hanno spesso introdotto discipline di avanguardia, e hanno organizzato istituti aperti ad attività di ricerca di tipo moderno, collegati con le grandi centrali internazionali. Essi, tuttavia, non riescono ad uscire dalla cerchia relativamente angusta dei loro interessi particolari, rifuggono da un impegno più ampio, e finiscono col dedicarsi esclusivamente al miglioramento di qualche limitata branca dell'organizzazione universitaria; e in questo spirito accettano la proposta moderata della sinistra dei nostro paese. I gruppi egemoni dei loro schieramento si presentano come i candidati al ruolo di "rinnovatori" dell’Università, e aspirano così a divenire gli uomini di fiducia dei gruppi più dinamici delle classi dominanti, che sostengono le forme più moderne e progredite dello sfruttamento capitalistico e gli ordinamenti più "democratici" della società politica. Questi gruppi "rinnovatori", quindi, nel sostenere una strutturazione dell'Università su basi di grande industria (in cui la compressione politica e la mitologia dell'efficienza e della tecnica sono gli strumenti più opportuni di governo e di formazione) difendono gli interessi dei gruppi privilegiati più moderni, connessi alle grandi corporazioni private "progressiste" ed alle nascenti burocrazie degli enti di stato.


Figura sociale dello studente


Rimane da analizzare la componente più importante, ai nostri fini, dei mondo universitario, cioè quella studentesca. Vari gruppi di opportunisti moderni, tendono a definire lo studente come produttore di plusvalore e come esecutore di un "lavoro" parcellizzato-subordinato; e possono giungere ad affermare che anche lo studente è figura interna alla classe operaia: (*)

"La definizione dello studente come figura interna alla classe operaia risulta pertanto confermata nei suoi temi politici di fondo. All’obiezione che lo studente non è un salariato, e pertanto non produce plusvalore, vanno opposti due ordini di argomentazioni: (a) ... sul piano di un modello formale di processo di valorizzazione, lo studente appare come produttore di valore (si qualifica e pertanto si autovalorizza) e come consumatore di valore, distinto a sua volta in valore sociale (i servizi che gli fornisce lo stato) e valore-salario privato (il mantenimento da parte della famiglia). In questo senso lo studente appare come una figura sociale impura ai margini dei processo di valorizzazione. Nella misura in cui si introduce e si generalizza il salario universitario, tuttavia, lo studente assume il carattere di salariato produttore di plusvalore... ; (b) ... abbiamo precedentemente rilevato come non sia corretta una definizione di classe in funzione semplicemente dei collocamento all'interno del processo di valorizzazione dei capitale.


(*) Questo passo ed i seguenti sono tratti dalle cosiddette tesi di Pisa: "Nuovo Impegno", n. 8; "Lavoro Politico", n. 2.


In questo senso, la definizione dello studente come componente interna alla classe operaia risulta effettivamente motivata se riportata al problema della divisione capitalistica dei lavoro e della funzione parcellizzata-subordinata che lo studente assume nella sua attività universitaria".


In questo tipo di analisi, esiste una prima mistificazione quando lo studente viene definito come produttore di plusvalore. A questo proposito ricordiamo brevemente quanto scriveva Marx nelle "Teorie di plusvalore", allo scopo di chiarire i termini adoperati nel discorso : ...

"... il lavoro del primo si scambia con capitale, quello dei secondo con reddito. Il primo lavoro crea un plusvalore, nel secondo si consuma reddito. Il lavoro produttivo ed improduttivo viene qui esaminato sempre dal punto di vista dei possessore di denaro, del capitalista, non da quello dei lavoratore, e da ciò le assurdità dei Ganilh e di altri; i quali comprendono tanto poco il problema, da sollevare la questione se il lavoro, o il servizio, o la funzione della prostituta, o dei lacchè, ... frutti denaro. Uno scrittore è un lavoratore produttivo, (produce plusvalore, n.d.r.), non in quanto produce delle idee, ma in quanto arricchisce l'editore che pubblica i suoi scritti, o in quanto è il lavoratore salariato di un capitalista".

In questo senso, si può immediatamente affermare, in contrasto con quanto viene affermato nelle tesi dei sindacalizzatori, che lo studente noti è produttore di plusvalore, in quanto il suo lavoro non si scambia con capitale e il presalario costituisce semplicemente una forma di reddito. Bisogna concludere che la condizione dello studente non presenta la caratteristica fondamentale della classe operaia, la alienazione economica, e quindi lo studente stesso non è valutabile come figura sociale interna alla classe operaia, né, come vedremo, risulta omogenea ad alcun parametro di classe. Questo tipo di formulazione certamente cade in difetto per certi strati studenteschi (ad esempio, una gran parte dei laureandi delle facoltà scientifiche risulta effettivamente soggetta ad un reale processo di sfruttamento economico nella preparazione delle tesi di laurea, dove spesso si lavora direttamente su commesse di industrie; vogliamo però notare che accanto a questa situazione di oppressione economica si accentuano condizionamenti di carattere psicologico, che rendono più disponibili alla prospettiva della soluzione individuale).

Infatti, il tipo di contraddizione che vive l'universitario non va ricercato in motivi di carattere economico ma nella sua vita universitaria e nel suo essere sociale più generale. Quest'ultimo aspetto assume rilievo importante per controbattere la tesi dei sindacalizzatori che, a questo proposito, dà una versione mistificata delle condizioni concrete di vita dello studente, limitando l'analisi al solo momento universitario, per poi poter giustificare una omogeneità di fondo nella condizione studentesca, e quindi dare fondamento all'ipotesi di classe. Gli studenti, invece, provengono da diverse classi e si inseriscono in diverse classi. Ciò comporta una mancanza di uniformità di prospettive nella massa degli studenti universitari, che forniscono quadri di ogni genere, molti dei quali finiscono per inserirsi organicamente nel gruppi economici privilegiati; comporta, ancora, diversi condizionamenti ideologici, diverse reazioni di fronte alle situazioni della vita universitaria In conseguenza delle diverse condizioni di vita. Vogliamo comunque notare che, nella misura in cui il sistema economico avrà necessità di formare masse sempre più numerose di quadri intellettuali, dovrà reclutare gli studenti tra classi sociali sempre più basse; e questo comporterà una rilevanza sempre minore, da un punto di vista numerico, degli studenti provenienti da classi privilegiate, e quindi una progressiva omogeneità della condizione studentesca.

Crediamo che, pur esistendo queste differenziazioni, siano avvertite da larghi strati studenteschi, in modo sufficientemente esteso ed omogeneo, una serie di contraddizioni proprie della vira universitaria, relative ai contenuti ed alle condizioni di studio che il sistema dominante impone. Si può incominciare e notare che i gruppi reazionari ed i gruppi "rinnovatori" portano avanti nelle Università due tipi di discorsi culturali: i primi rimangono ancorati ad una impostazione falsamente generale che dovrebbe tendere a dare allo studente una visione globale, beninteso all'interno di una singola disciplina (ad esempio, nelle facoltà di medicina o di giurisprudenza); i secondi, in omaggio alla mitologia dell'efficienza, spingono al massimo il processo di specializzazione, curandosi, nel migliore dei casi, di fornire agli studenti la conoscenza di alcune tecniche.

In entrambi i casi, la formazione dei laureato deve risultare funzionale ad una serie di mansioni, più o meno parcellizzate, che il sistema sociale gli impone di svolgere; ma deve tenerlo in una condizione tale da impedirgli di contestare il sistema sociale stesso: questo comporta che viene bandito dall'insegnamento ogni strumento d'indagine critica, che la metodologia ed i contenuti della ricerca scientifica vengono presentati come un dato neutro, la filosofia borghese come la "filosofia", la storiografia borghese come la "storiografia" I piani di studio non offrono un susseguirsi di esperienze teorico-pratiche, funzionali alla formazione unitaria dello studente, ma piuttosto la media pesata delle varie cattedre esistenti nella facoltà. Nel tenere lontano gli studenti da qualsiasi forma di comprensione generale della realtà sociale, ci si preoccupa inoltre di portare alla meta quelli che hanno mostrato più degli altri di subordinarsi ed accettare le scelte autoritarie del corpo accademico, relative a tutti gli aspetti della vita universitaria; questa selezione viene operata attraverso il sistema dei voti, degli esami, delle borse di studio, dei presalari, eccetera. Lo studente si trova quindi ad operare, fin dai primi anni dell'Università, in una situazione di oppressione in cui viene privato di ogni indipendenza.


Proposta politica per il movimento studentesco


La proposta politica a cui giungono i "sindacalizzatori", in accordo con la mistificazione di classe prima operata, è quella di un movimento studentesco che "rivendica il controllo degli studenti sulla propria formazione; analizza e contratta la condizione studentesca, in rapporto alla situazione storica determinata, In cui essa si situa, e all’uso che ne viene fatto nell'attuale fase dello sviluppo capitalistico". Costoro, mentre affermiamo che "il movimento studentesco ha come controparte la classe borghese, storicamente determinata", si propongono "una serie di obiettivi che, utilizzati di volta in volta, e di volta in volta superantisi, consentono la progressiva maturazione dei movimento; ciascuno di tali obiettivi può essere per sua natura funzionale allo sviluppo capitalistico, e quindi venire assunto da esso; ma il proporseli e superarli è un fattore di sviluppo dei movimento studentesco". E giungono infine ad affermare: "il sindacato studentesco, analizzando e contrattando il momento di formazione della forza-lavoro, entra in rapporto col sindacato operaio. La base comune di questo rapporto è l'analisi dell'uso capitalistico della forza-lavoro. Partendo da questa analisi, il sindacato studentesco rivendica di essere inquadrato nel sindacato operaio".

Questa proposta politica, che venne avanzata tre anni fa al congresso dell'UGI di Napoli, e che è stata variamente riformulata nel corso di questi anni, ha rivelato la non validità dei suoi assunti teorici (studente come forza-lavoro in via di qualificazione) nell'incapacità di tradursi in lotta politica di massa. Una politica universitaria che sì autolimitava alla contrattazione della condizione studentesca, partendo dalla contraddizione economica come momento mobilitante di massa, era necessariamente costretta al fallimento, in quanto ignorava le contraddizioni di carattere pratico-politico, che rimangono quelle fondamentali nella vita universitaria. Quindi, in questi anni, il movimento universitario ha continuato ad avere un carattere di élite, senza nemmeno riuscire a realizzare un'opera di qualificazione politica per la sua stessa impostazione sindacale.

Ma il reale significato politico della sindacalizzazione consiste nell'adesione alla strategia riformista delle centrali politiche ufficiali, per le quali il momento sindacale si riduce alla sola lotta economica ed il momento politico alla lotta per le riforme delle grandi istituzioni della società civile (ad esempio dell'Università). Nelle stesse formulazioni in cui si propone uno sblocco politico al movimento studentesco ("il sindacato studentesco, attraverso la propria elaborazione teorico e le esperienze di lotta dei movimento, procede per generalizzazioni che lo portano a confrontarsi globalmente con la controparte. Questa maturazione lo porta ad investire direttamente il tema dei potere capitalistico e della costruzione di una prospettiva rivoluzionarla alternativa") si rivelano le carenze di fondo dell'impostazione politica generale: infatti, o si prevede un processo di maturazione spontanea dei movimento sindacale verso un nuovo movimento politico, o si ritengono validi gli attuali centri politici di riferimento. Il clamoroso fallimento dell'ultimo rilancio della sindacalizzazione (attuato dalla sinistra di Rimini) ha ormai ridotto molti dei suoi sostenitori agli elementi di destra delle burocrazie dei partiti ufficiali.

La maggior parte della stessa sinistra di Rimini ha proposto, in seguito, la parola d'ordine del "potere studentesco", che rappresenta un ulteriore camuffamento di una lotta corporativa. In effetti, rispetto alle tesi di Pisa, sono state abbandonate le formulazioni dei tipo "lo studente è forza-lavoro in via di qualificazione"; ed è stato accentuato, in generale, il carattere politico-culturale delle rivendicazioni. Ma il tipo di rivendicazioni e l'impostazione politica generale sono rimasta identiche. Così, come nelle tesi di Pisa, nei documenti torinesi, si dice (*) : "riteniamo che l'Università debba e possa fornire a chi la frequenta, al tempo stesso, una preparazione professionale adeguata e degli strumenti di critica rispetto al ruolo professionale"; ritorna quindi al centro il tema dei controllo sulla propria formazione.

Ma il carattere riformista di questa proposta si rivela nella chiusura dei discorso all'interno dell'Università nella prospettiva di una lotta all'ultima sangue tra studenti (anche se non più forza-lavoro) e corpo accademico, per la costruzione di una Università "democratica" in un mondo di "merda": una lotta, in definitiva, al servizio dei "rinnovatori".

"E', quindi, necessario andare al di là e trasformare non solo la struttura del piano di studi, ma la scelta degli argomenti specifici di studio al suo interno, ed metodi di studio... Questi scopi non sono raggiungibili nell'ambito delle strutture di potere attualmente esistenti nell'Università.

Questa struttura di potere va rotta su due piani:


a) va rotto il monopolio detenuto dal professore di, cattedra, sulla materia che istituzionalmente gli compete;


b) la capacità di decisione degli studenti va organizzata in forma autonoma dalla struttura istituzionale dell'Università.


(*) Queste citazioni e le seguenti sono tratte dal numero di "Quindici" sulle agitazioni di Torino.


La mancanza più assoluta di un raffronto tra sistemazione interna dell'Università e organizzazione della società esime poi completamente questi gruppi da un qualsiasi discorso politico generale e dall'esame dei problema dei collegamenti con le centrali politiche esterne; e li riduce, quindi, a teorizzatori di un movimento corporativo, di una nuova forma della sindacalizzazione. Come dirigenti pratici delle agitazioni universitarie, essi si muovono nella convinzione che "la radice dei problema è il potere delle autorità accademiche", e permettono ai partiti ufficiali la strumentalizzazione delle lotte che il movimento conduce.


Il movimento studentesco, per poter riuscire a sviluppare la sua linea politica in azione di massa, deve partire dalle reali condizioni dello studente universitario per la formulazione di una precisa strategia. Secondo i risultati dell'analisi precedente, le contraddizioni proprie della vita universitaria escludono la possibilità di un movimento studentesco di tipo sindacale, al cui centro siano rivendicazioni economiche, ma piuttosto indicano come direzione strategica di fondo, la costruzione di un movemento che sia fin dalla sua prima istanza politico. Una seconda indicazione che deriva dall'analisi precedente riguarda il carattere e l'ampiezza di questo movimento: se ne deve rifiutare qualsiasi carattere di élite, fondando sulla potenziale insubordinazione di larghi strati studenteschi all'attuale struttura universitaria. I compiti fondamentali di questo movimento, che deve quindi avere un carattere politico di massa, devono essere, da un lato, organizzare la protesta degli universitari, secondo le parole di Lenin:

"Noi dobbiamo assumerci il compito di organizzare una lotta politica multiforme, diretta dal nostro partito, affinché tutti gli strati dell'opposizione possano dare e diano a tale lotta, ed in pari tempo al nostro partito, tutto l'aiuto che possono. Noi dobbiamo trasformare i militanti socialdemocratici in capi politici che sappiano dirigere tutte le manifestazioni di questa lotta multiforme, che, al momento necessario, sappiano dare un programma d'azione positivo agli studenti in fermento, ai rappresentanti degli zemstvo insoddisfatti..." (*)

e, dall'altro, attraverso l'esperienza concreta di lotta, lo studio teorico, l'analisi e l'intervento in realtà sociali extrauniversitarie, promuovere un processo di maturazione che miri alla formazione di quadri politici rivoluzionari.

In questa prospettiva, si deve prevedere una pluralità di livelli di discorso, che però siano in ogni momento compresenti e non scaglionati nel tempo. Esistono una serie di contraddizioni "accademiche", che sono quelle individuate nell'analisi della condizione studentesca, e che si possono riassumere nella situazione di oppressione in cui è costretto e vivere lo studente, tramite il tipo di cultura, il sistema di discriminazione e di selezione, le condizioni materiali di studio: e queste contraddizioni possono dare l'avvio ad una serie di discorsi, ed essere la spinta per lotte di massa. Questo primo livello di discorso può essere articolato per facoltà ad esempio, nelle facoltà scientifiche, attraverso la denuncia dei carattere "ideologico" delle impostazioni e delle scelte operate nella ricerca scientifica, e, quindi, attraverso la demistificazione della mitologia dell'efficienza, e la denuncia della volontà della classe dominante di formare dei tecnici che siano strumenti incapaci di comprendere e contestare una qualsiasi scelta che travalichi l'ambito del laboratorio o dell'istituto; nelle facoltà umanistiche, attraverso la contrapposizione al carattere oppressivo ed ancor più apertamente ideologico della impostazione culturale (sostanzialmente ancora finalizzato alla formazione di "missionari dell'insegnamento") dei carattere scientifico e della possibilità di comprensione dei singoli problemi che permette il materialismo dialettico moderno.


(*) Lenin, "Che fare?".


Le contraddizioni "accademiche" possono dare occasione per molti discorsi generali sul carattere della cultura, e sull'organizzazione della scuola; e possono spingere ad una analisi dei rapporto università-società che da un lato individui l'organizzazione universitaria come strettamente funzionale ad una serie di esigenze poste dall'esterno dell'Università stessa, e dall'altro, quindi, indichi la necessità, per la soluzione degli stessi problemi universitari, oltre i limiti delle proposte "rinnovatrici", del rovesciamento dell'attuale struttura sociale. D'altra parte, la maturazione politica può ricevere una spinta da avvenimenti politici, nazionali o internazionali, di particolare rilievo o drammaticità: e tutti i motivi di scontro possono diventare occasione di lotta, in cui possano riconoscersi grandi masse studentesche.


Sull'esperienza offerta da queste lotte, devono inserirsi momenti di riflessione critica, che si articolino in corsi di studio di carattere ideologico, in dibattiti di carattere politico generale, in esperienze di analisi e di intervento in condizioni sociali diverse da quella universitaria, principalmente in quella operaia, ed in quella degli studenti medi (queste ultime iniziativa possono, in particolare, articolarsi in forme organizzative stabilì, con gruppi di lavoro specifico). Vogliamo riportare, a titolo di esempio, l'esperienza compiuta a Napoli, nel dicembre 1967, quando l'intervento della polizia nella Università offriva la possibilità di lanciare un'agitazione su parole d'ordine che già invitavano ad estendere le analisi al di fuori dell'Università. Questo permetteva, stilla base di una partecipazione di massa e di un'esperienza concreta e collettiva, da un lato di portare avanti il dibattito sulla politicizzazione dei movimento studentesco, fino alla liquidazione dell'UGI, e dall'altro di avviare un controcorso stilla natura dello stato e dei suoi apparati di repressione, adoperando, come testo, "Stato e Rivoluzione", di Lenin.


Bisogna sottolineare la necessità della contemporaneità dei veri livelli di discorso: solo così si offre un'effettiva possibilità di maturazione ai movimenti spontanei, mostrando che i problemi particolari possono risolversi in uno schema più ampio, e che solo una teoria politica più generale permette di orientarsi nel delineare le strategie di lotta. Queste più elevate funzioni possono essere compiute, in maniera completa, solo da un partito politico, unico strumento valido nell’elaborazione della strategia generale, e delle indicazioni di intervento, e dei coordinamento delle lotte nei vari settori della società. Nella situazione attuale, in cui le organizzazioni tradizionali della classe operaia hanno abbandonato il loro ruolo di guida per una strategia riformista, la costruzione dei partito politico rivoluzionario della classe operaia va realizzata muovendo da una serie di interventi in realtà sociali specifiche e limitati geograficamente, i quali svolgano una doppia funzione; da un lato, incomincino a diffondere tra le masse il corretto modo di orientarsi secondo i principi dei marxismo-leninismo, e stabiliscano un collegamento tra i quadri rivoluzionari e le masse; dall'altro contribuiscano alla formazione di quadri rivoluzionari, attraverso una concreta esperienza di lotta e di studio teorico. Le organizzazioni che operano questi interventi devono contenere perciò un'ambiguità di livelli, dovendo proporsi anche compiti di elaborazione di carattere politico generale, che, in termini corretti, potrebbe essere operato solo dal partito politico.


In questa prospettiva, un movimento universitario di massa, politicamente agguerrito, potrà, da un lato, far sì che i militanti rivoluzionari si radichino tra le masse, dall'altro iniziare un processo di formazione di quadri politici, che, arricchendo la propria esperienza di lotta con interventi in realtà sociali extra universitarie e collegandosi ai quadri operai rivoluzionari, daranno origine al futuro partito rivoluzionario.


NUOVI OBIETTIVI per il Movimento Universitario di opposizione


Negli ultimi anni si è sviluppato nelle università italiane un ampio movimento di opposizione, che, in molti casi, ha posto istanze avanzate e ha condotto azioni di rottura. Nell'atmosfera stagnante della società italiana uscita dal "miracolo", le manifestazioni di strada degli studenti, le occupazioni di massa delle università, gli scontri con la polizia, hanno contribuito a rilanciare una tematica "sovversiva", tematica che ai tanti sonnolenti difensori della collaborazione coesistenziale sembrava ormai da riporre in soffitta.


In effetti, le manifestazioni di strada contro le iniziative dell'imperialismo americano, le proteste operaie di Genova, Trieste e altre città, i movimenti contadini della Calabria, le manifestazioni di insofferenza degli studenti riflettono l'esistenza di forti incrinature nell’organizzazione dei potere delle classi dominanti italiane, che pure erano uscite rinvigorite dagli anni dei miracolo economico. Il disegno politico dei gruppi moderati delle classi dominanti, rivolto ad una razionalizzazione e modernizzazione della società italiana incontra forti difficoltà per realizzarsi.

In questa situazione i vecchi partiti della sinistra ufficiale - con la loro corte di burocrazie sindacali, cooperative semi privatizzate, fiduciari negli enti di stato, editori e tecnici "illuminati" - cercano di inglobare le azioni di protesta nella loro strategia di coesistenza e di integrazione nel sistema dominante; e si propongono come la sola forza capace di mantenere la protesta nei limiti dell'"ordine", di assicurare un lungo periodo di sopravvivenza del privilegio e dello sfruttamento. Nel processo di sviluppo di tutti i movimenti particolari di opposizione nel nostro paese entrano quindi in conflitto forze contraddittorie: da un lato, le formazioni politiche collegate all'ufficialità - al P.C.I. al P.S.I.U.P ed ai gruppi della IV internazionale -; dall'altro lato, nuovi gruppi di opposizione, che ripropongono, nelle lotte particolari, una strategia politica rivoluzionaria. Naturalmente, le potenti centrali politiche legate alla pratica riformista sono sufficientemente forti ed esperte per riuscire a bloccare l'iniziativa degli avversari, troppo ingenui nella pratica politica e spesso incapaci di superare il livello delle formulazioni generali. Tuttavia, nelle lotte particolari, i gruppi dell'opposizione di sinistra vengono maturando le loro proposte politiche generali, e riescono ad arricchirle ed elaborarle negli aspetti più specifici.


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Il movimento studentesco nelle università si è sviluppato secondo questa traccia, sicché non è possibile individuarne le linee di tendenza senza un'analisi specifica dei ruolo che vi hanno assunto i gruppi della sinistra ufficiale. A partire dal 1960, questi gruppi si sono successivamente assestati su due linee di difesa, via via che i movimenti studenteschi assumevano caratteri più radicali.

In un primo periodo, le iniziative politiche condotte avanti dai giovani della F.G.C.I. e delle altre formazioni ortodosse si inserivano strettamente nella tattica dei partiti di sinistra - volta a svuotare di significato autonomo i movimenti particolari di opposizione, e ad inserirli nella ristretta logica delle iniziative riformistiche dei gruppi parlamentari. I gruppi ufficiali cercavano di mantenere le azioni dei movimento di protesta nelle università in una posizione di copertura di iniziative legislative particolari, oppure di generiche rivendicazioni di riforma; di conseguenza, non curavano affatto lo svilupparsi di un movimento di opposizione a carattere di massa nelle università - come un possibile elemento permanente nella situazione politica del paese. Questa iniziativa politica di retroguardia fondava sul fronte unico con tutte le organizzazioni dei docenti (in un primo tempo anche coli l'A.N.P.U.R., associazione dei professori di ruolo), e sulla stretta collaborazione dell'U.C.I. e dell'Intesa nell'U.N.U.R.I.


"Non si può essere un socialdemocratico rivoluzionario se non si partecipa con tutte le proprie forze alla elaborazione di questa teoria (il marxismo), e al suo adattamento alle mutate condizioni"

(LENIN, 1915)


Dopo i primi segni di crisi di questa linea - già evidenti nelle agitazioni dei 1964-65 - cominciarono a formarsi, dietro la proposta di "sindacalizzazione" del movimento studentesco, nuovi gruppi, a sinistra dei precedenti ed in posizione polemica con essi, i quali presero a disporre una seconda linea di difesa dell'ufficialità di sinistra nelle università. In effetti, essi cercavano di sollecitare, con azioni di denuncia ed agitazione particolari, la formazione di un ampio movimento studentesco di base, che doveva però limitarsi ad un intervento di copertura e di appoggio nei confronti dei partiti di sinistra. Con molta spregiudicatezza, i "sindacalizzatori" si spingevano fino a sostenere. le polemiche di base, rivolte contro i burocrati dei partito, per la rivendicazione dell'"autonomia" del movimento studentesco; ma proponevano di limitarla agli aspetti formali e "amministrativi", anziché allargarla nel rifiuto della tutela politica che i partiti ufficiali - spesso attraverso le frange delle loro cosiddetto "sinistre" - riuscivano, in ultima analisi, ad esercitare sul movimento stesso. Essi scoraggiavano quindi gli interventi politici sul terreno generale contro quegli stessi burocrati che criticavano a parole; e cercavano di mantenere le agitazioni nei limiti di azioni rigorosamente "accademiche", e di evitare che vi si potessero far strada posizioni politiche in contrapposizione a quelle ufficiali. Per questa via essi operavano perché restasse ai partiti della sinistra ufficiale la delega della rappresentanza politica dei movimento, di opposizione nelle università.

D'altra parte, questa seconda linea di difesa si reggeva sull'equivoco. La stessa rivendicazione dell'"autonomia" diventò in breve pericolosa, via via che molti gruppi studenteschi comprendevano che soltanto sullo sviluppo e sull'affermazione di posizioni politiche alternative si potevano fondare rivendicazioni di autonomia che avessero contenuti reali. Si formarono gruppi di opposizione che chiedevano la politicizzazione del movimento universitario; e questi si scontrarono, su tale base, con i "sindacalizzatori", mettendo in evidenza le contraddizioni delle proposte di sindacalizzazione ed il loro valore strumentale a vantaggio dei partiti ufficiali.

Questi scontri si sono sviluppati ampiamente nelle ultime agitazioni; in molte università, il movimento di opposizione ha potuto svilupparsi oltre la prima e la seconda linea di difesa dei partiti della sinistra ufficiale; e, dopo aver acquisito una capacità di incidenza sul terreno delle lotte puramente "accademiche", è andato oltre, su un piano politico generale, in contrapposizione con le posizioni "ortodosse" del P.C.I. e dei P.S.I.U.P. La rottura del fronte avversario e la crisi della politica universitaria della coalizione governativa hanno però prodotto una situazione per molti versi nuova, in cui tentano un reinserimento i fiduciari dell'ufficialità sparsi nei vari gruppetti conciliatori, che vogliono tutti "mettere pace" e ristabilire "l'unità".


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In effetti, le posizioni dei burocrati "veri e propri" - quelli di sinistra, per intenderci - sono oggi molto deboli in tutte le università dove il movimento di massa si è sviluppato su basi ampie. In alcune sedi i fiduciari dell'ufficialità riescono ancora a reggersi, ma con molta fatica; cercano di affermarsi nell'azione pratica valendosi del pesante intervento delle formazioni riformiste di cui sono portavoce. In molte sedi sono stati sconfitti e posti ai margini del movimento e sono ora in grandi difficoltà. A Napoli, per esempio, evitano il dibattito con tutti i mezzi, dopo aver cercato inutilmente di rilanciarsi attraverso alleanze di vertice ed agitazioni su ristrette piattaforme, all'ombra degli organismi rappresentativi e della alleanza con i gruppi ufficiali", perfino con quelli di estrema destra.

In questa situazione, il movimento universitario di opposizione avrebbe già superato le attuali incertezze e si sarebbe radicalizzato nella sua opposizione agli orientamenti riformisti dei partiti della sinistra ufficiale, se non fossero entrati in campo altri gruppi alleati di copertura di questi partiti, i quali si rifanno in varia maniera alle tattiche "entriste" della IV internazionale e dei circoli operaisti della vecchia sinistra massimalista.

Su tutti questi gruppi si deve dare un giudizio molto negativo. Su un piano generale, si deve ribadire che essi sono soltanto l'espressione delle speranze dei gruppi piccolo-borghese che lo sviluppo del capitalismo moderno spinge ai margini della società. Per queste ragioni essi non riescono ad andare oltre un rivoluzionarismo verbale e si limitano a proporre una partecipazione in chiave emotiva ed attivistica alle azioni pratiche - nello spirito di una piena sottomissione al costume irrazionalistico dominante, piuttosto che dell'affermazione dell'importanza autonoma e creatrice dell'attività pratica. Sul piano politico, si deve denunciare il loro orientamento "centrista", che evita i contrasti netti, non vuole inimicarsi l'ambiente dell'ufficialità di sinistra, e raccomanda di lavorare per "migliorare" I partiti di sinistra con azioni "dall'interno". Queste posizioni sono ispirate da quelle, stesse concezioni della lotta politica, possibiliste ed accomodanti, che i dirigenti della socialdemocrazia portano avanti nei confronti degli stati borghesi; esse rivelano una stessa disponibilità alla critica generica e lo stesso rifiuto di una lotta frontale contro i centri politici avversari.

Su un piano più immediato, questi gruppi adempiono oggi ad una funzione particolarmente importante, a copertura delle posizioni, ormai troppo squalificate, della ufficialità di sinistra. Agli scontenti che escono dai partiti o restano incerti ai loro margini, tutti pieni della "nobile" aspirazione a farli diventare "migliori", i gruppi legati alla tattica entrista, operaisti e trotzkisti, offrono un equivoco punto di raccolta, proponendo alle loro velleità rivoluzionarie facili sfoghi, per niente dannosi al dominio della ufficialità di sinistra. In questo modo, essi rallentano il processo di formazione di centri di riferimento che esercitino un ruolo realmente alternativo rispetto ai centri della politica riformista.

La funzione negativa di questi gruppi si è rilevata in modo particolare nelle ultime agitazioni universitarie, dove hanno continuato a suggerire azioni "dall'interno" nei confronti dei partiti di sinistra, e ad ostacolare la costruzione di centri autonomi dei movimento di opposizione nelle università, in alternativa ai centri ufficiali. E fino a quando, nel movimento studentesco, tinti i formeranno centri che, esplicitamente e senza mezzi termini, si proporranno alla direzione dei movimento contro i fiduciari dell'ufficialità, saranno questi ultimi - grazie ai loro centri di potere reale, esterni alle università, e nonostante il discredito da cui sono circondati tra gli studenti - a dirigere di fatto le azioni di protesta.


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L’importanza primaria dell'obiettivo della costruzione di centri realmente indipendenti è riconosciuta oggi largamente negli ambienti dissidenti di sinistra. Tuttavia, questi centri sono più spesso concepiti come luoghi di dibattito teorico - che pure sono di grande importanza, oggi - che come semi di iniziativa politica; e d'altra parte, in molti casi, sono lasciati aperti all'influenza di gruppi e gruppetti poco disposti ad un'azione indipendente dall'ufficialità di sinistra e ad essa contrapposta. Su queste basi l'insieme dei gruppi dissidenti resta in ritardo rispetto allo sviluppo spontaneo dei vari movimenti di opposizione - che arrivano facilmente a un avanzato punto di maturazione e hanno bisogno, per andare oltre, che si formino nuovi centri di riferimento adeguati al livello delle loro lotte. Nelle lotte particolari, d'altra parte, larghe porzioni dei movimenti di base acquistano coscienza della necessità e dell'urgenza di questi sviluppi.

Anche i movimenti che nascono su piattaforme molto limitate, possono oggi sperimentare la insostituibilità e l'urgenza di centri indipendenti di iniziativa politica. In particolare, negli ultimi mesi, il movimento accademico , sviluppatosi sui temi della riforma universitaria, ha fatto esperienze larghissime in questa direzione. Può quindi tornare utile, in questo contesto, richiamare le vicende della polemica contro il piano di riforma presentato dal ministro Gui e "corretto" dal deputato socialista Codignola.

I gruppi di opposizione sono restati soli per molti mesi, prima dell'inizio della discussione del progetto Gui-Codignola e della ripresa delle agitazioni universitarie nel rifiuto della pseudo-riforma e nella polemica contro la cosiddetta politica degli emendamenti. Fino all'ultimo, la stampa del governo di centro-sinistra, gli uomini più rappresentativi dei cosiddetto centro-sinistra "avanzato" - dai Lombardiani alla sinistra democristiana - sostenevano con grande accanimento il piano di riforma. Giornali, deputati, senatori e organi direttivi del P.C.I si mantenevano in una posizione ambigua, invitando gli oppositori più irriducibili a presentare "alternative concrete" ed incoraggiando la politica degli emendamenti. La relazione di minoranza presentata il 3 novembre 1967 dall'on. Rossana Rossanda (esponente della "sinistra"!) alla presidenza della camera a nome dei deputati del P.C. I. si concludeva con queste parole:

"I tempi sono mutati, ed esigono una università democratica, autonoma e ad altissimo livello; questa legge ci offre una università prima che aristocratica, discriminatoria, subalterna e men che prudente nelle sue ambizioni scientifiche. Alle Camere spetta ora il compito di spezzarne la logica mortificante e costruirne, attraverso emendamenti di fondo, una nuova e corretta fisionomia. A questo compito, di fronte al movimento universitario ed al paese, sono impegnati i comunisti".

L’azione dei gruppi di opposizione, che iniziarono - isolati ed osteggiati dal mondo politico ufficiale - la lotta contro il piano di riforma, non riuscì a tradursi, fin dall’inizio delle agitazioni, nella costruzione di un potere reale, in grado di bloccare le prevedibili controffensive degli avversari. Valendosi di questa debolezza, gli stessi gruppi che, alcuni mesi fa, difendevano il piano Gui e la politica degli emendamenti, hanno tentato in seguito di recuperare le posizioni perdute, e molto spesso con successo. Ancora una volta i gruppi sostenuti da un potere sono riusciti a salvarsi dalla piena sconfitta.

Si possono trarre alcuni insegnamenti da queste vicende; tutti a conferma della necessità e dell’urgenza, per il movimento di opposizione nelle università, di superare le debolezze, che hanno compromesso, finora, le possibilità di successo della polemica contro i tutori dell'ordine costituito. Tutti coloro che intendono realmente, e non e parole, "cacciare i burocrati dalle università", devono lavorare per superare queste debolezze. Non vi è nulla di più importante, in questo momento, che costruire centri di iniziativa, punti di raccolta dei gruppi che combattono le burocrazie dei partiti ufficiali. E questi centri, naturalmente, devono essere ben delimitati, ed escludere quanti - ne siano coscienti o no - operano all’interno della dissidenza come agenti dell'ufficialità, propagandando un costume "tollerante" nel suoi confronti, raccomandando le azioni "dall’interno" nei partiti e nelle associazioni della sinistra ufficiale, e cianciando vacuamente della necessità di iniziative "unitarie".


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Le proposte di unità mal definita sono oggi le più pericolose. Esse riecheggiano quelle, fatte da Giorgio Amendola e Luigi Longo, di una "unità della sinistra", nell’ambito dei "partito unico della sinistra italiana". A quanti sono incapaci di liberarsi, nella loro iniziativa politica, dalle impostazioni proprie dei peggiori gruppi riformisti, si devono opporre le formulazioni di Lenin: "Prima di unirsi è necessario definirsi, nettamente o risolutamente".

Nell’atmosfera politica che ancora domina in molti ambienti di sinistra, anche nella dissidenza, il riferimento alla tradizione leninista rischia di fare scandalo. Gli atteggiamenti qualunquistici, nel formato di "sinistra", la fiducia mitica nell’attivismo pratico, la noncuranza per gli sforzi di comprensione teorica, l'esaltazione dello spirito accomodante, ribattezzato come "unitario": queste sono le pesanti debolezze che la dissidenza si porta spesso dietro - un riflesso dei corrompimento dei partiti ufficiali del movimento operaio. Non vi è dubbio, comunque, che l'esigenza dei recupero pieno della tradizione leninista si vada facendo strada, in collegamento con le esigenze reali di sviluppo dei lavoro teorico e dell'iniziativa pratica dell'opposizione di sinistra, Tutti i gruppi che hanno mantenuto un vivo legame con la tradizione leninista negli ultimi decenni, e i numerosi gruppi che si vanno oggi formando su queste stesse premesse, possono perciò avere, oggi, una importante funzione positiva.

Sul terreno pratico, questi gruppi antiriformisti di opposizione cominciano oggi a sviluppare le loro iniziative nel paese - per spezzare le "unità" fittizie e squalificate, e ricostruire centri indipendenti di intervento politico. Non è sempre male se questi conservano, al loro interno, una relativa eterogeneità - specie quando quest'ultima sia la traduzione della relativa immaturità del processo di sviluppo, che si attua a sinistra delle formazioni politiche ufficiali, e dei gruppi conciliatori della IV internazionale e della sinistra massimalistica. In effetti, la maturazione di nuove forze politiche non porrà procedere che con estrema lentezza: non esistono ricette estrinseche, e nuove proposte politiche possono acquistare forma compiuta sulla base della conquista di nuovi livelli di analisi teorica della società moderna.


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Nella ricerca delle prospettive del movimento universitario di opposizione, non ci si deve servire dei modelli di discorso mediati dagli ambienti della sinistra ufficiale, e finire con il proporre, senza accorgersene quasi, una specie di "via universitaria al socialismo". E' più opportuno lasciare l'esclusiva di queste proposte agli zelanti patroni del "potere studentesco". Si deve piuttosto muovere dalla premessa che le lotte politiche universitarie sono parte delle lotte politiche che si combattono ampiamente nel paese, e che i problemi che vi si pongono, ad un certo livello di sviluppo, sono gli stessi che si pongono fuori delle università. In particolare, le azioni di rottura volte a costruire centri indipendenti dall’ufficialità - che servano da riferimento per il movimento universitario di opposizione - vanno visto in legame stretto con le analoghe azioni che si sviluppano nel paese, nei vari ambenti di studio e di lavoro.

Da queste premesse, si possono derivare i motivi specifici per cui l'azione dei gruppi di opposizione nelle università può oggi rivestire una notevole importanza. Intervenendo per liberare il movimento universitario dalla tutela dei partiti della sinistra ufficiale, sconfiggendone i burocrati e ponendoli ai margini dei movimento, costruendo centri indipendenti di iniziativa politica, in opposizione all'ufficialità - per questa via si spingono nuove forze ad entrare e far parte dei movimenti di opposizione antiriformisti che operano nel paese. Su questa base ulteriori sviluppi diventano possibili da un lato, perché i movimenti di opposizione che operano nell’università riescano ad arricchire, in legame ad altre lotte di massa, la scuola di formazione politica che compiono nelle agitazioni universitarie, dall'altro, perché riescano a collegarsi allo sforzo dei gruppi di avanguardia per la ricostruzione di una formazione politica rivoluzionaria.


"Per rinnovare il nostro apparato dobbiamo ad ogni costo porci il compito: in prima luogo, imparare, in secondo luogo, imparare, in terzo luogo, imparare, e poi controllare ciò che si è imparato, affinché la scienza non rimanga lettera morta o frase alla moda (come da noi, non v'è nessuna ragione di nasconderlo, accade molto spesso), affinché la scienza diventi realmente carne della nostra carne, sangue del nostro sangue, affinché essa diventi in modo completo e reale parte integrante della nostra vita".


(LENIN, "Meglio meno, ma meglio" - pubblicato sulla Pravda il 4 marzo 1923)


La sinistra universitaria di Napoli: Cronaca


..."bisogna anche riconoscere che in determinate condizioni i rapporti di produzione, la teoria e la sovrastruttura assumono, a loro volta, la funzione principale, decisiva..... Quando, per usare le parole di Lenin, "senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario", la creazione e la diffusione della teoria rivoluzionaria cominciano a svolgere la funzione principale, decisiva. Quando occorre compiere una qualsiasi azione (non importa quale), ma non esiste a tale scopo né un orientamento, né un metodo, né un piano e nemmeno direttive determinate, allora l'elaborazione dell’orientamento, del metodo, del piano e delle direttive diventa fondamentale, decisiva".


(MAO-TESE-TUNG, Sulla contrattazione - agosto 1937)


Le prime polemiche aspre contro la linea tradizionale dei partiti ufficiali - volta a mantenere i movimenti di massa nelle università nei limiti di iniziative settoriali e corporative, per poterne poi assumere la rappresentanza in operazioni di vertice, a fini elettorali e parlamentari - si verificarono nell'università di Napoli, durante l'anno accademico 1966-1967. Le polemiche iniziarono nelle agitazioni del dicembre 1966 e si svilupparono nelle occupazioni di febbraio e maggio 1967, con l'allargarsi del dibattito sui temi della unità delle sedi universitarie e dell'opposizione ad una "area della ricerca" extra-universitaria, voluta dal governo e dai "baroni" della ricerca; queste lotte costituirono per molti studenti il punto di partenza di una vasta esperienza politica.

Nella battaglia per l'unità delle sedi universitarie, si denunciava, da parte dei gruppi studenteschi di sinistra, il fatto che le decisioni del potere accademico venivano prese sulla testa degli studenti, degli assistenti e dei professori incaricati e che esse erano espressione degli interessi particolari di alcuni gruppi di clinici e progettisti, che facevano capo alle facoltà di Medicina e di Ingegneria; e si denunciava il fatto che tali gruppi erano direttamente legati ai padroni della città, e, attraverso gli apparati dei partiti, all'apparato nazionale del potere. In particolare, le denunce si soffermavano sul tema del nuovo policlinico, la cui realizzazione, già avviata, procedeva secondo criteri puramente speculativi; e sottolineavano che essa contrastava, di fatto, con il criterio dipartimentale ed era sulla linea delle posizioni culturalmente più arretrate, omogenee ad una società addirittura pre-industriale.

Nella battaglia contro la creazione di un'area di ricerca "internazionale" al di fuori dell'università, si denunciava, da parte dei gruppi studenteschi di sinistra, il fatto che la separazione della ricerca dall'insegnamento abbassava il livello di qualificazione del laureato, e creava, nel corpo studentesco e nello stesso corpo insegnante, una divisione permanente tra coloro che avevano accesso a tale area di ricerca e coloro che non l'avevano; e soprattutto si denunciava la creazione di organismi di ricerca rispondenti direttamente alle esigenze del grande capitale e dei centri dì pianificazione scientifica legati alle centrali dell'imperialismo, che escludevano ogni possibilità di controllo dal basso della ricerca nell'università, in contrasto con le tradizionali aspirazioni del movimento studentesco per la riforma.

Attraverso tali lotte, alcuni gruppi del movimento studentesco napoletano riuscivano ad acquisire, oltre alla capacità di distinguersi dalla controparte accademica più reazionaria, la capacità di respingere le offerte di alleanza dei cosidetti "rinnovatori", che avevano appoggiato la realizzazione dell'area di ricerca. Si facevano insieme strada la comprensione della necessità di riferire le contraddizioni particolari alla matrice strutturale economico-politica da cui esse nascono, e la comprensione del fatto che la crescita del movimento studentesco doveva avvenire attraverso il rifiuto delle vecchie rappresentanze e l'imposizione delle assemblee permanenti come reale luogo di dibattito e di scontro.

Ma soprattutto, attraverso queste lotte, molti studenti cominciavano a sperimentare che, anche nelle lotte limitate sul controllo e sulla gestione della vita universitaria, lo scontro con i partiti riformisti era inevitabile. Nel corso delle agitazioni per l'unità delle sedi si manifestava la tendenza di questi partiti a evitare ampie denuncie e a tentare di chiudere le questioni con accordi di vertice; e durante le agitazioni sul tema dell'area di ricerca, si verificava addirittura l'accordo plaudente dei partiti di governo e di quelli di sinistra, tutti uniti, nello stesso ardore "rinnovatore", che sì manifestava, proprio in quei giorni, nei consensi unanimi alla creazione dell'Alfa Sud, un acconto sulle "riforme di struttura" richieste dal PCI.

Inoltre, il riconoscimento degli stretti legami tra strutture dell'Università e della società spingeva larghi gruppi del movimento, studentesco ad uno sforzo di elaborazione politica generale in cui inserire una più avanzata strategia di lotta. Questo sforzo di elaborazione e di precisazione politica era sistematicamente ostacolato dai portavoce delle burocrazie dei partiti ufficiali di sinistra preoccupati che la loro politica riformista potesse essere posta sotto accusa.

In effetti, soltanto grazie ad uno sforzo di elaborazione politica il movimento studentesco dì opposizione può riuscire ad acquistare un'autonomia dalle centrali dei partiti ufficiali che sia reale, e non puramente "amministrativa". Solo su questa base si possono costruire degli organismi di contropotere dal basso che si oppongano realmente all'ordine costituito ed ai suoi tutori, i rappresentanti dei partiti riformisti. In molte Università d'Italia, durante, lo scorso anno, il movimento studentesco ha potuto fare esperienza della necessità di andare in questa direzione, vedendo le burocrazie di partito reinserirsi nel movimento studentesco, e comprometterne gli sviluppi, grazie al vuoto di proposte politiche realmente alternative

Nel maggio del 1967, avvenne a Napoli un primo scontro frontale tra i portavoce delle burocrazie dei partiti di sinistra ed un gruppo di opposizione - il gruppo che, in seguito, diede origine alla Sinistra Universitaria napoletana. I dirigenti delle federazioni giovanili legate al PCI, al PSIUP e al PSU cercarono in ogni modo di evitare, durante l'occupazione, che la polemica contro la delega della rappresentanza politica ai partiti ufficiali si allargasse, e finisse col relegarli ai margini del movimento studentesco. A loro sostegno si posero i gruppi che sostenevano le tesi della "sindacalizzazione" di una versione "di sinistra", vagamente populistica; e soprattutto i gruppi - aspiranti al ruolo di intermediari e conciliatori per una vocazione profonda, di matrice piccolo-borghese - che operavano all'interno del PCI nella linea della IV Internazionale.

Il gruppo di opposizione, si era formato attraverso ricche esperienze sindacali; e aveva maturato, attraverso vive esperienze di azioni di massa, la convinzione della necessità di superare la cornice delle lotte universitaristiche, inserendole ed articolandole in lotte politiche più generali. Su questa base, il gruppo di opposizione. riuscì a rovesciare. nel corso dell'occupazione del maggio 1967, la direzione dei burocrati al vertice dell'Unione Goliardica Napoletana, e preparò per il 26 e 27 maggio il congresso provinciale. Nel progetto di risoluzione politica presentato al Congresso dal nuovo comitato direttivo era scritto:


Il Congresso dell'Unione Goliardica Napoletana, riunitosi a Napoli nei giorni 26 e 27 maggio 1967...

aderisce senza riserve alla strategia proposta dall'ala rivoluzionaria del movimento operaio internazionale;

condanna pertanto la linea politica dei partiti della sinistra ufficiale, operanti nella prospettiva della integrazione in una rinnovata burocrazia, a sostegno dello sfruttamento capitalistico nei paesi imperialisti;

prende atto della momentanea mancanza di un raggruppamento politico rivoluzionario che faccia proprie le fondamentali istanze rivoluzionarie della classe operaia, ed a cui l'Unione Goliardica Italiana possa collegarsi in una alleanza organica e permanente;

in questa situazione, ritiene quindi che l'Unione Goliardica Napoletana debba dare un suo originale contributo al processo di maturazione e di formazione di un partito politico rivoluzionario della classe operaia, nella prospettiva di una alleanza permanente del movimento studentesco d'avanguardia con le forze del proletariato industriale;

riafferma in questo contesto la funzione essenzialmente politica dell'Unione Goliardica Italiana, come centro di iniziativa e di lotta su tutti i temi della politica interna ed internazionale;

ritiene pertanto che vada frenata la pericolosa tendenza a fare dei temi della lotta per la ristrutturazione dell'Università l'unico punto di riferimento permanente all'azione politica dell'Unione Goliardica Italiana;

sottolinea comunque l'importanza tutta particolare delle lotte per il controllo e la gestione del potere nell'Università, che devono precisarsi nella prospettiva della unificazione con le analoghe lotte della classe operaia, elemento qualificante di ogni strategia politica rivoluzionaria volta alla costruzione di un potere politico, socialista e non burocratico, specie nei paesi di capitalismo avanzato.

Muovendo da queste impostazioni generali, il Congresso dell'Unione Goliardica Napoletana ribadisce il ruolo dirigente dell'Unione nei confronti del movimento studentesco, dal cui autonomo sviluppo, nelle linee del progetto di tesi del Comitato direttivo, possono derivare nuove decisive sconfitte dei gruppi capitolardi, portavoce delle burocrazie dei partiti politici della sinistra ufficiale nel movimento universitario.


In occasione del Congresso, si verificò naturalmente un nuovo scontro tra i gruppi legati alle burocrazie della FGCI, della FGS e del PSIUP ed il gruppo di opposizione. Nella votazione decisiva, 113 voti andarono alle burocrazie riunite, e 87 agli oppositori. Fu, per i burocrati della FGCI e del PSIUP, una vittoria di Pirro: essi erano riusciti a prevalere grazie alla stretta alleanza con la FGS ed alla mobilitazione dalla provincia meridionale di decine di persone estranee alle agitazioni universitarie - ma in definitiva si isolavano ancor più dai gruppi più legati alle lotte del movimento studentesco di opposizione, e preparavano la propria sepoltura politica.

Il gruppo di opposizione respinse le proposte di conciliazione - pur sapendo di essere in minoranza; rifiutò di entrare negli organi direttivi, lasciandovi isolate le burocrazie riunite ed i gruppi entristi della IV Internazionale; e, al termine del Congresso, decise di costituirsi in corrente autonoma, contro i "vincitori", col nome di Sinistra Universitaria napoletana. A seguito di questa scelta politica, i gruppi conciliatori - ingraiani, trotskisti, operaisti e simili - restarono tagliati fuori dalla viva dinamica del movimento universitario di opposizione, e persero ogni possibilità di influenza a livello di massa. Ancora oggi, l'Università di Napoli è una delle poche dove non imperversa il confusionarismo dei profeti del "potere studentesco" - portavoce della "sinistra" del PSIUP e della IV Internazionale.

I delegati delle burocrazie locali partecipavano in seguito al congresso nazionale dell'UGI, a Rimini, e qui si associavano al gruppo di sinistra - la "sinistra di Rimini" - e contribuivano a propagandarvi le tesi della "sindacalizzazione" del movimento studentesco. Ad alcuni mesi di distanza, è ormai chiaro a molti che tali tesi sono soltanto servite ai gruppi legati al PCI ed al PSIUP per tentare il recupero della direzione del movimento universitario di opposizione; ed esse sono state superate e gettate in un canto, non soltanto a Napoli, ma in tutte le sedi universitarie italiano. Gli stessi loro sostenitori al congresso di Rimini - Bobbio per la "sinistra" del PSIUP e Flores d'Arcais per gli entristi della IV Internazionale - le hanno precipitosamente rinnegate, tentandone prima una riverniciatura più "avanzata" con la proposta del "potere studentesco", e infine accantonandole entrambe non senza rimpianti.

Dopo il Congresso, la Sinistra Universitaria cominciò a darsi una prima provvisoria organizzazione e, per mantenere vivo il dibattito teorico e politico, prese a stampare un bollettino. In un articolo contenuto nel bollettino dell'agosto 1967, così sì ribadivano le posizioni portate avanti nelle polemiche precedenti:


Esiste una differenza fra politica riformista e politica rivoluzionaria; quella, volta ad attenuare i contrasti, a conciliare, a trovare l'accordo con tutti, ad usare gli obiettivi delle lotte come mezzo di conciliazione fra i contendenti; questa, volta a generalizzare i contrasti, ad inasprire la guerra contro il sistema di sfruttamento dominante, a collegare le varie lotte particolari, ad usare gli obiettivi delle lotte come mezzo per generare scontri più radicali. Un movimento avanzato non si dovrà vergognare di perseguire, talvolta, obiettivi transitori, purché si adoperi ad accostare queste piccole scintille alla polvere da sparo che l'esistenza della società divisa in classi ha diffuso a piene mani dappertutto. Viceversa, anche obiettivi transitori apparentemente ambiziosi ed avanzati possono essere usati in modo riformista, qualora li si inserisca in un processo di stabilizzazione della società.

Su questa base, come dobbiamo giudicare le lotte che conduciamo nell'università?

...

Esiste un primo terreno di lotta in cui l'obiettivo è tipicamente democratico-borghese ed il cui mancato conseguimento è un indice della particolare arretratezza della società italiana: quello della "deprivatizzazione" dell'università. Su questo terreno è possibile trovare facilmente alleanze anche con i gruppi cosidetti "rinnovatori". D'altra parte, per l'esistenza dei legami derivanti dalla comune partecipazione alla classe dominante, i "rinnovatori" non possono spingere a fondo la lotta contro i gruppi retrivi.

In tal modo gli universitari di sinistra hanno l'occasione di mostrare alle masse l'illusione del mito "rinnovatore" e possono far capire a tutti che, perfino per raggiungere obiettivi relativamente modesti, è necessario porsi in una prospettiva di mutamenti radicali.

Un secondo fronte d'intervento è quello delle lotte per il controllo e la gestione del potere nell'università. Questo obiettivo è molto più ambizioso del precedente. In una società dominata dalla gestione privata di tutti i mezzi di produzione ed in cui si approfondisce la contraddizione fra il carattere pubblico delle varie attività ed il carattere privato del potere, questa rivendicazione apre la strada a duri contrasti. E' possibile, da parte della classe dominante e dei suoi fedeli, escogitare formule mistificatorie e conciliatorie che vanno nel senso delle proposte di "cogestione" e "partecipazione agli utili" avanzate nell'ultimo mezzo secolo da tutto un vasto arco di forze politiche, dalla sinistra fascista alla destra socialdemocratica. Proposte di questo tipo sono state recepite dal piano Gui, che sancisce appunto l'inserzione negli organi di governo dell'università di limitate rappresentanze di assistenti e studenti; queste proposte si possono riassumere nella formula" "pesci grandi e pesci piccoli decidono assieme democraticamente quanti pesci piccoli devono essere divorati dai pesci grandi".

...

Il problema del controllo e della gestione del potere, richiama subito il problema dell'uso del potere. Una entità particolare, come l'università svolge un ruolo ben preciso nella società. Gli universitari possono richiedere il potere nell'università per due motivi distinti. Possono da un lato chiedere di governare una università bene integrata in un sistema, il cui modo di funzionare non viene contestato; questa prospettiva di "autocommittenza", che rassomiglia molto al programma dell'"autogestione" propugnato dal maresciallo Tito e dai dirigenti della Repubblica Jugoslava può essere riassunta dalla formula "abbiamo una banda di briganti: occorre sostituire il capo-banda con il consiglio democratico dei banditi e socializzare il frutto delle rapine".

...

La prospettiva della sinistra è invece diversa; occorre utilizzare le fette di potere conquistate nell'università, come nelle fabbriche, come in ogni altro posto particolare, per combattere la società capitalistica nel suo complesso e preparare la sua distruzione.


D'altra parte, per la Sinistra Universitaria era soprattutto importante lavorare per condurre il movimento universitario di opposizione fuori dalla gabbia delle rivendicazioni meramente economicistiche, cui vogliono legarlo le tesi ufficiali come la cosidetta sindacalizzazione. La Sinistra Universitaria appoggiava perciò, il 21 ottobre 1967, una manifestazione di carattere politico all'interno dell'università in occasione della morte di Che Guevara. Essa proponeva, piuttosto che una sterile commemorazione, come avveniva nelle manifestazioni dei partiti "ufficiali" della sinistra, un attento riesame delle posizioni, in materia di tattica e strategia della rivoluzione mondiale e di edificazione del socialismo, a cui la figura di Guevara era legata e per cui aveva combattuto.

Al termine del dibattito, dal quale si erano astenuti i burocrati della F.G.C.I., evidentemente indisponibili ad un discorso critico non genericamente apologetico, la Sinistra Universitaria presentava una mozione che si concludeva con la proposta di occupazione della sede centrale dell'università fino alle ore 20 dello stesso giorno, allo scopo di affermare che l'università è luogo dove gli studenti possono e debbono dibattere temi politici, diffondere le parole d'ordine più avanzate, e conseguenti alle cognizioni emerse dal dibattito, e portare avanti l'elaborazione dei temi enunciati negli interventi dell'assemblea.

A questo scopo la Sinistra Universitaria diffondeva tra gli studenti una dichiarazione inedita dei guerriglieri boliviani in cui si critica l'atteggiamento dei partiti comunisti filo-sovietici dell'America Latina, organizzava la lettura all'altoparlante di brani significativi di Guevara e disponeva sulla facciata dell'università grandi striscioni e cartelli con gli slogans: "coesistenza no, rivoluzione si", "Barrientos ha ucciso Guevara, il P.C.I. vuole imbalsamarlo", e altri ancora. Frattanto alcune auto munite di altoparlante giravano per la città, distribuendo alla popolazione il seguente manifestino:


L'INSEGNAMENTO DI "CHE" GUEVARA


Un combattente per la libertà e per il socialismo è morto. I rivoluzionari di tutto il mondo sono mossi a seguirne l'esempio e a continuare la sua lotta. 1 caduti della rivoluzione non vogliono mausolei, ma imitatori:


"CHE" Guevara aveva capito alcune cose fondamentali:


- che il mondo è diviso in sfruttati e sfruttatori, che centinaia di milioni dì uomini sono spogliati dei frutti del loro lavoro e soggetti a duri apparati di repressione;


- che gli sfruttatori sono associati in un sistema mondiale al cui centro è la classe dominante degli Stati Uniti d'America;


- che le rivoluzioni finora condotte per la liberazione delle classi oppresse hanno spesso generato nuovi sistemi di oppressione, governati da burocrazie desiderose di inserirsi nel sistema mondiale di sfruttamento;


- che i gruppi dirigenti dei partiti della sinistra ufficiale dei vari paesi non possono più essere considerati la guida delle forze rivoluzionarie.


Perciò Guevara ha legato la sua vita alla rivoluzione mondiale e, dopo aver partecipato come uno dei massimi protagonisti alla lotta armata per la liberazione di Cuba dalla dittatura di Batista e dall'imperialismo Nord Americano:


- ha assunto la posizione rivoluzionaria più conseguente determinando con la sua azione politica la svolta del movimento rivoluzionario cubano verso il socialismo;


- ha difeso la linea più conseguente per la costruzione del socialismo a Cuba, combattendo le tendenze involutive e burocratiche;


- ha abbandonato la sua carica di ministro del Governo cubano per unirsi ai gruppi rivoluzionari dell'America Latina, nella convinzione che lo sviluppo della rivoluzione su scala mondiale potesse condurre alla sconfitta dell'imperialismo e contribuire in modo determinante alla edificazione di un socialismo liberato dalle burocrazie;


- ha sostenuto con decisione la lotta armata come unica via per la. liberazione dell'America Latina, in aspra polemica con la linea dei partiti della sinistra ufficiale fondata sulla coesistenza pacifica e sulle vie parlamentari al socialismo.


Attraverso la sua infaticabile opera di dirigente rivoluzionario, "Che" Guevara ha dato un fondamentale insegnamento ai rivoluzionari dei paesi paesi avanzati:


Condizione necessaria per il trionfo della rivoluzione socialista nei paesi avanzati è la sconfitta della burocrazia e questa richiede che la rivoluzione stessa assuma un carattere internazionale e si valga in ogni momento della attiva e cosciente partecipazione delle masse proletarie sotto la guida delle avanguardie rivoluzionarie.


LA SINISTRA UNIVERSITARIA


Le agitazioni universitarie del movimento "accademico" per la riforma ripresero in occasione della presentazione al parlamento del progetto di legge Gui-Codignola. Le lotte condotte a Napoli dall'11 al 18 dicembre dimostrarono la maturità del movimento studentesco napoletano di opposizione, e la capacità della Sinistra Universitaria di guidare queste lotte, di farle uscire dal chiuso dell'università, e di trasformarlo in manifestazioni politiche di piazza al livello cittadino. Da questa esperienza risultò evidente che la chiarezza politica e la netta definizione dei gruppi di guida, anziché essere un elemento di ostacolo, sono una condizione indispensabile per una reale azione politica di massa.

I gruppi giovanili della sinistra ufficiale, nella settimana precedente - dal 4 all'11 dicembre -, avevano cercato con vani tentativi di occupazione di rimettersi alla testa del movimento. In poche ore tutti i tentativi, condotti com'erano da piccoli gruppi come veri e propri colpi di mano, erano miseramente falliti; e i poliziotti avevano potuto facilmente ristabilire l'"ordine". Questi episodi particolari e la più generale situazione nazionale denunciavano che il governo intendeva introdurre il progetto di riforma Gui-Codignola nell'università, se necessario, con la polizia; ma altresì rendevano evidente che la agitazione dovesse essere condotta avanti con ampia partecipazione di base; e che questa era ostacolata dai gruppi della sinistra ufficiale, orientati verso una battaglia per gli emendamenti al piano Gui-Codignola. oppure verso generiche azioni protestatarie in chiave pre-ettorale.

La Sinistra Universitaria promosse quindi una azione di forza a carattere di massa; denunciò la situazione agli studenti e alla cittadinanza. distribuendo migliaia di volantini ciclostilati ed inviando auto munite di altoparlanti in giro per la città: tutti venivano invitati ad intervenire ad una assemblea generale, la mattina dell'11 dicembre. A questa assemblea parteciparono più di mille persone, stipate nell'atrio dell'università: e queste votarono a schiacciante maggioranza per l'occupazione: approvando una mozione della Sinistra Universitaria, in cui si chiedeva il rifiuto totale del progetto di legge Gui e della politica degli emendamenti e si negava in particolare che la lotta per il rinnovamento delle strutture universitarie potesse risolversi all'interno del sistema capitalistico. Una generica mozione, presentata dalla presidenza dell'organismo rappresentativo era respinta a larga maggioranza.

Appena avvenuta l'occupazione del corpo centrale degli edifici universitari, la polizia superava di forza gli ingressi ed occupava l'atrio. Immediatamente, gli studenti si attestavano ai piani superiori, di dove incitavano muniti di altoparlante gli studenti rimasti in strada ad intervenire. Il traffico veniva più volte bloccato malgrado le cariche della polizia. Intanto il rettore, raggiunto nel suo ufficio e circondato da moltissimi studenti, doveva capitolare e, sconfessando il suo stesso operato, ordinare lo sgombro della polizia.

In giornata, la Sinistra Universitaria, che aveva guidato l'azione, distribuiva un volantino in cui sottolineava la lezione politica che le masse studentesche e la popolazione avevano ricevuto dalle lotte della giornata:


INSEGNAMENTI DELLE LOTTE UNIVERSITARIE E PROSPETTIVE PER IL FUTURO


Al termine di una giornata molto importante per il movimento studentesco napoletano è indispensabile stendere un bilancio delle esperienze compiute. Occorre innazitutto rilevare la fondamentale linea di tendenza che vede i gruppi studenteschi più coscienti e combattivi staccarsi progressivamente dall'ambito delle lotte settoriali, universitaristiche, per affrontare temi politici di più ampia portata e prendere coscienza del sistema sociale in cui l'Università si inserisce.

Ciò che ha mosso migliaia di studenti ad infrangere la prepotenza organizzata delle autorità accademiche e della polizia è stata la ribellione contro l'apparato repressivo statale; questa ribellione è nata dalla presa di coscienza avvenuta a livello di massa che l'apparato statale lungi dall'essere uno strumento neutro è una macchina, al servizio della classe dominante.

Questa linea di tendenza deriva da ragioni profonde: gli studenti trascorrono nell'università anni fondamentali per la loro formazione politica e culturale; in questi anni essi acquisiscono i criteri fondamentali di giudizio per operare nella società. Appunto per questo essi sono particolarmente esposti all'offensiva dell’ideologia della classe dominante. che cerca di piegarli alle proprie esigenze e di trasformarli in rotelle del meccanismo di sviluppo. Ecco perché gli studenti sono sistematicamente espropriati di ogni visione globale delle cose, sono spinti nell'ambito del tecnicismo, della vita privata, degli interessi particolari. Viene loro insegnato che le sole lotte serie sono quelle attinenti alla propria condizione particolare: la classe dominante non teme affatto le lotte particolari da cui anzi è oggettivamente rafforzata, costituendo esse uno stimolo al rammodernamento e alla razionalizzazione del sistema.

La classe dominante perciò, esalta le lotte professionali e sindacali e condanna le lotte politiche; ecco perché i tribunali dello stato borghese assolvono gli scioperi economici e condannano gli scioperi politici. Quello che la classe dominante teme è la generalizzazione delle lotte, particolari, è la coscienza che dietro tutte le oppressioni particolari vi è l'unica odiosa oppressione della borghesia e del suo stato. Deve essere particolarmente rilevato in questo quadro il ruolo dei gruppi dirigenti rinnegati del movimento operaio.

Essi hanno da tempo rinunciato a combattere il sistema capitalistico e spingono perciò gli sfruttati nell'ambito delle lotte particolari, di tipo economico, delle lotte per le "riforme" che non modificano il sistema. Essi non chiedono a tutti gli oppressi di abbattere la borghesia e il suo stato, ma chiedono agli operai di combattere la lotta economica contro i padroni e agli studenti di restare nel rigoroso ambito delle lotte universitarie.

Questo atteggiamento riformista è alla base della linea di sindacalizzazione che i gruppi legati ai decrepiti organismi rappresentativi, sotto la direzione dei partiti capitolardi, cercano di imporre al movimento studentesco. Gli universitari non devono entrare in questa trappola, ma devono rivendicare vigorosamente il loro diritto ad una formazione politica globale che li veda veramente impegnati nella lotta contro lo sfruttamento, ricordando le parole di Lenin che il modello per un vero rivoluzionario non è il segretario sindacale ma il tribuno popolare.

La Sinistra Universitaria, data l'importanza centrale di questo tema condurrà una lotta a fondo, a tutti i livelli, onde evitare che si riduca la coscienza politica degli studenti a mera coscienza sindacale, delegando i compiti politici ai partiti capitolardi di cui i sostenitori della sindacalizzazione sono i portavoce e gli strumenti.

Perciò la Sinistra Universitaria si pone come obiettivo strategico di generare una diffusa presa di coscienza su tali problemi, ritenendo che essa sia la base per la liquidazione dell'egemonia dei partiti riformisti sul movimento di sinistra e per la saldatura delle avanguardie operaie e studentesche. Questa saldatura deve sfociare dopo lunga e dura lotta nella costituzione di un partito rivoluzionario in grado di abbattere lo stato borghese e di edificare un socialismo liberato dalle burocrazie.


LA SINISTRA UNIVERSITARIA


In seguito, si tenne una prima assemblea di occupazione. I portavoce dei burocrati dei partiti della sinistra ufficiale, davanti all'allargarsi delle lotte universitarie sul piano politico, tentavano di nuovo di frenare ed ingabbiare il movimento nell'ambito delle lotte puramente "accademiche", riproponendo, in una mozione approvata a stretta maggioranza, l'adesione alle tesi della "sindacalizzazione". Così iniziava, all'interno dell'Università occupata, una polemica teorica e politica fra i sostenitori della politicizzazione delle lotte e i "sindacalizzatori".

La Sinistra Universitaria indiva nella mattina del giorno 12 una riunione su questi temi, in modo che gli studenti, che per le prime volte si avvicinavano alle lotte universitarie, potessero comprendere la natura politica del dissenso di fondo. Inoltre, nel pomeriggio dello stesso giorno, la Sinistra Universitaria organizzava un controcorso su "La natura dello stato" con letture in contrapposizione di Stato e Rivoluzione e delle tesi politiche dei partiti capitolardi.

Alla seconda assemblea generale di occupazione del 12-12-67 le tesi della sindacalizzazione venivano completamente rigettate, e veniva invece approvata una mozione presentata dalla Sinistra, Universitaria. Essa diede l'occasione per il volantino seguente, che fu diffuso la mattina dopo tra gli studenti:


CONTRO LA SINDACALIZZAZIONE ED IL RIFORMISMO DEI BUROCRATI, PER UNA POLITICA DI CONTESTAZIONE AL SISTEMA DOMINANTE


(La seguente mozione, presentata dalla Sinistra Universitaria, è stata approvata a larga maggioranza dalla Assemblea generale di occupazione, al termine di un vivacissimo dibattito, che ha visto per la prima volta le burocrazie di Intesa, UGI, FUAN-GUP e Rinnovamento Universitario unite nel tentativo di strumentalizzare la lotta universitaria, ciascuno per propri fini parlamentaristici).

L'Assemblea degli studenti, degli assistenti e dei professori incaricati, riunitasi il 12-12-1967 nell'Università di Napoli occupata, ha ritenuto necessario compiere un bilancio delle lotte fin qui condotte dal movimento universitario napoletano. Essa rileva una vigorosa linea di tendenza, che passa attraverso tutte le lotte condotte nell'ultimo anno, traducendosi in un'accresciuta capacità di generalizzazione del movimento.

Il movimento oggi comprende che è ormai un fatto arretrato rivolgere l'attenzione, lo spirito di osservazione esclusivamente o anche principalmente su se stesso, perché la conoscenza di se stesso è indissolubilmente legata alla conoscenza esatta dei rapporti reciproci di tutte le forze agenti nella società contemporanea, conoscenza non tanto teorica, quanto ottenuta attraverso l'esperienza della vita politica. Un'elevazione dell'attività della massa studentesca è possibile solo se non ci si limita all'agitazione politica sul terreno sindacale. Infatti, partendo dalle lotte per la riforma dell'Università, si è passati dal terreno della difesa degl'interessi degli universitari alla contestazione del tipo di cultura offerto dalla classe dominante, come si è delineato nelle lotte contro l'area di ricerca e contro i tradizionali corsi accademici cattedratici. Questa contestazione è impossibile sul puro piano della difesa degl'interessi dello studente, alla ricerca di una qualificazione professionale che gli consenta di inserirsi nell'apparato produttivo esistente, accettato come un dato. La contestazione, invece, richiede un giudizio preciso su questa realtà esterna, richiede cioè un atto politico e non sindacale.

L'Assemblea, pertanto, ritiene che la fase delle lotte sindacali corrisponde ad un periodo ormai trascorso nella storia del movimento universitario napoletano, e ritiene inoltre che il compito più urgente per il futuro sia la maturazione di una rigorosa coscienza politica. In quest'ambito, gli stessi interessi delle masse studentesche vengono molto più rigorosamente tutelati, com'è dimostrato dagli ultimi successi del movimento, ottenuti sotto la spinta della crescente politicizzazione della lotta.

Ciò non vuol dire che il movimento universitario intenda trasformarsi in un partito politico, quanto invece proporsi come uno dei momenti di reale contestazione politica al sistema dominante.

Lo scontro che si viene a determinare oggi all'interno dell'Università è tra coloro che sostengono la necessità della politicizzazione del movimento studentesco e quelli che sostengono che le agitazioni universitarie devono limitarsi alle lotte di carattere sindacale, facendosi portavoce della politica capitolarda dei partiti della sinistra ufficiale. Questo scontro è parte dello scontro più generale che si sta sviluppando oggi nel paese e che oppone ai gruppi dirigenti riformisti dei partiti di opposizione nuove avanguardie tese nello sforzo di costruzione di un nuovo strumento politico, che ponga un'alternativa alla direzione del movimento operaio da parte dei vecchi partiti della sinistra ufficiale.

A queste avanguardie intende collegarsi, con la sua, lotta, il movimento universitario di opposizione. Sulla base di tali considerazioni l'Assemblea delibera il proseguimento dei controcorsi, oggi iniziati, in cui si affrontino i temi centrali per la costruzione della coscienza politica degli studenti, perché essi costituiscano la base per la costruzione di una anti-università che contesti l'università della borghesia. Delibera inoltre di indire un'altra Assemblea generale per mercoledì 13-12-1967, alle ore 18, per discutere gli ulteriori sviluppi della lotta.


Due ore dopo il termine dell'Assemblea, nella notte tra il 12 ed il 13 la polizia entrava di nuovo nell'Università e riprendeva a presidiare l'atrio. Il giorno 13 l'Università era teatro di scontri tra studenti e polizia, scontri in cui alcuni studenti restarono feriti. In quella circostanza si pose in atto, da parte di alcuni gruppi della sinistra ufficiale, un tentativo di trasformare l'agitazione in uno scontro su temi generici e squalificati, privandola dei suoi precisi contenuti politici, e di creare dei fittizi raggruppamenti unitari.

Ancora una volta la Sinistra Universitaria sollecitò un'azione organizzata a livello di massa: propose quindi ed organizzò per il giorno 14 un corteo di protesta. Più di 4.000 persone, studenti medi ed universitari, sfilavano per le vie del centro, innalzando striscioni e cartelli che denunziavano il progetto Gui-Codignola come strumento del capitale e la violenza repressiva dello stato borghese. Si chiedevano a gran voce le dimissioni del Rettore e del Senato Accademico, mentre auto con altoparlanti spiegavano alla cittadinanza le ragioni del corteo.

Il corteo si chiudeva in un sit-in di fronte alla prefettura, che bloccava il traffico del centro per circa due ore, mentre una delegazione chiedeva al prefetto il ritiro immediato della polizia dall'Università. Il prefetto capitolava. Il corteo, prima di rientrare nell'Università per procedere alla rioccupazione, si fermava a lungo sotto la casa del Rettore, denunciandone il comportamento e chiedendone le dimissioni.

Dal pomeriggio dello stesso giorno, nell'Università tornata di nuovo agli studenti, proseguiva un serrato programma di controcorsi e di discussioni su temi politici di fondo. Gli incontri e gli scambi con gli studenti medi anch'essi in sciopero si arricchivano mediante discussioni comuni sul significato politico della legge Gui-Codignola. Il giorno 16 un nuovo corteo di studenti medi ed universitari si recava al Municipio di Napoli per portare ancora la protesta per le strade cittadine. Mentre una delegazione parlava con il Vice-Sindaco, vari oratori spiegavano ai presenti il significato politico delle agitazioni in corso.

Gli studenti cominciavano a sviluppare, a livello di massa, la coscienza della necessità di costruire un contropotere da opporre al potere dello stato, strumento della classe dominante, un contropotere che all'interno dell'Università si opponga alla cultura mistificatrice ed ai metodi di governo dei gruppi dominanti, e che sia capace di generalizzare le lotte collegandosi alle più avanzate avanguardie rivoluzionarie.

Nell'assemblea conclusiva di questo periodo di agitazioni, la mozione della sinistra Universitaria, approvata con 229 voti contro i 75 riportati dalla mozione U.G.I., i 31 da quella dell'Intesa ed i 99 astenuti, così analizzava il periodo di lotte sostenute:


L'assemblea degli studenti, assistenti e professori incaricati, riunitasi il 18 dicembre, a conclusione di una settimana di agitazioni, constata che la generalizzazione delle lotte ha creato un movimento di proporzioni mai prima raggiunte nell'Università di Napoli; la polizia è stata cacciata per ben due volte dal nostro Ateneo mediante reali azioni di forza e hanno avuto luogo due grandi manifestazioni di piazza che hanno portato all'esterno dell'ambito universitario le parole d'ordine del movimento studentesco. Il fatto più caratterizzante è costituito però dai temi politici di fondo che sono stati alla base di queste agitazioni: si è giunti alla presa di coscienza di alcuni punti fondamentali e cioè che in una società divisa in classi, quale quella in cui viviamo, l'Università si pone come uno degli strumenti dell'oppressione di classe e che tale oppressione viene esercitata mediante il tipo di insegnamento impartito nell'Università. Questo insegnamento deve soddisfare gli immediati bisogni del capitale e pertanto si adegua necessariamente a tutti i principi dell'ideologia borghese. La divisione del lavoro che è caratteristica di questo tipo di società si ripropone a livello dell'insegnamento universitario nei piani di studio di carattere professionale e specialistico che non permettono una visione globale della realtà.

Il piano di legge Gui-Codignola si presenta, in questo contesto, come un tentativo di adeguare maggiormente la struttura universitaria alle esigenze dello stato borghese, inserendola nel più ampio piano di programmazione nazionale. Pertanto una lotta condotta su obiettivi particolari e universitaristici e che tenda alla "democratizzazione" dell'Università, ignorando il contesto in cui essa si colloca, è necessariamente destinata al fallimento. La sindacalizzazione del movimento studentesco, avanzata come esigenza dai gruppi della sinistra ufficiale e che riflette, a livello universitario, la politica riformista dei partiti di opposizione, frazionando le lotte e restringendole nell'ambito di interessi corporativi, non solo impedisce una presa di coscienza dello stretto rapporto Università-società, ma oggettivamente contribuisce al rafforzamento del sistema.

L'unica alternativa quindi che si ponga su di un piano di reale contestazione delle attuali strutture universitarie, è quella della politicizzazione degli studenti, nel senso di una presa di coscienza di tutti i problemi sociali, politici e culturali della realtà circostante e di un impegno a lottare per risolverli in maniera globale.

E' da questa analisi che discende il significato delle parole d'ordine portate avanti negli ultimi giorni: rifiuto integrale del piano Gui significa rifiuto della programmazione capitalistica; la lotta contro la presenza della polizia nell'Università è presa di coscienza della funzione che le forze dell'ordine hanno, cioè di imporre il potere della classe dominante; la richiesta delle dimissioni del Rettore e del Senato Accademico, responsabili dell'intervento della polizia, è una presa di posizione contro coloro che sono l'espressione del dominio di classe nell'Università.

Sulla base di tali considerazioni l'assemblea delibera:

1) il rinnovato rifiuto globale al piano Gui;

2) che siano sospese temporaneamente le agitazioni, ma che nello stesso tempo rimanga in funzione il comitato di agitazione fino al rilancio delle lotte previsto per il mese di gennaio;

3) il proseguimento dei controcorsi che siano di due specie: o relativi a temi di interesse generale o di carattere interdisciplinare;

4) che, il comitato di agitazione prenda contatti con il movimento degli studenti medi e coordini insieme con esso i futuri sviluppi della lotta.


Dopo le brucianti sconfitte subite a dicembre, il potere accademico da un lato, e le forze riformiste dall'altro, si scatenarono, nei mesi di gennaio e febbraio, in una vasta controffensiva, nel tentativo di isolare la Sinistra Universitaria.

Il Senato accademico napoletano, notoriamente uno dei più reazionari d'Italia, accoglieva infatti, nella speranza di riuscire a ingabbiare il movimento studentesco, le più avanzate proposte dei professori "rinnovatori", e lanciava a gran voce l'invito alla collaborazione ed alla formazione di comitati paritetici a tutti i livelli. Il preside della facoltà di ingegneria - uno dei più reazionari tra i padroni della città - convocava una assemblea comune di facoltà per "lanciare" in una sua mozione la proposta. Insomma, pur di stroncare il vigoroso movimento studentesco di opposizione e la Sinistra Universitaria, il Senato accademico reazionario proponeva di fare dell'Università di Napoli un centro di riferimento "progressista" per le altre Università. In questo piano di intervento, faceva da contrappeso alle blandizie, secondo le regole dell'arte di governo dei notabili meridionali, amici e protettori della camorra, il pugno di ferro - i mazzieri fascisti piombarono più volte sui manifestanti del movimento universitario di opposizione.

In questa situazione, i gruppi più estremisti e zelanti dell'U.G.I., ormai scoperti a sinistra per l'azione della Sinistra Universitaria, si alleavano con la destra dell'Intesa, e - un po' a malincuore, per la verità - con il FUAN-GUF, allo scopo di mettere insieme, a nome dell'organismo rappresentativo, una occupazione-fantasma, senza alcuna partecipazione di base, sui temi più squalificati. La direzione dei burocrati si mostrò subito in tutta la sua inefficienza - un comitato di agitazione fantasma, la più completa assenza di iniziative volte alla città, il deserto e il silenzio all'interno dell'Università centrale, "occupata" da tre persone, la fuga dalle assemblee che potessero minacciare le posizioni "ufficiali". Ogni tanto, aperti i cancelli, si tenevano nell'Università centrale assemblee del tipo di "adunanze" fasciste, in cui i microfoni - tenuti sotto controllo dai mazzieri liberali e fascisti - servivano ad orazioni generiche, e deprimenti per gli ascoltatori.

La Sinistra Universitaria negava fin dall'inizio il suo appoggio all'iniziativa degli organismi rappresentativi; e denunciava agli studenti il carattere "padronale" dell'occupazione e l'effetto di smobilitazione che essa produceva sul movimento. I suoi rappresentanti partecipavano alle assemblee di facoltà per farne una tribuna di denuncia e per creare centri di dibattito sui temi universitari e su quelli più generali; e organizzavano una serie di dibattiti e controcorsi sulla posizione dei lavoratori intellettuali nelle società a capitalismo avanzato, e sulle connesse possibilità di iniziativa politica.

Nella maggior parte delle facoltà furono così approvate mozioni in linea con le tesi della Sinistra Universitaria, che sottolineavano, in particolare, l'importanza dell'allargamento del movimento alla base, e del consolidamento di una rappresentanza dal basso su base assembleare in oposizione agli organismi rappresentativi - escrescenze sclerotizzate, erette a protezione dell'ordine "ufficiale".

L'allargamento ed il consolidamento del movimento studentesco, l'elevamento del suo grado di coscienza attraverso la discussione su temi universitari e politici generali, sono oggi di importanza vitale, in tutte le sedi universitarie. La Sinistra Universitaria propone una azione articolata, che si valga di gruppi di studio, assemblee, dibattiti, in uno sforzo di costruzione del movimento studentesco nelle università su ampie basi di massa; e ne ha posto le premesse durante gli sviluppi dell'occupazione di febbraio, nelle facoltà rimaste occupate, Architettura, Fisica ed Ingegneria.

Le agitazioni universitarie non sono finite. I gruppi di opposizione devono oggi continuare a lavorare, guardando alle lotte future.


La sinistra universitaria di Napoli: Documenti


Lo scritto che segue è il testo della relazione letta - a nome della Sinistra Universitaria - come introduzione ad un dibattito sul tema "Gli Intellettuali nella attività produttiva: proposte politiche" nell'università di Napoli occupata, nel febbraio 1968.


Cambiamenti delle forze produttive


Negli ultimi cinquanta anni, ed in modo particolare nello slancio del boom economico legato alla seconda guerra mondiale, si sono verificati notevoli cambiamenti nel mondo, sia nei caratteri delle forze produttive che nell'insieme dei rapporti pratici della società. Tre fattori hanno principalmente contribuito ai cambiamenti nelle forze produttive: l'allargarsi del ruolo della scienza, l'introduzione di nuovi procedimenti nella produzione, sulla via dell'automazione, l'estendersi del ruolo dell'organizzazione dei lavoro. L'allargarsi del ruolo sociale della scienza Si manifesta oggi largamente in molti modi. Gli stanziamenti per la ricerca scientifica si estendono con un ritmo molto elevato; i quadri intellettuali che si dedicano alla produzione crescono continuamente di numero; i prodotti più tipici della ricerca applicata, i brevetti, il Know-how e certe tecniche intellettuali, sono già in vendita come oggetti di scambio qualsiasi. Sulla base della ricerca applicata sorgono rapidamente intere nuove branche d'industria - negli ultimi anni l'industria dei derivati del petrolio e delle materie plastiche, l'industria elettronica, aereonautica e missilistica. Nel processi lavorativi automatizzati, i compiti centrali sono affidati agli addetti ai controlli, tutti di elevata specializzazione, e soprattutto di elevata qualificazione intellettuale. In secondo luogo, almeno nelle industrie chiave, il numero dei lavoratori non direttamente produttivi aumenta; e nell'insieme della società diminuiscono le forze di lavoro tradizionali, a vantaggio di addetti a servizi generali ed organizzatori di lavoro - negli USA, per esempio, non vi sono più di 12 milioni di lavoratori direttamente produttivi su una forza lavoro complessiva di 68 milioni(*); ed in media nei paesi anglosassoni, gli addetti alle attività industriali formano il 35% delle forze di lavoro, mentre circa il 60% svolge mansioni non immediatamente produttive.


(*) Dati della Monthly Review, nel fascicolo luglio-agosto del 1963.


In terzo luogo (e questo è il fatto più importante per le proposte politiche), in tutta la grande industria la produzione si organizza secondo un piano rigoroso in cui ogni operaio svolge una mansione particolare, di cui vede svanire sempre di più il significato.

Le tendenze di sviluppo nei paesi avanzati lasciano prevedere che operai e tecnici di tipo nuovo, organizzatori, ricercatori, intellettuali, si troveranno via via in una posizione di maggior rilievo all'interno del cielo produttivo. L'inevitabilità di questi sviluppi riposa sul fatto che queste nuove forze sono oggi in grado di determinare uno straordinario allargamento nella produzione. Hanno una coscienza precisa di questa inevitabilità i gruppi politici che dirigono i paesi capitalistici avanzati; e cercano di aiutare questi sviluppi incoraggiando la diffusione della ricerca scientifica e dell'istruzione, specie dell'istruzione superiore. Allo stato, oltre che controllare i prezzi ed i salari, l'economista kennediano Galbraith assegnava solo altri due compiti fondamentali: curare o promuovere la ricerca scientifica, curare la formazione, del personale specializzato.

L'interpretazione politica di questi fenomeni ha dato origine a molto polemiche, specie tra gli "eretici" di sinistra dei paesi avanzati; mentre sono pressoché assenti da questi dibattiti gli intellettuali ortodossi che prosperano ai margini delle burocrazie di sinistra. Ha colto il ruolo fondamentale della scienza lo stesso Marx, che pure viveva in un'epoca in cui tenui tendenze di sviluppo dovevano essere identificato in una congerie di fatti molto più appariscenti. Nel famoso brano sulle macchine Marx scriveva :

"Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a che punto il sapere sociale generale, knowledge, è diventato una forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso, della società sono passate sotto il controllo del "general intellect" e rimodellato in conformità ad esso...".

"Via via che la grande industria si sviluppa, la creazione di ricchezze materiali dipende meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro erogata che dalla potenza degli strumenti messi in moto durante il tempo dì lavoro. Il lavoro umano non appare più racchiuso nel processo di produzione; l'uomo si colloca accanto al processo di produzione come sorvegliante e regolatore... In questa trasformazione, il fondamento della produzione non è più il lavoro immediato compiuto dall'uomo, né il suo tempo di lavoro, bensì l'appropriazione delle sue conoscenze e del suo dominio sulla natura tramite la sua esistenza sociale; in una parola dei suo sviluppo come individuo societario",

Crediamo quindi di poter individuare questi nuovi ceti intellettuali come produttori di plusvalore, nel senso preciso indicato da Marx, come forza-lavoro intellettuale. Possiamo perciò condividere la seguente affermazione di Scalia (*):

"L'ipotesi centrale del nostro discorso è la formazione della forza-lavoro intellettuale, la proletarizzazione dell'intellettuale come individuo e gruppo sociale. Essa presenta alcune, caratteristiche strutturati: ...specializzazione delle diverse professioni intellettuali e la loro utilizzazione generale-comune come forza lavoro; disponibilità globale di questa forza-lavoro in senso classista. Si riproduce così, in questo settore, in forme specifiche, la struttura dei rapporti, tra forza-lavoro materiale e capitale: carattere di contrattualità ("alienazione" in preciso senso marxiano), "mercificazione" e " feticizzazione" del lavoro intellettuale e dei suoi prodotti separati ed oggettivati di fronte ai produttori ("reificazione" anche qui nel rigoroso senso marxiano).

In questo "mercato universale" si stabiliscono rapporti oggettivi della forza-lavoro intellettuale con il capitale da un lato e con la classe operaia dall’altro.


(*) Tratto dall'articolo apparso nel n. 3 di "Classe e stato".


Il Capitale fa un uso di classe della forza-lavoro nella totalità dei suoi aspetti e dei suoi moment,. tendono a superare o trasformare in tale uso dell'unica forza-lavoro nella totalità dei suoi aspetti e dei suoi momenti, la reciprocità e specificità separate dei suoi "settori" (intellettuali in quanto tali e "manuali" in quanto tali), Assistiamo così alla progressiva scomparsa della figura extra-produttiva dello intellettuale, ed alla costruzione della nuova figura del lavoratore intellettuale (nel senso forte del termine ...). Come già sosteneva Marx, si tratta della produzione non solo di un oggetto (prodotto) per un soggetto (produttore-consumatore), ma di un soggetto per l'oggetto. E l'estensione del mercato dei beni culturali, nel duplice aspetto di promozione di bisogni (di accesso di massa alla comunicazione culturale, di tendenziale soppressione dei "circuiti comunicativi parziali, dialettali, regressivi" etc. nell'unico grande circuito del mercato) e della sistematica mercificazione e trasformazione dei "valori d'uso" culturali in "valori di scambio". Tutto il discorso (che invoca, certo, un'approfondita ricerca teorica-sperimentale) si fonda, evidentemente, sulla trasformazione degli intellettuali in forza-lavoro salariata, sulla "metamorfosi" della produzione e dei prodotti culturali in merci misurabili e qualificabili come " tempo di lavoro ", " valori di scambio", "prezzi " etc., secondo la tendenza sempre più evidente alla razionalità, calcolabilità e quantificazione anche del "lavoro intellettuale ". Ciò rientra nello sviluppo capitalistico, marxianamente considerato come continuo sviluppo delle forze produttive e continua innovazione, conoscitiva e tecnologica, dei mezzi e dei rapporti di produzione nell'ambito dell'appropriazione di classe; e si presenta oggi come crescita quantitativa e sviluppo di qualità (nel senso della qualificazione tecnica) degli intellettuali e come particolare forma di divisione del lavoro, che agisce in duplice senso contraddittorio: da un lato come estrema specializzazione tecnica e dall'altro come unificazione sociale nell'uso globale di classe dell'unica forzalavoro da parte capitalistica".


Analisi politica della figura dell'intellettuale


Se si ritiene corretta la formulazione, proposta riguardo al ruolo nuovo che la figura dell’intellettuale viene ad assumere nel processo produttivo (per dirla con Marx: "La borghesia ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l'uomo di scienza in salariati ai suoi stipendi..."), interessa a questo punto analizzare, la disponibilità politica di questi nuovi strati ad una lotta rivoluzionaria.

A conclusioni opposte giungono due studiosi, rispettivamente della società francese e della società statunitense. Mallet, che analizza alcuni rami dell'industria francese particolarmente avanzati da un punto di vista tecnologico, in cui, la maggioranza della forza-lavoro impiegata è altamente qualificata, attribuisce a questi "nuovi strati operai" il ruolo di avanguardia nel processo rivoluzionario. La sua affermazione si basa sostanzialmente, sulla considerazione della massiccia sostituzione dei lavoro intellettuale con lavoro manuale, del soddisfacimento delle rivendicazioni essenziali; questa situazione lascia spazio a rivendicazione sul problema della gestione e del controllo delle aziende ed in genere dell’organizzazione sociale. Quindi, non più sul piano delle rivendicazioni immediate, ma su quello più generale della organizzazione prima delle industrie e poi della società, questa, avanguardia rivoluzionaria combatterà l'organizzazione capitalistica di una società che è ormai giunta ad uno stadio delle forze produttive (progressiva, sostituzione del lavoro manuale creazione di strati operai capaci di sostituirsi alla direzione delle aziende, etc.) che rende possibile l'organizzazione socialista della società. Marcuse invece, che si trova ad operare in una realtà più evoluta di quella francese, cioè in una società in cui alcune situazioni che Mallet individua come linea di tendenza in Francia, sono divenute attuali, nota l'assoluta inesistenza o integrabilità di quelle rivendicazioni di carattere "superiore" di cui fa cenno Mallet, e descrive le rivendicazioni del tecnici ed operai come assolutamente omogenee al sistema capitalistico. Le forze rivoluzionarie devono, piuttosto, trovarsi tra gli strati sottoproletari, e le minoranze che non partecipano al grande banchetto della società del benessere.

In questa polemica si è inserito alcuni anni fa il marxista francese Manuel Bridier, con un articolo (*) in cui si propone di confutare l'analisi condotta da Mallet, ed in primo luogo contestare l'affermazione dell’effettivo soddisfacimento a livello di massa dei bisogni materiali da parte della classe operaia:


(*) In "Problemi del Socialismo" n. 6 del 1966.


"In realtà la società dei consumi, per la maggior parte dei lavoratori europei, è una mistificazione pura e semplice... Se la condizione materiale dei lavoratori quindi non è fondamentalmente cambiata (e ad ogni modo non al punto da comportare un vero mutamento qualitativo), è chiara che ancor meno si può dire sia cambiata la loro condizione sociale. I rapporti di produzione sono gli stessi, i legami di subordinazione si fanno sentire nella stessa maniera e, se è vero che, la milizia politica e sindacale ha subito una crisi nel corso degli ultimi dieci anni, ciò non significa affatto che il lavoratore accetti la propria condizione, ma semplicemente che non crede alle soluzioni collettive. I sondaggi di opinione effettuati nelle officine francesi sono quanto mai rivelatori delle aspirazioni profonde degli operai: essere commercianti, piccoli proprietari, magari a parità di reddito, ma sfuggire alla subordinazione gerarchica dell'impresa".

In seguito Bridier analizza i nuovi strati intellettuali, e più in generale la classe operaia dei settori avanzati dell’industria, con particolare riferimento a due problemi essenziali: se le rivendicazioni di queste categorie hanno una portata generale al di là della categoria che li avanza, e se queste categorie stesse sono chiamate a svolgere nella società un ruolo crescente e positivo. Dalle statistiche riportate Bridier svolge una serie di considerazioni generali sulla composizione della classe operaia:

"a) il gruppo dei manovali diminuisce ma non scompare affatto; un certo numero di compiti elementari sono tuttora eseguiti a miglior prezzo dai lavoratori non qualificati che dalla macchina...

b) il gruppo degli operai qualificati diminuisce anch'esso, mentre si accrescono due gruppi ben di versi: quello degli operai semiqualificati o non qualificati da una parte, e quello dei tecnici, dei quadri e degli impiegati amministrativi dall'altra...

Ci sono da una parte, quindi, gli ingegneri progettisti ecc., dall'altra degli "operatori", capaci di effettuare solo alcuni lavori parziali (capaci di azionare una macchina ma non di ripararla né di comprendere il funzionamento di essa). Questi operai sono in realtà i nuovi manovali della nuova industria. Le loro condizioni di lavoro, il posto occupato nel processo di produzione non li conducono ai problemi di gestione e di struttura più del maneggiare la scopa o scaricare la carriola. Non è certo questa la nuova classe operaia... A meno che non la si vada a cercare nell'altro gruppo in ascesa, quello dei tecnici e dei quadri".

Dopo aver notato l'estrema eterogeneità di questi strati sociali per quanto riguarda le mansioni e la collocazione nella scala gerarchica sociale, Bridier cerca di individuare "alcune caratteristiche comuni che pensiamo svolgano un ruolo importante nei comportamenti sociali e negli atteggiamenti politici". La prima di queste caratteristiche è indicata nel benessere materiale (che dovrebbe rendere più accettabile il sistema sociale che procura questo benessere); la seconda (a nostro avviso estremamente più importante, per determinare la differenza dalla classe operaia) nella: "speranza reale od illusoria, di miglioramento individuale nella gerarchia stessa dell'azienda. E se mai malgrado ciò arriva a rimettere in causa le stesse strutture sociali, sarà stimolato più da una esperienza individuale di frustrazione nelle proprie aspirazioni di avanzamento che da una coscienza collettiva di condizione di classe.

Qui le vecchie stratificazioni, quelle cioè risalenti all'estrazione sociale, riprendono un ruolo dominante. Un gran numero di questi quadri e tecnici provengono dalla piccola borghesia e solo pochi dal proletariato".

Tra questi stessi strati sociali Bridier introduce una seconda distinzione: Quelli più elevati - "riconoscendosi capaci di dirigere la azienda, l'economia e lo stato, avvertono come una ingiustiza sociale la barriera della nascita, che gli ereditieri delle grandi famiglie del 19° secolo ancora le oppongono, negli stati Uniti come in Europa. Questa categoria sociale aspira così ad un tipo di società in cui potere economico e potere politico si confondano, la direzione dell'azienda e quella dello stato, la competenza professionale ed il successo sociale; sensibile più ai valori gerarchici che alle soddisfazioni materiali che ormai le sono date per scontate... Essa vede la espressione di una razionalità superiore in una forma di democrazia orientata e di dirigismo economico in cui le sia affidato un ruolo di guida.

Questa identificazione dell'ascesa al potere e della razionalità può assumere forme politiche diverse., Il gollismo o Lecanuet in Francia, ... Kennedy negli Stati Uniti...".

In sostanza quindi, secondo Bridier, questa categoria sociale non mette in discussione affatto il tipo di rapporti di produzione esistenti nella società borghese (da cui essa stessa ricava profitto e privilegio), ma combatte per un proprio più adeguato inserimento nella sfera dirigente reale cercando di scalzare quelli che attualmente la occupano in virtù di "discendenze e tradizioni". Osserva ancora Bridier:

"Ma da un gran numero di quadri, meno elevati nella gerarchia o di origine più vicina al proletariato, questa soluzione neocapitalista è vista per quello che è... Il regime socialista appare allora ad essi come il tipo di società in cui i detentori della scienza e della tecnica, e della scienza economica in particolare, sbarazzatisi infine dagli antichi proprietari privati, gestiscono più liberamente, secondo il meglio dei loro interessi e dell'interesse generale, i mezzi di produzione di cui la collettività detiene la proprietà giuridica.

Questa nuova borghesia (visto che non si potrebbe evidentemente più parlare qui di una nuova classe operaia) apporta - è chiaro - al socialismo un contributo tecnico, un insieme di conoscenze e di esperienze che fece crudelmente difetto alla Russia del 1917. In questo senso essa costituisce per il proletariato, ancora incapace di assumere direttamente la gestione dell'apparato produttivo, un alleato prezioso nel periodo di transizione e di edificazione del socialismo; ma anche un alleato pericoloso nella misura in cui introduce per ciò dapprima nel movimento operaio, quindi nella società socialista, le proprie concezioni ed i propri interessi di classe che non coincidono necessariamente, come essa invece immagina, con gli interessi delle masse popolari... Il socialismo, così come essi lo concepiscono, non è nuovo tipo di gestione democratica, è il dirigismo di stato senza la proprietà privata dei mezzi di produzione. La razionalizzazione dell'economia sotto la direzione dei quadri e dei tecnici risponde alla loro volontà di potenza ma non risolve il problema della loro alienazione".

In sostanza quindi, Bridier individua tre fattori fondamentali che concorrono a limitare gli effetti della omogeneità degli interessi della classe operaia e dei nuovi ceti intellettuali: il soddisfacimento degli interessi materiali, la prospettiva della soluzione individuale e l'estrazione sociale.

Probabilmente questa analisi (che si arresta a considerazioni su fenomeni contemporanei, non é più valida se questi fenomeni vengono osservati in prospettiva. L'allargarsi del ruolo sociale della scienza, di cui abbiamo brevemente fatto cenno nella prima parte dell'articolo, (realtà che è appena agli inizi del suo sviluppo) potrà creare vasti strati di forza lavoro intellettuale a cui il sistema dominante non potrà più offrire soluzioni individuali. Infatti, nella misura in cui questi strati andranno espandendosi nei vari rami e sezioni dei processi produttivi, e quindi aumenteranno quantitativamente, la soluzione carrieristica, che in tanto poteva avere presa in quanto prospettata ad un nucleo ancora poco numeroso, risulterà qualcosa di sempre più evanescente e lontana da effettive possibilità di realizzazione; inoltre la caratteristica specialistica della loro formazione renderà impossibile un qualsiasi significativo mutamento nella scala gerarchica sociale. Lo scontro con l'organizzazione della società, in questa prospettiva, potrà quindi aiutare a prendere coscienza a livello di massa della reale antiteticità degli interessi di questi strati sociali con l'organizzazione sociale dominante, della necessità di una soluzione collettiva, dell'irriducibilità del contrasto con ogni assetto sociale del tipo esistente o di tipo tecnocratico, e quindi in ultima analisi della sostanziale omogeneità di prospettive con gli "altri strati operai" e dell'uso di classe della forza lavoro (di cui essi rappresentano solo un momento ed un aspetto specifico).

Pur ribadendo che questo rimane un discorso di prospettiva (che può prospettato in termini scientifici previa una analisi approfondita delle linee di sviluppo dei capitalismo, con particolare riferimento alle effettive possibilità di sostituzione al livello di massa del lavoro manuale con il lavoro intellettuale, relativamente alla legge del profitto) bisogna sottolineare un altro limite fondamentale del discorso di Bridier (che pure individua giustamente la non disponibilità al livello di massa di questi strati sociali ad un'azione rivoluzionaria) nella mancanza di una proposta di azione politica tra questi gruppi sociali che, per la contrapposizione oggettiva al livello strutturale al sistema capitalistico (che deriva dalla parcellizzazione, subordinazione e mercificazione del lavoro intellettuale) possono maturare una effettiva coscienza rivoluzionaria.

La sostanziale eterogeneità di questi strati ed i condizionamenti pratici che prima abbiamo esaminato non devono pero condurre ad una proposta di azione di massa di carattere sindacale, quanto piuttosto ad un'opera di agitazione e di propaganda più strettamente politica che abbia come fine immediato la formazione di una coscienza rivoluzionaria. Rimane valido, per noi, il discorso leninista: da un lato è necessaria la conoscenza di tutti gli strati sociali per la formazione di una corretta visione dei rapporti di classe di una data organizzazione sociale, dall'altro è necessaria una agitazione tra tutti gli strati sociali per un'azione politica che tenda concentricamente al comune fine dell'abbattimento della macchina statale borghese sotto la guida egemone del partito della classe operaia: (*)

"La coscienza politica di classe può essere portata all'operaio solo dall'esterno, cioè dall'esterno della lotta economica, dall'esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni. Il solo campo dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi. Perciò alla domanda: "che cosa fare per dare agli operai cognizioni politiche?" non ci si può limitare a dare quella risposta che nella maggior parte dei casi accontenta i militanti, soprattutto quando essi pencolano verso l'economismo, e cioè: "andare tra gli operai". Per dare agli operai cognizioni politiche, i socialdemocratici devono andare tra tutte le classi della popolazione, devono inviare in tutte le direzioni i distaccamenti del loro esercito...


(*) Lenin, Che fare?


E non si ripeterà mai troppo che ciò non è ancora socialdemocrazia, che l'ideale del socialdemocratico non deve essere il segretario di una trade-union, ma il tribuno popolare, che sa reagire contro ogni manifestazione di arbitrio e di oppressione, ovunque essa si manifesta e qualunque sia la classe o categoria sociale che ne soffre, sa generalizzare tutti questi fatti e trarne il quadro completo della violenza poliziesca e dello sfruttamento capitalistico;... Quanto al fatto che i nostri studenti, i nostri liberali, ecc. siano "posti faccia a faccia col nostro regime politico" non solo ci penseranno essi stessi ma se ne incaricheranno soprattutto la polizia ed i funzionari del governo autocratico. Ma "noi", se vogliamo essere dei democratici di avanguardia, dobbiamo occuparci di spingere coloro che sono insoddisfatti solo del regime universitario o del regime degli zemstvo, ecc., a convincersi che quello che non va è l'intero regime politico. Noi dobbiamo assumerci il compito di organizzare una lotta politica multiforme, diretta dal nostro partito, affinché tutti gli strati dell'opposizione possano dare e diano a tale lotta, ed in pari tempo al nostro partito, tutto l'aiuto che possono. Noi dobbiamo trasformare i militanti socialdemocratici in capi politici che sappiano dirigere tutte le manifestazioni di questa lotta politica multiforme...".

Quindi se da un lato consideriamo valida un'iniziativa di agitazione e. di propaganda politica anche tra gli intellettuali, dall'altro canto dobbiamo sottolineare che la prospettiva politica che si offre loro oggi, per i rapporti pratici che essi vivono e le condizioni materiali in cui si trovano ad operare, è quella del rifiuto globale della propria ideologia, l'ideologia borghese (rifiuto operato come una scelta individuale) e del materialismo scientifico come metodo di analisi e visione del mondo; la prospettiva politica è quindi quella dell'inserimento nella lotta rivoluzionaria come quadro politico e teorico del socialismo.


Nel corso dello sviluppo di questo movimento studentesco ... noi ci mettemmo in testa che esistesse una barriera tra noi stessi e le persone che stavamo organizzando. Sviluppammo comunità di persone che avrebbero dovuto essere limitate socialmente, e che in molti casi finivano con l'essere limitate politicamente. Cominciammo a parlare di "potere studentesco", come se esso fosse analogo a "potere negro", e guardammo a noi stessi come organizzatori del nostro popolo; cioè come studenti, che intendevano controllare la loro propria istituzione, l'università. Di qui, credevamo che avremmo potuto muoverci più in grande nella società, e realizzare delle trasformazioni.

La lotta nel campus era ed è ancora di importanza vitale per lo sviluppo di un movimento nel nostro paese, ma la nostra opinione quella sua importanza sta, per molti aspetti cambiando, Noi sappiamo che il socialismo in una sola università è impossibile. Noi sappiamo anche che non possiamo controllare l'istituzione politicamente o amministrativamente, e forse non lo desideriamo più. Quando chiesero ad un gruppo di negri cosa pensassero della proposta che i negri controllassero il loro ghetto, essi risposero che non lo desideravano. Il ghetto è la colonia in cui i negri devono vivere. Esso non rappresenta la liberazione, ma soltanto il controllo coloniale. Piuttosto che controllare il ghetto, essi desideravano una nuova società. Anche la nostra opinione sull'università è cambiata. Guardiamo all'Università per quello che è, uno strumento di irregimentazione. Noi non desideriamo controllarla. Noi desideriamo usarla per fare una società dove una nuova forma di università sarà importante. Noi dobbiamo fare libera la società, prima di poter avere una università libera.


(The role of the student movement, nella rivista della SDS degli Stati Uniti d'America. "New left notes", del 6 novembre 1967)


Gli avvenimenti francesi e l'<unità antifascista>


Negli ultimi giorni le sinistre ufficiali unite ai peggiori gruppi filo-americani hanno cercato di creare sugli avvenimenti francesi una fittizia "unità antifascista".

Su questa linea hanno tentato di rientrare nel movimento studentesco dal quale erano stati cacciati nei mesi scorsi.

Con la collaborazione di alcuni gruppi di studenti-confusionari, hanno creato in Italia ed anche a Napoli, cortei, manifestazioni sul logoro tema dell'unità "antifascista" fra gli applausi della stampa filo-atlantica; tale manovra non ha però avuto molto successo, come si può desumere dalla approvazione, della seguente dichiarazione, proposta dalla Sinistra Universitaria, da parte dell'assemblea studentesca, riunita il 3 giugno 1968 nella facoltà di Architettura:

L'impetuosa espansione del movimento spontaneo di protesta in Francia, dimostra che si vanno maturando nei paesi a capitalismo avanzato contraddizioni capaci di produrre crisi rivoluzionarie.

Si verifica in questo modo l'infondatezza di tutte quelle strategie basate sull'equivoco teorico secondo cui la classe operaia nei paesi avanzati vada integrandosi nel sistema di sfruttamento imperialistico, ed anzi si vede come si vada chiarendo che il centro delle contraddizioni dei sistema mondiale di sfruttamento risieda nel cuore del capitalismo, cioè nel paesi avanzati. Non a caso la crisi si è sviluppata così violentemente in Francia.

Infatti, la Francia è il paese dell'Europa Occidentale dove il capitalismo di Stato ha raggiunto le forme più sviluppate, e, dove la centralizzazione delle scelte economiche è la più spinta.

La posizione del PCF in questa situazione è, stata quella di accettare in via subordinata la politica gollista, basata essenzialmente sulle forme del capitale di Stato, che ha trovato la sua condizione nell'elevata concentrazione del capitale bancario.

La spinta delle lotte popolari sviluppate sulla base delle suddette contraddizioni ha lasciato scoperto il PCF, incapace strutturalmente di gestire e prendere la direzione di lotte rivoluzionarie.

Ha finito per prevalere l'unica vera alternativa, politica, che il l'UDI porta avanti, cioè la campagna per un fronte unico "antifascista" in chiave, filo-americana con le forze della IV Repubblica: da François Mitterand a Guy Mollet, noti lacché del capitalismo americano.

Così come ha detto Mitterand "Si risponde a Parigi agli interrogativi posti a Praga", e si rinsaldano le nuove forze per il rilancio della coesistenza pacifica e della integrazione fra i sistemi mondiali di sfruttamento.

Tale rilancio delle lotte "democratiche ed antifasciste" ultimo baluardo usato dai partiti revisionisti è stato ratificato immediatamente dal PCI, notoria espressione della destra internazionale delle forze opportunistiche.

In definitiva, una forte spinta di lotte di base su contraddizioni centrali del capitalismo è stata utilizzata dalle forze opportunistiche per il rilancio in politica internazionale dell'atlantismo filoamericano, ed in politica interna del vecchi temi della congestione titina.

E' riconfermato così il valore fondamentale della concezione leninista del partito che si può in tal modo schematizzare: costruzione di una organizzazione autonoma del proletariato in grado di imporre la sua dittatura e di contrapporre teorie rivoluzionarie ad ideologie borghesi, il controllo operaio delle forze produttive allo sfruttamento capitalista, il popolo armato all'esercito borghese. In base a tali analisi l'assemblea rifiuta tutte le proposte di formale unità del movimento studentesco e ribadisce come la crescita del movimento non possa avvenire che sulla contrapposizione delle diverse analisi teoriche e strategiche.

Solo così si può evitare quell'ambigua unità, precipuo parto dello spontaneismo che oggettivamente si pone al servizio dei gruppi più forti, ovvero delle centrali dei partiti ufficiali di sinistra.


"Ma l'insurrezione è un'arte: come la guerra e le altre arti essa è soggetta a norme d'azione determinate, le quali, quando vengono trascurate, portano alla rovina del partito che le trascura. Queste norme d'azione che derivano logicamente dalla natura dei partiti e delle circostanze con cui si ha da fare nel caso determinato, sono così semplici e chiare, che la breve esperienza del 1848 le ha rese abbastanza note al popolo tedesco. Prima di tutto non si deve mai giocare con l'insurrezione se non si è decisi ad accettare tutte le conseguenze del proprio giuoco. L'insurrezione è un'equazione con grandezze molto indeterminate, il cui valore può cambiare ogni giorno, le forze che si oppongono a voi hanno tutti i vantaggi dell'organizzazione, della disciplina e dell'autorità, tradizionale; se non opponete loro delle grandi forze siete battuti e rovinati. In secondo luogo, una volta cominciata l'insurrezione, si deve agire con la più grande decisione, passare all'offensiva. La difensiva è la morte di ogni insurrezione armata; se rimane sulla difensiva l'insurrezione è sconfitta prima di misurarsi col nemico.

Bisogna sorprendere gli avversari mentre le loro forze sono disperse e avere dei nuovi successi, sia pure piccoli, ma ogni giorno; bisogna conservare l'ascendente morale datovi dalla prima insurrezione vittoriosa; raccogliere così intorno a voi quegli elementi vacillanti, che seguono sempre la spinta più forte e si schierano sempre dalla parte di chi ha dei successi; dovete costringere il nemico a ritirarsi prima che, abbia potuto riunire le sue forze contro di voi: insomma seguite le parole di Danton, il più grande maestro di tattica rivoluzionaria finora conosciuto - De l'audace, de l'audace, encore de l'audace!".


(K. MARX, "Rivoluzione e controrivoluzione in

Germania", Stoccarda, 1907, II ediz., pag,

117)


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