Biblioteca Multimediale Marxista


2.

IL SOGNO DELLA LOTTA ARMATA


Attendevo la Rivoluzione come si attende una persona che deve arrivare da un giorno all'altro
Pietro Secchia


Il primo disaccordo grave, anzi un vero e proprio scontro, Togliatti lo ha avuto con Secchia alla II Conferenza Nazionale del partito che si è svolta nel gennaio del 1928 a Basilea. Lo scontro è stato duro perché con Secchia è schierato anche Longo; in pratica tutta l'organizzazione giovanile del partito.
Il fascismo ormai ha vinto, in Italia. La direzione del partito si è trasferita all'estero; molti dirigenti (Gramsci, Terracini, Scoccimarro, per citarne solo alcuni) sono già stati arrestati.
Secchia è un giovanotto di venticinque anni, magro, eternamente affamato e spettinato, eternamente scontento di quello che il partito fa e che a lui non sembra mai sufficiente. Figlio di povera gente (il padre era contadino e la madre operaia tessile) ha però frequentato il ginnasio mentre il fratello più piccolo, Matteo, a undici anni è entrato in fabbrica. Pietro e Matteo muovono i primi passi assieme nella vita politica. È Pietro, più attivo colto e intraprendente, che organizza nel 1919 il primo circolo di giovani socialisti nel suo paese, Occhieppo Superiore; ma quando due anni topo si costituisce a Biella il partito comunista i due fratelli vi aderiscono insieme. Pietro, nonostante gli anni di ginnasio, è un autodidatta: gli piace leggere, cercare nei libri la conferma dei confusi sentimenti che lo agitano, ma soprattutto gli piace organizzare altri giovani come lui. Li riunisce, nei piccoli paesi della provincia che raggiunge in treno o in bicicletta, gli consegna il materiale di propaganda dei comunisti, li convince a lasciare il partito socialista, un partito di parolai che non ha il coraggio e la forza di fare la rivoluzione in Italia. Gli parla (più spesso in piemontese che in italiano) dello sfruttamento al quale sono sottoposti gli operai, dei profitti che si godono i padroni, delle ingiustizie sociali, e poi di Lenin che in Russia la Rivoluzione l'ha già fatta con gli operai, i soldati e i contadini. I giovani lo ascoltano: il giovane Secchia parla in modo semplice, convincente. E' anche uno che dopo un paio di settimane ritorna per vedere se hanno fatto quello che si erano impegnati a fare. Così quei giovani, riuniti nei loro primi Circoli non si sentono abbandonati.
Nel dicembre del 1922 arriva la prima denuncia, "per detenzione abusiva di munizioni per pistola", nel febbraio del 1923 il primo arresto, "per complotto contro lo Stato". Rilasciato dopo quindici giorni per insufficienza di prove, Secchia non trova più nel biellese lavoro regolare e si trasferisce a Milano dove di giorno fa il muratore e la sera riunioni. Frequenta ormai regolarmente la Federazione giovanile comunista del capoluogo lombardo, di cui tra breve diverrà un dirigente.
A Roma quindi Mussolini ha già preso il potere quando Secchia, che ha compiuto da poco i vent'anni, decide di scegliere la vita del "rivoluzionario professionale". Lo scontro sociale che si è aperto nel dopoguerra si va risolvendo con la sconfitta della classe operaia e del sindacato, del grande partito socialista e della piccola avanguardia comunista nata a Livorno. Ma pure ci vuole chi non si rassegni alla sconfitta, chi prepari la riscossa. Pietro sceglie per sé questo destino. Emigra in Francia varcando clandestinamente a piedi la frontiera attraverso il Colle di San Dalmazzo e a Parigi trova un lavoro regolare come manovale. Ma il suo lavoro vero è un altro: egli è a disposizione del partito che tenta, dall'estero, di riorganizzare i collegamenti con l'Italia. Nel 1924 viene mandato: a Mosca come delegato italiano al Congresso dell'Internazionale giovanile comunista; poi torna a Parigi e di qui, clandestinamente, a Torino dove riesce a farsi assumere come operaio alla Fiat, dove ricostituisce una cellula del partito.
Sentiamo come lo descrive, all'inizio del 1924, un rapporto di P.S.: "E di carattere impulsivo, educazione scarsa, intelligenza, pronta. Ha una cultura discreta. Ha tendenze all'ozio e vive con le prebende che gli frutta la campagna comunista. Appartiene al partito comunista di cui è seguace fanatico".
Nel novembre del 1925 viene fermato alla stazione di Trieste e, citiamo dal rapporto della Direzione della P.S., "trovato in possesso di numerosi fogli stampati, con i quali si incitano i soldati prima a reati di insubordinazione e rivolta armata contro i propri ufficiali, e poi alla guerra civile con promessa di vantaggi economici da conquistare armata mano contro gli attuali possessori". Si fa dieci mesi di carcere, poi esce, ma viene ancora una volta arrestato a Biella nel dicembre del 1926. La partita ormai è chiusa; Mussolini ha promulgato le "leggi eccezionali", sciolto d'autorità, tutti i partiti, arrestato i maggiori esponenti dell'opposizione. Il giovane Secchia riesce a dissolversi: entra nel lungo tunnel dell'illegalità.
È solo, giovane, coraggioso, intelligente, ha una capacità di lavoro fuor del comune, una inesauribile curiosità intellettuale, e una gran voglia di battersi. Mentre la direzione del partito si trasferisce all'estero, egli resta in Italia ad alimentare quel tanto di lavoro clandestino che è ancora possibile, soprattutto stampa e diffusione di giornaletti. "Il fascismo" racconta lo stesso Secchia "voleva impedirci di parlare e noi intendevamo affermare il diritto di pensare di parlare e di scrivere; intendevamo anche dimostrare che il fascismo non aveva la forza per impedirci l'esercizio di quel diritti."
Mese dopo mese, cresce però nel giovane Secchia la sensazione della insufficienza, forse della inutilità di questo lavoro. Davvero non si può fare altro, per combattere il fascismo? Davvero bisogna aspettare, stampando alla macchia giornaletti e diffondendoli, che il fascismo crolli? E cosa accadrà, dopo? L'insoddisfazione e l'impazienza di Secchia non sono solo sue, si intrecciano con altre insoddisfazioni e impazienze; il disaccordo con il centro estero del partito e con Togliatti che lo dirige si manifesta appieno nel 1928.
Secchia ha venticinque anni, Togliatti ne ha dieci di più. Ma il loro contrasto non nasce dalle differenze di età e temperamento che pure esistono. Il problema che li divide è uno di quelli che si riproporrà, come un insopprimibile filo rosso, una misteriosa falda d'acqua che di volta in volta riappare e sparisce, lungo tutta la storia del Pci. E' il problema della lotta armata, il problema del terrorismo.
Già nel 1927 si era manifestato un disaccordo di linea tra i "giovani" e il gruppo dirigente del partito. Longo ricorderà, molti anni dopo: " Togliatti e gli anziani dicevano che bisognava dare come parola d'ordine alle masse l'Assemblea Costituente Repubblicana sulla base dei Comitati operai e contadini. A noi questo discorso suonava falso, enfatico... Non era più semplice dire che ci battevamo per una società socialista?" (5)
Certo che sarebbe stato più semplice. Ma sarebbe stato giusto? Se lo chiede Grieco nel rapporto introduttivo alla Conferenza di Basilea, nel gennaio 1928. "Stiamo attenti" avverte "a non dare parole d'ordine campate per aria, nel qual caso le masse si stancano e la reazione fa maggiori stragi." E, anticipando le posizioni che saranno espresse dai "giovani", polemizza con coloro che ripetono che il partito "dovrebbe fare qualcosa di più". "Sappiamo benissimo" dice Grieco "che cosa è quel qualche cosa di più che accarezzano taluni compagni. Si tratta del terrore individuale e degli attentati terroristici. Si tratta insomma di infondere coraggio nelle masse facendo ad esempio saltare una centrale elettrica, accoppando Tizio o Caio. Ma realizzano gli atti terroristici uno spostamento in avanti delle masse? No, noi abbiamo visto che al terrore individuale segue sempre un passo indietro delle masse dalle loro posizioni." (6)
Ma i "giovani" non si nascondono dietro l'anonimato, né si fanno convincere dalla polemica anticipata di Grieco. A Longo, allora segretario della Fgci, è stato imposto di non parlare e lui disciplinatamente non parla, ma gli altri escono allo scoperto. Prende la parola per primo il torinese Ottavio Pastore: "Molti lavoratori" dice "si rendono conto che è dannoso sperperare le proprie forze in movimenti parziali, molti trovano la buona ragione di riservarsi per sforzi più grandi e decisivi. Ora, io mi domando: perché il partito non può cominciare a mettersi sul terreno della lotta armata?" Pastore precisa di non pensare ad atti di terrorismo individuale, bensì ad atti che possano determinare "alcuni scoppi, di insurrezione popolare". E, con imprevedibile disinvoltura aggiunge: "Questi movimenti possono anche essere schiacciati e costare maggiori perdite; una insurrezione schiacciata costa di più, ma evidentemente ha un'influenza maggiore dello sciopero".
Togliatti non aspetta nemmeno un momento per rispondergli, "Queste deviazioni" dice con durezza "sono una concessione allo stato d'animo di stanchezza che c'è in una parte dei lavoratori, noi; siamo un partito che vuol fare un'insurrezione vittoriosa, non un'insurrezione schiacciata... vogliamo fare un movimento che vincerà". (7)
Verranno dopo i tempi in cui un intervento di Togliatti risolverà ogni controversia; per adesso Togliatti è soltanto un "primus inter pares" e questi sono tempi in cui anche tra comunisti si discute instancabilmente, e ognuno pretende di dire la sua. Tra quelli che pretendono di dire la loro c'è Secchia, che parla con molta chiarezza ma senza la baldanza di Pastore e certo con maggiore accortezza politica.
"Nessuno pensa ad attentati individuali, a colpi di rivoltella, ai uccisioni di singoli fascisti" dice Secchia rivolgendosi a Grieco "però..." E qui il giovane prospetta un "uso difensivo" della lotta armata che si intrecci con le agitazioni di massa, le "protegga" e ne consenta lo sviluppo. "Quando c'è un'agitazione pacifica" spiega, "dobbiamo cercare che non sia più pacifica... I contadini veneti, nel corso di una recente agitazione hanno buttato qualche mobile dalle finestre delle podesterie; se fossero stati assistiti e guidati non si sarebbero limitati alla distruzione di qualche mobile..."
Grieco è furente e nelle conclusioni prende di petto i giovani ripetendo, con fermezza, che il partito a questa linea non ci sta. Si tratta di una mentalità da piccolo borghesi arrabbiati, di un estremismo infantile che in realtà è segno di stanchezza, di sfiducia. Quale illusione pensare che si possano organizzare piccole insurrezioni che trascinerebbero poi tutto il popolo! E per dar forza alle sue argomentazioni cita accortamente Lenin.
Ma Secchia è tutt'altro che convinto. Per lui Togliatti e Grieco peccano di "legalitarismo". Accusa singolare per un partito che è impegnato, in Italia, in una lotta tutta e solo illegale. Ma il guaio secondo Secchia è proprio questo: il partito pur violando le leggi fasciste, non va al di là di quanto era considerato lecito e costituzionale dallo Statuto albertino e dalle leggi esistenti prima della dittatura. Se ne vuole un esempio? Le stesse scuole organizzate dal partito per i suoi militanti sono soltanto scuole politiche, che non forniscono istruzioni militari né addestramento all'attentato, alle azioni di commandos o di guerriglia.
Insomma, Secchia rimane della sua opinione, e non lo nasconde. Tanto più che tra quelli che la pensano come lui c'è Longo che, se per disciplina non ha parlato alla Conferenza di Basilea, prenderà la parola invece al Comitato Centrale del giugno dello stesso anno.
Il suo giudizio sulla situazione italiana è perentorio: "La depressione del movimento può essere seguita da una situazione immediatamente rivoluzionaria; dobbiamo quindi prevedere un rapidissimo passaggio da movimenti pacifici a movimenti popolari violenti, insurrezionali ". Se l'insurrezione deve diventare l'obiettivo del partito, obiettivo possibile e necessario, allora dobbiamo "spiegare alle masse l'impossibilità di una lotta pacifica contro il fascismo, la necessità invece di un'implacabile lotta armata". Le condizioni per questa, secondo Longo, già ci sono; già ci sono in Italia non solo "forme di resistenza sul terreno economico e scioperi, ma anche l'uccisione di fascisti e di autorità locali, atti di rappresaglia contro la proprietà, taglio di viti, incendi di cascinali, sabotaggio di macchine, "a salario di merda, lavoro di merda", attentati, atti terroristici veri e propri. Si tratta, secondo Longo, "di forme di lotta violenta di singoli e di piccoli gruppi che tendono a diffondersi. E il partito non le può condannare. Ma il partito, come aveva già fatto pochi mesi prima a Basilea, respinge di nuovo, adesso, queste posizioni. "Gallo fa della demagogia" lo accusa Tasca. "Il dissenso tra noi e Gallo è fondamentale" incalza Grieco. "È un discorso senza serietà politica" accusa Togliatti. "Presentare ad ogni passo la rivoluzione come solo mezzo di lotta fu tipico del massimalismo nell'immediato dopoguerra. Quello che Gallo dice sul terrorismo è impressionante e dimostra smarrimento."
La risposta dei "vecchi", Grieco e Togliatti, è sferzante ma ancora una volta insufficiente a convincerli. C'è un misto di tenace ingenuità, di sincero entusiasmo e di slancio volontaristico nei "giovani" che li porta quasi inevitabilmente a quel giudizio sulla situazione italiana. E c'è anche l'ideologia a dar loro ragione: come è possibile infatti che la classe operaia, con il suo carico di sfruttamento, non si erga antagonista contro il regime fascista che è il rappresentante del Grande Capitale? Dunque, pensano i giovani, la classe operaia non può che radicalizzarsi nel suo scontro di classe e non ha senso allora porre obiettivi intermedi; l'unico obiettivo vero è la rivoluzione proletaria; ogni "gradualismo" è un peccato di "opportunismo"; bisogna dare alle masse il segno della forza del partito e della debolezza degli avversari anche con atti esemplari che accendano la miccia della più vasta insurrezione. In questa visione della lotta davvero non ha importanza chiedersi quanti compagni cadranno nelle mani del nemico, quanti verranno arrestati o uccisi. Importante è l'esempio, la presenza, la capacità di parlare al proletariato e ai contadini poveri anche attraverso il proprio personale sacrificio. Se c'è una punta di esaltazione in tutto questo, è certo che si tratta di una nobile esaltazione: anche le difficoltà, non solo i successi, possono dare alla testa.
Spetta a Togliatti buttare acqua sul fuoco di questi giovanili e pericolosi entusiasmi, richiamare alla prudenza (che non è viltà), all'analisi attenta, non ideologica, delle condizioni reali del paese. Ai giovani non resta che mordere il freno e attenersi alle decisioni della maggioranza.
Ma solo un anno dopo, nel 1929, la situazione si rovescerà. Sotto la pressione dell'Internazionale, Togliatti sarà costretto a modificare il suo giudizio e far proprie quelle suggestioni estremistiche contro le quali aveva combattuto nei due anni precedenti.
Il VI Congresso dell'Internazionale prima e poi il X Plenum hanno deciso infatti che non esistono più in Europa possibilità di soluzioni intermedie. La socialdemocrazia equivale al fascismo, le masse in tutti i paesi europei si vanno sempre più radicalizzando, il mondo è alla vigilia di una nuova guerra e di una nuova ondata rivoluzionaria; tutte le lotte quindi vanno trasformate, ad opera dei comunisti, da lotte parziali e pacifiche a lotte più avanzate nei contenuti e nella forma. Lo dice Molotov in persona nel luglio del 1929: "Si approssima una nuova ondata del movimento operaio rivoluzionario. Occorre che i nostri partiti ne prendano coscienza. Da loro dipende la trasformazione delle attuali lotte economiche in lotte rivoluzionarie per il potere, per il trionfo della dittatura del proletariato".
Togliatti, già sotto accusa per essersi fidato di Tasca, "opportunista consumato e destro confesso", non ha scelta. Se non accetta quest'analisi, che contraddice gran parte di ciò che il partito è andato elaborando sotto la sua guida negli anni precedenti, sarà costretto a passare la mano. E "la direzione del partito" per dirlo con le sue stesse parole, "sarà affidata magari a qualche giovanotto uscito dalla scuola leninista di Mosca ". Accetta di piegarsi quindi e, alla riunione dell'Ufficio Politico, alla fine d'agosto del 1929 fa sua la nuova linea proposta dall'Internazionale. "La situazione è radicalizzata, tutte le fratture che appaiono in Italia appaiono sopra una linea di classe, tutte le linee di frattura intermedie sono scomparse. Cosa dobbiamo fare dunque? Dobbiamo porre chiaramente gli obiettivi ultimi della lotta. E' superata dalla situazione la parola d'ordine dell'Assemblea Repubblicana..." Togliatti tuttavia non parla qui, né parlerà mai, della possibilità di organizzare già una lotta armata contro il regime fascista, rifiutandosi quindi di tirare le conclusioni ultime di una analisi politica che fa propria, ma che non condivide. Per questo rifiuta di dichiarare sbagliata la precedente parola d'ordine, limitandosi a dire che "la situazione attuale" la fa apparire superata.
Ma Secchia e Longo non ci stanno a queste finezze da dottor sottile. Dice subito Longo: "Non sono d'accordo su quello che Togliatti dice riguardo al passato e alla posizione di oggi. Non c'è, come dice Togliatti, una precisazione di linea; no, c'è una revisione, una correzione di quella linea. Bisogna riconoscere apertamente l'errore compiuto". E rivolto a Togliatti aggiunge: "Bisogna dire a tutto il partito: sì, abbiamo sbagliato. Non dire: noi abbiamo ragione". Per far questo nel modo più completo, perché sia chiaro che si tratta di una correzione profonda di scelte politiche e di metodi di lotta, Longo chiede la convocazione di un Congresso straordinario, "un Congresso, precisa, non una Conferenza".
Secchia appoggia Longo con vigore polemico. Sì, è vero, nel passato si è sbagliato e la formula di Togliatti secondo cui si tratterebbe solo di "precisare", la linea, è insufficiente. "Gli errori" aggiunge "derivano dalla sopravvalutazione dei ceti medi, dei contadini. Si è sopravvalutato l'importanza della piccola borghesia, del cattolici; pareva a un certo momento che dovessimo andare a conquistare anche i canonici del Duomo di Milano!". (8) E ricorda che non da ora soltanto egli denuncia questi errori: è dal 1927, "da quando il partito lanciò la parola d'ordine dell'Assemblea Repubblicana ponendo come prospettiva una rivoluzione popolare, antifascista, anziché la rivoluzione proletaria, che abbiamo criticato queste parole d'ordine. Ora il partito ha riconosciuto che tale parola d'ordine era errata, che vi erano formulazioni opportuniste ma durante due anni fummo soli a opporci..."
Anche il rappresentante di Mosca è scontento "il tono dell'autocritica che ha fatto ieri il compagno Ercoli non potrei dire che è giusto; direi anzi che è un po' insufficiente..."
Togliatti incassa; né potrebbe fare altro, del resto. E il Comitato Centrale che segue quella riunione dell'Ufficio Politico, si conclude proprio nel senso indicato da Secchia e Longo. L'obiettivo della lotta, in Italia, è adesso l'instaurazione di un governo di operai e contadini. Si pone quindi "la questione dell'insurrezione e della lotta armata contro il fascismo; vanno preparate fin d'ora le nostre organizzazioni a comprendere e risolvere i problemi di questa lotta".
Secchia e Longo, dunque, hanno vinto.
Nel corso del dibattito che, all'inizio del 1930, porterà all'espulsione di Leonetti, Tresso, Ravazzoli e Silone, Leonetti rinfaccerà con durezza a Togliatti questo cambiamento di fronte, lo accuserà di aver ceduto alla spinta di Gallo e di aver proposto lo scoppio della rivoluzione come questione di mesi. I "tre" comunque verranno espulsi e, dopo poco, li seguirà Silone. Decisivo sarà in questa vicenda il voto di Secchia che fa parte dell'Ufficio Politico come rappresentante dei giovani. Invano Leonetti, Tresso e Ravazzoli contestano la validità di quel voto; Secchia rivendica con orgoglio il suo diritto al voto a pieno titolo. Ha ragione sul metodo e sul merito. Con quel voto è la sua linea che vince. La sua e quella di Longo che sono convinti ora di tenere Togliatti prigioniero. (9)
La "svolta" (così questo cambiamento di linea è definito nella storia del Pci) ha anche un significato immediato, concreto, coraggioso di ripresa del lavoro in Italia. E in questo sforzo riemerge: anche la tentazione o l'illusione della "lotta armata" contro il fascismo. "È ora di passare alla violenza proletaria" titola l'Unità clandestina del marzo del 1930 che suggerisce la formazione di "nuclei armati" (non più di dieci-dodici uomini al massimo) che avranno il compito di "dare piombo al fascismo e al capitalismo che da otto anni ci opprimono, ci affamano, ci dissanguano".
I giovani su questa strada si buttano avanti, almeno a parole. Non era stata questa sempre l'idea dei loro massimi dirigenti, prima Luigi Longo e poi Pietro Secchia? Ora Secchia può dare libero sfogo alle sue ipotesi, ingenue e avveniristiche, dei grandi fuochi che dovranno percorrere l'Italia fascista e accendere la miccia dell'insurrezione proletaria. Fraseologia roboante cui non corrispondono - perché non possono corrispondervi - azioni ed atti concreti. Il giornale della Fgci dà queste indicazioni: "Passare alla lotta aperta significa marciare in squadre di giovani per le strade, rompere i vetri dei caffè lussuosi e la testa di loro signori fascisti che stanno succhiando e sbafando i frutti dei nostri sudori. Passare alla lotta aperta significa preparare lo sciopero, sabotare la produzione, rompere i vetri delle officine, bastonare i padroni, i direttori d'officina, i capi fascisti".
Si verifica allora quel fenomeno ben noto a chiunque abbia svolto attività clandestina: ogni avvenimento, ogni elemento della cronaca viene collocato all'interno del disegno che l'organizzazione si è dato, viene esaltato e amplificato come la prova che quel disegno è giusto, corretto, possibile, atteso dalle masse.
A Trieste e in Venezia Giulia un gruppo di sloveni tira un paio di petardi contro il faro della Vittoria? Ecco la prova che la lotta armata è possibile. A Parabiago, nel corso di una manifestazione, gli operai spezzano i vetri, i mobili e le macchine? Ecco il segno che le direttive del partito hanno raggiunto la base operaia. C'è una manifestazione di disoccupati a Livorno, a Signa, a Fucecchio? È la conferma che la situazione economica in Italia è insostenibile. Ma il "fatto più nuovo e significativo", è, secondo quanto scrive Longo, l'apparizione (finalmente!) di una "squadra di vigilanza" nel corso di una manifestazione di braccianti a Carpi . Proprio l'apparizione delle "squadre armate di difesa proletaria" dovrà dare un diverso segno alle manifestazioni economiche e sociali, trasformando questi scoppi isolati di protesta operaia e contadina, in momenti di rivolta a carattere insurrezionale.
Può accadere? O è solo un errore di ottica? No, accade, accade. E accade proprio dove deve accadere: in un paese contadino del Sud, a dimostrare che il Mezzogiorno è la polveriera d'Italia. Accade dunque a Martina Franca, un grosso centro agricolo in provincia di Taranto dove, all'annuncio dell'imposizione di una nuova tassa sul vino, "i contadini si riunirono in massa. La manifestazione nel pomeriggio assunse carattere violento. Furono tagliati i fili del telefono e del telegrafo e verso sera i contadini incendiarono l'esattoria delle imposte, il Circolo del Littorio e la sede del Consorzio agrario e tentarono l'assalto al municipio. I militi fascisti, anch'essi salariati e piccoli proprietari, parteciparono all'azione della massa..."
Tipica rivolta contadina, rapidamente domata fortunatamente senza né feriti né morti né arresti, ma solo con l'invio al confino di due notabili locali (che probabilmente nulla avevano a che fare con questa jacquerie), la sommossa di Martina Franca diventa per il partito il simbolo delle immense potenzialità rivoluzionarie esistenti in Italia e finora sottovalutate a causa di un orientamento opportunista e rinunciatario.
Sentiamo cosa scrive un "ispettore" del partito subito mandato da Napoli a Martina Franca... "Ci si trova realmente, almeno in gran parte dell'Italia meridionale, di fronte ad una situazione immediatamente rivoluzionaria... alla prova dei fatti si vede che la milizia fa causa comune con gli insorti. Questo è un elemento di primissima importanza, che è poi legato all'altro: quello dell'armamento delle masse. Per noi, dopo aver visto lo stato d'animo che regna in gran parte dell'Italia meridionale, il problema dell'armamento delle masse passa in primo piano. La mancanza di armi costituisce un gravissimo ostacolo, quand'anche sia attenuato dal fatto che la milizia fa causa comune con gli insorti."
I fatti sono veri, ma l'analisi è fantasiosa; tutto sarà vero, ma solo dopo quindici anni (e una guerra perduta). Questo fenomeno di presbitismo politico, questo immaginare vere e possibili per l'oggi cose e fatti che saranno veri e possibili solo dopo quasi una generazione e in condizioni generali molto diverse, appare evidente anche in una analisi di Longo, preoccupato che "queste lotte decisive, la guerra civile ci possano cogliere prima che noi le ordiniamo".
Quindi bisogna prepararsi dal punto di vista materiale e ideologico. Organizzare, preparare, mettersi alla testa, dar vita ai comitati di lotta e ai gruppi di difesa armati e ai gruppi di giovani arditi antifascisti (Gaa): Secchia è convinto che non c'è più tempo da perdere. Si tratta allora di porre "concretamente, seriamente il problema della lotta armata", di dare alle organizzazioni "indicazioni concrete per costituirle, addestrarle, farle agire, insegnare come procurarsi i mezzi, come eclissarsi dopo l'azione". Sono necessarie cioè vere e proprie scuole di addestramento alla guerriglia; le "squadre di difesa" o i gruppi di giovani arditi antifascisti, non sorgeranno "senza indicazioni precise e senza che venga dato loro un aiuto concreto in mezzi, con l'esempio e con istruzioni ed istruttori non soltanto teorici".
Nonostante le richieste e gli impegni di Secchia però, a questa fase non si passa, anche se viene lasciata la briglia un po' lunga sul collo dei giovani comunisti, che impazienti titolano il loro giornale del 1° Maggio del 1930: "Innalziamo la bandiera della guerra civile!". E Secchia scrive: "Occorre fare del 1° maggio una giornata offensiva degli operai contro il regime. Esistono per questo; tutte le condizioni".
E invece queste condizioni non esistevano, non esistevano affatto. Il 1° Maggio del 1930 verrà celebrato, come d'abitudine, con distribuzione di volantini e materiali di propaganda, qualche scampagnata che consenta di cantare le vecchie canzoni, qualche scritta sui muri "merda al duce", a Via Roma, a Torino, qualche bandiera rossa innalzata all'improvviso da una coraggiosa mano ignota. È già un grande sforzo, che richiede mobilitazione e coraggio. Ma questa "guerra civile" che doveva esplodere liberatoria, resta pura declamazione, sogno, invocazione romantica.
Dopo l'insuccesso di quel 1° Maggio, si riapre nel gruppo dirigente l'inevitabile fase dell'autocritica e a Secchia vengono rimproverate formulazioni estremistiche e settarie a proposito dell'organizzazione dei Gruppi arditi antifascisti. Secchia precisa, spiega che forse non è stato ben capito e Longo ancora una volta lo sostiene: va bene, dice, Secchia e la Fgci avranno anche commesso qualche errore di formulazione, "ma non dobbiamo impressionarci per questi errori, né cadere in esagerazioni opposte. Bisogna evitare che dei compagni pensino che adesso non parleremo più di lotta armata, non parleremo più di squadre di difesa. Sarebbe un grave errore".
Di fatto, tuttavia, nonostante le dichiarazioni ufficiali e qualche titolo sui giornali clandestini, la lotta armata contro il fascismo non viene mai proposta in quegli anni come elemento centrale della battaglia del Pci nel paese. E lo stesso Secchia, che pure di questa ipotesi è convinto assertore, quando torna in Italia a costituire il centro interno del partito, dovrà misurarsi con altri e più immediati problemi e difficoltà.
In tutta Italia, il Pci poteva contare, in quella seconda metà del 1930, su una ventina di organismi provinciali e circa tremila iscritti (1700 dei quali in Emilia e Toscana). Scarsi i contatti con le fabbriche: in tutto c'erano una ventina di operai iscritti alla Fiat di Torino; 12 ai cantieri di Monfalcone; 8 alle Officine Meccaniche di Reggio Emilia; 4 alla Pirelli Bicocca di Milano.
Altro che offensiva! Altro che lotta armata! Il primo compito, a questo punto, era di riprendere un contatto regolare con la base, rimettere in piedi una rete appena decente di cellule, sezioni, comitati federali, individuare quadri giovani che potessero prendere il posto di quelli che cadevano regolarmente nelle mani della polizia fascista.
Secchia è instancabile. In quella seconda metà dell'anno viene più volte in Italia, riunisce piccoli gruppi di comunisti che lo ascoltano volentieri ma spesso esitano ad assumersi una responsabilità diretta. Il quadro del paese è sconsolante: la gente, soprattutto gli operai, non ama il fascismo, ma cosa fare per opporvisi? Certo, si possono diffondere giornali clandestini, ma non è molto e il rischio appare sproporzionato all'efficacia dell'impresa. Ma il presupposto per ogni azione è che venga ricostituita un organizzazione efficiente in Italia, costi quel che costi, e Secchia è stato di quelli che hanno imposto questa decisione contro le esitazioni e i dubbi di Silone, Tresso, Leonetti. Dunque, dopo l'arresto di Camilla Ravera, tocca a lui rientrare in Italia definitivamente per rimettere in piedi il Centro interno. Due sono i compagni che in quel periodo collaborano strettamente con lui: Antonio Cicalini, piccolo e vivace, detto il Mago per la sua abilità nel preparare documenti falsi, e Celso Ghini, uno spilungone serio e silenzioso responsabile del Centro interno dei giovani. I collegamenti con il Centro Estero - che ha sempre sede a Parigi - sono tenuti da tre giovani donne torinesi, che da tempo hanno scelto la clandestinità: Rita Montagnana, moglie di Togliatti, Lucia Santhià e Maddalena Secco. Tra quelli che entrano ed escono dall'Italia con i passaporti falsificati, e valigie a doppio fondo, ci sono Dozza, Moscatelli, Santhià, Ciufoli, Frausin, Bianco, Grassi: in tutto non più di una trentina di persone, decise a sconfiggere il fascismo.
Secchia lascia definitivamente Parigi la sera del 31 dicembre 1930 con un passaporto belga a nome di certo Jean Verhagen, viaggia tutta la notte e la mattina del 1° gennaio scende a Milano. Si è fatto crescere, per cambiare un po' fisionomia, un paio di baffetti neri, è vestito elegantemente di scuro come presume debba vestirsi un rappresentante di commercio che viene a Milano a organizzare il suo lavoro. Per prima cosa cerca un appartamento, modesto ma decoroso, e lo trova rapidamente pagando qualche mensilità anticipata. La padrona di casa è del tutto ignara della vera identità di quel suo inquilino, corretto, perbene, tranquillo.
Quel suo inquilino era spesso assente, come logico del resto; visto il suo lavoro di rappresentante. In qualche modo è persino vero che quel giovanotto fa il rappresentante, solo che la sua ditta, il Pci, è una ditta un po' speciale. Ed è speciale il compito che gli è stato affidato: organizzare, dovunque ci sia un nucleo consistente di comunisti, il IV Congresso del partito. Sono piccole riunioni clandestine, in cui si discute della linea del partito, si approva la "svolta" e si eleggono i delegati al Congresso Nazionale che si dovrà tenere a Colonia. A questi Secchia consegna un passaporto falso, un indirizzo da mandare a memoria e un segno di riconoscimento (una cartolina o un biglietto da dieci lire strappato a metà) con il quale i delegati sarebbero entrati in contatto, a Parigi o a Zurigo, con altri militanti e da questi avviati, con un altro segno di riconoscimento, a Colonia.
Le difficoltà sono notevoli. Le riunioni si tengono in case private, in casali di campagna, in osterie fuori città; in molti casi si tratta di incontri tra una mezza dozzina di persone e nulla di più. Così si svolge il Congresso di Torino, quello di Modena, quello di La Spezia e quello di Milano, ai quali partecipa come responsabile del Centro interno Pietro Secchia. Tutt'altro che facile si prospetta l'espatrio dei delegati, spesso gente che non aveva mai viaggiato, non diciamo all'estero - che era allora cosa assai rara - ma nemmeno fuori della propria città o della propria provincia.
Per tre mesi tutto procede perfettamente. Secchia si muove a suo agio nella clandestinità: sicuro e prudente, riesce a condurre una vita apparentemente normale pur stando costantemente sul chi vive. Le regole della clandestinità sono regole di ferro, alle quali tuttavia occorre adeguarsi con una certa naturalezza. Non è facile rispettarle senza assumere, involontariamente, l'atteggiamento di un sospetto. Non è facile salire ogni giorno le scale di casa chiedendosi se dietro la porta non ci sia un poliziotto ad aspettarti e intanto salutare con disinvoltura la portiera che forse già "sa". Non è facile andare ogni giorno ad un appuntamento pensando che forse può essere l'ultimo, se il compagno che dovevi incontrare è "caduto" ed ha parlato. Non è facile insomma vivere guardandosi costantemente attorno, e tuttavia senza dar corpo alle ombre, senza scivolare cioè nella nevrosi della clandestinità.
Per tre mesi tutto procede perfettamente. Secchia rispetta tutte le regole della clandestinità e si è organizzato una rete abbastanza larga di recapiti di sicurezza. Tre mesi. Non molto, certo, ma un lasso di tempo sufficiente per incontrare compagni, trasmettere direttive, organizzare più di una tipografia clandestina e una rete di corrieri e diffusori, eleggere - in congressi più o meno regolari - i delegati e dare loro le necessarie istruzioni.
Poi, esattamente il 10 di aprile viene arrestato, a Milano, il giovane Celso Ghini. Il responsabile dei giovani veniva da Torino dove una decina di giorni prima anche Secchia aveva avuto l'impressione di essere stato pedinato. Era lecito quindi sospettare che proprio a Torino fosse successo qualcosa di grave, che cioè lì la polizia fosse riuscita ad avere informazioni sulla rete clandestina che si andava ricostituendo. Le regole della vigilanza avrebbero quindi voluto che Secchia tagliasse subito - almeno per qualche tempo - ogni rapporto con quella città. Ma nessuno come lui conosceva recapiti ed uomini di Torino, da dove tra l'altro dovevano ancora partire alcuni delegati per il Congresso di Colonia.
Secchia non può consultarsi con nessuno; è lui che deve valutare l'opportunità e l'eventuale costo di un'imprudenza. Alla fine decide di sfidare la sorte, e si reca tranquillamente nel capoluogo piemontese. Lì si rende conto che quasi tutta l'organizzazione è caduta: sono stati arrestati il segretario interregionale, molti membri del Comitato Federale e i dirigenti di cellule di fabbrica; Gli unici con cui riesce a mettersi in contatto sono due giovanissimi studenti: Giuliano Pajetta e Altiero Spinelli, che lamentano di aver perso da dieci giorni ogni contatto con l'organizzazione del partito.
È una conferma della frana avvenuta. È ormai pericoloso per Secchia rimanere in una città "bruciata", ma egli, prima di partire, vuole "salvare" i quattro delegati al Congresso che, avendo già fissato per il 2 aprile un appuntamento con Ghini, certamente ora non sapevano che fare.
Secchia conosce il luogo dell'appuntamento e sa che quando il primo collegamento è perduto, di norma si torna allo stesso posto e alla stessa ora per due giorni successivi (sono i cosiddetti "appuntamenti di riserva"). A quel luogo e a quell'ora quindi va Secchia. È il 3 aprile: in un angolo del caffè nota seduti attorno a un tavolino, cupi e silenziosi, quattro poveracci dall'aspetto e dai modi tipicamente contadini.
"Li avvicinai" racconta Secchia, e sottovoce dissi loro di uscire. Mi guardarono sorpresi, pagarono e uscirono senza fiatare. Sorbii con calma il mio caffè, mi guardai attorno e, a mia volta, uscii. Accertatomi che non fossero pedinati, li avvicinai lungo il viale." Voi siete dei compagni" dissi ad uno di loro, quello che mi sembrava il più sveglio. Mi guardò stupito, incerto; la sua titubanza mi tolse ogni dubbio. "Voi avevate l'appuntamento con un compagno e lo aspettate invano da ieri." Assentì con la testa, ancora sospettoso. "Ebbene, nessuno è venuto a prelevarvi perché il compagno è stato arrestato." Ora veniva la parte più difficile: "Ascoltate" aggiunsi, "ciò che faccio in questo momento è contrario a tutte le norme cospirative, ma è il solo mezzo per cavarvi dalla situazione critica nella quale vi trovate. Voi non mi conoscete e io non vi conosco. Se avete fiducia seguitemi e vi darò quello che cercate. Se temete di cadere in un tranello, andatevene, tornate a casa vostra, arrangiatevi in qualche modo". I compagni mi seguirono.
Li fornii di danaro e dissi loro: "Andate alla Rinascente, acquistate degli abiti nuovi, indossateli, poi andate da un fotografo e questa sera portatemi le vostre fotografie, domani vi consegnerò i passaporti per espatriare". Indicai loro un ristorante: "Uno di voi uno soltanto venga qui a cena stasera; non veniteci tutti, tenetevi in contatto tra di voi..."
Così si separarono. Non era ancora mezzogiorno. Secchia girò un po' per Torino, soddisfatto. Dunque non era pedinato, ancora una volta ce l'aveva fatta. Ormai rassicurato, commise un'ultima imprudenza. Aveva, alle cinque del pomeriggio, un appuntamento con un compagno della segreteria della federazione e non volle rinunciarvi. Ma al caffè dove prevedeva di incontrarlo c'erano un paio di poliziotti. Se ne accorse in tempo e cercò di fuggire, ma i poliziotti gli furono addosso. Non si difese, non era armato. All'angolo di una via laterale c'erano due macchine in attesa; il prigioniero venne spinto a forza nella prima.
Così il 3 aprile del 1931, anche Secchia cadde "nelle mani del nemico". E ci rimase per oltre dodici anni, fino al 18 agosto del 1943.
Nel febbraio del 1932, dopo nove mesi di totale isolamento nelle carceri di Torino, Secchia venne processato e condannato a diciassette anni e nove mesi di reclusione. Dagli atti processuali risulta che la posizione di Secchia era stata esattamente individuata esattamente valutato il lavoro da lui svolto in quei mesi. "Il Secchia, membro del Comitato Centrale e noto sotto lo pseudonimo di Botte, è l'elemento dirigente e il coordinatore di tutta l'opera di propaganda e riorganizzazione del partito comunista in Italia. Risulta evidente che, all'atto degli arresti, la predetta opera riorganizzazione era in Torino giunta, anche per l'intervento etto dei maggiori esponenti del partito, ad un grado notevole di sviluppo in quanto erano già state regolarmente costituite e collegate le cellule in numerosi e importanti stabilimenti quali le Ferriere Fiat, la Spa, le Concerie Riunite, il Tappetificio Paracchi, il Cotonificio Mazzonis, il Cotonificio Poma e in vari rioni periferici caratteristicamente operai, come il Borgo San Paolo e la Madonna Campagna, oltre la cellula municipale in gestazione formata dipendenti delle Aziende Municipali..."
La caduta di Secchia non comportò la caduta di altri, né la perdita degli archivi e dei recapiti che a lui facevano capo.
Assieme a Gramsci, Terracini, Scoccimarro, Parodi e Camilla vera, tutti già in carcere, anche Pietro Secchia venne eletto alla presidenza d'onore del IV Congresso che si svolse regolarmente, a Colonia, alla fine di aprile del 1931.