Biblioteca Multimediale Marxista


4.

LO ZIO GIUSEPPE MANDA A DIRE...

Mosca dorme; nel silenzio della notte
Di questa notte lunga e silenziosa
Soltanto Stalin non dorme
Stalin sta pensando a noi
Oltre le colline, oltre le case
Nel suo natio kislak
Un ragazzo sorveglia il gregge
Stalin sa tutto, anche di lui.


Serghei Michajlov


Incerti sul da farsi, divisi alloro interno, premuti tra le sollecitazioni del Cominform ad "alzare il tono" dell'opposizione e il timore di finire, a piè pari, nella "prospettiva greca", i comunisti italiani decidono di andare a chiedere lumi a Mosca.
È sintomatico che della missione non si incarichi Togliatti, ma Secchia. Togliatti conosce da lungo tempo Stalin e forse non ha molta voglia di rivederlo. Secchia invece Stalin non lo conosce ancora: l'incontro è quasi obbligato per l'uomo che dirige l'organizzazione del più grande partito dell'Europa Occidentale.
Secchia parte quindi, nel dicembre del 1947, per Mosca, la capitale che i comunisti chiamano ancora, come durante gli anni della clandestinità, la "Casa" o la "Casa Madre" o "La Mecca". Sono passati pochi giorni soltanto dalla grande sfilata partigiana a Roma e Secchia ne conserva negli occhi e nel cervello le immagini. Gli sono compagni di viaggio, fino a Berlino Est - da dove proseguirà solo per Mosca - Nino Seniga e Amerigo Terenzi, che con i compagni tedeschi tratterà il trasferimento in Italia di un complesso tipografico. Secchia e Seniga parlano fitto lungo tutto il viaggio, e Terenzi rimane colpito dalla sicurezza di Nino, dal tono tra cordiale e arrogante con cui si rivolge a Secchia, dalla condiscendenza di questi che lo guarda affettuoso e indulgente. I rapporti tra dirigenti di primissimo piano del Pci e gli uomini della loro scorta erano, normalmente, assai più formali.
A Berlino il gruppetto si divide, Terenzi resta a Berlino, Nino torna a Roma, e Secchia prosegue per l'Urss preso in consegna da rappresentanti sovietici. Il viaggio è ancora lungo: solo, Secchia ripensa alle settimane passate, al cambiamento che è già stato impresso, dopo la riunione del Cominform al lavoro del partito, al vigore e allo slancio con cui è stata realizzata la grande mobilitazione partigiana. E se Stalin dicesse che quella grande massa di uomini può essere mobilitata per il balzo finale? L'apparato repressivo dello Stato italiano - polizia e carabinieri - è ancora debole, in via di ricostituzione. E nella polizia ci sono ancora ex partigiani; meno di un anno fa, certamente, ma non tutti sono stati allontanati. Quale sarebbe l'esito di uno scontro tra una mobilitazione popolare armata e l'apparato dello Stato? Riflettendo tra sé e sé, sull'aereo che lo sta portando a Mosca, Secchia scuote la testa incerto: non sa darsi una risposta precisa. Certo, molto dipende dalla situazione internazionale... Ma com'è veramente la situazione internazionale? Anche questo possono saperlo solo a Mosca.
Secchia era stato a Mosca più di una volta, negli anni tra il 1924 e il 1930, ma non aveva mai conosciuto Stalin. La prima volta era partito per la capitale sovietica, come delegato dei giovani comunisti italiani, imbarcandosi a Venezia come marinaio sul mercantile "Krasnodar", che lo aveva sbarcato a Odessa. Ora ci arriva in modo ben diverso, come il rappresentante del più grande partito comunista dell'Occidente, un partito le cui responsabilità sono già grandi e più grandi certamente sarebbero nel caso in cui con lo scoppio di una nuova guerra mondiale, le frontiere del socialismo dovessero spostarsi più a occidente.
Dal finestrino della Ciaika nera che lo è venuto a prelevare in aeroporto (una berlina con le pesanti tendine accostate), Secchia tenta invano di sbirciare fuori le strade di Mosca coperte di neve. Viene condotto subito in una dacia riservata agli ospiti d'onore e invitato a riposarsi. Il primo colloquio, il giorno dopo, sarà con Zdanov.
All'uomo che solo poche settimane prima, all'atto della costituzione del Cominform, aveva pesantemente criticato il Pci per la sua politica troppo morbida, Secchia chiede che l'Urss faccia un gesto amichevole verso l'Italia, rinunciando alla consegna della flotta italiana già fissata nelle condizioni di pace. Zdanov lo guarda con la consueta freddezza: "Noi non facciamo" risponde secco "la politica americana alla rovescia".
Poi sembra ammorbidirsi, parla delle cose italiane e, ricordando la riunione di Szklarska Poreba, dice, quasi affettuoso: "Mi è dispiaciuto aver dovuto fare delle critiche al vostro partito, ma era necessario perché voi avete condotto finora una politica fiacca, di capitolazione, avete troppe illusioni parlamentari..."
Le parole di Zdanov suonano miele alle orecchie di Pietro Secchia che è venuto fin lì proprio per farsi dire queste cose e forse alla ricerca di una investitura per se medesimo o per Longo, i soli a suo avviso capaci di portare avanti una politica diversa "non fiacca, non di capitolazione, senza illusioni parlamentari..."
"Voi, compagno Secchia, cosa ne pensate?" chiede Zdanov guardandolo fisso. Secchia esita un attimo e decide. Cosa ne pensa lui? Glielo dice subito cosa ne pensa, quante volte è intervenuto invano in Segreteria, in Direzione, in Comitato Centrale per correggere certi orientamenti, rafforzare una linea sempre equivoca, promuovere iniziative più audaci, per le quali certamente esistevano in Italia ma esistono ancora forze disponibili, e possibilità di successo. Zdanov lo ascolta attento, aggrottando la fronte e poi, alla fine, gli chiede: "Perché non mettete per iscritto queste opinioni? Dopo potremmo parlarne con più calma".
Secchia si ritira nella dacia che gli è stata assegnata nell'immediata periferia della città tra boschi fitti di betulle. Lì, nello studio a pianterreno, davanti a un grande quadro che ritrae Lenin sorridente seduto a fianco di Stalin, butta giù il suo rapporto sulla base anche di alcuni appunti che si è portato da Roma. (19)
Il rapporto in realtà non sembra proprio buttato giù in fretta; ha l'aria al contrario d'essere stato lungamente meditato, non per nascondere o sfumare le divergenze esistenti nel Pci, ma al contrario per renderle più esplicite e chiedere un arbitrato. E non ci voleva certo una grandissima perspicacia e conoscenza della situazione italiana (Zdanov e Stalin, comunque, l'avevano) per capire che, dietro gli innominati compagni che persino in occasione della cacciata dei comunisti dal governo avevano voluto procedere con eccessivo rispetto della legalità, c'era Togliatti, il segretario del partito. Secchia non ne fa il nome, ma ne cita quasi testualmente le parole e le posizioni: "Ci sono dei compagni" scrive "che osservano che De Gasperi avrebbe avuto piacere se noi, nel momento in cui stavamo per essere esclusi dal governo, avessimo organizzato lo sciopero generale, perché così avrebbe potuto dimostrare che noi ci ponevamo sul terreno extralegale, sul terreno della violenza, abbandonavamo il terreno della democrazia parlamentare. Ma noi riteniamo non esatto questo giudizio perché non si trattava già di dare la parola d'ordine dell'insurrezione, ma di organizzare una grande mobilitazione di popolo, prima ancora che fossimo esclusi dal governo. Dal non fare nulla a fare l'insurrezione ci corre" conclude Secchia con una frase che ha già ripetuto più volte, ma senza successo, nei suoi incontri con Togliatti e nei suoi interventi in Direzione. Spera ora rivolgendosi ai compagni sovietici di avere più successo: "Le proteste a mezzo della stampa e dei comizi servono a poco". "Nonostante le difficoltà" scrive Secchia "ritengo che non avremmo dovuto lasciarci estromettere dal governo senza impegnare una forte lotta di massa, anche se forse sarebbe stata una battaglia persa. Con ogni probabilità anzi sarebbe stata una battaglia persa, ma vi sono delle battaglie che occorre combattere anche se si sa di perdere immediatamente. Esse servono per il domani. In ogni caso ritengo che si perda di più ogni volta che si cedono posizioni importanti senza dar battaglia..."
E viene qui l'elenco delle posizioni perdute senza dar battaglia e un'analisi dello sviluppo della situazione italiana dal momento della "fase alta dell'ondata rivoluzionaria, tra l'aprile e l'ottobre del 1945" al suo declino fino alla cacciata dei partiti popolari dal governo. Anche per nostri errori, conclude Secchia, si sono rafforzate le posizioni del capitalismo in Italia e "il nostro errore, sta nel fatto che troppo spesso ci siamo lasciati dominare dalle minacce della guerra civile e dell'intervento straniero, dal pericolo della rottura..." (È questo, egli lo sa perfettamente, come lo sanno i sovietici, l'errore, o meglio il profondo convincimento di Togliatti, l'ammonimento ricorrente in tutti i suoi discorsi, in tutte le sue prese di posizione.) Lo stesso errore viene commesso, secondo Secchia, nel sindacato "dove i democristiani minacciano a ogni piè sospinto la scissione, ostacolano e, talvolta, impediscono lo sviluppo delle lotte perché noi, per evitare la rottura, veniamo al compromesso, ci rinunciamo". (E questa volta l'obiettivo della polemica è Di Vittorio cui i sovietici guardano con sospetto fin dal 1939 quando si era permesso di criticare il patto russo-tedesco.)
Adesso, comunque, che fare? Secchia riferisce a Zdanov dei successi già conseguiti dopo la "rettifica" e le critiche del Cominform: "Recentemente sono state combattute delle forti lotte, potremmo dire le prime grandi lotte dopo la liberazione del paese... Poiché dopo l'esclusione dal governo dei comunisti e dei socialisti i fascisti hanno rialzato la testa e si sono dati ad assalire le sedi comuniste senza che De Gasperi e Scelba applicassero l'articolo 17 del trattato di pace che interdice ogni attività fascista, i lavoratori hanno assunto direttamente la difesa delle loro sedi e a Torino, Milano, Varese, Venezia, nelle Puglie, in Sardegna e in Sicilia vi sono state grandiose manifestazioni di protesta. Non solo, ma i lavoratori hanno risposto assaltando i covi delle organizzazioni fasciste e monarchiche".
Dunque un miglioramento c'è, riferisce Secchia, con un più elevato livello delle lotte e il coinvolgimento di qualche pezzo di partito illegale o paralegale, ma ciò richiede una più attenta messa a punto della prospettiva. Viene qui la parte più interessante e delicata della relazione. E anche qui Secchia alterna il plurale al singolare in modo che non è affatto chiaro quando parli a nome di tutta la Segreteria e la Direzione del Pci e quando parli invece solo a titolo personale, quando parla cioè anche a nome di Togliatti e quando parla in polemica con Togliatti.
Riferisce certamente un'opinione comune quando afferma di non vedere la possibilità di un ritorno al governo in breve tempo ed esprime senza dubbio una preoccupazione di tutto il gruppo dirigente quando chiede di saperne qualcosa di più a proposito della situazione internazionale: "La prospettiva di una terza guerra mondiale è da considerarsi come una prospettiva reale e imminente? o invece la tensione verrà attenuandosi attraverso accordi sia pure temporanei con l'imperialismo?".
Ma certamente parla a titolo personale e in polemica con Togliatti quando avverte di non "potersi fidare soltanto sullo sviluppo e le progressive vittorie elettorali. Avendo il governo nelle loro mani, le elezioni ce le prepareranno sempre in modo tale da impedirci successi decisivi..." Cosa fare dunque? Io non propongo, dice Secchia, di "cambiare la nostra prospettiva o di lavorare con due prospettive, ma non dobbiamo illuderci, dobbiamo avere coscienza che questa lotta diventa sempre più difficile... Dobbiamo orientarci verso lotte più ampie, più dure, più decise", senza escludere la possibilità di "essere impegnati nel prossimo avvenire in una lotta diversa da quella legalitaria, in una lotta violenta contro i gruppi reazionari, ricordando che perché tale lotta possa avere successo dovrà essere condotta con ampie azioni unitarie..." E infine, conclude, "oggi la situazione italiana è tale che, a mio modo di vedere, possiamo ancora prendere l'offensiva, vi sono le forze per farlo e, se il nemico cercasse di sbarrarci la strada con la violenza, tuttavia noi disponiamo ancora di un potenziale di forza tale che saremmo in grado di spezzare ogni loro violenza e di portare i lavoratori italiani al successo decisivo".
Secchia scrive il rapporto e lo consegna. Quindi si mette ad aspettare. La dacia è tiepida, accogliente con i suoi solidi mobili di legno scuro, i centrini bianchi irrigiditi dall'amido sugli schienali delle poltrone, le tende ricamate alle finestre doppie oltre le quali non si vedono che neve e abeti. Il telefono è muto. A tenergli compagnia, nelle ore dei pasti, viene Sceveliaghin che parla un italiano dolce, cantilenante. Ed è Sceveliaghin ad annunciargli, il terzo giorno, che Stalin in persona ha letto il rapporto e lo aspetta al Cremlino per discuterne.
Alla riunione partecipano Stalin, Zdanov, Beria e Molotov. Dall'altra parte Pietro Secchia, solo. Si discute a lungo.
Di quell'incontro ci resta un appunto di poche righe dello stesso Secchia: "Giuseppe mi disse: "Voi la vostra situazione certo la conoscete meglio di me e siete voi che avete gli elementi per giudicare". "Non espresse un'opinione; meglio su un solo punto si espresse; naturalmente con riserva". In una nota successiva è più preciso: "Si discusse. Obiezioni: oggi non è possibile. Ma si tratta di questo, non si tratta di porre il problema dell'insurrezione, ma di condurre lotte economiche e politiche più decise, con maggiore ampiezza. Ma, mi si disse, nella sostanza ciò che dici porterebbe inevitabilmente a quello sbocco. Oggi non si può. Dovete però rafforzarvi, prepararvi bene, etc."
Dunque Stalin non offre a Secchia la copertura totale che egli forse si aspettava e dimostra di condividere, nonostante le critiche espresse dal Cominform., la linea adottata da Togliatti. Ma tutto è un po' vago, e le parole dello zio Giuseppe possono pur prestarsi a interpretazioni diverse. È certo che Mosca chiede di forzare la situazione, pur senza giungere al limite di rottura; chiede di fare dell'Italia, come di tutta l'Europa Occidentale, un baluardo contro il pericolo di una nuova aggressione all'Urss, ma senza settarismi, coinvolgendo in questa lotta anche socialisti, cattolici, senza partito. Quella che Mosca vuole è una linea morbida e rigida insieme, di grande apertura propagandistica ma senza nessuna concessione di principio, una mobilitazione ampia di masse ma una direzione fermamente nelle mani dei comunisti. Questo per adesso. Dopo si vedrà; nessuno può sapere, nemmeno Stalin, quando sarà questo dopo. Togliatti e Secchia quindi devono lavorare assieme, fianco a fianco. Mosca terrà l'occhio vigile su ambedue.
Secchia esce da questo colloquio emozionato e deciso. Sulla strada di Roma si ferma a Belgrado e lì, in un colloquio con Kardely, memore di quel "oggi non si può" con cui Stalin ha rinviato tutta la faccenda dice con invidia al suo commensale jugoslavo: "Eh, certo beati voi, che siete stati liberati dalle armate sovietiche!". Gilas lo interrompe bruscamente: "Macché armate sovietiche!". Per impedirgli di continuare Kardely gli tira la manica della giacca. E Secchia capì soltanto sei mesi dopo il significato pieno di quella frase di Gilas. (20)
Zio Giuseppe ha parlato. Adesso sta ai nipotini tradurre in pratica i suoi orientamenti: niente rivoluzione, oggi non si può, ma lotte più avanzate sì e, soprattutto, "prepararsi bene" senza tuttavia passare il segno oltre il quale non sia possibile che lo sbocco insurrezionale.
Il messaggio di Mosca viene tradotto in italiano da Togliatti al VI Congresso del partito che si apre il 4 gennaio 1948 a Milano. Il rapporto è fortemente autocritico "risente delle critiche che gli sono venute dal di fuori" commenta soddisfatto Secchia, mette in guardia contro le "illusioni costituzionali" e avverte: "Seguiamo una linea democratica, ma non ci lasceremo sorprendere da nessuna provocazione, da nessun piano reazionario. Abbiamo dietro di noi l'esperienza della guerra partigiana". Non occorreva dire di più per farsi capire bene, in quel momento e da quei delegati.
Il rappresentante sovietico e quelli delle "democrazie progressive" ascoltano compiaciuti il discorso di Togliatti che di fatto rinuncia a quella ricerca di una "via italiana al socialismo", che era il connotato originale del Pci del dopoguerra.
Il Congresso si svolge quasi alla vigilia delle elezioni politiche del 18 aprile e, alla luce degli avvenimenti successivi, stupisce non poco che l'ungherese Rajk, ministro degli Interni a Budapest, spiegasse una sera, a cena, a Secchia che quelle elezioni avrebbero potuto essere per il Pci una buona occasione per conquistare il potere. Può darsi che Rajk non si rendesse ben conto delle notevoli differenze esistenti tra Roma e Budapest (dove "il segretario del partito dei contadini," raccontava soddisfatto lo stesso Rajk "è iscritto al partito comunista"); ma sorge il dubbio che anche Secchia, e con lui altri dirigenti comunisti italiani, non ne fossero del tutto consapevoli.
Il Congresso ha una coda assai singolare. Il nuovo Comitato Centrale, nella sua prima seduta, elegge come d'uso la Direzione del partito, il segretario e il vice segretario. A queste due cariche vengono confermati Togliatti e Longo. Ma la decisione provoca proteste di Secchia e un tale disappunto a Mosca che Togliatti viene obbligato a correre subito ai ripari. Senza nemmeno attendere, come sarebbe stato logico e opportuno, una nuova riunione del Comitato Centrale, Togliatti scrive una lettera a tutti i membri del C.C. perché acconsentano, per iscritto, alla immediata elezione di Secchia alla carica di vicesegretario, a fianco di Longo. Anche in tempi come quelli, così rispettosi della disciplina, alcuni membri del Comitato Centrale non poterono fare a meno di notare la stranezza della procedura. Comunque, tutti risposero a stretto giro di posta dando il loro assenso e Secchia, da allora, fu vicesegretario alla pari con Longo. (21)
Alle elezioni previste per il 18 aprile comunisti e socialisti partecipano assieme, con liste uniche all'insegna del Fronte Democratico Popolare, una formazione alla quale aderiscono anche gruppi minori, come la Democrazia del Lavoro, il Partito Cristiano Sociale e frange di socialdemocratici e repubblicani. Ma non saranno certo questi gruppi minori a dare il tono alla campagna elettorale che conoscerà, anche al di là della volontà dei suoi promotori, toni assai aspri, da vigilia di guerra civile. Comunisti socialisti e azionisti, alle elezioni del 1946, avevano ricevuto complessivamente il 42% dei voti e le elezioni amministrative svolte si nel 1947 davano atto dovunque di una forte avanzata delle sinistre. Un successo della sinistra, quindi era possibile; un equilibrio tra i due maggiori schieramenti era sicuro.
L'ottimismo pervade tutte le dichiarazioni ufficiali: da Togliatti a Nenni giù giù fino all'ultimo segretario di federazione comunista o socialista, tutti esprimono con crescente sicurezza la loro fiducia nella vittoria del Fronte. Lo slogan sotto il quale si svolgono le ultime battute della campagna elettorale " Vota Fronte, il Fronte vince" per molti suona esaltante, per molti angoscioso. È probabilmente un errore clamoroso dal punto di vista propagandistico, ma è probabile che anche una propaganda meno aggressiva non avrebbe cambiato di molto l'esito delle elezioni. Ben altri sono i motivi che spingono il 50% degli italiani (per la precisione il i 48.5) a votare per lo scudo crociato.
I fatti di Praga, dove nel febbraio il partito comunista ha risolto una crisi di governo facendo scendere gli operai in piazza e assumendo il potere, tolgono credibilità alle affermazioni legalitarie di Togliatti, caricano di drammaticità tutta la campagna elettorale che non si configura più come una normale scelta tra partiti e programmi diversi, ma come un avventuroso testa o croce che deciderà se il paese sarà governato da una dittatura "socialcomunista" o da un regime democratico. (22)
Sicuri della loro vittoria o per lo meno di un esito di sostanziale equilibrio tra il Fronte e la Dc, i dirigenti comunisti sembrano preoccuparsi delle possibili conseguenze: rispetteranno i democristiani l'esito del voto, o non ricorreranno, appena questo si profili, al colpo di Stato sostenuto dagli americani?
Curiosamente, dalla parte opposta si nutrono le stesse preoccupazioni. Il ministro dell'Interno dell'epoca, il democristiano Mario Scelba, ha proceduto pochi mesi prima delle elezioni a un massiccio rafforzamento delle forze di polizia, con l'arruolamento di ventimila tra ufficiali, sottufficiali e agenti di polizia, tutti scelti tra famiglie che non abbiano nemmeno il più lontano contatto con comunisti e socialisti. La Dc teme che, sulla scia di un successo non impossibile o per la delusione di un successo sperato e non raggiunto, comunisti e socialisti possano far ricorso a un tentativo insurrezionale, per il quale, secondo Scelba, non mancano né armi né uomini.
"Per questo" racconta lo stesso ministro degli Interni "l'intero paese era stato diviso in una serie di grosse circoscrizioni ognuna delle quali comprendeva varie province e alla loro testa era stato designato in maniera riservata, per un eventuale momento di emergenza, una specie di prefetto regionale che non sempre era il prefetto più anziano o quello della città più importante perché in alcuni casi era invece il questore o un altro uomo di sicura energia e di mia assoluta fiducia... Pensando che la prima mossa dei promotori di un eventuale colpo di Stato sarebbe stata di impadronirsi delle centrali telefoniche e delle stazioni radio, avevamo organizzato un sistema di comunicazioni alternative, servendoci come punti d'appoggio di un certo numero di navi italiane e alleate presenti nel Mediterraneo. (23)
I comunisti conoscono o sospettano queste misure e preparano un loro contropiano.
Da quando è tornato da Mosca, con quel consiglio in testa "oggi non si può... ma dovete rafforzarvi, prepararvi bene.." Secchia ha moltiplicato sforzi e attività perché il partito non si faccia cogliere impreparato da un eventuale tentativo dell'avversario. La cosiddetta Commissione di Vigilanza, di cui è viceresponsabile Nino Seniga, occupa i mesi della campagna elettorale cercando e mettendo a punto sempre nuovi recapiti clandestini, rafforzando e rendendo più sicuri i collegamenti con gli ex partigiani e i contatti con i gruppi assai esigui di amici e simpatizzanti nell'esercito e nelle forze dell'ordine. Collegamenti, parole d'ordine, sistemi di comunicazione fanno capo a Nino e a quei militanti sicurissimi che lavorano con Secchia, da Fedeli a Lampredi a Cicalini allo stesso fratello di Pietro, Matteo, che mantiene anche costanti rapporti con l'ambasciata sovietica. La ricerca di recapiti clandestini diviene in quei mesi che precedono il18 aprile, affannosa. Appartamenti, ville e casali vengono acquistati, altri vengono affittati per conto del partito da prestanome assolutamente insospettabili (generalmente professionisti che non risultavano iscritti al Pci), altri infine vengono messi a disposizione (per casi di emergenza) da ignare zie, nonne, cugine, di fedeli militanti appartenenti alla buona borghesia romana e milanese. Di tutti questi appartamenti e recapiti, di città e di campagna, acquistati affittati o a disposizione, Nino Seniga ha una pianta dettagliata, nome del proprietario, indirizzo, telefono. Ed è lui, con gli altri compagni della Vigilanza, a decidere dove dovranno rifugiarsi, nei giorni del pericolo, i dirigenti più autorevoli del partito.
Va a finire che Togliatti - che in verità detesta questi spostamenti - è costretto a dormire per alcune notti in una stanzetta dell'Istituto Eastmann, in Viale della Regina, una stanza cui poteva avere accesso solo uno dei medici di servizio. Non dormono a casa loro, naturalmente, nemmeno Secchia, né Longo né Scoccimarro, né D'Onofrio. Non dormono a casa loro i segretari regionali e provinciali. I membri della Direzione hanno avuto tempestivamente assegnato un recapito dove, qualunque cosa fosse accaduta, sarebbero stati al sicuro e assieme al recapito avevano ricevuto documenti falsi e una somma di danaro, una somma assai alta, sufficiente per uscire dal paese se necessario o, se necessario, per rimanervi in condizioni di illegalità. I documenti più importanti del partito erano già stati messi in salvo per tempo.
Misure analoghe vengono prese, alla vigilia del 18 aprile, soprattutto nel Nord. I capi delle brigate partigiane che si sono sciolte solo tre anni prima, riprendono contatto con i loro uomini. Quello che si prepara può essere un nuovo 25 Aprile; la consegna è di tenersi pronti ad ogni evenienza. E gli uomini dissotterrano le armi, le preparano e, in molte zone addirittura, tornano ad ostentarle in segno di prematura vittoria o minaccia.
La sconfitta del 18 aprile è durissima. La Dc raccoglie la maggioranza dei seggi, e il Fronte Democratico Popolare, dietro la bonaria faccia di Garibaldi, raccoglie soltanto il 31 % dei voti rispetto al 42% che hanno ottenuto, solo due anni prima, comunisti socialisti ed azionisti. L'esito elettorale spiazza ogni velleità di ricorso alla violenza dall'una come dall'altra parte. È limpido e irrevocabile per i cinque anni a venire.
Ma una sconfitta così secca, per non trasformarsi in una disfatta delle coscienze, si deve nutrire dell'illusione dei "brogli" dell'avversario (che ci furono, ma non furono certo decisivi) e dell'irrigidirsi e allontanarsi della prospettiva della vittoria ad una mitica ora X, alla quale occorre, per dirla con lo zio Giuseppe, "prepararsi bene". Se "oggi non si può" né con la scheda né con le armi è ben possibile che "si possa" domani, quando la inevitabile crisi economica inevitabilmente porterà al crollo o allo scoppio di una nuova guerra mondiale. Contraddizioni e crisi del capitalismo, inasprirsi della situazione internazionale, scoppio di una nuova guerra, trasformazione di questa guerra nella insurrezione: ecco i pezzi che i comunisti mettono in fila come nel gioco del domino con l'ingenua certezza di chi sa che alla notte segue il giorno, ma con l'impegno di chi sa che quel giorno - ancorché sicuro - va in qualche modo preparato, sollecitato, come del resto la levatrice sollecita il bimbo a nascere.
Questa prospettiva viene avallata da Togliatti che, il 10 luglio, parlando alla Camera minaccia: "Alla guerra imperialista si risponde oggi con la rivolta, con l'insurrezione per la difesa della pace, dell'indipendenza, dell'avvenire del proprio paese". E' un linguaggio che non gli è usuale. Ma se Togliatti fa affermazioni così tese, è perché in qualche modo, dopo la sconfitta del 18 aprile, intende ridare animo al partito, anche e forse soprattutto a quella parte del partito che attende da anni il momento magico della chiamata a raccolta per la spallata decisiva. A Togliatti risponde immediatamente un dirigente socialdemocratico, Carlo Andreoni, invocando una sorta di "guerra preventiva" contro il Pci.
"Per quanto ci riguarda" scrive Andreoni sul quotidiano socialdemocratico "dinanzi a queste prospettive e alla jattanza con la quale il russo Togliatti parla di rivolta, ci limitiamo ad esprimere l'augurio, la certezza che, se queste ore tragiche dovessero veramente suonare per il nostro popolo, prima che i comunisti possano consumare per intero il loro tradimento, prima che armate straniere possano giungere sul nostro suolo, il governo della Repubblica e la maggioranza degli italiani avranno il coraggio, l'energia, la decisione sufficienti per inchiodare al muro del tradimento Togliatti e i suoi complici. E per inchiodarveli non metaforicamente."
Il giorno dopo, il 14 luglio, quando Togliatti, assieme a Nilde Jotti, esce da Montecitorio dalla porticina laterale di Via della Missione, un giovane, Antonio Pallante, gli spara tre colpi di rivoltella. Mentre il segretario del Pci si accascia sul selciato, ferito, la lotti si getta su di lui, gridando, a coprirlo. Pallante fugge, ma dopo poche decine di metri, all'angolo con Piazza della Maddalena, viene arrestato.
Non occorre nessuna direttiva; prima ancora che la radio, alle ore 13, dia la notizia dell'attentato, Roma è già scesa in sciopero e in piazza. Nel pomeriggio, in tutta Italia si hanno manifestazioni e scontri con la polizia, scontri che assumono, in alcune località del Nord, carattere apertamente insurrezionale.
Alle ore 18 il prefetto di Livorno telegrafa al ministro degli Interni: "Primi automezzi usciti per pattugliamento fatti segno reiterati colpi di arma da fuoco, cui agenti hanno risposto. Due negozi di armi svaligiati...". Da Genova telegrafa il prefetto Antonucci: "Alla massa operaia propriamente detta si sono aggiunti numerosi ex partigiani garibaldini e folti gruppi teppisti armati che si sono dati ad atti di violenza in punti diversi della città immobilizzando vetture tramviarie e macchine, stabilendo posti blocco, aggredendo e disarmando tutti militari arma et guardie di sicurezza, incontrati isolati... Colonna di cinque autoblinde della polizia assalita da forze soverchianti et catturata Piazza De Ferrari. Sono altresì piazzate armi automatiche sul ponte monumentale et su diversi tetti caseggiati Via XX Settembre, in Piazza De Ferrari e mercato del pesce per dominare da qui la caserma guardia finanza rimasta così assediata". A Torino scatta subito l'occupazione delle fabbriche; a Varese un "gruppo facinorosi tumultuanti) circa 2000 persone, recavansi locale carcere giudiziario assaltandolo scopo liberare detenuti Colombo Arcisifredo e Galli Carlo, ambedue comunisti precedentemente condannati per detenzione armi. Tagliati i fili telefonici esterni, sfondate porte carceri e travolti reparti di polizia riuscivano a liberare i due detenuti". In quasi tutte le città si hanno scontri pesanti con la polizia, invasioni e distruzioni di sedi della Dc e del Psdi. A Genova, nel giro di poche ore, il tono della protesta assume connotati pre-insurrezionali. "Nel corso della nottata" telegrafa il prefetto all'alba del 15 luglio "casermetta guardie Ps di Bolzaneto è stata ripetutamente attaccata da facinorosi armati." A Torino, mentre Valletta è praticamente sequestrato alla Fiat occupata "una cinquantina di persone armate di pistole et moschetti circondavano batteria artiglieria sita in località San Francesco et obbligavano armata manu maresciallo at consegnare armi dotazione..." A Venezia i manifestanti occupavano l'arsenale (24).
Mentre Togliatti, pochi minuti dopo l'attentato viene portato al Policlinico e affidato alle cure di Valdoni per un intervento operatorio che avrà esito felice (25) il Pci resta affidato nelle mani di Longo e Secchia che ne sono i vicesegretari.
La prova è drammatica: il moto di protesta sta assumendo spontaneamente carattere insurrezionale. Come guidarlo? Fin dove spingerlo? La prima riunione della Direzione del partito si svolge al secondo piano delle Botteghe Oscure un'ora dopo la fine dell'intervento cui Togliatti è stato sottoposto e mentre già in tutta Italia le piazze si riempiono di operai in sciopero, di gruppi armati, di bandiere rosse.
Celeste Negarville, arrivato da Torino "sostiene la necessità di un chiaro atteggiamento che sanzioni ed esalti il carattere legittimo, umanamente spontaneo della protesta, ma ne smorzi o almeno non incentivi le intemperanze ingovernabili". Longo, Sereni e Terracini oppongono a questa linea non un'alternativa, ma un dubbio, un'incognita: "Come si comporterà il governo oppure il suo ministro di polizia, oppure i prefetti, già fascisti e ora repubblicani, i questori reintegrati nelle funzioni dopo gli scandali ai processi tolleranti del loro passato collaborazionista?" (26). Mentre il governo, riunito a Montecitorio, manda a Botteghe Oscure un messaggio per metà rassicurante e per metà minaccioso (si escludono le dimissioni di Scelba, ma si escludono anche misure eccezionali, a nessuno conviene cavalcare la tigre del disordine), Secchia manda il fratello Matteo a consultare qualcuno all'ambasciata sovietica, a porre la stessa domanda che è già stata proposta nel dicembre scorso a Stalin. Si può, ora? La risposta è la stessa che venne data allora: "Oggi non si può". Così, quando l'Unità chiede le "dimissioni del governo della discordia e della fame, del governo della guerra civile", Secchia, Longo e gli altri dirigenti del Pci sanno già bene che questo è l'obiettivo massimo che si può proporre la protesta popolare. Nulla di più. Ma la base del Pci, i partigiani che tirano fuori le armi, gli operai che se le conquistano, a Genova a Livorno a La Spezia a Venezia negli scontri con la polizia e negli assalti alle caserme, non lo sanno ancora. Pensano, sperano che questa sia finalmente la volta buona, che il 14 luglio possa essere concretamente la rivincita sul 18 aprile. "Il 18 aprile ci siamo contati, oggi ci pesiamo", grida Alberganti alle decine di migliaia di persone accorse in Piazza del Duomo a Milano, e aggiunge: "Questo è uno sciopero che non finisce come gli altri". A Roma migliaia di edili, armati solo dei sanpietrini, che hanno divelto dal selciato di Piazza Colonna, gridano a D'Onofrio, segretario della federazione romana: "Edo, dacce er via... ". Ma Edo sa che "er via" non lo può dare.
Il 14 luglio è dunque la prova che la rivoluzione è impossibile. Non solo perché da Mosca qualcuno ha confermato che "oggi non si può", ma anche perché non si può davvero, perché non ce ne sono le condizioni e le forze.
Al di là della leggenda nutrita da una parte della sinistra e, per motivi opposti, da una parte della Dc, è giusto ricordare che una spinta ribellistica di base ci fu certamente, "forte e decisa, ma limitata ad alcune zone circoscritte". Per dirla con lo stesso autore "c'è un'Italia che sciopera ed è una parte forte, numerosa, politicamente cosciente e concentrata, quasi sempre nelle zone più industrializzate. Ma questa realtà è ben lungi dal coprire l'intero spettro della società. C'è una seconda Italia che non sciopera, vuoi per indifferenza, vuoi per convinzione politica, e sono milioni di persone, quasi intere regioni, che non scendono in piazza e però costituiscono quel potenziale di riserva che ha garantito alla Democrazia Cristiana il trionfo del 18 aprile. E questa seconda Italia non è isolata; anzi è strettamente collegata a un terza Italia, l'Italia dell'ordine pubblico, dai prefetti fino al carabiniere del più sperduto paesino di campagna. Anche questa Italia fa sentire il suo peso sociale e politico... Nella bilancia delle forze la seconda e la terza Italia prevalgono sulla prima..."
Il ritorno alla normalità, il 16 luglio, è accompagnato dal permanere di focolai di protesta che si vanno spegnendo mentre la polemica che si è aperta all'interno del sindacato si conclude con la rottura dell'unità e la costituzione di un sindacato cattolico. Lo sciopero non ha ottenuto nemmeno le dimissioni di Scelba.
La rivoluzione dunque è impossibile. Ma resta iscritta nelle ipotesi del movimento operaio e del partito. È impossibile in quel dato momento, spiegherà Secchia in un apposito saggio, perché non preparata adeguatamente né decisa dal partito, non perché sia esclusa, in via di principio, dai suoi obiettivi e dalla sua strategia.
In questo senso il saggio di Secchia è importante perché coglie l'occasione di un fallimento tattico, per confermare e precisare punto per punto una strategia che non si identifica totalmente in quella di Togliatti. Lo fa però citando sia Togliatti che Longo e collocando la prospettiva dell'insurrezione all'interno della linea politica del "partito nuovo", contribuendo così a mantenere viva quell'ambiguità di fondo su obiettivi e metodi di lotta che verrà poi definita "doppiezza".
La "via italiana" che era stata proposta da Togliatti perde ogni specificità e l'impegno dei comunisti viene ricondotto a una linea che prevede parole d'ordine e obiettivi democratici, ma con il sottinteso che tutto ciò deve servire a raccogliere attorno al partito della classe operaia ceti e gruppi sociali diversi in funzione e in preparazione della "spallata finale".
Cosa dice infatti Secchia nella sua analisi dello sciopero del 14 luglio, un testo che verrà attentamente discusso e studiato in centinaia di assemblee di partito?
Egli parte da una affermazione in positivo: "Nella storia del movimento italiano non c'è mai stato uno sciopero generale così spontaneo, così compatto e così esteso come quello del 14-16 luglio 1948", tanto più importante in quanto lo sciopero non è stato in alcun modo preparato, né preceduto da uno specifico lavoro di organizzazione. Dunque la spontaneità e l'ampiezza dello sciopero "al quale hanno partecipato tutte le forze vitali del paese ha dato la prova più schiacciante che la maggioranza carpita dalla Democrazia Cristiana il 18 aprile non rispecchia la volontà del paese, non rappresenta le forze vitali della nazione". (C'è qui un'eco dell'affermazione giacobina di Alberganti per cui "il 18 aprile i voti si sono contati, adesso si pesano".) Subito dopo, Secchia polemizza con coloro, come De Gasperi e Scelba, che "accusano i comunisti di aver voluto fare l'insurrezione e di non esserci riusciti". È questa, ai fini della polemica interna del partito, la parte più interessante dell'analisi. Secchia nega infatti (e ha ragione!) che il partito abbia mai inteso dare allo sciopero uno sbocco insurrezionale. E argomenta: "Per mobilitare e portare alla lotta armata milioni e milioni di uomini, anche quando le circostanze oggettive e soggettive pongono all'ordine del giorno tale necessità, occorre che l'appello alle armi sia lanciato apertamente a tutto il popolo. Orbene, nell'appello lanciato dal partito il 14 luglio non c'è una sola parola che inviti gli operai, i contadini, i lavoratori a prendere le armi". Dunque, è il partito a decidere "quando le circostanze oggettive e soggettive pongono all'ordine del giorno la necessità della lotta armata" e il partito non ha ritenuto che il 14 luglio queste circostanze esistessero. Il giorno in cui queste circostanze si verificheranno il partito non esiterà a "lanciare apertamente al popolo l'appello alle armi" come fece, ricorda Secchia, il 10 aprile del 1945, due settimane prima della liberazione dell'Italia del Nord. "Orbene" insiste Secchia "i manifesti lanciati dal partito e dalla confederazione del lavoro il 14 luglio 1948, hanno tutt'altro carattere. In essi non si chiama il popolo alle armi, in essi non si parla di sciopero insurrezionale, in essi non si invitano i cittadini ad armarsi disarmando il nemico, in essi non si dice di occupare gli edifici pubblici, le ferrovie, la radio, le centrali telefoniche, le caserme, i campi di aviazione. Nulla di tutto questo..." (27)
Secchia ha ragione. Nulla di tutto questo fu detto dal Pci il 14 di luglio. Ma si legge in queste sue pagine di critica e di polemica, quasi il preannuncio del giorno, più o meno lontano, in cui il partito lancerà questo appello, del giorno cioè in cui verrà detto chiaramente di "armarsi disarmando il nemico, di occupare gli edifici pubblici, le ferrovie, la radio, le centrali telefoniche, le caserme, i campi di aviazione". Viene bandito così quel sentimento segreto, diffuso in gran parte del partito, che alimenta il sogno della Rivoluzione, della grande giornata di gloria che vedrà finalmente, con l'assalto al Palazzo d'Inverno, la vittoria della classe operaia e del suo partito. Basta aspettare, aspettare che il partito "ce dia er via", a tenersi pronti.
Tenersi pronti, come? Anche a questa risposta provvede Secchia nel suo opuscolo esemplare. Lo sciopero del 14 luglio è stato soltanto una prima "grande prova di unità, di coscienza di classe e di coscienza nazionale" altre ce ne saranno. E a queste bisogna prepararsi. L'analisi critica di come è stato diretto lo sciopero del 14 luglio diventa così direttiva per il futuro. Dovunque bisognerà costituire "comitati di agitazione" o "comitati di sciopero" che siano espressione unitaria di tutte le masse in lotta; dovunque bisogna rendere attivi gli organismi di massa (anche tenendo presente che "la funzione dirigente del partito è della massima importanza). Bisogna saper mobilitare, nel corso delle lotte economiche sociali e politiche che si affronteranno, non solo i sindacati, ma le Consulte popolari, l'Udi, il Fronte della Gioventù. Bisogna inventare nuovi organismi nei quali si esprima "l'adesione e la simpatia attiva di altri strati della popolazione nei confronti della classe operaia". Bisogna prestare la massima attenzione alle forme e agli strumenti della propaganda: volantini, manifesti, bollettini. Bisogna superare con un'organizzazione adeguata le difficoltà di comunicazione e di collegamento che, nel corso di una lotta, possono determinarsi tra gli organi provinciali (federazione del Pci, Camera del Lavoro) e le organizzazioni periferiche. Quindi bisogna disporre, come durante la guerra partigiana, di un servizio di staffette e realizzare un decentramento che consenta ai quadri migliori di essere presenti, tempestivamente, dovunque.
Il partito fa tesoro di quest'analisi e di queste indicazioni. Quello che centinaia di migliaia di comunisti colgono, nettamente, è che il clima è cambiato, che ci si trova - dopo il 18 aprile e il 14 luglio - in una situazione nuova, di più tesa ed aspra lotta di classe e che questa lotta di classe tenderà ad inasprirsi sempre più, per responsabilità del governo e della Dc (che viene definita nel saggio di Secchia "il partito nero totalitario"), e per l'intervento dell'imperialismo americano.
Il partito esce, afferma Secchia, "rafforzato ideologicamente politicamente e organizzativamente dallo sciopero". Non è del tutto esatto: ne esce anche deluso, almeno in alcune zone dove l'insurrezione era stata posta all'ordine del giorno, Ma ne esce anche deciso a intensificare la vigilanza rivoluzionaria nei confronti di se medesimo. La vigilanza è diventata un compito di tutti, nei confronti di tutti. In primo luogo (e a questo penserà Secchia in prima persona) a tutela della vita dei compagni dirigenti. Una spinta a intensificare questa vigilanza è venuta dal telegramma che Stalin ha mandato il 15 luglio alle Botteghe Oscure con il quale - dopo aver deprecato l'attentato - lamenta che "gli amici del compagno Togliatti non siano riusciti a difenderlo". Ambrogio Donini commenta il telegramma sull'Unità, invitando a trarne tutte le conseguenze politiche. Non si tratta soltanto, dice, di aumentare gli uomini di scorta per Togliatti e per gli altri dirigenti del partito, si tratta piuttosto di "riflettere molto seriamente sull'intera situazione politica interna e internazionale" che rivela con chiarezza che "le condizioni della lotta di classe si fanno più aspre ". Vanno messe al bando quindi tutte le illusioni "costituzionaliste" che fanno perdere di vista il "vero volto" della democrazia borghese, "dittatura di una minoranza avida e rapace ai danni dell'immensa maggioranza". (28)
E, dunque, un tentativo di fare piazza pulita di tutta la precedente elaborazione togliattiana, già messa a dura prova dall'insuccesso del 18 aprile; è un ritorno indietro, a una concezione frontale dello scontro di classe, cui dà l'avallo, sotto la forma innocua di un telegramma, l'intervento sovietico. Già Zdanov aveva criticato a Szklarska Poreba le "illusioni parlamentari" dei comunisti italiani; ora essi hanno un ulteriore motivo di riflettere e di convincersi della gravità del loro errore.
Se questo è, come è, il senso dello scritto di Donini e del saggio di Secchia, allora può ben dirsi che Togliatti è due volte vittima dell'attentato, che dopo averi o colpito fisicamente dà a Secchia e a coloro che ne seguono gli orientamenti l'occasione di una robusta "rettifica", con cui verranno accentuati tutti gli elementi di chiusura e di irrigidimento nella vita interna del partito.
Si apre così, e durerà non poco, una fase nella vita del Pci che per alcuni versi può apparire paradossale. Lo sforzo dei militanti si rivolge tutto alla crescita del partito, alla sua forza organizzativa, alla sua espansione elettorale e alla sua capacità di mobilitazione di massa. Si perfeziona uno stile di lavoro di tipo bolscevico severo e dogmatico che prevede l'attivazione esasperata di tutti gli iscritti, il controllo delle loro opinioni, del loro orientamento, della loro fedeltà in tutti i momenti della vita quotidiana. Ma questo irrigidimento burocratico, vissuto da decine di migliaia di attivisti, con una sorta di religioso trasporto, non impedirà affatto (al contrario!) una coraggiosa apertura verso l'esterno, il collegamento con ceti e gruppi diversi che verranno progressivamente coinvolti in grandi battaglie democratiche. Probabilmente, quelle battaglie erano viste dai quadri dirigenti comunisti essenzialmente come preparazione per qualcosa d'altro di là da venire; ma ciò non toglie che anche in quel modo milioni di uomini e donne vennero coinvolti in quegli anni, per la prima volta, in un esercizio di democrazia prima imprevedibile e sconosciuto.
Ma il partito restava il nocciolo duro, l'asse portante, il motore da cui tutto dipendeva. Ed è il periodo del trionfo dell'organizzazione in quanto tale, e quindi del trionfo di Secchia che dell'organizzazione è signore e maestro assoluto.