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7.

IL 25 LUGLIO DEL COMPAGNO SECCHIA


Sono consapevole della gravità dei miei errori che denotano che ho lavorato con estrema leggerezza. Mi rendo conto che questo significa non saper dirigere. Ringrazio i compagni della Direzione del partito che mi hanno aiutato a scorgere in modo completo e in tutta la loro gravità i miei errori...
(dalla lettera di Pietro Secchia alla Direzione del Pci, 7 gennaio 1955)


Già, dove andremo a finire? Che senso ha, protesta Secchia, parlare della "distruzione della civiltà" in termini tra religioso e umanitario come non esistessero schieramenti di campo, divisioni di classe, l'imperialismo da una parte e dall'altra il socialismo? Secchia è contrario a questa impostazione di Togliatti e ironizza anche sul fatto che egli l'ha annunciata con un'ipocrita: "Compagni, un intervento breve vorrei fare..." "Ma che intervento breve" dice ai suoi intimi "questo è un cambiamento bello e buono della nostra politica! Che facciamo, i predicatori? Gli apostoli? I missionari?" Brontola come sempre e alimenta i brontolii degli altri. E poi, aggiunge Secchia, con quale diritto Togliatti sconvolge, senza essersi consultato con nessuno, l'impostazione precedente? E così che si rispettano i principi della "Direzione collettiva" ai quali tutti formalmente si dichiarano fedeli?
Anche nelle federazioni l'appello ai cattolici di Togliatti provoca discussioni e resistenze, ma la nuova linea viene alla fine approvata da tutti sia pure con qualche strizzata d'occhio. Chi non l'approva invece è il Pcus che con un discorso di Molotov la critica esplicitamente. Ma in Italia di quel discorso giunge solo una pallida eco. L'Unità non ne dà notizia e i comunisti italiani lo ignorano. Non lo ignora però Togliatti anche se si guarda bene dal tenerne conto. O meglio ne tiene conto nel senso che gli appare chiaro che, ancora una volta, nel dibattito interno del Pci, Mosca si schiera con Secchia. Un motivo di più per prepararne la successione.
Bisogna, per questo, far presto. L'andamento dei Congressi provinciali segna infatti qualche smarrimento. A Napoli si registra addirittura un'opposizione di tipo "secchiano". Un giovane, Guido Piegari, biologo di valore, se ne fa portavoce alla vigilia del Congresso, attaccando le più recenti posizioni di Togliatti sui problemi internazionali, irridendo al "meridionalismo del Pci, concessione al salveminismo", sostenendo con vigore la necessità di un "ritorno in fabbrica" luogo privilegiato della lotta di classe e della battaglia comunista. C'è Secchia dietro Piegari? Probabilmente no. Ma l'episodio napoletano suona per Togliatti come un segno del disorientamento e del malessere che c'è nel partito e che potrebbe trovare in Secchia, alla prossima Conferenza di Organizzazione, un definitivo punto di riferimento.
Togliatti decide così di intervenire personalmente al Congresso della Federazione napoletana per ribadire da lì quella linea "democratico-popolare" e meridionali sta di cui Amendola era il più qualificato esponente. Ribadite in quella sede le sue tesi, la sera della conclusione del Congresso va a cena proprio da Amendola che da poco si era installato in una nuova casa al Vomero, con una terrazza dalla quale si godeva una vista eccezionale, da Punta Campanella ad Ischia.
La sera è tiepida, piena di profumi; Germaine, mentre porta in tavola la cena invita Togliatti, nel suo italiano pieno di inflessioni francesi, a tralasciare per un attimo i discorsi politici e ad ammirare il paesaggio. Togliatti dà un'occhiata distratta al mare, poi, rivolto a Germaine scherza: "State attenti a non affezionarvi troppo a questa casa; nel nostro mestiere bisogna essere pronti a fare le valigie". La povera Germaine che "questo mestiere" lo conosce da tempo, rimane di sasso, ma non chiede spiegazioni. La sera però, riferendo il colloquio a Giorgio commenta: "Per fortuna non ho ancora messo le tendine... Mi sembra chiaro che ce ne dobbiamo andare via". (40)
L'andar via significava, era chiaro, andare a Roma. A far cosa? Qualche idea o meglio qualche ambizione Amendola l'aveva, ma non ne aveva parlato con nessuno, né con Germaine, né con i compagni che gli erano più vicini, come Pajetta o Alicata. La conferma del cambiamento che era una grossa promozione per lui, ma il segno di un arretramento per un altro gli giunge un paio di settimane dopo quando, a Roma, Togliatti gli annuncia, con aria sbrigativa, che avrebbe dovuto occuparsi della preparazione della Conferenza di Organizzazione. La proposta era sorprendente anche se andava nella direzione sperata da Amendola. La responsabilità della Conferenza infatti spettava a pieno titolo a Secchia e a lui soltanto. Ad Amendola che gli fa quest'osservazione, Togliatti replica: "Secchia è d'accordo e ti aiuterà".
Secchia in realtà non era affatto d'accordo. La decisione di Togliatti era giunta sotto forma di una proposta, un po' ambigua, alla fine di una riunione di Direzione nella quale si discuteva di altro. "A proposito" propose Togliatti raccogliendo le carte sparse sul tavolo "sarebbe bene che al prossimo Comitato Centrale fosse qualche altro a riferire sull'andamento dei Congressi provinciali. Che ne diresti di Amendola?" Lì per lì Secchia non ebbe la forza di opporsi. Gli sembrò quasi di non aver capito bene, o forse sì, aveva capito: era il solito modo un po' subdolo di Togliatti di dire e non dire, di scavare il terreno sotto i piedi all'avversario. Ma, d'altra parte, Secchia si sentiva sicuro di sé: era lui il titolare della Commissione d'Organizzazione, era lui il vicesegretario. Se Amendola avesse fatto il prossimo rapporto al Comitato Centrale questo non sarebbe stato poi così grave; lui, Secchia, avrebbe provveduto a rimettere le cose a posto, se Giorgio si fosse spostato troppo a destra. Alla fine della riunione, Togliatti, proprio sulla porta, gli si avvicinò: "Non te l'hai mica a male, vero?" gli chiese "ho proposto Amendola perché ho avuto l'impressione che tu non avessi troppa voglia di farlo, quel rapporto. E poi, è bene cominciare a incaricare qualche volta anche altri compagni". Secchia assentì.
Strane cose accaddero in quelle prime settimane di giugno al quarto e al quinto piano delle Botteghe Oscure. Un giorno D'Onofrio chiamò Secchia e con fare misterioso lo avvertì che da un attento esame del fascicolo di Seniga risultava che egli aveva avuto, in Svizzera, troppo frequenti contatti con il colonnello Mac Caffery, esponente dei servizi inglesi in Europa. Questi contatti effettivamente, Seniga li aveva avuti, nell'ottobre del 1944, a Berna, ma per incarico del comando delle Brigate Garibaldi. Secchia lo fece notare a D'Onofrio, che non sembrò del tutto rassicurato. La cosa assai singolare era però che di questi contatti con Mac Caffery Seniga non aveva mai fatto mistero. Perché dunque proprio ora D'Onofrio sollevava il problema? Brutto segno, bruttissimo segno.
Seniga, al quale Secchia raccontò subito il colloquio, reagì sbottando in insulti e proteste: "Cristo! D'Onofrio lo sa benissimo che rapporti ho avuto con gli inglesi; loro non ci mandavano le armi di cui avevamo bisogno nell'Ossola e io sono andato a chiederle e protestare per conto di Moscatelli. Non lo sa D'Onofrio che mi sono spezzato le gambe per fare, durante la Resistenza, quello che dovevo fare?". Il giovanotto era furibondo, minacciava di andare lui direttamente a parlare con D'Onofrio e sembrò calmarsi soltanto quando Secchia garantì che su quel dossier e su quei contatti nessuno sarebbe tornato mai più. Ma Seniga continuava a protestare, indignato al sentir mettere in discussione il suo passato: "Cristo! Mentre io facevo il partigiano e rischiavo ogni giorno di prendermi una pallottola in pancia, D'Onofrio e Togliatti se ne stavano sicuri a Mosca e adesso vengono a darci lezioni!". Non era la prima volta che Nino diceva di queste cose, ma ora Secchia si allarmò e sottovoce aggiunse: "Ma tu, queste cose, non le andrai mica a dire fuori di qui?". Seniga alzò le spalle, senza rispondere.
Qualche giorno dopo, invece, fu Seniga ad essere chiamato da qualcuno che gli fece leggere, in gran riservatezza, su un foglio pubblicato dai cosiddetti "magnacucchi", un articolo contenente insinuazioni su presunte singolari abitudini sessuali dello stesso Secchia. Indirettamente, anche Seniga finiva con l'essere oggetto di queste insinuazioni dato che i due vivevano insieme. Questa volta toccò a Seniga di informare Secchia dell'infamia che andava circolando sul suo conto. Il giovanotto era fuor di sé, minacciava di andare a spaccare la faccia non sapeva bene a chi e dove, ma insomma bisognava fare qualcosa, aggiungeva, non si poteva subire questa vergogna. Con sorpresa, Seniga si accorse che Secchia non reagiva con la stessa indignazione, quasi dovesse nascondere qualcosa. Alle insistenze e alle proteste di Nino, finalmente Secchia rispose con una frase amara: "Se è così, è già deciso".
Sembra quasi rassegnato e invece è soltanto dubbioso, incerto sul da farsi. Ma non sono rassegnati Seniga, né gli altri compagni dell'entourage di Secchia, né il fratello Matteo che lo incitano a reagire. "Se Togliatti ti vuol far fuori," dicono "tu devi passare al contrattacco e puoi farlo. Il partito conosce te e ti seguirà."
Ma Secchia o perché sottovaluta il pericolo o perché orientato a prender tempo e dare battaglia alla ormai prossima Conferenza Nazionale, in quelle settimane non reagisce.
Aspettare dunque. E per questo suggerisce ai suoi e a se medesimo la prudenza, virtù preziosissima per l'uomo politico. In primo luogo, quindi, fare buon viso a cattivo gioco, accogliere fraternamente Giorgio Amendola quando arriva al quarto piano, con la sua figura ingombrante, la faccia gioviale, la voce prepotente. Tutto sommato, pensa Secchia, Giorgio è incaricato soltanto di preparare un rapporto per il Comitato Centrale, sulla base di un lavoro già fatto, di congressi già svolti, di documenti già approvati. La situazione, ammetterà lo stesso Amendola, era un po' anomala, ma "la collaborazione di Secchia fu molto fraterna e non reticente, anche se io avvertivo un certo imbarazzo degli altri compagni della sezione". (41)
Amendola lavora, per qualche settimana, in una stanza che gli è stata assegnata proprio a fianco di quella di Secchia, legge una montagna di carte, riunisce la Commissione di Organizzazione, discute con i segretari regionali e si conferma nell'idea, che è la sua da tempo, che il partito è malato di un eccesso di burocratismo venato di tendenze settarie, soffre di una tendenza, tipica dei momenti difficili, di richiudersi in se stesso per resistere all'attacco dell'avversario. E decide di dirlo. E lo dirà al Comitato Centrale di metà luglio dove presenta il suo rapporto: il partito, dice Amendola, deve rispondere all'offensiva reazionaria buttandosi "nel sociale", far sue tutte le rivendicazioni di progresso, di civiltà, di miglioramento, organizzare coraggiosamente nel Paese tutti gli scontenti. E la politica che venne definita poi, talvolta con intento spregiativo "dei mille rivoli", una politica nella quale, a detta di Secchia e dei suoi, si smarriva ogni connotato di classe e che rischiava di ridursi a una pratica meramente riformistica.
E Secchia infatti, intervenendo in quel Comitato Centrale lo dice. Lo dice chiaramente, mette in guardia contro il pericolo che si faccia del puro riformismo, che si dimentichi nella molteplicità e nel frammentarsi delle lotte e delle rivendicazioni il senso della lotta per il socialismo che deve restare l'obiettivo del partito. E non si risparmia nemmeno una malevola critica al Togliatti dell'appello ai cattolici: "Va bene" dice "dare attenzione alle iniziative per un'intesa con il mondo cattolico contro l'uso dell'atomica, ma quello che importa adesso di più è respingere l'attacco reazionario in fabbrica..."
Le parti sembrano assegnate in modo ormai esplicito. Lui, Secchia, è l'interprete di una linea dura del Pci, l'altro, Amendola, è il riformista.. Ma l'esito della battaglia è ancora incerto, il copione non è tutto scritto. Secchia sa di aver già perso qualche posizione, ma non è detto ancora che Amendola vinca la battaglia. Nella Commissione di Organizzazione, è composta di segretari regionali e di funzionari di altissimo grado delle Botteghe Oscure, è ancora Secchia ad avere la maggioranza. E la stessa cosa, pensa il vicesegretario del partito, accadrà alla Conferenza di Organizzazione.
Indiscrezioni, supposizioni, preoccupazioni filtrano dal quarto piano delle Botteghe Oscure; il gruppo che vive e lavora con Secchia, che ha creduto in lui sempre, vede profilarsi, con la sua, anche la propria sconfitta. Una sconfitta delle proprie ipotesi, dei propri sogni, delle proprie speranze e il rischio della trasformazione del partito in qualcosa di non più riconoscibile, diverso da quello che si era voluto e preparato in tanti anni. Una vittoria dei "borghesi" contro gli operai, una vittoria degli "opportunisti" contro i rivoluzionari, una vittoria degli "arrivisti" contro i puri. Come poteva sopportarsi tutto questo? Non si poteva, non si poteva. E se Secchia non sapeva o non voleva opporsi apertamente a questa scandalosa manovra, qualcuno dei suoi già aveva messo a punto un piano per agire al suo posto, interpretando o credendo di interpretarne i disegni e i desideri. Pochi giorni dopo la conclusione del Comitato Centrale, Secchia deve partire per Torino dov'è fissato un suo comizio, per celebrare il 25 luglio, la data che ricorda la caduta di Mussolini, nel 1943, e la sua sostituzione con Badoglio. È abitudine di Secchia viaggiare in macchina, accompagnato dall'autista, Adelmo Poggini, e da Seniga. Quel sabato Secchia, il figlio Vladimiro e Seniga pranzano insieme nella casa di Monteverde mentre Adelmo per la strada già sta facendo scaldare il motore dell'Aurelia. "Si va?" chiede Secchia piegando il tovagliolo. Nino allontana il piatto che era rimasto pieno e si tocca lo stomaco. Seniga soffriva da tempo d'ulcera e non c'era medicina che riuscisse a calmargli i dolori quando arrivavano. Pietro lo sapeva. "Cos'è" chiede "lo stomaco?" Nino annuisce. "Beh, va' a dormire" gli consiglia indulgente Secchia "c'è sotto Adelmo. Vado con lui."
Non era la prima volta che Vladimiro e Seniga rimanevano soli in casa. I due si volevano bene. Vladimiro ascoltava incantato le storie di guerra, di partigiani, di tedeschi che l'altro raccontava. A un certo punto, Nino portava la mano alla fondina e diceva: "Allora abbiamo tirato fuori la pistola e..." Il bambino ascoltava ed esultava. I tedeschi morivano tutti, pum pum... I tedeschi che avevano trucidato il suo papà, che avevano ammazzato tanti partigiani. Ed ecco che arrivavano i partigiani con le pistole, i fucili e i tedeschi scappavano o morivano tutti.
Si fece tardi. Faceva caldo. Alba non era a Roma, era andata per qualche settimana in campagna per sottrarsi al caldo della città e per curarsi delle sue tante malattie.
Così quella sera fu Nino a mettere a letto Vladimiro. Il giorno dopo era domenica, e i due rimasero a letto fino a tardi, uno per pigrizia l'altro per quel suo stomaco che continuava a dargli fastidio. Il ragazzo pranzò con un paio di panini, in cucina; l'altro non toccò cibo. Poi all'improvviso Giulio propose di andare al cinema. "Ti va?" Altroché se gli andava, a Vladimiro.
Scesero a Trastevere dove, al Reale, facevano un film con Marilyn Monroe, Come sposare un milionario. Arrivati davanti al cinema Nino cambiò idea: "Ti pago il biglietto e ti lascio anche i soldi. Io proprio non ne ho voglia. Ti torno a riprendere". Si accostò al botteghino, tirò fuori le 220 lire del biglietto, chiese quando sarebbe finito lo spettacolo, accompagnò Vladimiro fino all'ingresso in sala, lo affidò alla maschera. "Ci vediamo dopo" lo salutò.
All'uscita non c'era nessuno ad aspettare Vladimiro.
Il ragazzo aspettò a lungo, poi pensò che qualcosa poteva essere successo (Nino aveva sempre tante cose da fare, e così misteriose! Vladimiro era abituato a non fare troppe domande). A pochi passi dal cinema c'erano dei tassì. Vladimiro aveva soldi abbastanza e si fece portare a casa.
Il giorno dopo, lunedì, Secchia tornò da Torino e trovò Vladimiro in casa, solo. "Dov'è Nino?" chiese. Il ragazzo gli spiegò che non lo sapeva, che non lo vedeva dal giorno prima quando lo aveva accompagnato al cinema e non era tornato a prenderlo. Secchia si rabbuiò in viso, salì al piano di sopra dov'era il suo studio. Quando scese qualche istante dopo barcollava. Anche il ragazzo si accorse che qualcosa doveva essere successo. Ma rimase zitto, al suo posto. Secchia aveva capito di essere stato rovinato.
Dalla cassaforte di Secchia e dalle altre di cui aveva le chiavi e le combinazioni, Giulio Seniga detto Nino, l'uomo di fiducia del vicesegretario e del partito, aveva sottratto in un colpo solo una cifra di cui non si è mai conosciuto l'ammontare preciso (ma superiore al mezzo miliardo di allora) e alcuni documenti riservatissimi. Al posto di quelle carte aveva lasciato una lettera. "...Ho deciso di fare questo passo estremo al solo scopo di contribuire a richiamare alla realtà e a maggior senso di responsabilità coloro che si sono assunti il compito di mettersi alla testa del partito e del movimento operaio... Non credo di aver agito alla leggera, ma sono convinto che ciò servirà a rompere quel costume di conformismo e di omertà politica e morale che tanto danno ha portato... Anche il tuo operato politico e personale non potevo approvarlo."
Secchia leggeva e non capiva bene. Nino era fuggito con i soldi e i documenti. Quanti soldi? Questo andava verificato, diceva a se stesso Secchia. Il tesoro del partito, per ragioni di sicurezza, era stato diviso e depositato in più di un recapito. Ma di tutti Seniga conosceva l'indirizzo, la combinazione della cassaforte. Tra i suoi compiti non c'era stato anche quello di decidere dove e come nascondere quel danaro? Secchia leggeva la lettera, riga dopo riga, cercando di restare calmo, di concentrarsi. "La mia lunga osservazione politica e umana, corroborata da tue considerazioni sulla politica del partito, sul malcostume, l'opportunismo e la paura vigenti nei massimi organismi del partito, hanno radicato in me la convinzione che è pure tua, che il movimento operaio italiano è stato un'altra volta imbarcato sulla strada del fallimento. A differenza di te io non sono convinto che ormai non ci sia più nulla da fare e che si debba quindi restare seduti sulla riva ad aspettare che arrivino i russi..."
Secchia leggeva e sentiva crescere un dolore all'altezza dello sterno, una fitta che si faceva man mano più profonda. Pensò: "forse è l'infarto", e sentì questo dolore come un sollievo. Con un infarto tutto sarebbe finito. Ma non era un infarto, era soltanto un dolore in mezzo al petto, una fitta che diventò una sensazione di nausea che non lo abbandonò più per alcune ore. Si sedette per riflettere meglio. Dunque, di tutte le case Seniga conosceva l'indirizzo e la combinazione della cassaforte. I compagni, fidatissimi, ai quali quelle somme erano state consegnate sapevano che solo Secchia o Togliatti o Longo avevano la facoltà di ritirarle. Ma Secchia non sperò nemmeno un attimo che qualcuno avesse potuto rifiutare di consegnare il tutto a Seniga.
Così era avvenuto infatti. Quella domenica pomeriggio, mentre Vladimiro stava al cinema e mentre Secchia stava facendo il suo comizio a Torino, per ricordare il 25 luglio del 1943, lui, Seniga, aveva fatto il giro delle case sicure con la macchina del partito lasciata poi regolarmente nel garage di Piazzale delle Provincie. Da tutte aveva prelevato danaro e documenti. Il "passo estremo" era compiuto. Adesso, secondo Seniga, la parola spettava a Pietro Secchia. Ma cosa poteva dire, pubblicamente Secchia? Alla luce del sole tutto ciò che nel corso degli anni egli aveva confidato a Seniga rischiava di apparire niente più che pettegolezzo, recriminazione e, forse, volgarità. Nulla, nulla restava che si potesse gridare di fronte al partito, nulla, nemmeno le critiche che pure egli stesso
aveva, nel corso degli ultimi tempi, reso più manifeste; nulla poteva più essere detto ad alta voce. Bisognava confessare a Togliatti e a Longo: Seniga mi ha tradito, io mi sono fatto derubare del tesoro del partito, dei documenti più segreti.
Togliatti, Longo e D'Onofrio appresero quel giorno stesso la notizia con apparente freddezza. Negli occhi di D'Onofrio sembrò a Secchia di leggere un represso lampo d'ironia, come a dire "Vedi, i miei sospetti sui suoi rapporti con i servizi inglesi non erano infondati". Eppure, anche in quei giorni, tra la fine di luglio e gli inizi di agosto, il dubbio che Nino fosse un agente provocatore non riuscì a penetrare Secchia e conquistarlo: un mascalzone sì, un traditore sì, ma una spia questo no, non riuscì a crederlo.
Il partito gli impose di non fare nulla, di aspettare. Coloro che, alle Botteghe Oscure, seppero l'accaduto si resero conto che l'episodio era destinato a far precipitare la situazione risolvendola definitivamente a favore del segretario. Ma quale fosse il prezzo che Secchia avrebbe pagato, nessuno ancora lo sapeva.
Si preferì intanto prendere tempo. Togliatti, messo al corrente dell'accaduto, non disse nulla: si limitò a scuotere la testa come rassegnato. Mario Spallone, il medico di tutti, sbarrò gli occhi dallo stupore, se ne uscì in un'imprecazione e buttò giù, tanto per consolare Secchia, l'idea che forse Nino si era comportato così in un raptus dovuto alla malattia: forse, la sua ulcera era qualcosa di assai più grave... L'ipotesi piacque a Secchia perché giustificava in qualche modo l'imprevedibile, rovesciava su un impazzimento delle cellule, un fatto dunque ben materiale e tuttavia incontrollabile, la colpa o la maggior parte della colpa dell'accaduto.
Apparentemente nulla cambiò: al quarto piano, in una stanza accanto alla sua, Amendola continuava il suo lavoro, faceva riunioni, verificava con puntiglio da ragioniere, quante "tessere gonfiate" c'erano in ogni federazione, tessere pagate cioè sotto l'incontenibile pressione di Secchia di raggiungere e aumentare ogni anno l'obiettivo dell'anno precedente, ma alle quali non corrispondevano dei veri iscritti. Un piccolo imbroglio dovuto a zelo e compiacenza, del quale molti erano responsabili. Ma Secchia non era in grado né di obiettare né di protestare. Partecipò regolarmente - ma sembrava un po' un automa - alle elezioni, a Camere riunite, dei giudici della Corte Costituzionale. Nonostante il caldo aveva fatto tornare a Roma Alba: ambedue ricorsero ripetutamente alle cure di Mario Spallone.
Solo dopo tre settimane, a metà agosto, Secchia riuscì a stabilire un contatto con Seniga. Telefonò a Cossutta, allora membro della segreteria della Federazione di Milano e gli ordinò, con voce concitata: "Procurami una macchina veloce, con il trittico" (era il contrassegno che consentiva di viaggiare anche all'estero). Cossutta che qualcosa, anche se non tutto, aveva saputo, si rivolse a Giangiacomo Feltrinelli, allora militante del Pci per chiedergli una delle sue macchine, la più veloce, ma senza autista.
L'appuntamento con Seniga, prima fissato in Svizzera, si svolge poi a pochi chilometri da Milano, a Cremona, in federazione. Con Secchia c'è il suo autista, Adelmo Poggini, e Arnaldo Bera, un dirigente di partito che conosce Seniga da quando era operaio all'Alfa. Seniga arriva accompagnato dai fratelli ed è armato. Bera apre la giacca e gli dice: "Non ho nemmeno un temperino. Butta le armi ". Ma Seniga, la sua, non la molla un momento. Secchia si sforza di rimanere calmo, si rivolge a Seniga come a un compagno, come a un amico. Non parla ancora dei soldi, né dei documenti. Lo invita a ritornare al suo posto di lavoro; sarà perdonato. Gli altri dimenticheranno. Seniga non dice né sì né no; ascolta, torvo, e Secchia si convince di averlo convinto. Non è che il primo di una serie di colloqui che si svolgono tra il 18 e il 20 agosto, un paio almeno a quattr'occhi, alcuni alla presenza di altri.
Sono presenti sia Poggini che le sorelle di Seniga quando all'improvviso quest'ultimo grida: "Allora, dillo pure che sono un ladro..." Secchia questo non lo aveva mai detto, proprio perché, tra l'altro, era convinto di poter rientrare in possesso del danaro. E anche questa volta non reagisce, non aggiunge una parola, ma Seniga, che sembra in stato di esaltazione insiste: "Non sono io il ladro, siete voi. Quelli sono soldi del partito... e voi li spendete con le puttane". "Tu" grida rivolto a Secchia "devi venire con noi". "Noi chi?" domanda Secchia con la sensazione di essere vicino a scoprire la verità. "Noi, noi" risponde Nino "con gli operai dell'Alfa Romeo, con i comunisti. Con quelli che vogliono fare ancora la rivoluzione. E anche tu lo sai che il partito la rivoluzione non la vuole più fare." Secchia gli parla, gli ricorda, gli spiega. Per una rivoluzione che un giorno si farà - quando non si sa - ciò che conta è il partito, la sua unità; non si può dividere il partito. Ognuno ha le sue colpe, anche Togliatti certamente ha le sue, ma anche i russi dissero a suo tempo che, al di là di un certo limite, non si doveva andare. È vero che bisognerà correggere molte cose che nel partito non vanno; ma per questo è necessario starci dentro, uscirne non serve a nulla. Seniga alla fine ha gli occhi lucidi. Tutto è risolto, dunque?
Secchia ne è convinto. Il primo incontro tra i due si è svolto a Cremona e a Cremona, per il 20 agosto, è fissato quello conclusivo. A Seniga è morto il padre, dopo i funerali ci sarà la riconciliazione, il ritorno all'ovile del figliol prodigo.
Mentre l'Italia tutta si appassiona e si divide sullo scandalo Montesi, uno scandalo nel quale sono coinvolti esponenti democristiani, questori, ministri e una ragazza della Roma borghese sedotta da un giro di danaro e droga, il vertice del Pci consuma il suo scandalo segreto, in cui non entrano né donne, né droga, ma danaro tanto e in cui si brucia uno dei suoi leader più prestigiosi.
Il 20 agosto sono tutti lì attorno al morto. C'è Secchia, Bera, Poggini, Seniga e i suoi molti parenti. Seniga ha promesso che finalmente, a cerimonia finita, dirà dove sono i danari e i documenti, quel "bagaglio che scotta", che si è portato appresso lasciando le Botteghe Oscure. Si andrà a riprenderlo quel bagaglio, si tornerà insieme a Roma e tutto sarà finito, come un incubo, o messo in conto, come dice Spallone, alla malattia che buca lo stomaco e talvolta guasta il cervello.
Ma quando la bara viene alzata a spalle e prende la via del cimitero, Seniga non guarda nemmeno dalla parte dove c'è Secchia, l'uomo al quale è stato legato per anni da un affetto più che filiale. Circondato e quasi protetto dai parenti, si avvia verso una macchina di fronte alla quale l'aspettano due sconosciuti. E con loro: scompare.
Secchia passa ancora qualche ora con Bera e Poggini, in attesa. Ma invece di Nino arriva suo fratello a dire che Nino non verrà. Aggiunge: "Erano due anni che mio fratello pensava a questo colpo, ma non si era mai deciso a farlo". Due anni, pensa Secchia; dunque non era stato un colpo di testa, un'azione improvvisa e un po' folle, ma un'azione meditata, preparata, lungo settimane e mesi, mentre ostentava amicizia, fiducia, confidenza. Ma Secchia si attacca ancora a un filo, esilissimo, di speranza. Se è venuto il fratello, anzi se ha mandato il fratello, è segno che vuol mantenere ancora un legame, che non tutto è deciso. Insiste quindi anche con lui che Nino torni: nessuno gli farà del male, tutto si può rimediare, tutto sarà dimenticato. Il fratello ascolta, in silenzio. È anche lui un militante del Pci. Un paio di volte ripete: "Lo so che ha fatto male, ma è mio fratello".
A un certo punto Secchia si spazientisce; capisce che ormai la partita è chiusa, che Seniga lo ha ingannato ancora una volta. Non c'è più da tentare di convincerlo, di vederlo. Decide quindi, bruscamente, di tornare a Roma. Capisce di essere rovinato, ma non immagina ancora quanto.
A Roma tuttavia egli non trova nessuno di coloro che dovrebbero giudicarlo. Togliatti è andato a passare l'agosto a Champoluc, in Val d'Aosta, con Nilde e Marisa. Anche Longo è in vacanza. Solo Amendola non si allontana da Roma dal suo ufficio al quarto piano, da dove comincia a controllare tutta l'organizzazione del partito. Secchia non sa né può opporsi a questo graduale, silenzioso passaggio di poteri.
Qualche dirigente di periferia, di quelli che gli sono più fedeli, gli chiede cosa sta accadendo, ma lui risponde a mezza bocca e intanto si diffondono, nel partito e fuori del partito, notizie, voci, insinuazioni, mentre " Pace e Libertà" una organizzazione di provocazione diretta da Luigi Cavallo, fa affiggere manifesti con cui Secchia e Longo e Togliatti vengono denunciati come spie dell'Urss. Nelle riunioni di partito, anche importanti (c'è a Roma a metà settembre una riunione dei direttori delle varie edizioni dell'Unità) del cosiddetto "caso Secchia" o "caso Seniga" non si fa parola.
Soltanto il 15 ottobre, tre mesi dunque dopo la fuga di Seniga, la Direzione del Pci si riunisce, finalmente, per esaminare la vicenda. Il punto in discussione è uno solo: perché Secchia ha dato tanta fiducia a Seniga, tanta fiducia da consentirgli l'accesso ai fondi e alle informazioni più riservate del partito? Secchia ribatte punto per punto. Ha avuto tutto il tempo, ormai, per preparare la sua autodifesa che, del resto, fa' perno su una verità accertata e ben conosciuta da tutti i compagni che stanno lì, in quella stanza. Lui, Secchia, non ha fatto né deciso nulla che non fosse a conoscenza di Longo, l'altro vicesegretario e dello stesso Togliatti. Ma prima di ricordarlo ascolta le accuse e le critiche che gli vengono rivolte. Il primo ad attaccarlo è Di Vittorio: "Non avevi il diritto" dice "di tenere Seniga a quel posto, specie dopo quello che ti aveva detto D'Onofrio". D'Onofrio conferma: ai primi di maggio aveva avvertito Secchia degli strani legami che il suo protetto aveva avuto in Svizzera, nel 1943, con il colonnello Mac Caffery. Secchia lo interrompe, sfida D'Onofrio a portare elementi più concreti di giudizio (come non sapesse che nel Pci un sospetto, un'ombra di quel genere equivalgono già a una condanna). "Comunque" aggiunge "anche tu sapevi gli incarichi che aveva, e non ti eri opposto."
Per adesso, in questa riunione del 15 ottobre, si parla soprattutto dei soldi. Ognuno ha la sua da dire: non si potevano depositare in banca, investirli, consegnarli a terzi? Secchia si guarda intorno come stupito: perché non interviene Longo a dire quello che sa? Che cioè hanno deciso tutti insieme, in segreteria, cosa fare di quel danaro? Perché Longo non ricorda che fu proprio lui a sconsigliare ogni tipo di investimento, dato che Di Vittorio, a suo tempo, per voler investire dei soldi dell'organizzazione, era rimasto del tutto fregato?
È patetica questa riunione di grandi dirigenti che, chiusi in una stanza del secondo piano delle Botteghe Oscure, attorno a Togliatti, si affannano, come anziani e sprovveduti padri di famiglia, a recriminare sulla perdita di questa cifra favolosa, appunto, il "tesoro di famiglia". Sono tutte persone straordinariamente oneste e straordinariamente ignare di problemi finanziari. Per loro i soldi vanno ben conservati, questo è tutto. Nessuno ha mai pensato, nemmeno per un momento, che tra loro, in quel palazzo, potesse abitare qualcuno sensibile al fascino del danaro.
"Ti rendi conto" viene chiesto a Secchia "dell'entità del danno finanziario che è stato inferto al partito?" Certo che Secchia lo sa, ma siccome di quei soldi conosce anche la provenienza, pensa che non sarà impossibile far coprire il buco dai compagni sovietici. Il problema non è questo o non è solo questo; il problema vero sono i documenti.
Di questi, per ora, nessuno parla. Ma Scoccimarro che nei confronti di Secchia ha una vecchia ruggine che risale ai tempi della Resistenza, è il primo ad avanzare un altro tipo di osservazioni, che poi, nelle settimane a venire costituiranno il principale capo di accusa nei confronti del vicesegretario: "Sei stato leggero. Seniga non doveva avere accesso ai documenti. Questo non lo aveva deciso nessuno. E, a parte i documenti, è vero che Seniga ha saputo, da te, particolari della vita interna del partito che dovevano rimanere segreti. Questo è contrario a tutto il nostro costume".
Secchia tace e incassa. Sa di aver commesso qualche leggerezza, di essersi troppe volte confidato con Nino, come con un figlio, un amico, un fratello. Ma sa benissimo che anche Togliatti confida, a Marcella e Maurizio Ferrara, a Massimo Caprara e a Mario Spallone ben più di quello che sarebbe concesso e prudente.
Tutti, lì dentro, hanno certamente trasgredito qualche volta alla feroce regola che impone che un dirigente comunista non abbia un amico. Ma Secchia per ora questo non può dirlo. Significherebbe rompere, stupidamente; rivelare i propri risentimenti e coalizzare tutti contro di sé. Si limita quindi a difendersi: "Tutto quello che ho fatto voi lo sapevate e comunque ero sempre d'accordo con Longo e con Togliatti. Non mi credete? O volete che vuoti il sacco?". L'interrogativo nasconde, o sembra nascondere, una minaccia. A questo punto la discussione si tronca e si forma una piccola commissione, di cui fanno parte Spano Colombi e Negarville, con il compito di esaminare più dettagliatamente il caso e riferirne subito in direzione.
La commissione convoca Secchia. "Cosa significa vuotare il sacco?" gli viene chiesto. "Stai attento a non cadere nella provocazione. Qui siamo fra compagni e nessuno intende farti un processo né condannarti, ma ci sono cose che vanno chiarite, responsabilità che vanno individuate. Non ti puoi nascondere dietro il fatto che Togliatti e Longo sapevano tutto. Tra te e Seniga si. erano stabiliti rapporti di cui nessuno poteva essere a conoscenza. E questa la tua responsabilità. E poi, stando sempre con lui, come hai fatto a non renderti conto del suo temperamento? Adesso ci dici che è un pazzo, un nevrotico, una canaglia. Ma è possibile che tu abbia dato la tua fiducia, e la nostra anche, a un personaggio di questo tipo? Quindi l'errore l'hai commesso tu e l'hai fatto commettere a tutti noi..." Alla fine, davanti a quei tre compagni sereni e ragionevoli, Secchia riconosce le sue responsabilità: è vero, è stato leggero, imprudente, si è fidato troppo. Ed è disposto a riconoscerlo anche di fronte alla Direzione che si riunisce subito dopo.
Togliatti, alla fine, si dimostra longanime: "Per adesso, basta. Forse è meglio che il compagno Secchia si prenda un periodo di riposo. Poi ridiscuteremo di tutto".
Secchia non è uno sciocco. Che significa prendersi un periodo di riposo? Per quanto tempo? Perché? Preferirebbe che della cosa si finisse di discutere adesso, subito.. Ha l'impressione che né Colombi, né Negarville, né Spano gli siano ostili. Ma la decisione della Direzione è quella: bisogna aspettare ancora. E nel frattempo egli deve sparire. Il periodo di riposo si rivela così per quello che in effetti è: una sospensione, se non dal partito, dal lavoro che ormai, dal Comitato Centrale di luglio e poi da quel maledetto giorno della fuga di Seniga., sta già passando sotto il controllo di Giorgio Amendola.
Alla proposta di questo nuovo periodo di riposo, Secchia oppone riserve e chiede spiegazioni: dove deve andare? Cosa deve fare? Longo gli risponde proponendogli un viaggio in Urss "dove", aggiunge "potrai avere anche dei colloqui con compagni sovietici, capire meglio che cosa sta succedendo lì". Ma Secchia non ci sta; capisce che l'aiuto dei sovietici, di cui pure non dubita, non solo non potrebbe salvarlo dall'attacco che gli viene rivolto qui in Italia, dai suoi, ma addirittura potrebbe rendere più difficile la sua situazione. Che senso avrebbe andare a Mosca per alcuni mesi e in un periodo, per di più, in cui anche quel gruppo dirigente appare diviso e lacerato da contrasti? No, l'Urss no. Secchia ha addirittura l'impressione che la proposta possa nascondere un trucco. È vero che non sono più i tempi di Stalin, ma cosa succederebbe se una volta arrivato a Mosca lo trattenessero più del dovuto?
Longo alza le spalle a questa obiezione e butta lì una proposta: "Perché, allora, non vai per un po' in Svizzera?".
Secchia protesta indignato. Ha l'impressione che lo si voglia addirittura prendere in giro: non è in Svizzera infatti che si pensa sia fuggito Seniga con i milioni? Alla fine Longo taglia corto: "Va' un po' dove ti pare, basta che per un po' non ti fai vedere". E Secchia, di rimando: "Perché? A Roma vi do fastidio?". "Sì," gli fa Longo secco "qui per adesso dai fastidio". "Ma che diranno i compagni" balbetta alla fine Secchia "quando nel corso della preparazione della Conferenza non sentiranno mai fare nemmeno il mio nome?" Longo alza le spalle indifferente.
In realtà Secchia non sa dove andare. Non può andare nel suo ufficio e, stando a casa, gli sembra di impazzire: Alba sta peggio del solito e Vladimiro chiede, di tanto in tanto, quando tornerà Nino. A dare un mano a Secchia provvederà Mario Spallone che, oltre che medico, è una sorta di provvidenziale deus ex machina delle situazioni più difficili. Mario vede che Secchia è depresso, quasi allucinato, si rende conto che bisogna obbligarlo al riposo e se lo porta con sé in un paesino vicino Avezzano, Lecce dei Marsi, dove ha una casa. E una casa adatta per l'estate e adesso siamo alla fine di ottobre, autunno a Roma, ma quasi inverno nella Marsica. Mario Spallone fa sistemare alcune stufe al piano terra della casa di Lecce e in camera da letto.
Lì, in isolamento totale, con la moglie Alba e il figlio Vladimiro, Secchia passa alcune settimane, fino alla fine di novembre. Formalmente è ancora responsabile della Commissione di Organizzazione e vicesegretario del partito. Ufficialmente il partito ignora ancora cosa è successo. Più o meno a metà novembre Davide Lajolo che partecipa a una riunione dei direttori dell'Unità a Roma, infastidito e incuriosito dalle tante voci che girano, chiede a Longo se è vero quello che si dice nei corridoi delle Botteghe Oscure, che Secchia cioè avrebbe già scritto una lettera a Togliatti ammettendo almeno una parte delle sue responsabilità, e che Togliatti non gli avrebbe nemmeno risposto. Longo guarda Lajolo freddamente: "Una lettera di Secchia? Che lettera? Non ne so proprio niente..." (42)
La lettera in realtà per adesso non c'è. Ci sarà tra breve in assenza di Secchia l'indagine è andata avanti, ma non se n'è occupata più la piccola commissione composta da Colombi, Spano e Negarville, bensì una commissione che, diretta da Scoccimarro, ha allargato di molto, come vuole Togliatti, la ricerca delle responsabilità, passando dal fatto specifico alle cause che lo hanno determinato e da queste agli errori politici che vi sono sottintesi. Scoccimarro ha convocato, uno ad uno, tutti i collaboratori di Secchia e poi i segretari regionali e gli uomini dell'apparato che con Secchia hanno avuto, in momenti diversi, contrasti o polemiche. La conclusione cui la commissione è giunta e la sentenza che emette, in assenza dell'imputato, è quanto mai severa. La segreteria, massimo organo del partito, di cui fanno parte Togliatti, Longo, D'Onofrio e lo stesso Scoccimarro, la ratifica il 17 novembre.
"La responsabilità di Pietro Secchia" dice questo documento "non sta soltanto in errori di natura tecnica (violazione delle norme cospirative circa il modo di organizzare gli archivi e accedere ad essi, modo di conservare documenti e chiavi)... la sua responsabilità consiste soprattutto nell'aver violato criteri e metodi di lavoro fondamentali nei suoi rapporti con Nino Seniga il quale era di fatto il suo collaboratore più stretto per tutta una serie di attività. Secchia ha tollerato che rapporti di amicizia personale e di familiarità si sostituissero, tra lui e Seniga, ai rapporti normali di collaborazione e direzione politica; ha tollerato che Seniga venisse sottratto a un serio controllo organizzativo e politico e prendesse nell'apparato una posizione tale che impediva l'esercizio di questo controllo."
Fin qui siamo a leggerezze, colpe gravi che non investono ancora l'orientamento politico, tema delicatissimo cui è dedicata la seconda parte del documento. È colpa di Secchia se in Seniga, e probabilmente anche in altri dei suoi collaboratori" si è creata "sulla base di informazioni errate e di pettegolezzi, una artificiale e falsa contrapposizione tra Secchia stesso e gli altri dirigenti del partito, in modo che minava l'unità del centro dirigente". E' un'accusa molto grave: minare, minacciare, insidiare l'unità del partito è colpa che non consente assoluzione. II vicesegretario del Pci non solo dunque si è comportato in modo leggero dando fiducia ad un uomo che si sarebbe rivelato un "traditore", ma, confidandogli cose che dovevano rimanere segrete, ha consentito che maturassero, nel Seniga stesso, "opinioni politiche errate, in contrasto con la linea del partito e che, radicandosi, hanno portato il Seniga a una posizione di aperta ostilità e diffamazione". II giudizio che viene dato di Seniga, come si vede, è ambiguo. Nemmeno in questo documento interno egli viene denunciato come una spia o un provocatore; viene indicato piuttosto come un ingenuo, un debole, uno sprovveduto, mosso al tradimento da posizioni politiche errate che
il suo più diretto dirigente aveva tollerato persino con benevolenza. Come unica attenuante a favore di Secchia si ricordava l'eccessivo carico di lavoro che su di lui gravava ma ciò non valeva certo a diminuirne la colpa. E, del resto, non era ben nota a tutti la volontà, di Secchia di accentrare nelle proprie mani il massimo di responsabilità e di potere?
La condanna politica di Secchia, nel documento del 17 novembre, è esplicita e senza appello. Egli ha manifestato "spirito di tolleranza e di conciliazione opportunistica con posizioni di aperta ostilità al partito e ai suoi dirigenti": ovvio quindi, anche se non è detto, che non potesse più ricoprire il suo incarico.
Questo documento, che non fu mal reso pubblico, viene portato a conoscenza di Secchia solo due settimane dopo la sua approvazione, a Lecce dei Marsi. Egli non si attendeva certo indulgenza, ma nemmeno forse un così duro, definitivo giudizio. Tuttavia, essendogli stato chiesto un atto formale di autocritica, egli spera ancora di poter salvare almeno una parte della sua storia personale, del suo passato. Con quel documento in tasca Secchia torna a Roma. Si chiude in casa e scrive la prima di tre lettere drammatiche al partito. Vale la pena di esaminarle una per una.
La prima è del 10 dicembre. Colui che è stato fino a pochi mesi prima l'uomo più potente del Pci si piega alla volontà del suo partito, ammette i suoi errori, accetta i giudizi "per quanto pesanti e duri" espressi a suo carico, ma non rinuncia ancora a qualche guizzo di dignità, alla difesa del suo lavoro e del suo passato. Non rinuncia, sembra di capire, nemmeno a un richiamo alla responsabilità collettiva, un richiamo che può suonare quasi una velata minaccia nel momento in cui sottolinea "che oggi più che mai, di fronte all'offensiva anticomunista in corso... è necessario la massima unità e coesione di tutto il partito, in particolar modo del suo centro dirigente". E, alla ricerca di uno straccio almeno di riconoscimento, aggiunge: "Sottoposto personalmente da mesi ad una pesante azione diffamatoria e ricattatoria, ho sopportato ogni cosa senza perdere la testa con senso di responsabilità, avendo esclusivamente di mira l'interesse del partito". Almeno di questo, egli sembra chiedere, dovrete darmi atto! Nella seconda parte della lettera ricorda "il lavoro svolto per la realizzazione della linea politica del partito e alla cui elaborazione, nei limiti delle mie modeste forze, ho cercato sempre di portare, assieme agli altri compagni, il mio contributo. I miei scritti, i miei discorsi, la mia attività pratica di ogni giorno stanno a testimoniare che ho sempre lavorato in modo conseguente per la realizzazione della linea politica del partito e per l'applicazione delle direttive dei suoi organismi dirigenti e del compagno Togliatti, al quale con i fatti e nell'attività concreta, di fronte a tutto il partito, ho dimostrato sempre la mia piena fiducia".
E prosegue: "Si possono interrogare segretari regionali, segretari federali, tutti i compagni con i quali avevo rapporti di attività e non si troverà uno solo che possa sostenere che io abbia tenuto con lui o con chicchessia un discorso, una conversazione che non fossero in armonia con la linea politica del partito e del suo centro dirigente. Ciò che io penso sulle questioni politiche, organizzative sul. nostro lavoro sui nostri metodi di direzione sta scritto in decine di documenti ufficiali del partito, in risoluzioni, articoli, discorsi ed in ogni caso dev'essere esposto da me e ricavato dal mio lavoro e non può essere supposto sulla base delle diffamazioni, delle porcherie, delle cretinerie e delle manovre ricattatorie di un traditore..."
Più che un'autocritica, questa prima lettera di Secchia sembra un'autodifesa, una rivendicazione dignitosa del proprio operato che si accompagna a un'ammissione altrettanto dignitosa del proprio errore ("aver considerato onesto, fedele al partito e alla classe operaia un avventuriero che, con un'osservazione più attenta e vigilante, avrei dovuto scoprire per un nemico del partito".)
Ma il tono della lettera e le sue ammissioni di responsabilità Sono ben al di qua di quello che pretendono Togliatti e la Direzione del partito. E infatti questo primo testo viene seccamente respinto e Secchia viene invitato ad una autocritica più accurata. Cosa che farà, un mese dopo, il 4 gennaio del 1955 modificando il primitivo testo in modo tuttavia non essenziale.
Questa seconda lettera viene sottoposta, il 7 gennaio, ad una discussione collettiva alla quale è ammesso anche Secchia.
L'accusa che in quella sede gli viene rivolta è assai diversa da quella iniziale, persino da quella così pesante contenuta nel documento del novembre: lì lo si accusava di aver stabilito rapporti di amicizia personale e di familiarità con Seniga, di aver tollerato che attorno a lui si esprimessero opinioni, giudizi e pettegolezzi su Togliatti e il gruppo dirigente in violazione del tradizionale costume comunista; oggi lo si accusa di non essere d'accordo con la linea politica del partito, di avere organizzato, all'insaputa del gruppo dirigente, una rete di "suoi" uomini pronti a rispondere a lui anziché agli organismi ufficiali.
Secchia si rende conto, in questa riunione del 7 gennaio, di essere ormai completamente solo. Nemmeno uno dei suoi vecchi compagni è disposto a spendere una parola a sua difesa; anche coloro che in altre occasioni hanno espresso dubbi, esitazioni, malessere di fronte a certe improvvise iniziative di Togliatti, adesso tacciono. Solo lui, Secchia, è l'accusato. Gli altri, tutti gli altri, sono trasformati in giudici. Qui non è più questione di soldi (come amministrarli, dove nasconderli...) né di eccesso di fiducia nei confronti di Seniga (cosa gli hai detto, cosa ti ha detto...), no, ora è di altro che si parla, della sua fedeltà al partito, del suo passato, della sua lealtà. E Secchia capisce, fin dalle prime battute del processo, che per lui non è più possibile salvezza. È condannato.
Mentre ascolta i capi d'accusa e si appresta a rispondere, più per stare alle regole del gioco che perché creda utile una difesa, Secchia rivede con lucidità altri processi ai quali ha partecipato, non come imputato, ma come giudice: il processo contro "i tre" (Tresso, Leonetti, Ravazzoli), che a Parigi nel 1929 con il suo voto decisivo erano stati cacciati dal partito e liquidati come traditori; il processo di Ventotene che nel 1939 aveva condannato Terracini al più spietato isolamento, a quelle che Terracini aveva definito "fraterne persecuzioni" (43). Gli tornano alla memoria quei processi non sotto altra luce (che egli è ben convinto di aver avuto nell'un caso e nell'altro ragione), ma invece come procedimenti ben noti di cui utilizzare passaggi e meccanismi. L'imputato, pensa Secchia, non deve precludersi nessuna via d'uscita.
I "tre" e poi Terracini si erano contrapposti orgogliosamente al tribunale del partito, non avevano ammesso le loro responsabilità, non avevano dichiarato la loro disponibilità a ricredersi e correggersi. Lui non commetterà lo stesso errore. Egli deve sopravvivere, sopravvivere beninteso politicamente. Deve, quindi, concedere quel tanto che è inevitabile, indispensabile, obbligatorio per poter avere ancora diritto di cittadinanza nel partito, per poter continuare a lavorare.
Ciò che gli viene richiesto come autocritica è assai più di quanto egli sembrasse all'inizio disposto a concedere. Di qui il drammatico dibattito nella riunione di Direzione del 7 gennaio, riunione di cui conosciamo, finora, solo il testo di una sua dichiarazione finale, in pochi foglietti dattiloscritti.
Accusato ormai apertamente di non condividere le posizioni del partito, egli ricorda di "aver precisato sempre il suo pensiero nelle forme e nei modi che sono oggi abituali ". E, a più precise contestazioni, risponde: "Riconosco che nella seconda metà del 1947 ho avuto seri dubbi non soltanto su talune questioni, ma sulla linea politica nel suo complesso ed ebbi il timore che quelli (i sovietici, N.d.R.) non conoscessero la reale situazione italiana. Esposi quei dubbi nella forma più franca... Abbiamo iniziato allora a fare il salto e scelta l'altra linea. Non c'era e non c'è che da continuare, seppure è evidente che non si può dimenticare, un comunista anzi deve pensarci sempre, tanto più che è la situazione stessa che ci fa pensare... E poi: è giusto che non ci si pensi più? Che vi siano dei compagni giovani che non ci pensano mai? Che neppure sul terreno della propaganda e dell'educazione noi non poniamo più il problema della conquista del potere da parte dei lavoratori?".
La Rivoluzione, preparata, sognata, attesa come una donna che si ama, ad ogni momento dietro l'angolo e ad ogni momento in fuga, lontana, irraggiungibile. Ma è giusto che non ci si pensi più, magari in silenzio, magari in segreto? È giusto che non ci si prepari più al giorno in cui l'amata verrà, è giusto che non si lasci almeno socchiusa la porta per il giorno in cui lei potrà bussare?
Non c'è traccia delle sue obiezioni, né delle sue riserve nel testo ultimo della lettera di autocritica che finalmente verrà accettata dalla Direzione. È una lettera balbettante e umiliata, una abdicazione totale alla sua dignità e alle sue idee.
"Sono consapevole della gravità dei miei errori che denotano che ho lavorato con estrema leggerezza, con bonomia, con mancanza di vigilanza... Mi rendo conto che questo non significa saper dirigere... Ringrazio i compagni della Direzione del partito che, dimostrandomi la loro fiducia, mi hanno aiutato a scorgere in modo completo e in tutta la loro gravità i miei errori. Vorrei che una sola cosa si tenesse presente e sulla quale non vi fossero dubbi di sorta: il mio incondizionato attaccamento e la mia fedeltà al partito... I compagni della Direzione possono avere certezza del mio fermo impegno a superare nel posto di lavoro che mi si vorrà affidare, con lo studio e l'attività pratica... quei difetti che hanno reso possibili i miei errori. "
In cambio di questa lettera Secchia ottiene di rimanere membro della Direzione. È, probabilmente, un compromesso o meglio come tale è vissuto da Secchia: tutto sommato ha appena 51 anni e un capitale straordinario di prestigio, di capacità di lavoro, di intelligenza politica. Può ancora farcela.
Il partito nel suo complesso non sa ancora nulla di tutta questa vicenda. A conclusione della Conferenza di Organizzazione, il 18 gennaio, verrà comunicato che il compagno Pietro Secchia "è stato designato a ricoprire il posto di segretario regionale del partito per la Lombardia". Nessuno chiese spiegazioni e nessuno ne diede.
Pietro Secchia raccolse le sue carte, lasciò la casa di Monteverde e, con Alba e Vladimiro, partì per Milano.
Giorgio Amendola si insediò al quarto piano, come responsabile della Commissione di Organizzazione, nella stessa stanza che era stata di Pietro Secchia. Incassata nel muro, simbolo del potere finanziario dell'ex vicesegretario del partito, c'era una cassaforte alla quale egli poteva accedere liberamente. Giorgio Amendola, prendendo possesso della stanza, la fece subito smontare: del resto ormai era vuota. Una sorte analoga toccò pian piano a quello che era rimasto delle strutture approntate dalla Commissione di Vigilanza per il giorno in cui il Pci fosse stato gettato di nuovo nell'illegalità. Appartamenti, ville, casali vennero venduti. Gli indirizzi dei recapiti clandestini vennero dimenticati. Armi ormai non ce n'erano più: secondo dati del ministero degli Interni tra il 1946 e il 1953 erano stati scoperti 173 cannoni, 719 mortai, 35.000 fucili mitragliatori, 37.000 pistole e rivoltelle, 250.000 bombe a mano, 309 radio trasmittenti.