Biblioteca Multimediale Marxista
Nei libri negli articoli nei saggi che scriviamo, nella richiesta 
  di poter lavorare per il partito c'è il tentativo tenace, qualche volta 
  ingenuo di essere ancora qualcosa nel mondo del partito, di contare... Eppure 
  sembra alle volte che anche oggi ci siano dei carcerieri e che sia ancora più 
  difficile che non allora essere ancora qualcuno, contare ancora qualcosa, non 
  essere soltanto il n. 552108 che sta scritto sulla mia tessera...
  (Pietro Secchia, 1962)
  "... Non ho mai, nel corso della mia vita, tenuto dei diari. Ho sempre 
  pensato soltanto ad agire, a lottare. Ciò che conta è la lotta... 
  Ma nella mia vita comincia ora un periodo nuovo in cui mi sarà progressivamente 
  impedito di lottare, di agire, di portare un contributo, sia pure modesto, da 
  una posizione dirigente... Vi è un modo di dire: occorrono nove mesi 
  per fare un uomo e un giorno solo per ucciderlo. No, per fare un uomo non ci 
  vogliono nove mesi, ci vogliono cinquant'anni, cinquant'anni di sacrifici, di 
  lotta, di volontà, di rinunce, di tante cose. E, quando quest'uomo è 
  fatto, quando crede di essere un uomo, una canaglia qualsiasi lo può 
  distruggere, uccidere moralmente, politicamente e fisicamente, lo può 
  distruggere in pochi secondi."
  Sono passati sei mesi da quel giorno del luglio 1954 in cui Seniga, fuggendo 
  da Roma, lo ha "ucciso", distrutto in pochi minuti. Nella sua improvvisa 
  solitudine, Secchia scopre per la prima volta il conforto della confessione 
  affidata a un diario.
  "...qui mi sembra che tu abbia torto perché consideri il suicidio 
  come una grande azione, mentre invece non lo si può considerare nient'altro 
  che una debolezza. Senza dubbio è più facile morire che sopportare 
  coraggiosamente una vita tormentata": la citazione di Goethe, dai Dolori 
  del giovane Werther, apre la serie dei quaderni. Comincia così, con la 
  tentazione del suicidio, il calvario dell'esclusione.
  Una vita come quella di Secchia si risolve compiutamente solo nel rapporto con 
  la sua Chiesa, il Partito. È un rapporto di possesso e subordinazione: 
  Secchia, padrone del partito, ne è stato anche il servo fedele. Ed ora, 
  all'improvviso e per una colpa che egli non riconosce tale, la Chiesa-Partito 
  lo respinge, lo esilia. Non può concepirsi privazione più totale 
  di questa perdita di identità, di un ruolo sacerdotale che, se richiede 
  il voto di obbedienza e povertà, comporta anche il privilegio di dire 
  messa e quindi l'esercizio del potere.
  Ormai non c'è più nulla di tutto questo per Secchia, il "vecchio" 
  Secchia. Ma vecchio perché, poi? Secchia ha soltanto cinquant'anni quando 
  è costretto ad abbandonare il suo ufficio al quarto piano delle Botteghe 
  Oscure: alla sua età, oggi, molti membri della Direzione del Pci vengono 
  considerati ancora giovani. Lui, poi, era e si considerava, se non giovane, 
  certo pieno di energie, di idee, di voglia e capacità di fare, decidere, 
  comandare. Ma ora, tutto questo è finito o, per dirla con le sue parole, 
  "si apre un nuovo periodo della mia attività di militante rivoluzionario".
  Secchia è stato nominato segretario regionale della Lombardia, un incarico 
  di rilievo anche se poca cosa rispetto a quello ricoperto per tanti anni. E 
  i compagni che lavorano con lui, per lo meno i segretari federali e i dirigenti 
  più qualificati, sanno - anche se l'Unità non l'ha mai scritto 
  (e non lo scriverà mai) - cosa è veramente accaduto, cosa c'è 
  all'origine di quella retrocessione. Ci sono notizie che corrono di bocca in 
  bocca, cifre di cui è impossibile verificare l'attendibilità, 
  pettegolezzi che sconfinano nella calunnia più volgare. Secchia sa che 
  anche di questo parlano i compagni quando egli entra all'improvviso in una stanza 
  o quando, dopo una riunione, si attardano, come d'abitudine, a mangiare e bere 
  qualcosa insieme, prima di tornare a casa. Lo sa, ma cosa può rispondere? 
  Cosa può obiettare? Cosa può contrapporre? Nulla, salvo il suo 
  lavoro, naturalmente.
  Milano è la città nella quale egli ha vissuto gli anni migliori 
  della sua vita, tra l'autunno del 1943 e la gloriosa primavera del 1945, la 
  città nella quale ha organizzato il partito e la lotta clandestina e 
  nella quale ha dato li via all'insurrezione armata. I dirigenti migliori li 
  conosce uno ad uno. Sono uomini tenaci e fedeli, quadri come lui li voleva e 
  li ha costruiti: molti, tra cui Alberganti, Pesce, Vergani, Vaja, Cossutta, 
  sono anche suoi amici personali. Dunque, bisogna riprendere il lavoro con energia, 
  entusiasmo, tenacia.
  Pure, pare che qualcosa si sia guastato in lui; l'amarezza e il rancore gli 
  rendono più difficili anche i rapporti con gli altri. La sua risata allegra 
  si rompe ormai in toni stridenti, cattivi. "Ride come il diavolo" 
  commenta qualcuno. La vicenda di cui è vittima lo ossessiona, non riesce 
  a liberarsene.
  E se anche egli riuscisse a liberarsene, c'è la stampa degli altri, la 
  stampa "borghese" a tornare con tenacia su quegli argomenti centellinando 
  indiscrezioni e diffamazioni: la cifra che Seniga ha sottratto alle casse del 
  partito si moltiplica per due, per tre, per dieci. E diviene così grossa 
  da non apparire più nemmeno credibile e da alimentare altre congetture: 
  come mai il partito era in possesso di una somma così rilevante? Si torna 
  a parlare dunque, non soltanto dei finanziamenti segreti dei sovietici, dei 
  rubli trasformati in dollari, ma anche del famoso "oro di Dongo", 
  del tesoro di Mussolini e della Repubblica di Salò che si favoleggiava 
  fosse caduto in mano ai partigiani delle Brigate Garibaldi. E si torna ad insinuare 
  che tra Secchia e Seniga ci fossero stati rapporti molto "particolari", 
  un'infamia che, in quell'epoca e in quel partito, poteva distruggere un uomo 
  in auge, e figuriamoci un uomo che aveva già subìto quei colpi.
  Quando Secchia si presenta all'attivo dei militanti milanesi per assumere il 
  nuovo incarico, non può far finta di ignorare ciò che di lui si 
  scrive e si sussurra: "Se i giornali borghesi mi attaccano" dice nel 
  suo discorso "è segno che sono preoccupati di questa decisione che 
  il partito ha preso di rafforzare la direzione politica in Lombardia e Milano". 
  E una ben povera replica, naturalmente, una ben povera spiegazione, anche se 
  i compagni che lo ascoltano, lo applaudono.
  L'uomo è fisicamente e psicologicamente provato. E lo si vede. Alle volte 
  si sveglia all'improvviso, di notte, pensando a cosa farà adesso, dove 
  sarà Seniga; tormentandosi nella ricerca di qualche mezzo che gli consenta 
  di rientrare in possesso almeno dei soldi. Si immagina, nel dormiveglia, di 
  riuscirci e di riportarli a Roma, alle Botteghe Oscure. Ecco, questo sarebbe 
  forse il modo di riparare. Ma dov'è adesso Seniga? E si sorprende a chiedersi 
  se non sarebbe stato giusto sparargli addosso nel momento in cui si sono incontrati, 
  dopo la fuga del 25 luglio. Sparargli addosso o fargli sparare addosso da qualcuno... 
  Che follia! Nino lo aveva avvertito: "Tutto è già stato messo 
  al riparo e, se mi dovesse succedere qualcosa, tutto si saprà...". 
  Come nei sogni o negli incubi, Nino gli torna al pensiero ora irridente ora 
  affettuoso, indispensabile e capriccioso come un figlio, come il figlio vero 
  che non ha avuto, come il figlio che ti tradisce, come Bruto. E da Bruto non 
  ci si può difendere. Altre cose gli vengono in mente, di se medesimo 
  e del suo passato. Si scopre a pensare, con una vena di umana pietà, 
  ai compagni che egli aveva contribuito a far cacciare dal partito e che avevano 
  conosciuto prima di lui - e per sua responsabilità - la pena insopportabile 
  dell'emarginazione, dell'isolamento. Forse, dice un giorno ad Alba, non ero 
  tagliato per la politica, non almeno per la politica fatta di intrighi, di compromessi, 
  di piccole furbizie. No, pensa, io ero tagliato per altra cosa: per la battaglia 
  a viso aperto, per la lotta, per la rivoluzione. Potevo fare altra cosa della 
  mia vita? Dove ho sbagliato? Ah, si potesse tornare indietro, si potesse non 
  scrivere quella lettera con la quale nel 1947 si proponeva a Nino di venire 
  a Roma, si potesse respingere la sua collaborazione, quell'amicizia che si sarebbe 
  poi tramutata in tradimento! E, per quanto nella sua immaginazione sofferente 
  egli torni indietro, per quanto pensi e si arrovelli con la memoria, incontra 
  sempre a un certo punto colui che lo guarda distaccato ed ironico: Togliatti.
  Secchia evita persino nei suoi diari di scriverne il nome; quasi a esorcizzarne 
  la presenza, si limita a indicarlo, come in un romanzo giallo, con una X.
  Quel 1955 fu un anno duro, anche a Milano. Nelle maggiori fabbriche si venivano 
  introducendo nuovi metodi di organizzazione del lavoro che consentivano un aumento 
  della produzione e della produttività senza aumentare il numero degli 
  occupati. Erano anni di profitti crescenti e di dura repressione antioperaia. 
  Entrare in azienda con l'Unità in tasca poteva significare il licenziamento; 
  occorreva molto coraggio per presentarsi candidato, come rappresentante della 
  Cgil, alle elezioni per le Commissioni Interne. In questo clima soffocante, 
  la Cgil perse, nella primavera del 1955, la maggioranza alla Fiat. Fu una sconfitta 
  dolorosissima e inattesa, che obbligò non solo il sindacato ma anche 
  il Pci a un attento riesame della propria linea e delle proprie responsabilità.
  "Sono risultati dolorosi, ma non mi hanno sorpreso" è il primo 
  commento di Secchia con i compagni del Comitato Regionale Lombardo. In certo 
  senso ha ragione. Da molto tempo egli aveva denunciato nel gruppo dirigente 
  del Pci il deteriorarsi della situazione nelle fabbriche, un deteriorarsi che 
  non poteva essere né nascosto né dimenticato dietro i successi 
  elettorali.. Ma non era stato ascoltato, anzi era stato indicato come un settario, 
  un operaista. "Per anni" sottolinea adesso "si sono lasciati 
  licenziare i migliori dirigenti delle Commissioni Interne, o i compagni più 
  influenti, senza reagire o con brevi fermate di lavoro e proteste che lasciano 
  il tempo che trovano. Oggi si cercano le cause degli insuccessi ma volutamente 
  si rimane in superficie, si finge di ignorare perché non si vogliono 
  vedere le cause più profondamente politiche. È una tragedia" 
  conclude "che purtroppo si ripete e della quale abbiamo una triste esperienza. 
  Prima ci si lascia battere nelle singole località, si cedono le posizioni 
  una ad una, si indietreggia, e poi si fa appello alla lotta quando non siamo 
  più in grado di darla o quanto meno quando si sono create le situazioni 
  meno favorevoli per darla. Nel passato, la colpa fu dei riformisti. Ed ora?". 
  L'interrogativo è retorico: il dito di Secchia è puntato sul gruppo 
  dirigente delle Botteghe Oscure. Ma l'annotazione è importante perché 
  rivela una costante del pensiero di Secchia, quella preoccupazione di un rinascente 
  fascismo, di una svolta autoritaria, di una sconfitta secca della classe operaia, 
  che a suo avviso Togliatti, Amendola e gli altri sottovalutano, ma che incombe 
  sul Paese.
  "Va bene" dice "Togliatti ci ha insegnato a portare la cravatta 
  che sarà pure necessaria per stringere relazioni e frequentare certa 
  gente, ma non sarebbe più utile saper adoperare anche il manico della 
  pala?" Il manico della pala, simbolo della rozzezza ma anche della forza 
  della classe operaia. "Nel passato la colpa fu dei riformisti. Ed ora?" 
  Non rischia di passare, ora, il fascismo, nelle fabbriche e nel Paese per colpa 
  nostra, dei nostri errori, dei nostri ritardi, delle nostre indulgenze, delle 
  nostre civetterie (la cravatta e il doppio petto blu di Togliatti), della nostra 
  maledetta vocazione a stringere con tutti alleanze che assomigliano a pateracchi?
  L'interrogativo è un assillo che stringe Secchia da ogni parte: la memoria 
  della sconfitta storica del 1922 non dà tregua e sollecita a ripensare 
  le forme di lotta e di organizzazione necessarie a evitare il ripetersi di quel 
  disastro. Per Secchia, la leva sulla quale far forza è e non può 
  che essere la classe operaia. Per questo egli è convinto - e non da ora 
  - che bisogna concentrare tutti gli sforzi del partito e degli organismi di 
  massa in quella direzione, nel lavoro di fabbrica, combinando insieme lotte 
  parziali e generali, battaglie economiche e politiche, cercando certo sempre 
  di stabilire rapporti unitari, ma senza farsi condizionare da questi. "Altrimenti," 
  dice Secchia "finisce che ci fermiamo subito o perché non marcia 
  la Cisl o perché non ci stanno i socialisti."
  In questa sottolineatura della centralità della questione operaia e nella 
  preoccupazione venata di catastrofismo per un risorgente pericolo fascista, 
  stanno gli essenziali motivi di contrasto con Giorgio Amendola. Non che questi 
  non valuti in tutta la sua portata la gravità dell'attacco che viene 
  condotto dal padronato italiano contro la classe operaia (e del resto ci sono 
  lì le elezioni alla Fiat per ricordarlo ad ogni momento), ma Amendola 
  è convinto che questo attacco può essere respinto solo con un 
  coinvolgi mento, nella battaglia per la democrazia, di altri gruppi sociali 
  e politici.
  Il contrasto tra i due ormai è sempre più evidente. Ciò 
  che negli anni passati era sottinteso, viene adesso alla luce. Certo, nel corso 
  delle riunioni, Secchia non dice fino in fondo ciò che pensa di Amendola, 
  ma gli si contrappone senza esitare tanto costantemente quanto inutilmente, 
  dato che Amendola ha il sostegno pieno di Togliatti e di Longo.
  E sarà proprio Longo, ormai unico vicesegretario del partito, a polemizzare 
  duramente con Secchia nel corso di un Comitato Centrale che, riunitosi a metà 
  del luglio del 1955, aveva esaminato proprio la situazione delle fabbriche. 
  Secchia aveva preso la parola per dire tutto ciò che pensava sull'argomento 
  ed era un argomento sul quale, anche come segretario regionale della Lombardia, 
  aveva non poche cose da dire: il movimento perde colpi, sta accumulando sconfitte, 
  e bisogna passare al contrattacco senza esitare. Ma Longo gli ribatte tranquillo 
  accusandolo di avere una visione pessimistica della realtà e una concezione 
  militare del movimento. "Non è vero che ci stiamo indebolendo" 
  replica "anzi, siamo più forti di prima. Le caserme nostre sono 
  piene di soldati" insiste, quasi a ricordare a Secchia che la sua sostituzione 
  alla Commissione d'Organizzazione non ha comportato nessun danno per il partito 
  che non ha perso nemmeno un iscritto. Ma è davvero questo il problema? 
  "Le caserme saranno piene" sussurra Secchia ad Alberganti "ma 
  a che serve se i soldati non si battono?"
  Gli cresce dentro anche l'astio per Longo, il compagno di lotte che da quasi 
  trent'anni egli ha sostenuto, coperto, aiutato. Adesso lo chiama ironicamente 
  "il maresciallo di Fubine", che è il paese dell'astigiano dove 
  Longo è nato. Il "maresciallo di Fubine", secondo Secchia è 
  in realtà un pavido, un opportunista, uno che si piega di fronte a Togliatti 
  senza reagire, uno che preferisce tacere e obbedire, aspettando in silenzio 
  che venga il suo momento, visto che è convenuto che sarà lui, 
  Longo, a succedere a Togliatti quando questi vorrà, o quando inevitabilmente 
  dovrà uscire di scena.
  Secchia ora è meno prudente di quanto non fosse quando stava al quarto 
  piano e dirigeva la Commissione d'Organizzazione. La sua residua vitalità 
  si manifesta anche in questa volontà di polemizzare, di contestare le 
  scelte degli altri. Ma Amendola non è meno vitale e polemico di lui: 
  di qui scontri, sfuriate che lasciano il segno.
  Amendola glielo rimprovera direttamente: "I tuoi interventi sono sempre 
  agitati e carichi di polemica". Secchia reagisce: "Ma non sei stato 
  proprio tu a incolparmi nel passato di reticenza? Mi accusavi allora di parlare 
  troppo poco, di non rendere esplicita la polemica. E adesso, di cosa ti lamenti?".
  Portatori di linee e culture politiche diverse, i due si scontrano, lealmente 
  ma duramente. Secchia insiste perché alla Cgil vada, a fianco di Di Vittorio, 
  Arturo Colombi, un compagno della Direzione del partito di vecchia esperienza 
  e provate capacità. Ma Amendola nicchia, resiste, adducendo motivi vaghi. 
  Poi, messo alle strette, ammette: "Colombi, con le posizioni che ha, non 
  può essere utilizzato in quel posto ". Le posizioni di Colombi sono 
  esattamente quelle di Secchia, che replica: "Porre le questioni così 
  significa voler portare la battaglia politica interna al limite della rottura". 
  E mentre Amendola cerca di chiarire il suo pensiero, Secchia incalza: "Quali 
  posizioni? Se tu pensi che noi siamo massimalisti e bordighiani, allora sarebbe 
  legittimo da parte mia usare nei tuoi confronti altri aggettivi... E tu sai 
  quali".
  Amendola lo sa, lo sa benissimo che Secchia e i suoi quando parlano di lui ne 
  parlano come di un opportunista, un riformista borghese, ma la cosa più 
  che irritarlo lo diverte. Si diverte a sfidare costantemente gli altri alla 
  polemica, alla discussione, ma poi appena qualcuno lo contraddice, lo investe 
  di bordate polemiche di incredibile violenza. "Stai seduto su una poltrona 
  per cui chi discute con te rischia di apparire subito un oppositore" gli 
  butta in faccia Secchia un giorno con rabbia impotente. "Quando su quella 
  poltrona ero seduto io, tu stavi zitto."
  Le parti dunque si sono rovesciate. Ora è Amendola che comanda e Secchia, 
  sia pure in una posizione formalmente di rilievo, è un personaggio di 
  secondo piano. L'ingresso in segreteria di Amendola e Pajetta ha contribuito 
  a spostare ancora gli equilibri nel ristretto vertice del Pci.
  La cosiddetta "destalinizzazione" e le conseguenze del XX Congresso 
  sul Pci, determineranno un ulteriore spostamento di quegli equilibri, ma non 
  nel senso immaginato da Secchia.
  Da tempo, da quando nel luglio del 1953 egli aveva ricevuto le prime confidenze 
  di Molotov sul caso Beria, Secchia sapeva che sarebbe venuto il momento in cui 
  il coperchio sarebbe saltato e la verità sulla "maladie" (la 
  follia?) di Stalin sarebbe stata portata a conoscenza del mondo. Secchia immaginava 
  la "destalinizzazione" come un processo necessario, graduale e ragionevole 
  nel corso del quale alcune regole della vita interna dei partiti comunisti sarebbero 
  state corrette, modificate e, forse, trasformate. La "destalinizzazione" 
  strisciante aveva già provocato in molti paesi dell'Europa Orientale 
  un ricambio dei vecchi gruppi dirigenti con la liquidazione di coloro che avevano 
  lavorato a lungo vicino a Stalin: non era irraggionevole quindi scommettere 
  su una sconfitta di Togliatti nel momento in cui tutta la verità fosse 
  venuta alla luce. Accadrà esattamente il contrario. Attorno ai temi sollevati 
  dal XX Congresso del Pcus, Secchia conduce la sua ultima battaglia contro Togliatti 
  e il gruppo dirigente, uscendone definitivamente sconfitto. E all'VIII Congresso 
  del Pci, che si tiene alla fine del 1956, il nuovo Comitato Centrale non lo 
  rielegge nemmeno nella Direzione.
  "Il vino nuovo" dissero allora alcuni "non può esser versato 
  nelle vecchie botti." "E sia" commenterà Secchia. "Anche 
  se tra tante botti io non ero certo la più vecchia, né avevo mai 
  stagionato nelle cantine di Stalin." (44)
  Il dibattito che, subito dopo il XX Congresso percorre e dilania tutto il corpo 
  del Pci, è un dibattito disordinato, tumultuoso nel quale ognuno getta 
  recriminazioni e intelligenza, passione, speranze e rancori. E da lì, 
  dalla dolorosa distruzione del più grande mito del nostro secolo, che 
  comincia la faticosa "laicizzazione" del più grande partito 
  comunista dell'Occidente.
  In quel dibattito Secchia tenta di inserire un tema relativamente nuovo e che, 
  negli anni a venire, tornerà ad alimentare la discussione, il tema cioè 
  della democrazia intesa come legittimità del dissenso nel partito e necessità 
  di un dibattito reale, non mistificato o gestito dall'alto. Era il tema che 
  egli aveva già tentato di proporre tre anni prima, nel 1953, facendosi 
  forte del consiglio di Molotov e che allora non gli aveva portato fortuna. Ora 
  la situazione gli è apparentemente più favorevole. Solo apparentemente, 
  però, perché ormai egli è già un emarginato e quindi 
  ogni sua invocazione o richiesta di più ampia democrazia finisce con 
  l'apparire solo strumentale, quasi un patetico tentativo di rimettersi in corsa. 
  Ma non c'è solo questo. Ormai la questione della democrazia viene assunta 
  come propria da dirigenti più giovani, come lo stesso Amendola, Pajetta, 
  Ingrao, Alicata, Bufalini, Giolitti, Natoli per non citarne che alcuni. E questi 
  propongono il tema non in astratto ma come uno degli elementi della costruzione 
  di quella "via italiana al socialismo" che, già enunciata nel 
  lontano 1945, era stata seppellita sia dalle durezze della situazione internazionale 
  che dalle incomprensioni e resistenze di quelle che venivano indicate allora, 
  con un termine volutamente generico, "vaste zone" del partito. E per 
  "vaste zone" si intendeva, senza nominarli, proprio i settori del 
  partito egemonizzati da Secchia, costantemente percorsi da umori militaristi 
  e da nostalgie insurrezionali. Nel dibattito sulle "colpe" di Stalin, 
  Togliatti finisce quindi con l'avere la meglio, proprio perché fa appello 
  alle forze più giovani del Pci, a quadri impazienti di assumersi le proprie 
  responsabilità in una guerra di movimento in cui fosse possibile strappare 
  vittorie risolutive anche senza aspettare la mitica e sempre meno credibile 
  ora X.
  Il cambiamento della situazione internazionale, il miglioramento dei rapporti 
  tra Urss e Usa, la prospettiva di una lunga fase di " pacifica coesistenza" 
  rende credibile la prospettiva di una "via pacifica al socialismo" 
  che nei suoi presupposti politici, culturali, organizzativi è certamente 
  l'esatto contrario dell'ipotesi di Secchia e dei suoi. Togliatti, che aveva 
  più di una colpa da farsi perdonare per il periodo in cui, a Mosca, aveva 
  condiviso le responsabilità di Stalin come dirigente della III Internazionale, 
  è capace, dopo una breve esitazione, di mettersi egli stesso alla testa 
  di questo processo di rinnovamento che approderà, all'VIII Congresso 
  del Pci, al pieno, non strumentale riconoscimento della Costituzione come il 
  terreno più idoneo per una trasformazione in senso socialista della società 
  italiana.
  Così una fase della storia del Pci si chiude e un'altra se ne apre: l'esito 
  della battaglia cui danno avvio le rivelazioni di Krusciov è esattamente 
  l'opposto di quello che Secchia poteva aver pensato e si conclude con la vittoria 
  di un Togliatti "rinnovatore", e l'emergere, attorno a lui, di un 
  nuovo gruppo dirigente. Un'operazione di questo tipo doveva necessariamente 
  confermare l'emarginazione di Secchia (e di altri personaggi a lui analoghi 
  dal punto di vista politico e biografico, come D'Onofrio e Scoccimarro per non 
  parlare che dei più noti) anche se, per ripetere le sue parole, non era 
  certo lui "la più vecchia delle botti né quella che più 
  a lungo aveva stagionato nelle cantine di Stalin ".
  Contribuisce alla sua definitiva sconfitta anche la sua modestia culturale, 
  una prudenza che sconfina in pavidità e gli impedisce, anche in virtù 
  di una fortemente introiettata coscienza della disciplina di partito, di apparire 
  chiaramente come un leader dell'opposizione. La sua polemica segue quindi i 
  canali delle cosiddette " vie interne" di partito: interviene in Direzione 
  più che in Comitato Centrale, si affanna a scrivere lettere a Togliatti 
  che gli risponde con fastidio. Non prende la parola nel primo Comitato Centrale 
  dopo il XX Congresso e nemmeno nel Consiglio Nazionale del 3 aprile dove saranno 
  invece Giorgio Amendola e Giancarlo Pajetta a rompere il silenzio che su quella 
  vicenda Togliatti aveva rigorosamente osservato. (45)
  Al Comitato Centrale di fine giugno che convoca il Congresso per la fine dell'anno 
  prende la parola, cimentandosi in una faticosa analisi di tipo teorico sulle 
  diverse vie di accesso al socialismo. "Dobbiamo spiegare" dice "in 
  modo molto chiaro, senza lasciar dubbi, che il passaggio dai rapporti di produzione 
  capitalisti al socialismo non avverrà attraverso la progressiva approvazione 
  di una leggina dietro l'altra, di una elezione dopo l'altra al punto che un 
  bel giorno ci ritroveremo in regime socialista senza nemmeno accorgercene come 
  se fossimo tranquillamente seduti su un treno.."
  Inascoltato da Togliatti, prudente quando prende la parola in Comitato Centrale, 
  Secchia si sfoga la sera con il suo diario. Allora se la prende con l'opportunismo 
  ("che si getta sul letamaio del liberalismo, ...che corre a destra e sinistra 
  in cerca di alleati "); recrimina sul passato ("si comincia con l'accettare 
  una cosa oggi un'altra domani, si ingoia il no che ci viene alle labbra, e d'un 
  tratto ci si trova immersi in una nuova politica, da cui tornare indietro è 
  impossibile" );irride a Togliatti ("che ha sempre accettato tutti 
  gli indirizzi che nei diversi periodi hanno avuto prima l'Internazionale Comunista 
  e poi il Cominform salvo a buttare poi sugli altri la responsabilità 
  della politica ormai superata e criticata").
  Ma tutto questo è ben lungi dal costituire una linea o una proposta politica. 
  E infatti, a fronte dei polemici, in qualche caso drammatici interventi di molti 
  delegati, colpisce il tono mediocre del discorso di Secchia all'VIII Congresso. 
  Dopo il rituale (ma non obbligatorio) riconoscimento della giustezza delle analisi 
  contenute nel discorso di Togliatti, Secchia si intrattiene a lungo sulla necessità 
  di un'azione unitaria tra comunisti e socialisti (che dalle rivelazioni del 
  XX Congresso avevano tratto occasione per accelerare la loro presa di distanza 
  dal Pci), per poi rivolgere un paternalistico appello agli intellettuali ("non 
  tutti imbrancati nelle manifestazioni di odio e di provocazione anticomunista 
  scatenate dalle forze più reazionarie, clericali e fasciste del nostro 
  Paese").
  A chi gli chiede conto del perché di un intervento così fiacco, 
  risponde: "Non potevo fare diversamente; un atteggiamento di battaglia 
  mi avrebbe portato a rompere. La mia influenza è ancora tale che certe 
  cose dette da me assumono un significato che da loro viene definito gravissimo". 
  
  Autogiustificazione? Puro e semplice errore di sopravvalutazione di se medesimo? 
  È possibile. L'intervento di Secchia, atteso con curiosità, cade 
  nella più assoluta indifferenza. Qualche contrasto scoppia invece il 
  17 dicembre nella riunione del Comitato Centrale che deve eleggere la nuova 
  Direzione. Solo nove tra i membri del CC si dichiarano contrari all'esclusione 
  di Secchia dalla nuova Direzione del partito. Sono Alberganti, Bera, Brambilla, 
  Sclavo, Parini, Vergani, Bonazzi, Robotti e Montagnana. Gli altri approvano 
  tranquillamente una decisione che era più o meno scontata, quasi la riprova 
  che una fase della storia del Pci si chiudeva e un'altra cominciava.
  La decisione è stata anticipata a Secchia da Longo che lo ha fermato 
  in corridoio qualche minuto prima della riunione del Comitato Centrale. Secchia 
  non reagisce. Longo di fronte al suo silenzio crede necessario dargli almeno 
  una spiegazione: "Sai" aggiunge "in Comitato elettorale sono 
  state sollevate nei tuoi confronti alcune questioni; i tuoi errori nell'affare 
  Seniga, le tue resistenze ad assimilare l'attuale linea politica del partito..." 
  Secchia ha solo la forza di chiedere come stupito: "Seniga? Ma quando finirà 
  questa storia?". E Longo: "Direi che a questo punto è finita".
  Dieci giorni dopo i due si rivedono nell'ufficio di Longo alle Botteghe Oscure. 
  E chiaro che, non essendo più nella Direzione del partito, Secchia non 
  potrà più dirigere il Comitato Regionale della Lombardia. Si tratta 
  quindi di trovargli un altro lavoro; nella nuova Segreteria se n'è parlato 
  con qualche fastidio. "Ma non potrebbe occuparsi del suo collegio e starsene 
  tranquillo?" ha detto qualcuno. E stato Longo a questo punto a proporre 
  di richiamare Secchia a Roma per incaricarlo delle attività editoriali 
  del partito: un compito quanto mai vago e formale visto che delle stesse cose 
  si occupava già da tempo con autorità e competenza Amerigo Terenzio 
  Comunque, un posto, un lavoro, un ufficio bisognava trovarglielo e così 
  si decise.
  Secchia viene quindi convocato da Longo che gli illustra la proposta della Segreteria, 
  senza molti dettagli. Ma Secchia, pur sapendo che non poteva che accettare, 
  insiste nel chiedere il senso di quel lavoro: "Insomma devo considerarmi 
  un uomo politico o un impiegato?". Longo alza le spalle quasi la domanda 
  non fosse degna di risposta. Secchia continua, sottovoce, quasi parlando a se 
  stesso: "Una prospettiva nella vita bisogna averla...". "Ma che 
  prospettiva e prospettiva" lo interrompe Longo "cerca di far bene 
  questo lavoro e alle prospettive non ci pensare più. "
  Due settimane dopo, ai primi del 1957 ,Secchia viene insediato nel suo nuovo 
  ufficio. Tutti i suoi collaboratori sanno che l'ex vicesegretario non gode né 
  di poteri né di competenza. Intorno a lui si crea subito un'atmosfera 
  carica di ironia, di piccole cattiverie, qualcuno assicura che per risparmiare 
  carta "Secchia ha proposto di fare un giornale con sette pagine, anziché 
  otto".
  Ma è comunque un ufficio, con una segretaria, una macchina, un autista. 
  Un ufficio, una segretaria, una macchina, un autista non sono il potere ma solo 
  la sua apparenza esterna, pallido involucro senza sostanza, che presuppone tuttavia, 
  come il potere vero, riunioni, risoluzioni, circolari. Un ufficio, una segretaria, 
  un autista sono gli elementi costitutivi di una identità che in mancanza 
  di questi non avrebbe più punti di riferimento.
  L'incarico conta poco, e tuttavia egli ci si misura con impegno, con quella 
  che egli stesso chiamava "tenacia di montanaro". Cerca di ritagliarsi 
  un suo spazio, tra Terenzi, Alicata, Pajetta e Donini che delle questioni editoriali 
  si occupano da tempo. Si tratta, per di più, d'una materia che comincia 
  a diventare scottante. Qualche scricchiolio nella impalcatura un po' faraonica 
  che regge il sistema dei quotidiani del Pci e delle sue edizioni, si comincia 
  a sentire, ma non è certo Secchia l'uomo che può trovare le soluzioni 
  e imporle. Si dà da fare, ma con scarso successo.
  E quanto poco conti ormai, il vecchio Secchia, appare evidente a tutti quando 
  su Rinascita verrà pubblicata, nel settembre del 1957, una novelletta 
  di taglio melvilliano con la quale Maurizio Ferrara ricostruiva, con grande 
  gusto dell'ironia ma certo con pochissimo rispetto per l'ex vicesegretario, 
  le vicende interne del Pci. L'occasione era stata data a Ferrara da una analoga 
  novelletta che Italo Calvino aveva affidato a Città Futura, un giornale 
  di comunisti in odore di eresia, novelletta con la quale lo scrittore irrideva 
  alla politica del Pci, una stagione di Gran Bonaccia per uomini che erano partiti 
  per andare a caccia di balene. Ferrara che legge il testo di Calvino mentre 
  sta in vacanza a Capri, si diverte a ricostruire sotto forma di metafora, e 
  nello stesso linguaggio, la storia recente del Pci, la baleniera che porta il 
  nome "Speranza", e che, dopo avere ripulito i mari dei pirati neri, 
  guidati da Testa di Morto, muove alla conquista della Balena Bianca. La novella, 
  intitolata "La Gran Caccia alle Antille," è ironicamente firmata 
  Little Blad (traduzione letterale inglese di Calvino, ma tutti vi riconoscono 
  naturalmente la penna di Maurizio). Dopo avere, dunque, battuto il fascismo, 
  simbolizzato dai " pirati neri", la Speranza cade in mano del capostivatore 
  (nel quale è facile identificare Pietro Secchia) e dei suoi "che 
  guardano bramosi alle case della riva: ora tocca a noi ghignavano". Ma 
  mentre il capostivatore mette mano al cannone, "vedemmo a un tratto il 
  Vecchio salire sul cassero; era disarmato e con sul naso gli occhiali di quando 
  alla domenica ci leggeva i Salmi sul castello di poppa. Fratelli, disse con 
  voce ferma, levatevi dalla testa idee sinistre. Davanti a noi non vi sono case 
  da assediare ma pascoli acquatici dove soffia ancora libera la Balena Bianca. 
  Il suo olio darà vita e sorriso per l'eternità ai patiti figli 
  delle Antille. Riponete archibugi e spingarde, impugnate il rampone, la Grande 
  Caccia è aperta". Ma il contrasto tra il vecchio-Togliatti e il 
  capostivatore-Secchia continua. "Ci fu del buio, Iddio mi fulmini perché 
  il capostivatore non la mandò giù. Lì per lì tacque; 
  poi cominciò a navigare di sotto, come il luccio di scoglio. E spiava, 
  mugugnava, concertava con certi suoi una specie di sottocomando, invertiva nottetempo 
  la rotta. Finché gli altri non si seccarono e al primo approdo senza 
  far chiasso lo sbarcarono..."
  E così via.
  Era un divertimento personale di Ferrara, che venne poi fatto leggere a Antonello 
  Trombadori, allora direttore del Contemporaneo. Antonello ci rise un po' su, 
  e gliela restituì.
  Ci si divertì moltissimo, a leggerla, Togliatti, che la volle pubblicare 
  su Rinascita. Così, sotto forma di metafora, per la prima volta i comunisti 
  seppero da una pubblicazione ufficiale del Pci, che Secchia, il capostivatore 
  della Speranza era stato buttato fuori dalla Commissione di Organizzazione e 
  dalla Direzione "perché navigava di sotto come luccio di scoglio 
  e spiava, mugugnava, concertava con certi suoi una specie di sottocomando, invertiva 
  nottetempo la rotta..."
  In un guizzo di dignità, Secchia reagisce all'insulto, non pubblicamente 
  però - la convenzione che fuori del partito nulla si debba sapere è 
  per lui una religione - ma con una lettera che manda allo stesso Togliatti. 
  "Non si è mai visto né un esercito né tanto meno un 
  partito rivoluzionario con una storia eroica come quella che ha il nostro, permettere 
  che si insultino i suoi militanti solo perché sono diventati anziani 
  ed hanno perso nel corso di quelle lotte alle quali hanno dato tutto se stessi..." 
  In poche righe sprezzanti Togliatti liquida il vecchio avversario: "La 
  tua lettera mi ha fatto cascare dalle nuvole... Nel pezzo di Rinascita non vi 
  è nulla di personale contro nessun compagno ma unicamente un'allusiva 
  indicazione a vicende interne del nostro partito... Non si tratta né 
  di una direttiva (di andare a caccia di balene) né di una storia; non 
  vi si tratta né di vecchi né di nuovi compagni, ma come ti ripeto, 
  di una satirica allusione, fatta per prendere in giro con le stesse armi, chi 
  aveva preso in giro noi. Gli sfoghi della tua lettera sulla "storia eroica" 
  etc. non ci hanno proprio niente a che fare. Anche gli "eroi" qualche 
  volta si mettono a ridere.(46)
  Eppure, anche dopo essere stato esposto al dileggio dei compagni, Secchia tace: 
  la sua protesta è ancora e sempre affidata all'interno, ai canali dell'organizzazione, 
  agli archivi che a loro volta l'affideranno alla Storia.
  Alla Storia con l'S maiuscola. E ai sovietici. A Mosca non si vede di buon occhio 
  questa rapidissima, troppo rapida e troppo entusiastica accettazione da parte 
  del Pci dei temi del XX Congresso, una accettazione che rischia di diventare 
  - forse è già diventata - interpretazione autonoma e non del tutto 
  ortodossa delle parole d'ordine e delle aperture che da lì sono state 
  proclamate. Mosca ormai dopo la morte di Stalin non è più quel 
  monolito compatto che era stato per tanti anni. Mosca significa Krusciov, certamente, 
  con le sue rozze impazienze e volontà riformatrici ma significa anche 
  le prudenze di Molotov, le sue resistenze a rimettere in discussione i tradizionali 
  modi di funzionamento del partito e del sistema produttivo sovietico. A metà 
  del 1957 una prima fase della lotta politica in corso a Mosca si risolve con 
  la sconfitta di Molotov e i suoi. Il Pci, si limita a prendere atto di quanto 
  accade al Cremlino, ma Secchia annota amaramente "per alcuni giorni i giornali 
  sovietici conducono un'aspra campagna contro Molotov, Malenkov, Kaganovic e 
  Scepilov, accusandoli di essersi opposti alla linea del XX Congresso e di aver 
  svolto un'azione antipartito, i quattro non sono stati arrestati, non sono stati 
  impiegati contro di loro i metodi della repressione poliziesca, ma non si può 
  dire che si siano adottati metodi democratici... il metodo staliniano continua 
  nel modo in cui si cerca di creare il disprezzo verso coloro che sono rimasti 
  in minoranza" 
  I rapporti tra comunisti italiani e sovietici cominciano a conoscere allora 
  le tensioni e i ravvicinamenti, le polemiche e le riserve, che porteranno, dopo 
  venticinque anni, a quello che verrà chiamato "lo strappo". 
  La strada è lunga e tortuosa, ma nei passaggi e nei momenti più 
  difficili ci sarà sempre Secchia, nel Pci, a difendere le ragioni dell'unità 
  contro quelle della differenziazione, le ragioni della solidarietà contro 
  quelle dell'autonomia, le ragioni dell'ortodossia contro quelle del revisionismo.
  Se nulla di ciò che sappiamo ci permette di dire che Secchia assolse 
  questo ruolo per incarico di Mosca, molti elementi concorrono a provare che 
  egli mantenne sempre rapporti stretti e in qualche modo privilegiati con la 
  dirigenza sovietica. Ci sono più tracce di questo rapporto privilegiato 
  anche nel suo diario ed è possibile che Secchia abbia voluto lasciarle, 
  queste tracce, a futura memoria, come a dire: "io non ero solo".
  Il suo lavoro di responsabile della Commissione editoriale gli consente, o richiede, 
  frequenti viaggi in Urss e in altri paesi dell'Europa Orientale. Come gran parte 
  del vecchio gruppo dirigente del Pci, Secchia ama passare in Urss o in un altro 
  paese socialista anche le sue vacanze estive (Giorgio Amendola rifiutò 
  sempre, cocciutamente questo privilegio). Viaggi di lavoro e periodi di riposo 
  servono anche a scambi di opinioni e giudizi, in una situazione in cui le controversie, 
  all'interno del movimento comunista internazionale, si fanno più acute. 
  Per sanarle o limitarne le conseguenze vengono convocate, nel giro di pochi 
  anni, per iniziativa sovietica, ben due Conferenze Mondiali dei partiti comunisti, 
  una alla fine del 1957 (a un anno appena dalla disgraziata invasione dell'Ungheria), 
  l'altra nel 1960 (quando ormai lo scontro con la Cina è vicino alle sue 
  ultime conseguenze). In ambedue i casi le Conferenze si chiudono con un accordo 
  puramente di facciata; in ambedue i casi i rappresentanti del Pci esprimono, 
  pubblicamente, le loro riserve; in ambedue i casi Secchia coglie l'occasione 
  per confermare invece il valore dell'unità del movimento internazionale 
  e sottolineare la condanna che da quei documenti viene, puntuale, alla pratica 
  del revisionismo.
  Nel 1957 Secchia e a Mosca proprio alla vigilia della riunione della Conferenza 
  Internazionale; parla con alcuni dirigenti sovietici e raccomanda prudenza. 
  Annota sul suo diario gli incontri e il senso di quei colloqui, ma non i nomi 
  dei suoi interlocutori. "La delegazione italiana a Mosca" commenta 
  poi "ha presentato emendamenti assieme ai polacchi, ha sostenuto massima 
  autonomia, dichiarandosi contraria ad eventuali proposte di ricostituire l'Inforbureau 
  o qualcosa di simile. Non una parola sulla funzione dell'Urss. La nostra delegazione 
  è stata vivacemente attaccata da Duclos. Senza dubbio i francesi non 
  hanno parlato solo di loro iniziativa."
  La annotazione ci anticipa la traccia dell'intervento che Secchia pronuncerà 
  al Comitato Centrale di dicembre, per criticare l'atteggiamento della delegazione 
  italiana a Mosca. A Togliatti che aveva sottolineato la necessità di 
  un alto grado di autonomia dei singoli partiti comunisti, Secchia replica che 
  "noi comunisti concepiamo l'autonomia dei partiti cui apparteniamo nel 
  quadro dell'unità e della solidarietà del movimento comunista 
  e operaio internazionale".
  Sarebbe lecito porsi per Secchia lo stesso malizioso interrogativo con cui egli 
  aveva commentato l'intervento di Duclos: parlava proprio soltanto di sua iniziativa 
  o qualcuno aveva suggerito tono e contenuto dell'intervento? È per lo 
  meno singolare che Secchia annoti nel suo diario: "Togliatti mi ha ignorato, 
  ma sono tutti neri. Io ho inviato copia del mio intervento all'Ufficio di Segreteria 
  perché venga messa agli atti". (47)
  Il contrasto tra Secchia e il gruppo dirigente del Pci, limitato finora alla 
  conduzione delle lotte nel paese, si approfondisce e acquista sempre maggior 
  spessore nel momento in cui investe le questioni internazionali e il ruolo dell'Urss 
  nel movimento comunista. Per Secchia è inconcepibile abbandonare - come 
  di fatto pian piano il Pci farà - il termine e la nozione stessa di "partito 
  e paese guida".
  Si confida con lui Mehmet Shehu, uno dei più stretti collaboratori di 
  Enver Hoxa, quando nell'ottobre del 1960 passerà da lì Roma per 
  raggiungere Tirana che, nel conflitto tra Krusciov e Mao si va schierando con 
  quest'ultimo in nome della salvaguardia della purezza rivoluzionaria. Siamo 
  alla vigilia della nuova Conferenza Mondiale dei partiti comunisti, convocata 
  per dicembre a Mosca. "Anche se soli" assicura Shehu "diremo 
  chiaramente tutto ciò che pensiamo della politica di Krusciov e dei diversi 
  partiti comunisti, di una politica revisionista che non può non portare 
  al cedimento e nella capitolazione." E conclude: "parleremo anche 
  per voi". Che intendeva Mehmet Shehu per "voi"? Non certamente 
  i comunisti italiani (per i quali avrebbero parlato, a Mosca, Luigi Longo e 
  Berlinguer). Intendeva il solo Secchia o non si riferiva invece anche ad altri, 
  a coloro cioè che, all'interno del Pci, non si riconoscevano più 
  nelle posizioni della Segreteria? È l'interpretazione più ragionevole.
  La Conferenza di Mosca, detta anche la Conferenza degli 81, per il numero dei 
  partiti che vi partecipano, segna un'altra tappa del tortuoso processo di sganciamento 
  del Pci dalla tutela sovietica. La delegazione rende esplicite, con un documento 
  scritto, le sue riserve al metodo ed alle affermazioni contenute nella dichiarazione 
  finale della Conferenza, Mario Alicata scrive su Rinascita che nel movimento 
  comunista internazionale non esiste ormai più "né centro 
  né testa", Ma Secchia polemizza apertamente con lui in Comitato 
  Centrale: "il partito dell'Urss è stato e continua ad essere" 
  dice "l'avanguardia universalmente riconosciuta del movimento internazionale".
  Sulla necessità di difendere e confermare questo ruolo, Secchia, non 
  ha dubbi nemmeno quando, nel novembre del 1961, il Comitato Centrale si riunisce 
  per discutere del XXII Congresso del Pcus, che in quanto a denuncia di nefandezze 
  staliniane, fu forse più spietato dello stesso XX Congresso. È 
  il Comitato Centrale in cui Robotti rivela finalmente la vicenda del suo arresto 
  e delle sue torture ad opera della polizia staliniana, in cui si solleva il 
  problema della sparizione di centinaia di profughi antifascisti italiani; morti 
  nei lager in Siberia di fame e di freddo assieme a centinaia di migliaia, forse 
  milioni di cittadini sovietici. (48) È il Comitato Centrale in cui vacilla 
  l'autorità di Togliatti. Robotti, tra l'altro è suo cognato e 
  non è più credibile che di queste vicende atroci egli non sapesse 
  nulla, come dal 1956 aveva ripetutamente affermato.
  I più giovani pongono per la prima volta in quel Comitato Centrale problemi 
  che oggi, a distanza di venti anni, sono ancora attuali: il carattere della 
  pianificazione sovietica, l'insufficiente partecipazione dei cittadini alla 
  gestione del potere, il carattere autoritario del sistema.
  Amendola, in un intervento che ha toni di alta drammaticità, rivendica 
  la pubblicità del dibattito sia a livello internazionale, sia all'interno 
  del Pci, fino alla formazione aperta sui vari problemi di maggioranze e minoranze. 
  "Eccolo" commenta beffardo Secchia "l'avanguardista del rinnovamento." 
  Molti chiedono, anche con toni concitati, la convocazione di un Congresso straordinario, 
  richiesta che verrà subito respinta da Togliatti che giudica gli interventi, 
  compreso quello di Amendola, superficiali ed emotivi.
  La preoccupazione essenziale dei "vecchi" compagni, di fronte all'offensiva 
  di Amendola e dei più giovani dirigenti emersa dal dibattito sta proprio 
  nella eventualità, che essi giudicano una sciagura, di una rottura con 
  l'Urss. Cosa si può fare contro questo pericolo che ridurrebbe il Pci 
  al rango di un partito socialdemocratico? È quello che Scoccimarro, presidente 
  della Commissione Centrale di Controllo, va a chiedere in quei giorni a Secchia 
  facendo appello a una comunanza di ideali e di principi che la disgraziata vicenda 
  della fuga di Seniga ha soltanto interrotta. Scoccimarro, propone intanto un 
  minimo di lavoro di collegamento, tra i "vecchi", sia al centro che 
  alla periferia. Per questo ha già preparato una lista di compagni che 
  sarebbero disponibili per un'attività di questo tipo; lui, Secchia, che 
  ne dice? Sembra di capire, dal tono del colloquio, che Scoccimarro offra proprio 
  a lui, Secchia, la direzione di un'attività di corrente che raccolga 
  le forze ancora disponibili, nel Pci, a combattere una battaglia contro le preponderanti 
  tendenze revisioniste.
  Secchia lo lascia parlare. Ascolta un po' compiaciuto e un po' diffidente. Scoccimarro 
  lui lo conosce bene; sa che è un velleitario, uno che adesso brontola 
  contro Togliatti ma che Togliatti riesce ad ammansire con una parola o una promessa. 
  E chi lo garantisce poi che anche questo colloquio, questo incontro, questa 
  singolare offerta non costituisca, in realtà, un'altra trappola che gli 
  viene tesa? Forse Scoccimarro gli offre un elenco di "compagni fidati" 
  disponibili a un lavoro di corrente solo per sapere se lui, Secchia, ne ha una 
  analoga in qualche suo cassetto... No, la proposta di Scoccimarro non lo convince. 
  E mentre quello parla infervorandosi sempre più nel suo discorso, Secchia 
  pensa: "Eccolo qui a chiedermi aiuto... adesso vieni a dirmi queste cose, 
  ma quando ero io sul braciere, sei stato il primo a dare una mano a Togliatti 
  per la mia rovina. E non lo sapevi, non lo sapevate tutti che a questo si sarebbe 
  arrivati? Che si voleva distruggere me per portare il partito al cedimento?" 
  Scoccimarro parla, e non sospetta i pensieri che stanno nella testa dell'altro. 
  "Allora, ci stai?" chiede alla fine. Secchia scuote la testa.
  Scoccimarro... cosa conta, del resto, Scoccimarro? Più utile sarebbe 
  un serio aggancio con Longo, se egli non fosse divenuto così sfuggente...
  Perennemente oscillante tra residue speranze di battaglie interne e rassegnazione 
  alla propria condizione minoritaria, Secchia continua ad occuparsi, senza grande 
  successo, della attività editoriale del partito, mentre intensifica un'attività 
  di ricerca storica intesa non come mero ripiegamento ma come intervento, sia 
  pure di tipo diverso, nel dibattito politico che percorre il partito e le zone 
  che gli sono vicine.
  E intanto mantiene i contatti con i suoi amici sovietici e albanesi che gli 
  mandano in anteprima documenti che altrimenti non, conoscerebbe o conoscerebbe 
  in ritardo: si tratti delle lettere che si scambiano, nella primavera del 1962, 
  cinesi e sovietici, o dei testi integrali di articoli che compaiono a Mosca 
  e a Pechino e di cui l'Unità e Rinascita danno solo scarni riassunti.
  Un paio di mesi prima del X Congresso del Pci, nell'ottobre del 1962, una delegazione 
  di dirigenti sovietici, capeggiata da Ponomariov, visita l'Italia. Il loro giudizio 
  sull'attività e l'orientamento del Pci è assai negativo: "La 
  base" dice Ponomariov "è buona, ma i gruppi dirigenti interpretano 
  la linea in senso revisionista; si parla troppo della via pacifica, e allora, 
  che si farà se la borghesia spingerà in un'altra direzione? Il 
  Pci è ormai largamente inquinato dal socialdemocraticismo, sta perdendo 
  le caratteristiche del partito rivoluzionario, per diventare un partito puramente 
  elettorale". È proprio quello che pensa e dice Secchia.
  Al Congresso, un paio di mesi dopo, Ponomariov è di nuovo a Roma come 
  capo della delegazione sovietica, e questa volta appare molto soddisfatto del 
  rigore con cui, prima Togliatti e poi altri dirigenti di primo piano, attaccano 
  le tesi cinesi. Secchia però al Congresso non prende la parola: "Se 
  avessi parlato avrei al massimo potuto fare delle critiche marginali, qualche 
  ricamo. In questo momento, data la situazione internazionale (Urss-Cina)... 
  era assai meglio che io (dal momento che non potevo disapprovare) non mi compromettessi 
  con un intervento di approvazione. La base non avrebbe compreso alcune critiche 
  marginali o delle allusioni per iniziati; un mio intervento del genere non sarebbe 
  affatto servito ad aiutare e orientare la base: o parlare chiaro oppure tacere. 
  Il silenzio è assai più significativo e sarà senza dubbio 
  interpretato, da chi è politicamente attivo, come una non adesione!".
  Il nuovo Comitato Centrale procede a un ampio ricambio dei dirigenti delle sezioni 
  di lavoro: all'Organizzazione va Macaluso, alla Propaganda Romagnoli, alla Cultura 
  Rossanda, agli Enti locali Alinovi. Natta e Berlinguer entrano in Segreteria. 
  E la promozione della seconda generazione del Pci, una generazione che non ha 
  conosciuto gli anni della clandestinità, e, in qualche caso, nemmeno 
  quelli della Resistenza. Dopo cinque anni anche Secchia deve lasciare il suo 
  incarico di responsabile della sezione editoriale. Questa volta la decisione 
  gli viene comunicata non da Longo, ma da Pietro Ingrao, che gli spiega che la 
  sezione editoriale è ormai una sezione essenzialmente di tipo amministrativo 
  nella quale non vale la pena di utilizzare un personaggio politico com'è 
  lui.
  "Insomma, l'infiorata la seppe far bene" commenta Secchia che a questo 
  punto non ha più nemmeno quell'ufficio, quella segretaria, quell'autista 
  che costituivano finora la parvenza del potere.