Biblioteca Multimediale Marxista


Capitolo 1


L'annuncio della centesima cattura di Josefo Esperanza giunse al penitenziario a mezzanotte; e il rintontito guardiano del primo padiglione comunicò la notizia ai detenuti in cambio di un pranzo a base di pesce e pollo. Lo portarono, Josefo, prima dell'alba, quando tutti avevano gli occhi incollati di sonno e sembrava che nessuno al mondo potesse svegliarsi in tempo per vederlo entrare.
Camminava tra cinque poliziotti e dieci soldati ancora bagnati di brina e coperti di fango; aveva mani e piedi legati da una stessa catena che gli consentiva appena di muoversi; avanzava rigido e lento come una statua. Due passi, e poi cadeva senza neppure inclinarsi. Allora i poliziotti lo sollevavano prendendolo sotto le ascelle mentre i soldati gli punzecchiavano i fianchi con le baionette e lo afferravano per i capelli costringendolo a rimettersi in piedi e a continuare. Ci mise mezz'ora a percorrere i venti metri che lo dividevano dal reticolato del primo padiglione, quello dei detenuti ricchi e inoffensivi, amici del direttore del penitenziario, Saverio Cien Puertas, e del pretino Asuncio, rotondo come un vitello e con le spalle curve come il profilo di una montagna, e fedeli assidui alla messa che quest'ultimo recitava ogni mattina alle sei, da trent'anni.
Le forze dell'allampanato Josefo si esaurirono prima ch'egli giungesse al reticolato del padiglione; senza ansimare, bagnato di sangue e di fango, cadde bocconi. Questa volta i soldati gli infilzarono nel costato le punte delle baionette e lo tirarono per i capelli fino a lasciarlo quasi calvo; gli tagliuzzarono le piante dei piedi con i coltelli e gli premettero sulla schiena le canne dei fucili. Inutilmente. Josefo sembrava un cadavere, una pietra, e già il sangue cominciava a scorrergli in rivoli dalla faccia, dalle mani e dai piedi; e gli si spargeva intorno al corpo, e gli circondava testa e braccia, e lo inchiavardava al suolo mentre i poliziotti cercavano invano di recidere quei mille fili rossi.
Il guardiano del raggio - che conosceva le incredibili risorse di Josefo in materia di fughe - suggerì ai soldati di sparare su quei fili di sangue che già si trasformavano in oscuri fiumi in piena intorno a Josefo: ma le pallottole si spersero nella corrente, in un gorgogliare di pioggia. Allora, impietosito nel vederli trasudare disperazione, chiamò gli altri guardiani che stavano andando a riposare dopo aver trascorso la notte vigilando su porte, reticolati e finestre che ormai da trent'anni conoscevano come il palmo delle loro mani. Proprio con le mani cercarono di arginare il fiume di sangue; ma subito capirono che rischiavano di restarne invischiati; e allora ruppero i loro coltelli d'ordinanza a doppio taglio contro quel sangue che si stava coagulando. Si preparavano al secondo assalto con zappe da ortolani e raffiche di mitra quando dalla porta dei padiglione entrò Asuncio portando tra le mani un messale e una bottiglia di acqua benedetta. Li costrinse a togliersi il berretto e a ripetere le orazioni ch'egli recitava; asperse d'acqua il corpo di Josefo, lo incensò da testa a piedi come un cadavere pronto per la fossa, lo esorcizzò, gli lesse il requiem e finì cantandogli tre strofe mortuarie e ordinandogli di alzarsi. Tutti, Asuncio compreso, si inginocchiarono in attesa che il sangue - ormai di un colore ferroso - si decoagulasse; ma josefo rimase inchiodato al suolo, con la schiena illuminata dalla prima luce del giorno. Ed erano già le sette del mattino; la gente s'era svegliata chiedendosi quale fine JJosefo avesse fatto, e i cinquemila detenuti del penitenziario uscivano dalle celle collettive per ammazzare l'ennesima giornata dormendo per terra; e il direttore Cien Puertas beveva la prima tazza di caffè e quanti avevano l'abitudine di ascoltare la messa si riunivano - preoccupati per il mancato arrivo di padre Asuncio - a raccontarsi i rispettivi sogni per capire se in essi vi fosse una qualche premonizione di libertà o di morte. Intanto, il guardiano del primo raggio, con il naso incollato al reticolato, puntava la pistola contro Josefo per evitare che ne combinasse un'altra delle sue: un'altra fuga, insomma.
Così, bocconi, lo trovò il direttore Cien Puertas: lo guardò con rabbia e per cinque minuti maledisse quei militari rincoglioniti, incapaci di farlo alzare. E per altri cinque minuti bestemmiò contro l'impossibilità di smuoverlo, e gli si sarebbe seccata la gola per cinque eternità se un condannato all'ergastolo, che stava guardando la scena torcendosi dal ridere, non avesse gridato che le magie si contrastano soltanto con le magie. Cien Puertas gli mandò un carceriere, che parlamentasse. E questi tornò con un coltello d'osso sul cui manico era incisa una faccia di meticcio, o d'indio. Una faccia di quelle, comunque.
«Toglietegli i lacci e le catene e grattate via il sangue», gridò il condannato senza smettere di ridere.
Cien Puertas osservò a lungo il manico del coltello prima di mettersi a raschiare: e il primo colpo trasformò il sangue impietrato in una massa morbida che gli schizzò in faccia: il secondo staccò la massa dai piedi di josefo, il terzo fece della massa un fiume che inondò il cortile. «Adesso», disse Cien Puertas ai guardiani, «sollevatelo e portatelo in direzione. E al detenuto che ci ha fornito il coltello aprite un altro processo, qualsiasi. E voi, soldatini di merda e poliziotti morti di fame, non aspettatevi nessuna medaglia: il merito è solo mio». _
Josefo si alzò in un fiume di sangue, trasformato, bello da ubriacare, con gli occhi di smeraldo, il corpo saldo eretto e privo di ferite, i capelli lunghi, lisci, intatti.
Cosí lo trovò Cien Puertas: dritto davanti alla scrivania della direzione, lo sguardo ironico fisso sulle montagne di pratiche che gialle e impolverite dagli anni incorniciavano in pacchi magistralmente ordinati i quattro lati del tavolo. E, entrato con passo marziale, Cien Puertas licenziò con gesto perentorio la scorta armata che l'accompagnava ordinando nel frattempo che si facesse subito avanti il caposquadra Elisandro, comandante della guardia, in attesa dietro la porta. Poi sedette al proprio posto e posò ostentatamente sul tavolo l'arrogante pistola che aveva in canna le arroganti pallottole l'una e le altre fuse appositamente per Josefo in una segreta fonderia andina.
Elisandro sogguardò Josefo e (mentre i suoi occhi andavano da Cien Puertas alla pistola) mise sul tavolo il primo dei tre libri che raccoglievano e raccontavano la criminale storia delle due generazioni (conosciute) da cui Josefo procedeva: il primo membro noto della famigerata famiglia era suo nonno, di cui nessuno sapeva se avesse avuto un padre che - a sua volta - nessuno si limitava a immaginare concepito soltanto da una diavolessa. Così, per mancanza di fantasia e per l'oscuro timore di richiamarsi al nome del demonio o, peggio ancora, di evocarne anche se mentalmente le fattezze, i più dicevano che quel nonno doveva essere il frutto d'un immondo amore tra una incallita prostituta e un ladro inveterato, poiché solo gente siffatta può generare siffatti criminali.
«I crimini di tuo nonno, e per logica conseguenza i tuoi», disse Cien Puertas, «sono scritti su queste pagine. Come, per altrettanto logica conseguenza, dovrai trascorrere i giorni che ti restano tra le mura di questo penitenziario. E considerarti anche fortunato».
Josefo levò pigramente gli occhi dall'enorme dorso del libro che Cien Puertas teneva tra le mani e con lo sguardo gli tagliò le parole in bocca. Poi volse quello sguardo alla faccia del comandante Elisandro segnata da rughe scalpellate, alle sue labbra cadenti, alla sua mano sinistra su cui risplendeva un grosso anello d'oro. Era nuovo, del penitenziario, Elisandro. L'ulceroso comandante che lo aveva preceduto era morto un giorno dopo l'ultima fuga di Josefo, vittima di una orribile sofferenza morale che lo aveva portato - in ventiquattr'ore - a uno stato di abbattimento, di depressione e di tristezza insostenibili per un essere umano. Con l'incarico, Elisandro aveva ereditato dal morto anche l'anello d'oro che tradizionalmente passava da comandante della guardia a comandante della guardia e che egli - per la dimensione davvero eccessiva delle dita - era costretto a portare infilato a metà mignolo. Sotto quello sguardo, ora fisso sull'anello, Elisandro sussultò; poi, bruscamente, infilzò la baionetta nel costato di Josefo per costringerlo a guardare di nuovo il dorso del libro. Era contrassegnato, quel libro, dal numero uno e da un titolo in caratteri gotici che diceva: «Josefo Esperanza, processo primo, relativo ai crimini commessi da suo nonno Angel Lazaro e imputati al nipote, visto che nessuno finora li ha scontati».
Pigri, gli occhi di Josefo si posarono per un attimo sull'iscrizione. Poi disse, e le parole colarono lente: «Ciò che mi stupisce è che questo sia il primo processo fatto nel paese e che sia proprio io, Josefo Esperanza, uomo con i piedi piantati in questo secolo, a dover pagare per i crimini - cosiddetti - dei miei antenati. Secondo il vostro libro, la storia del paese comincia con mio nonno; oppure, sempre secondo il vostro libro, risulta che, prima, nessuno ha ammazzato, né rubato, né comprato, né venduto, né mangiato carne di negro, indio, meticcio o che dir si voglia».
Per tutta risposta, Cien Puertas gli ordinò seccamente di prender posto sulla sedia sconquassata di fronte alla scrivania e Josefo sedette controllandone e controllando il proprio equilibrio, rigido come una barra di ferro, nell'attesa, non ansiosa e neppure paziente ma nell'attesa e basta, che l'accusatore cominciasse a leggere quell'interminabile storia di banditismo. E Cien Puertas, prima di cominciare, lo avvolse - lui, allampanato, solido e dritto - in quella che, definiva con arroganza boriosa la propria «occhiata universale», con la quale, da dietro la scrivania, trafiggeva l'imputato che gli stava di fronte, quale esso fosse, per inchiodarlo senza scampo alle sue responsabilità di criminale e alle più che scontate conseguenze.
Poi si lasciò andare a un libero odio e cominciò a leggere con grida strazianti e altissime, come qualcuno gli infilasse spilli in tutto il corpo, la storia degli orribili germi della criminalità di Josefo nati, anni addietro, dal nonno di lui, - Angel Lazaro de la Trinidad Santisima - nel giorno in cui quest'essere sacrilego e inumano dagli occhi di topo, uscito da ventre ignoto in luogo sconosciuto, aveva preso d'assalto e per di più a mezzanotte gli archivi della Santa Inquisizione della costa, accuratamente nascosti in quello che era stato un tempo il salone delle feste del palazzo episcopale e in settantacinque armadi coperti da due strati d'assi e di piombo. E aveva rubato, senza il minimo rumore, la più completa collezione di testi di stregoneria esistente al mondo, strappata volume per volume dai membri del tribunale religioso alle migliaia di streghe bruciate vive, ghigliottinate e impiccate nelle piazze principali dei paesi e dei paesini della costa perché colpevoli di aver praticato la magia in sedute segrete, o d'aver svolazzato sulle case e sui porti terrorizzando i pescatori notturni di granchi, o d'aver insegnato formule misteriose e malefiche ai contadini, ai braccianti, agli uomini di fatica che agognavano di possedere un qualsiasi potere magico per eliminare il loro nemico più acerrimo, il santo proclamato più santo di tutti i Caraibi: Pedro Claver, nero come la notte e piccolo come la più nana delle streghe. Pedro Claver che, non sapendo più come dimostrare la propria riconoscenza ai bianchi per la libertà da loro concessa, consumava la propria vita battezzando schiavi provenienti dall’Africa e inducendoli, con parole di conforto, ad accettare le loro catene con rassegnazione tranquilla.
E agognavano, quel contadini, quei braccianti, quegli uomini di fatica, anche di far sparire dalla faccia della l'arrogante governatore Villas Mil, fratello dell’inafferrabile amore di tutto il porto: la bella e febbrile Maria Centeno, la donna che conosceva il luogo nel quale era nascosto il tesoro dei più straordinario dei suoi amanti, il pirata Morgan; e che, fin dalla propria giovinezza in boccio si era data anima e corpo ad ammassare denaro facendo uso della propria perturbante bellezza, sposando governatori, conti e cavalieri che faceva poi regolarmente assassinare da altri amanti qualche giorno dopo le nozze, nel letto maritale, per frutto succoso ambito ereditarne i tesori ed essere di nuovo libera, di nuovo frutto succoso ambito da altri sudditi della reale corona. Assassinato il suo ultimo marito, il governatore Cuerpo Sin Alma, e morto di vecchiaia l’ultimo amante, il correggitore Alma Sin Cuerpo, restò sola, sperduta tra una muta di spasimanti senza titoli né fortuna e con un bruciante desiderio di fuggire dove nessuno la riconoscesse e la desiderasse.
Così, in un'alba tutta d'oro come l'oro che tanto amava, saltò groppa a un purosangue portando sottobraccio il liuto d’oro che aveva lo straordinario e misterioso potere di renderla immune dalla vecchiaia. Quando una ruga, un accenno, minacciava di incresparle fronte, labbra o mani, suonava quel liuto e la sua musica angelica cancellava di colpo ogni rischio di vecchiezza trasportando cavalieri e braccianti, contadini e miserabili in uno stato di nirvana spirituale, inebriandoli al punto che ciascuno la voleva per sé, allora e per sempre, come unica amante, per poter ascoltare all’infinito la magica tenerezza di quelle note. Il rumore degli zoccoli del cavallo si perdette mentre giungeva e si diffondeva al galoppo la notizia dei furto dei libri.
Subito, Chiesa e governo attribuirono l’impresa fantastica più che temeraria, ai demoni, amici delle tre ultime streghe bruciate vive sulla porta del palazzo dell'Inquisizione davanti a mille soldati atterriti nel vedere che esse distillavano acqua dal ventre, gocce fitte che cadevano sulle fiamme spegnendole ogni qualvolta l'arcivescovo Luque ravvivava il fuoco. Tutt'intorno, la gente - abituata ma sempre affascinata dal gioco della morte che distruggeva il volto delle condannate e ne soffocava i gesti di terrore in spirali di fumo denso - seguiva la lotta ineguale tra l'acciarino di monsignor Luque e quella pioggia sottile e misteriosa. Sfinito dalla contesa impossibile c 'con i polpastrelli bruciacchiati, monsignor Luque aveva ordinato ai soldati di montare le griglie usate per arrostire pubblicamente i vitelli nei giorni di festa e carnevale: i soldati le arroventarono tanto che per tre giorni il paese puzzò di carne bruciata e monsignor Luque fu più che mai convinto d'aver ragione nel sospettare una strettissima intesa tra streghe e demoni.
Così, quando alcuni dei libri trafugati vennero ritrovati sotto i sacchi di mais che Angel Lazaro conservava nella sua capanna, non rinnegò intimamente la propria tesi né tantomeno la smentì pubblicamente: si limitò a far bruciare senza spiegazioni le ultime streghe imprigionate nei sotterranei del palazzo e prese accordi con il governatore Villas Mil affinché questi cedesse la carica al fratello per gettarsi anima e corpo alla caccia di Angel Lazaro.
Tutte le mattine, alle sei, Villas Mil usciva dal paese in cerca di Angel Lazaro; e tutte le sere, alle sei, quanti avrebbero voluto vederlo penzolare da un albero aspettavano sulla piazza dell'Inquisizione che l'ex governatore facesse ritorno trascinando il bandito in catene, legato alla coda del cavallo. Villas Mil (rosso di vergogna e incalzato dalle urla della gente furiosa e. insieme impaurita per le già inarrestabili leggende che circolavano sui poteri soprannaturali attribuiti dai demoni a chi avesse avuto l'ardire, e l'intelligenza, di rubare i libri) ripeteva che nessuno poteva chiedergli più di quanto non facesse: perché egli non era un Tomaso de nell'aria, e non aveva la facoltà di spostarsi nell'aria, come il suo nemico.
Dopo anni, l'ex governatore scoraggiato, perduto nell'inutile reiterazione della caccia quotidiana e dell'autodifesa, imprigionato dalla rete di rughe profonde che gli segnavano il volto e dalla stretta della vecchiaia, abbandonò l'impresa: nella solita piazza e di fronte alla solita folla - ma a un'ora diversa per evitare l'ingerenza di monsignor Luque - ammise la propria bruciante sconfitta e la propria impossibilità, ormai fisica oltre che morale, di continuare nella lotta. Tuttavia, questa tardiva dimostrazione di umiltà non convinse nessuno: anzi, alimentò il terrore delle streghe e dei demoni, cosicché nessuno osava più pescare di notte, riunirsi in feste sia pur privatissime, o uscire dalla città dopo il De profundis.
Protesta e terrore si coagularono ed esplosero un venerdì santo: e sembrava fossero passati secoli dal giorno in cui i libri erano stati trafugati. L'imponente processione organizzata da monsignor Luque in onore di San Pedro Claver si mosse compatta e rigida dalla piazza dell'Inquisizione alle otto in punto della sera: ora che - in teoria - avrebbe dovuto essere la più propizia all'apparato militare di Dio impegnato nella caccia a spiriti, streghe e demoni consociati tra loro, nascosti tra le crepe dei vecchi palazzi o nelle fenditure delle muraglie dei castelli che circondavano la città per difenderla dalle invisibili armate di Angel Lazaro. Naufragando tra le bardature dei cavalli dei soldati, le tonache di canapa di settecento religiosi e i neri abiti dei seminaristi, monsignor Luque avanzava sotto il baldacchino: portava alto tra le mani un Pedro Claver in miniatura.
D'improvviso, sul canto bianco dei seminaristi, sulle voci dell'immenso coro, cadde uno scroscio di risa sonanti: poi, nel cielo, apparvero a migliaia cerchi di fuoco, e roteavano, e rimbalzavano di tetto in tetto, e dai tetti agli angoli delle strade, e poi in alto, per ripiombare ancora sui tetti. 1 bambini si paralizzarono bagnati di sudor freddo e impauriti fino alle lacrime; i cavalli si impennarono con nitriti e risuonare di bardature rinculando e scompigliando le file dei cavalleggeri, mentre i preti inchiodavano lo sguardo al suolo e raddoppiavano il fervore dei cantici. Allora i militari, stimolati dall'esempio e dalla necessità di mostrarsi all'altezza del compito, riorganizzarono le file costringendo i bambini a riprendere la marcia. La processione svoltò l'angolo frettolosa e ordinata: e nessuno osò più rialzare il capo mentre si ripercuotevano nell'aria le risate beffarde e i cerchi di fuoco, sospinti dal vento marino, giravano vorticosamente sulla folla per innalzarsi poi nel cielo dove si trasformavano in punti lucenti, simili a stelle.
«Questa volta ha vinto l'apparato militare di Dio», pensò monsignor Luque. Un ufficiale inamidato uscì dalle file e spalancò il portone della, chiesa, i cavalli si imbizzarrirono rifiutandosi di entrare, i fedeli li scansarono, entrando in fretta: ma nelle navate vennero aggrediti da un vento carico di rumori e cigolii che impazzito fischiava sulle loro teste spegnendo lampade e candele. Cessò quando la gente, accartocciata dalla paura, si sistemò sotto le tre mastodontiche navate: ma subito si trasformò in un insopportabile odore di zolfo, un uragano che vorticava scrostando mura e tetti. Allora monsignor Luque si mise a gridare esortando tutti ad allontanare dalla propria mente pensieri impudichi e ad assumere un atteggiamento degno e conforme alla casa di Dio. 1 fedeli annichiliti si asciugarono il sudor freddo e la loro pelle ricuperò. un po' di colore. Ma la pace durò poco: sull'altar maggiore, ai piedi di una gigantesca statua di Pedro Claver, comparvero tre forche di legno con mille corde dalle quali penzolavano i Grandi dell'Inquisizione: viceré, comandanti, cavalieri e vescovi che, magari solo con il pensiero, avevano calpestato la terra dei Caraibi; e comparvero anche cinque graticole, dieci volte più lunghe e più larghe di quelle che monsignor Luque nascondeva nel proprio palazzo. Su di esse, e su altrettanti fuochi alimentati da una fiamma celeste, cadde dall'alto il corpo di Angel Lazaro. I suoi cinque metri di statura si scomposero e frantumarono dondolando dolcemente sulle graticole: con l'ultimo sfarfallare dell'ultimo pugno di cenere, le forche e il loro cigolare infernale, e le graticole con la loro brace, svanirono per incanto. La visione durò un attimo. Lacrime di terrore e grida di pietà si alzarono fuori dalla cattedrale: dentro non ci rimase un'anima.
Alle sei del mattino il sacrestano si fece coraggio ed entrò in chiesa. Il cadavere di Angel Lazaro giaceva nella navata centrale, trafitto da pugnalate, orribile. Ma il sacrestano vinse orrore e terrore in nome della fede che gli ordinava di seppellire i morti. E avvolse il cadavere nei suoi tre metri di barba nera e nei suoi settant'anni di vecchiaia: poi lo affidò alle onde del mare.
La morte di Angel Lazaro non convinse monsignor Luque. Quella stessa mattina inviò un gruppo di armati a perquisire la capanna di lui, dimenticata. Per entrare, i soldati dovettero spezzare a colpi d'ascia le ragnatele che ne nascondevano la porta. All'interno, su una sedia di vimini corrosa dal tempd e dai topi, c'era una donna: la sollevarono, respirava ancora, anche se la spaventosa vecchiezza non le permetteva di muovere un passo e se il volto rugoso come uva passita e le mani contorte come un torsolo di mais le davano un aspetto di mummia. La sollevarono e la portarono davanti alla forca che il tribunale dell'Inquisizione custodiva gelosamente, in ricordo dei tempi eroici, nel salone dei ricevimenti di monsignor Luque. Prima di salire al patibolo, la vecchia trovò la forza di raccontare qual era stata la fine di Angel Lazaro. Lo aveva ammazzato il suo stesso figlio, Jaime, e ne aveva ridotto il corpo come una spugna, a pugnalate. Angel Lazaro stesso aveva fabbricato per lui, Jaime, dieci coltelli,, ricavati dalle ossa di altrettanti preti morti: e sull'impugnatura dei. dieci coltelli aveva sbozzato malamente il proprio volto; e li aveva consegnati, i coltelli, a Jaime dicendogli: «saranno la tua difesa o la tua condanna, la difesa o la condanna dei tuoi discendenti».
Ma Jaime, il cui cervello era imbevuto di idee di rivolta più che di magia, Jaime che non sopportava di vedere la snella figura del padre rinsecchire per gli anni; Jaime permeato da un'ansia giovanile e dall'odio. contro tutto quanto non si trasformava in azione, aveva pugnalato il padre nel sonno nell'ora stessa in cui la processione si avviava: cercando, lui che non credeva agli spiriti, vendetta nel terrore della gente che mai avrebbe saputo quale fosse stata la fine di suo padre. Ammazzando l'ultimo sopravvissuto della stirpe degli stregoni impenitenti e animosi nel momento stesso in cui nella chiesa si celebrava la festa in onore di San Pedro Claver, si potevano richiamare per l'ultima volta le streghe e i maghi i cui spiriti vagavano nello spazio. Lo aveva detto Angel Lazaro, e Jaime - sapendo che il padre era l'ultimo rampollo di questa razza - lo aveva freddamente assassinato.
Il sacrestano, chiamato a rendere conto del cadavere di Angel Lazaro, si fece largo in mezzo alla folla che gremiva la piazza spiegando che lo aveva gettato in mare. Monsignor Luque, con volto atteggiato a disprezzo sentenziò: «Così hai coperto un crimine». E alzò tra le bianche mani un nodo scorsoio e glielo annodò alla nuca e poi tenne nodo e corpo sospesi nell'aria, finché i movimenti frenetici si placarono e la lingua del sacrestano si confuse con il nodo. Poi lasciò andare il corpo minuscolo che cadde di colpo, spiaccicandosi contro le pietre del selciato.
«Il figlio di Angel Lazaro» disse la vecchietta minuta mentre monsignor Luque studiava un nodo speciale che si confacesse alla sua gola sottile, «è più pericoloso del padre: la terra tremerà sotto i suoi piedi». Ma non riuscì a finire la frase. Monsignor Luque non si preoccupò più di trovare il nodo giusto: con frenesia le fece girare cinque volte il cappio intorno alla gola; poi la sollevò accuratamente, lentamente, preoccupandosi che il corpo della vecchia non si sfracellasse al suolo, come quello del sacrestano. Per due ore la gente guardò il córpicino muoversi al vento, come un pendolo; per due ore ascoltò incantata il rumore di quel corpicino che sbatteva contro le fiancate del patibolo; e per due ore benedisse in silenzio le viscere di chi aveva partorito un figlio capace di assassinare il proprio padre.

Cien Puertas corse con gli occhi alle ultime righe del libro. Poi lo chiuse di colpo e passò subito a un'altro volume dalla rilegatura funebre che il comandante Elisandro gli aveva messo a portata di mano, corrugò la fronte, lo aprì alla prima pagina e scandì lentamente: «Storia dei crimini del parricida benedetto dal popolo: jaime Lazaro».
«Padre del qui presente prigioniero» aggiunse josefo toccandosi con l'indice il petto.